Sacerdoti, riscopriamo insieme l'uso degli ABITI LITURGICI e della stessa LITURGIA SACRA

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Caterina63
00giovedì 1 ottobre 2009 22:29

La vestizione dei paramenti liturgici e le relative preghiere


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 9 dicembre 2009 (ZENIT.org).- L’articolo che presentiamo oggi si propone di ricordare l’uso antico di accompagnare la vestizione dei paramenti liturgici con delle preghiere, brevi ma molto ricche dal punto di vista biblico, teologico e spirituale. Simile pratica tradizionale è da ritenersi tutt’altro che superata. Essa va al contrario riscoperta nella sua bellezza ed utilità per la vita spirituale del sacerdote.



* * *

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1. Cenni storici

Le vesti usate dai ministri sacri nelle celebrazioni liturgiche sono derivate dalle antiche vesti civili greche e romane. Nei primi secoli, l’abito delle persone di un certo livello sociale (gli honestiores) è stato adottato anche per il culto cristiano e questa prassi si è mantenuta nella Chiesa anche dopo la pace di Costantino. Come emerge da alcuni scrittori ecclesiastici, i ministri sacri portavano le vesti migliori, con tutta probabilità riservate per tale occasione [1].

Mentre nell’antichità cristiana le vesti liturgiche si sono distinte da quelle civili non in ragione della loro forma particolare, ma per la qualità della stoffa e per il loro particolare decoro, nel corso delle invasioni barbariche i costumi e, con essi, gli abiti di nuovi popoli sono stati introdotti in Occidente e hanno apportato cambiamenti nella moda profana. Invece, la Chiesa ha mantenuto essenzialmente inalterate le vesti usate dal clero nel culto pubblico; così si è differenziato l’uso civile delle vesti da quello liturgico.

In epoca carolingia, infine, i paramenti propri ai vari gradi del sacramento dell’ordine, tranne alcune eccezioni, sono stati definitivamente fissati ed hanno assunto la forma che hanno ancora oggi.

2. Funzione e significato spirituale

Al di là delle circostanze storiche, i paramenti sacri hanno una funzione importante nelle celebrazioni liturgiche: in primo luogo, il fatto che non sono portati nella vita ordinaria, e perciò possiedono un carattere cultuale, aiuta a staccarsi dalla quotidianità e dai suoi affanni, al momento di celebrare il culto divino. Inoltre, le forme ampie delle vesti, ad esempio del camice, della dalmatica e della casula o pianeta, pongono in secondo piano l’individualità di chi le porta, per far risaltare il suo ruolo liturgico. Si può dire che la “mimetizzazione” del corpo del ministro al di sotto delle ampie vesti, in un certo senso lo spersonalizza, di quella sana spersonalizzazione che toglie dal centro il ministro celebrante e riconosce il vero Protagonista dell’azione liturgica: Cristo. La forma delle vesti, dunque, dice che la liturgia viene celebrata in persona Christi e non a nome proprio. Colui che compie una funzione cultuale non attua in quanto persona privata, ma come ministro della Chiesa e come strumento nelle mani di Gesù Cristo. Il carattere sacro dei paramenti risulta anche dal fatto che vengono assunti secondo quanto descritto nel Rituale Romano.

Nella forma straordinaria del Rito Romano (cosiddetta di San Pio V), la vestizione dei paramenti liturgici è accompagnata da preghiere relative ad ogni veste, preghiere il cui testo si trova ancora in molte sagrestie. Anche se queste orazioni non sono più prescritte (ma neppure vietate) dal Messale della forma ordinaria emanato da Paolo VI, il loro uso è consigliabile, perché aiutano alla preparazione ed al raccoglimento del sacerdote prima della celebrazione del Sacrificio eucaristico. A conferma dell’utilità di queste preghiere, va notato che esse sono state incluse nel Compendium eucharisticum, pubblicato recentemente dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti [2]. Inoltre, può essere utile ricordare che Pio XII, con decreto del 14 gennaio 1940, assegnò un’indulgenza di cento giorni per le singole orazioni.


                            abiti liturgici

3. Le singole vesti liturgiche e le preghiere che accompagnano la vestizione

1) All’inizio della vestizione, il sacerdote si lava le mani recitando un’apposita preghiera; oltre al fine pratico dell’igiene, questo atto ha anche un simbolismo profondo, in quanto significa il passaggio dal profano al sacro, dal mondo del peccato al puro santuario dell’Altissimo. Lavarsi le mani equivale in qualche modo al togliersi i sandali davanti al roveto ardente (cf. Esodo 3,5). La preghiera accenna a questa dimensione spirituale:

Da, Domine, virtutem manibus meis ad abstergendam omnem maculam; ut sine pollutione mentis et corporis valeam tibi servire.

