Rubrica di teologia liturgica di don Mauro Gagliardi, su Zenit, non perdere! (2)

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Caterina63
00mercoledì 9 marzo 2011 15:45


ATTENZIONE: partiamo con una nuova rubrica, l'altra è satura... e ci auguriamo che continuerete a leggerla cliccando da qui:

Rubrica di teologia liturgica di don Mauro Gagliardi, su Zenit, non perdere!

riprendiamo ora da qui:

Il sacro silenzio nella celebrazione liturgica


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi



di don Nicola Bux*

ROMA, mercoledì, 9 marzo 2011 (ZENIT.org).- «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa… il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo» (cf. Sap 18,14-15). Così un’antifona nell’ottava del Natale ricorda, con straordinaria libertà, come nella notte dell’Esodo sia avvenuta la liberazione dell’uomo e l’affrancamento dal peccato. Per riconoscerlo presente nel mondo, anzi nell’opera pubblica che è la liturgia – sacra proprio a motivo della Presenza – è necessario «silere», cioè tacere. Bisogna tacere per ascoltare, come all’inizio di un concerto, altrimenti il culto, ossia la relazione coltivata, profonda con Dio, non può incominciare, non si può «celebrare» Lui.

Ciò è indispensabile per pregare: «Entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto» (Mt 6,6). La camera è l’anima, ma anche il tempio, dicono i Padri. Quale segreto può essere mantenuto senza silenzio? Il segreto della coscienza in cui si può udire la voce di Dio, nella notte silenziosa come per Samuele. Ci vuole silenzio perché Dio possa parlare e noi ascoltarlo. Per questo andiamo in chiesa, per celebrare il culto divino, sacro perché scende dal silenzio eterno nel tempo così rumoroso, per placarlo e orientarlo all’Eterno. Non c’è dubbio che la posizione frontale del sacerdote all’altare verso il popolo induca alla distrazione lui e i fedeli, disorientando la direzione della preghiera: imitiamo il Santo Padre che guarda al Crocifisso.

Il silenzio va recuperato, limitando al minimo le parole da parte di chi deve dare indicazioni preparatorie alla celebrazione. I sacerdoti, le religiose addette al servizio, i ministri limitino parole e movimenti, perché sono alla presenza di Colui che è la Parola. Questo silenzio è chiesto all’inizio della Santa Messa per l’esame di coscienza, pur breve, onde riconoscere i nostri peccati «prima di celebrare i Santi Misteri».

Dopo l’invito a pregare con l’Oremus, il sacerdote si raccoglie in silenzio, per pregare e per dare il tempo ai fedeli di fare altrettanto e unire così la propria intenzione a quell’orazione che il sacerdote pronuncerà «raccogliendo» – perciò si chiama orazione «colletta» – e presentandola al Signore. Con questa orazione, comincia nella Messa la funzione sacerdotale di mediazione tra il popolo santo e il Signore.

Dalla preghiera a Dio si passa all’ascolto di Dio. Il Sinodo sulla Parola di Dio non ha trascurato di insistere sul silenzio come spazio privilegiato per riceverla. I misteri di Cristo – il Papa lo ricorda nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini – sono legati al silenzio, come dicono i Padri della Chiesa. Così, più che moltiplicare gli incontri biblici, bisogna aver «realmente a cuore l’incontro personale con Cristo che si comunica a noi nella sua Parola» (n. 73). La liturgia della Parola è tale perché avviene nel silenzio sacro.