(Da’, o Signore, alle mie mani la virtù che ne cancelli ogni macchia: perché io ti possa servire senza macchia dell’anima e del corpo) [3].

All’abluzione delle mani, segue la vestizione vera e propria.

2) Si comincia con l’amitto, un panno di lino rettangolare munito di due fettucce, che si appoggia sulle spalle e si fa poi aderire al collo; infine si lega attorno alla vita. L’amitto ha lo scopo di coprire l’abito quotidiano attorno al collo, anche se si tratta dell’abito del sacerdote. In questo senso, bisogna ricordare che l’amitto va indossato anche quando si utilizzano fogge di camici moderne, le quali spesso non prevedono un’apertura ampia nella parte superiore, e tendono piuttosto a stringersi attorno al collo. Nonostante ciò, l’abito quotidiano rimane ugualmente visibile e per questo è necessario coprirlo anche in questi casi con l’amitto [4].

Nel Rito Romano, l’amitto è indossato prima del camice. Nell’assumerlo, il sacerdote recita la seguente preghiera:

Impone, Domine, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos incursus.

(Imponi, Signore, sul mio capo l’elmo della salvezza, per sconfiggere gli assalti diabolici).

Con richiamo alla Lettera di san Paolo agli Efesini 6,17, l’amitto viene interpretato come «l’elmo della salvezza», che deve proteggere colui che lo porta dalle tentazioni del demonio, in particolare dai pensieri e desideri cattivi durante la celebrazione liturgica. Questo simbolismo è ancora più chiaro nel costume seguito a partire dal medioevo dai Benedettini, Francescani e Domenicani, presso i quali l’amitto si applicava prima sulla testa e poi si lasciava cadere sulla casula o sulla dalmatica.

3) Il camice o alba è la lunga veste bianca indossata da tutti i sacri ministri, che ricorda la nuova veste immacolata che ogni cristiano ha ricevuto mediante il battesimo. Il camice è dunque simbolo della grazia santificante ricevuta nel primo sacramento ed è considerato anche simbolo della purezza di cuore necessaria per entrare nella gioia eterna della visione di Dio in Cielo (cf. Matteo 5,8). Questo si esprime nella preghiera detta dal sacerdote, mentre indossa il camice, orazione che fa riferimento ad Apocalisse 7,14:

Dealba me, Domine, et munda cor meum; ut, in sanguine Agni dealbatus, gaudiis perfruar sempiternis.

(Purificami, Signore, e monda il mio cuore, perché purificato nel Sangue dell’Agnello, io goda degli eterni gaudi).

4) Sopra il camice, all’altezza della vita, è indossato il cingolo, un cordone di lana o di altro materiale adatto che si utilizza a mo’ di cintura. Tutti gli officianti che indossano il camice dovrebbero portare anche il cingolo (questa consuetudine tradizionale è oggi disattesa molto di frequente) [5]. Per i diaconi, i sacerdoti e i vescovi, il cingolo può essere di diversi colori, secondo il tempo liturgico o la memoria del giorno. Nel simbolismo delle vesti liturgiche, il cingolo rappresenta la virtù del dominio di sé, che san Paolo enumera anche tra i frutti dello Spirito (cf. Galati 5,22). La corrispondente preghiera, prendendo spunto dalla Prima Lettera di Pietro 1,13, dice:

Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et exstingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis.

(Cingimi, Signore, con il cingolo della purezza e prosciuga nel mio corpo la linfa della dissolutezza, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità).

5) Il manipolo è un paramento liturgico adoperato nelle celebrazioni della Santa Messa secondo la forma straordinaria del Rito Romano; è caduto in disuso negli anni della riforma liturgica, anche se non è stato abolito. Il manipolo è simile alla stola, ma di lunghezza minore: è lungo meno di un metro e fissato a metà da un fermaglio o da fettucce simili a quelle che si trovano nella pianeta. Durante la Santa Messa nella forma straordinaria, il celebrante, il diacono e il suddiacono lo portano all’avambraccio sinistro. Questo paramento forse deriva da un fazzoletto (mappula) che era portato dai romani annodato al braccio sinistro. Siccome la mappula si utilizzava per detergere il viso da lacrime e sudore, gli scrittori ecclesiastici medievali hanno assegnato al manipolo il simbolismo delle fatiche del sacerdozio. Questa lettura è entrata anche nell’apposita preghiera di vestizione:

Merear, Domine, portare manipulum fletus et doloris; ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris.