L’Ordo Missae suggerisce, a questo punto, che vi sia stata o no l’omelia, ancora silenzio. Sembra un esercizio «all’incontro spoglio, silenzioso, austero… al colloquio spontaneo, lieto, adorante con la divina Maestà, come trascinati nella scia della preghiera stessa di Cristo» (Paolo VI, Discorso agli Abati della Confederazione Benedettina, 30 Settembre 1970, n. 3). È un invito ai monaci: ma ogni cristiano deve essere in qualche misura monaco, cioè abitare da solo col Signore. La liturgia sacra abilita a questo. La Regola benedettina esorta il monaco a far sì che la sua mente sia in armonia con la voce (cf. 19,7): «Sembra una cosa semplicissima, diremmo naturale – sottolinea ancora Paolo VI – ma l’avere questa armonia interna tra la voce e la mente, è una delle cose più difficili» (Discorso agli Abati, cit.). Proprio la dinamica del rapporto tra Dio che parla e il fedele che ascolta e risponde con il salmo o la preghiera – secondo la classica tripartizione conservatasi nella settimana santa: lettura, responsorio, orazione – costituisce l’esercizio necessario, la ruminatio dei Padri, per assimilare e far sì che voce e mente si armonizzino. Questo è particolarmente utile in vista dell’offerta di sé, dei nostri corpi in sacrificio spirituale «come culto secondo la ragione», che per questo «rinnova la mente» al fine di distinguere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (cf. Rm 12,1-2). Il rinnovamento della mente è il giudizio secondo Dio e non secondo il mondo. La liturgia deve favorire la conversione dalla mentalità mondana e carnale, che tende sempre ad infeudare chierici e laici. Rinnovare la mente significa guardare la realtà e non inseguire le proprie idee – l’ideologia –, perché Egli fa nuove tutte le cose.

Il silenzio può riaffiorare all’offertorio, ove non è necessario né obbligatorio che le formule previste di offerta siano dette ad alta voce. Si potrebbe poi suggerire che, in futuro, la Preghiera Eucaristica, anche nella Messa di Paolo VI, possa essere recitata submissa voce, quasi in silenzio, per favorire il raccoglimento: come si faceva e si continua a fare nella celebrazione in «forma straordinaria». È sempre necessario sentire parole così arcane, in specie quelle della consacrazione? Se il sacerdote abbassasse il tono della voce, non reciterebbe, ma pregherebbe davvero lui e favorirebbe il raccoglimento e l’unione dei fedeli alla sua preghiera di mediazione sacerdotale. Analogo silenzio è raccomandato specialmente al ringraziamento dopo la Comunione.

Ma, al di là dei momenti specifici, è tutta la liturgia, anzi la chiesa stessa come spazio sacro, che necessita di recuperare il clima di silenzio. Tale esigenza portava a preordinare spazi di raccordo come narteci e atrii per passare dall’esterno all’interno, dalla dispersione al raccoglimento. Non servirebbe anche ai nostri giorni? «La capacità di interiorità, una maggiore apertura dello spirito, uno stile di vita che sappia sottrarsi a quanto è chiassoso e invadente, devono tornare ad apparirci mete da annoverare tra le nostre priorità. In Paolo troviamo l’esortazione a rafforzarsi nell’uomo interiore (Ef 3,16). Siamo onesti: oggi v’è una ipertrofia dell’uomo esteriore e un indebolimento preoccupante della sua energia interiore» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 167).

Ci avvolga in questa Quaresima il sacro silenzio!

[Il prossimo articolo della rubrica sarà pubblicato il 23 marzo]

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*Don Nicola Bux è professore di Liturgia orientale a Bari e consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede, per le Cause dei Santi, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; nonché dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.


Caterina63
00giovedì 30 giugno 2011 12:26

L’elevazione dell’Ostia e del Calice alla consacrazione eucaristica


QUELLO SGUARDO RIVOLTO AL SANTISSIMO SACRAMENTO....

Messa



di Mauro Gagliardi*
ROMA, martedì, 28 giugno 2011 (ZENIT.org).- A pochi giorni dalla solennità del Corpus Domini, ci piace concludere questa terza annata della nostra rubrica «Spirito della Liturgia» trattando dell’elevazione dell’Ostia e del Calice, subito dopo la consacrazione, all’interno della Messa.

L’introduzione nel Canone di questo gesto risale all’inizio del sec. XII per l’Ostia, mentre l’elevazione del Calice si imporrà più lentamente e verrà ufficialmente prescritta solo dal Messale di san Pio V (1570). Le fonti individuano la Francia come luogo di origine dell’elevazione eucaristica e sembrano suggerire che il motivo circostanziale fu la volontà di evitare che i fedeli adorassero l’Ostia già all’inizio della consacrazione, quando il sacerdote prende il pane nelle mani, per pronunciare le parole del Signore.

Sin dalla prima metà del Novecento, diversi autori hanno però sostenuto che il vero motivo dell’introduzione dell’elevazione sarebbe stato il desiderio, da parte del popolo cristiano, di guardare l’Ostia. L’opera probabilmente più indicativa al riguardo è quella di E. Dumoutet, Le désir de voir l’hostie et les origines de la dévotion au Saint-Sacrament (Paris, 1926). J.A. Jungmann, uno dei più noti liturgisti del secolo scorso, subì l’influenza di questo libro, come si nota da quanto dice sull’elevazione nel suo famoso libro del 1949 Missarum sollemnia: «È sorto [nel sec. XII] tra i fedeli un movimento religioso volto ad ottenere che sia loro concesso di posare lo sguardo su quel Santissimo Sacramento al quale osano appena di accostarsi» (ediz. it., II, p. 159).

Già nel 1940, però, G.G. Grant, in un articolo pubblicato su Theological Studies, aveva mostrato che la tesi sostenuta da Dumoutet non poteva dirsi davvero fondata. Essa supponeva nel popolo una forma di devozione eucaristica, che in realtà sappiamo essere stata più effetto che causa dell’introduzione dell’elevazione. Grant sosteneva che l’elevazione fosse dovuta piuttosto a motivi dottrinali, ossia per innalzare una solida barriera liturgica contro gli errori degli eretici riguardo la presenza reale. In questo senso, l’introduzione dell’elevazione risponderebbe alla stessa preoccupazione che ha spinto Benedetto XVI a distribuire la Comunione solo in ginocchio e sulla lingua: mettere un punto esclamativo sulla dottrina della presenza reale (cf. Luce del mondo, Città del Vaticano 2010, pp. 219-220).
Ma Jungmann, pur citando Grant nel primo dei due volumi di Missarum sollemnia, mantenne la posizione di Dumoutet, presentando tutti gli argomenti che da quel momento in poi sarebbero divenuti affermazioni ripetute, negli scritti e nelle conferenze di molti teologi e pastori. Tutto quello che lì dice, come pure il legame che individua tra l’introduzione dell’elevazione e la nascita dell’adorazione eucaristica, viene presentato in fondo in termini di degenerazione, più che di progresso (cf. I, pp. 103 ss.).

La riforma liturgica post-conciliare della Messa ha dimezzato il numero delle genuflessioni che il sacerdote compie alla consacrazione, ma non ha eliminato l’elevazione dell’Ostia e del Calice.
Nonostante ciò, la tesi Dumoutet-Jungmann ha continuato ad essere proposta, lasciando emergere la convinzione che elevare e guardare l’Ostia consacrata sarebbe segno di una fede poco matura, se non addirittura di una fede scaduta a livello di superstizione o di magia – certo questo, ieri come oggi, è sempre possibile; ma non è detto che rappresenti il significato del gesto in sé.

Dobbiamo al contrario riconoscere che l’introduzione dell’elevazione alla consacrazione è un punto di vero progresso nella storia della Santa Messa. È da qui che nasce quel movimento di fede eucaristica che sfocia prima nel Corpus Domini (1264) e poi in tutte le forme di sana devozione eucaristica sviluppate fino ai nostri giorni.

La contemplazione adorante dell’Ostia e del Calice appena consacrati non fa altro che esprimere due punti assolutamente fermi della fede cattolica sull’Eucaristia: la transustanziazione, che avviene nell’istante stesso in cui termina la dizione delle parole consacratorie da parte del sacerdote (cf. san Tommaso, Summa Theologiae III, 75, 7); e la presenza reale di Cristo nel sacramento. In realtà, l’elevazione esprime anche l’aspetto sacrificale della Messa, che per motivi di spazio non possiamo qui sviluppare. La duplice elevazione e le genuflessioni manifestano, e allo stesso tempo favoriscono, il giusto modo di accostarsi al Cristo eucaristico, modo segnalato da san Paolo prima (cf. 1Cor 11), e poi da sant’Agostino, con le celebri parole riprese da Benedetto XVI in Sacramentum caritatis, n. 66.

Rileggiamo il testo del Pontefice: «Mentre la riforma [post-conciliare] muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra la Santa Messa e l’adorazione del Ss.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: “nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando – Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo”».

Il fatto che durante il primo millennio cristiano non vi fosse l’uso di elevare l’Ostia alla vista dei fedeli, non significa che tale gesto vada contro la purezza della fede: significa soltanto che esso all’epoca non era stato ancora sviluppato, e che verrà introdotto in seguito, come valida manifestazione della stessa fede eucaristica dei Padri.
Ai Padri, infatti, non sono affatto estranei né il senso di adorazione verso l’Eucaristia, né l’importanza del guardare con gli «occhi della fede».

I limiti di questo breve articolo non ci consentono di dilungarci. Basterà perciò ricordare un testo che negli ultimi decenni è divenuto piuttosto noto, in quanto attesta l’uso del primo millennio di ricevere la Comunione sul palmo della mano da parte dei fedeli. In questo testo delle Cathechesi mistagogiche, san Cirillo di Gerusalemme imparte alcune raccomandazioni a coloro che comunicano, affinché non vadano dispersi i frammenti eucaristici.
L’attenzione si sofferma in genere su questo aspetto. Non si nota, pertanto, che egli accenna anche al tema del guardare l’Ostia consacrata prima di portarla alla bocca e che parla di questo guardare come di un sacramentale, un’azione che santifica l’uomo purificandone lo sguardo. Ecco parte del testo: «Quando tu ti avvicini [a ricevere la Comunione], non andare con le giunture delle mani rigide, né con le dita separate; ma facendo della sinistra un trono alla destra, dal momento che questa sta per ricevere il re, e facendo cavo il palmo, ricevi il Corpo di Cristo, rispondendo “amen”. Poi, santificando con cura gli occhi con il contatto del santo corpo, prendi facendo attenzione a non perderne nulla…» (V, 21). Come minimo, si può dire che al tempo dei Padri non esisteva l’elevazione delle Specie consacrate, ma che se vi fosse stata, essi non l’avrebbero osteggiata.

La Institutio Generalis del Messale di Paolo VI (qui nell’ediz. 2008) valorizza il guardare l’Ostia consacrata durante la Messa: al n. 222 essa prescrive che, al momento dell’elevazione, «i concelebranti sollevano lo sguardo verso l’Ostia consacrata e il Calice» (n. 222 e ugualmente ai nn. 227, 230 e 233). Per quanto riguarda la «forma straordinaria» del Rito Romano, l’Ordo servandus del Messale di Giovanni XXIII stabilisce che il celebrante, rialzatosi dalla prima genuflessione rivolta all’Ostia appena consacrata, «alza l’Ostia in alto e tenendo fissi su di essa gli occhi (cosa che fa anche all’elevazione del Calice), la presenta con riverenza al popolo affinché l’adori» (VIII, 5).

Lungi dal rappresentare una degenerazione della fede eucaristica, l’elevazione dell’Ostia e del Calice consacrati fu un vero progresso nella storia della Celebrazione eucaristica, progresso che va salvaguardato e valorizzato mediante l’opportuna catechesi liturgica e il modo corretto di compiere il gesto da parte dei sacerdoti. D’altro canto, sarebbe incomprensibile ai nostri giorni opporsi ad una pratica che permette ai fedeli una maggiore partecipazione attiva ai sacri riti.

L’innesto dell’elevazione dell’Ostia e del Calice nel Canone è un segno del fatto che la liturgia della Chiesa non è un oggetto da dissezionare sul tavolo della “sala operatoria” degli esperti, bensì è soggetto vivo della fede e della preghiera ecclesiali: «Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui “esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita”» (Benedetto XVI, Discorso nel 50° di fondazione del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 06.05.2011).


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*Don Mauro Gagliardi è Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.


Caterina63
00mercoledì 11 gennaio 2012 18:19

Perché la liturgia? Cosa significa liturgia? (CCC 1066-1070)


Rubrica di teologia liturgica a cura di Don Mauro Gagliardi


 

Juan José Silvestre*

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 11 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), dopo la professione di fede, sviluppata nella prima parte, si passa alla spiegazione della vita sacramentale, nella quale Cristo è presente, attua e continua l'edificazione della sua Chiesa. Infatti, se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza.

Quindi, esiste un rapporto intrinseco tra fede e liturgia, entrambe sono intimamente unite. In realtà, senza la liturgia e i sacramenti la professione di fede non avrebbe efficacia, perché mancherebbe della grazia che sostiene la testimonianza dei cristiani. E «dall'altra parte, l'azione liturgica non può mai essere considerata genericamente, a prescindere dal mistero della fede. La sorgente della nostra fede e della liturgia eucaristica, infatti, è il medesimo evento: il dono che Cristo ha fatto di se stesso nel Mistero pasquale» (Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, 34).

Se apriamo il Catechismo nella sua seconda parte, si legge che la parola “liturgia” significa originariamente «servizio da parte del popolo e in favore del popolo». Nella tradizione cristiana vuole significare che il Popolo di Dio partecipa all'«opera di Dio» (CCC, 1069).

In che cosa consiste questa opera di Dio alla quale noi partecipiamo? La risposta del Catechismo è chiara e ci permette di scoprire l'intima connessione esistente tra fede e liturgia: «Nel Simbolo della fede, la Chiesa confessa il mistero della Santa Trinità e “il mistero della sua volontà, secondo [...] la sua benevolenza” (Ef 1,9) su tutta la creazione: il Padre compie il “mistero della sua volontà” donando il suo Figlio diletto e il suo Santo Spirito per la salvezza del mondo e per la gloria del suo Nome» (CCC, 1066).

Infatti, «quest’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell’Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione» (CCC, 1067). È questo il mistero di Cristo che la Chiesa «annunzia e celebra nella sua liturgia, affinché i fedeli ne vivano e ne rendano testimonianza nel mondo» (CCC, 1068).

Per mezzo della liturgia «si effettua l'opera della nostra redenzione» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 2). Pertanto, come fu inviato dal Padre, Cristo ha inviato gli Apostoli a predicare la redenzione e ad «attuare l'opera di salvezza che annunziavano, mediante il sacrificio e i sacramenti attorno ai quali gravita tutta la vita liturgica» (ibid., 6 ).

Così vediamo che il Catechismo sintetizza l'opera di Cristo nel mistero pasquale, che è il suo nucleo essenziale. E il nesso con la liturgia è ovvio, poiché «attraverso la liturgia Cristo, nostro Redentore e Sommo Sacerdote, continua nella sua Chiesa, con essa e per mezzo di essa, l’opera della nostra redenzione» (CCC, 1069). Quindi, questa «opera di Gesù Cristo», perfetta glorificazione di Dio e santificazione degli uomini, è il vero contenuto della liturgia.

Questo è un punto importante perché, sebbene l'espressione e il contenuto teologico-liturgico del Mistero pasquale dovrebbero ispirare lo studio teologico e la celebrazione liturgica, non è sempre stato così. Infatti, «la maggior parte dei problemi collegati all'applicazione concreta della riforma liturgica ha a che fare con il fatto che non è stato tenuto sufficientemente presente il peso dato dal Concilio Vaticano II alla Pasqua […]. Pasqua significa inseparabilità della Croce e della Risurrezione [...]. La Croce sta al centro della liturgia cristiana, con tutta la sua serietà: un ottimismo banale che nega la sofferenza e l'ingiustizia nel mondo e riduce l'essere cristiani all'essere cortesi non ha nulla a che fare con la liturgia della croce. La redenzione è costata a Dio la sofferenza di suo Figlio, la sua morte, e l’“exercitium” della redenzione, che, secondo il testo concilare, è la liturgia, non può avvenire senza le purificazioni e le maturazioni che vengono dalla sequela della croce» (J. Ratzinger / Benedetto XVI, Teologia della liturgia, LEV, Città del Vaticano 2010, pp. 775-776).

Questo linguaggio si scontra con quella mentalità incapace di accettare la possibilità di un reale intervento divino in questo mondo, in soccorso dell'uomo. Quindi, «la confessione di un intervento redentore di Dio per cambiare questa situazione di alienazione e di peccato è vista da quanti condividono la visione deista come integralista, e lo stesso giudizio è dato a proposito di un segnale sacramentale che rende presente il sacrificio redentore. Più accettabile, ai loro occhi, sarebbe la celebrazione di un segnale che corrispondesse a un vago sentimento di comunità. Il culto però non può nascere dalla nostra fantasia; sarebbe un grido nell'oscurità o una semplice autoaffermazione. La vera liturgia presuppone che Dio risponda e ci mostri come possiamo adorarlo. “La Chiesa può celebrare e adorare il mistero di Cristo presente nell'Eucaristia proprio perché Cristo stesso si è donato per primo ad essa nel sacrificio della Croce” (Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, 14). La Chiesa vive di questa presenza e ha come ragion d'essere e di esistere quella di diffondere tale presenza nel mondo intero» (Benedetto XVI, Discorso del 15.04.2010).

Questa è la meraviglia della liturgia che, come ricorda il Catechismo, è culto divino, annuncio del Vangelo e carità in azione (cf. CCC, 1070). È Dio stesso che agisce e noi siamo attratti da questa sua azione, per essere trasformati in Lui.

* Juan José Silvestre è professore di Liturgia presso la Pontificia Università della Santa Croce e consultore della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice

 

Caterina63
00giovedì 26 gennaio 2012 19:13

La liturgia fonte di vita, di preghiera e di catechesi (CCC 1071-1075)


Rubrica di teologia liturgica a cura di Don Mauro Gagliardi


Mauro Gagliardi*

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 25 gennaio 2012 (ZENIT.org).- I nn. 1071-1075 del Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) trattano della sacra liturgia in quanto fonte di vita, nonché della sua relazione con la preghiera e con la catechesi. La liturgia è fonte di vita innanzitutto perché è «opera di Cristo» (CCC, 1071). In secondo luogo, perché «è anche un’azione della sua Chiesa» (ibid.). Ma, tra questi due aspetti, qual è quello preminente? E inoltre, cosa significa in questo contesto la parola «vita»?

Risponde il Concilio Vaticano II: «Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’Eucaristia, deriva in noi, come da una fonte, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini in Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa» (Sacrosanctum Concilium [SC], 10). Si comprende così che, quando si chiama la liturgia fonte di vita, si intende dire che da essa sgorga la grazia. Con questo, si è già risposto anche alla prima domanda: la liturgia è fonte di vita principalmente perché è opera di Cristo, Autore della grazia.

Un principio classico del cattolicesimo, tuttavia, afferma che la grazia non toglie la natura, bensì la suppone e la perfeziona (cf. san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, 1, 8 ad 2 ecc.). Perciò anche l’uomo coopera al culto liturgico, che è azione sacerdotale del «Cristo tutto intero», ossia il Capo, che è Gesù, e le membra, che sono i battezzati. Così la liturgia è fonte di vita anche in quanto azione della Chiesa. Proprio in quanto opera di Cristo e della Chiesa, la liturgia è «azione sacra per eccellenza» (SC, 7), dona ai fedeli la vita di Cristo e richiede la loro partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cf. SC, 11). Qui si comprende anche il legame della sacra liturgia con la vita di fede: potremmo dire «dalla Vita alla vita». La grazia che ci è donata da Cristo nella liturgia chiama ad un coinvolgimento vitale: «La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa» (SC, 9), infatti «essa deve essere preceduta dall’evangelizzazione, dalla fede e dalla conversione; allora è in grado di portare i suoi frutti nella vita dei fedeli» (CCC, 1072).

Non a caso, al momento di raccogliere gli scritti liturgici di J. Ratzinger in un unico volume, dal titolo Teologia della liturgia, si è pensato di esprimere una delle intuizioni fondamentali dell’autore aggiungendo il sottotitolo: La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana. È una traduzione in termini teologici di ciò che Gesù ha detto nel Vangelo con le parole: «Senza di me, non potete fare nulla» (Gv 15,5). Nella sacra liturgia noi riceviamo il dono di quella vita divina di Cristo senza la quale non possiamo fare nulla di valido per la salvezza. Perciò la vita del cristiano non è altro che una continuazione, o il frutto, della grazia che si riceve nel culto divino, in particolare in quello eucaristico.

In secondo luogo, la liturgia ha una stretta relazione con la preghiera. Di nuovo, il fulcro di comprensione di questo rapporto è il Signore: «La liturgia è anche partecipazione alla preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito Santo. In essa ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine» (CCC, 1073). La liturgia è dunque anche fonte di preghiera. Da essa impariamo a pregare nel modo giusto. Siccome la liturgia è la preghiera sacerdotale di Gesù, cosa possiamo imparare da essa per la nostra preghiera personale? In cosa consisteva la preghiera del Signore? «Per comprendere Gesù sono fondamentali gli accenni ricorrenti al fatto che Egli si ritirava “sul monte” e lì pregava per notti intere, “da solo” con il Padre. [...] Questo “pregare” di Gesù è il parlare del Figlio con il Padre in cui vengono coinvolte la coscienza e la volontà umane, l’anima umana di Gesù, di modo che la “preghiera” dell’uomo possa divenire partecipazione alla comunione del Figlio con il Padre» (J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, I, Rizzoli, Milano 2007, pp. 27-28). In Gesù, la preghiera “personale” non è distinta dalla sua preghiera sacerdotale: secondo la Lettera agli Ebrei, la preghiera sofferta di Gesù durante la Passione «costituisce la messa in atto del sommo sacerdozio di Gesù. Proprio nel suo gridare, piangere e pregare Gesù fa ciò che è proprio del sommo sacerdote: Egli porta il travaglio dell’essere uomini in alto verso Dio. Porta l’uomo davanti a Dio» (ibid., II, LEV, Città del Vaticano 2010, p. 184).

In una parola, la preghiera di Gesù è una preghiera di colloquio, una preghiera svolta alla presenza di Dio. Gesù ci insegna questo tipo di preghiera: «È necessario tenere sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l’orientamento verso Dio» (ibid., I, p. 159). La liturgia, dunque, ci insegna a pregare perché ci riorienta costantemente verso Dio: «In altro i nostri cuori – sono rivolti al Signore!». La preghiera è essere rivolti al Signore – e questo è anche il senso profondo della partecipazione attiva alla liturgia.

Infine, la preghiera è «luogo privilegiato della catechesi [...] in quanto procede dal visibile all’invisibile» (CCC, 1074-1075). Ciò implica che i testi, i segni, i riti, i gesti e gli elementi ornamentali della liturgia devono essere tali da trasmettere davvero il Mistero che significano e possano così essere utilmente spiegati all’interno della catechesi mistagogica.

*Don Mauro Gagliardi è Professore ordinario presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, Professore incaricato presso l’Università Europea di Roma, Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

 

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