(O Signore, che io meriti di portare il manipolo del pianto e del dolore, affinché riceva con gioia il compenso del mio lavoro).

Come si vede, nella prima parte la preghiera cita il pianto ed il dolore che accompagnano il ministero sacerdotale, ma nella seconda parte si fa riferimento al frutto del proprio lavoro. Non sarà fuori luogo richiamare il passo di un salmo che può aver ispirato questa seconda simbologia del manipolo, visto che la Vulgata così rendeva il Salmo 125,5-6: «Qui seminant in lacrimis in exultatione metent; euntes ibant et flebant portantes semina sua, venientes autem venient in exultatione portantes manipulos suos» (corsivo nostro).

6) La stola è l’elemento distintivo del ministro ordinato e si indossa sempre nella celebrazione dei sacramenti e dei sacramentali. È una striscia di stoffa, di norma ricamata, il cui colore varia secondo il tempo liturgico o il giorno del santorale. Indossandola, il sacerdote recita la relativa preghiera:

Redde mihi, Domine, stolam immortalitatis, quam perdidi in praevaricatione primi parentis; et, quamvis indignus accedo ad tuum sacrum mysterium, merear tamen gaudium sempiternum.

(Restituiscimi, o Signore, la stola dell’immortalità, che persi a causa del peccato del primo padre; e per quanto accedo indegno al tuo sacro mistero, che io raggiunga ugualmente la gioia senza fine).

Siccome la stola è un paramento di enorme importanza, che indica più di ogni altro lo stato di ministro ordinato, non si può non lamentare l’abuso ormai diffuso in molti luoghi che i sacerdoti non portino più la stola quando indossano la casula [6].

7) Infine, ci si riveste della casula o della pianeta, la veste propria di colui che celebra la Santa Messa. I libri liturgici hanno usato in passato i due termini latini casula e planeta come sinonimi. Mentre il nome di planeta si usava particolarmente a Roma ed è rimasto in Italia, il nome di casula deriva dalla forma tipica della veste che all’origine circondava interamente il sacro ministro che la portava. L’uso della parola casula si trova anche in altre ligue: «casulla» in spagnolo, «chasuble» in francese e in inglese, «Kasel» in tedesco. La preghiera relativa alla casula fa riferimento all’esortazione della Lettera ai Colossesi 3,14: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione»; e, infatti, l’orazione con cui si indossa la casula o pianeta cita le parole del Signore contenute in Matteo 11,30:

Domine, qui dixisti: Iugum meum suave est, et onus meum leve: fac, ut istud portare sic valeam, quod consequar tuam gratiam. Amen.

(O Signore, che hai detto: Il mio gioco è soave e il mio carico è leggero: fa’ che io possa portare questo [indumento sacerdotale] in modo da conseguire la tua grazia. Amen).

In conclusione, si può auspicare che la riscoperta del simbolismo proprio ai paramenti e delle rispettive preghiere possa incoraggiare i sacerdoti a riprendere la consuetudine di pregare durante la vestizione, in modo da prepararsi con il dovuto raccoglimento alla celebrazione liturgica. Se è vero che è possibile pregare con diverse orazioni, o anche semplicemente elevando la mente a Dio, nondimeno i testi delle preghiere per la vestizione hanno dalla loro parte la brevità, la precisione del linguaggio, l’afflato di spiritualità biblica, nonché il fatto di essere state pregate per secoli da un numero incalcolabile di sacri ministri. Queste orazioni si raccomandano dunque ancora oggi, per la preparazione alla celebrazione liturgica, anche svolta in accordo alla forma ordinaria del Rito Romano.





Note

[1] Cf. ad esempio san Girolamo, Adversus Pelagianos, I, 30.

[2] Edito dalla LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 385-386.

[3] Riprendiamo il testo delle preghiere dall’edizione del Missale Romanum emanato nel 1962 dal beato Giovanni XXIII, Roman Catholics Books, Harrison (NY) 1996, p. lx. La traduzione in italiano delle preghiere è nostra.

[4] La Institutio Generalis Missalis Romani (2008) al n. 336 permette di non assumere l’amitto quando il camice è confezionato in maniera tale da coprire completamente il collo, nascondendo la vista dell’abito comune. Di fatto, però, avviene di rado che l’abito non sia visibile, anche solo parzialmente; di qui la raccomandazione ad utilizzare comunque l’amitto.

[5] Lo stesso n. 336 della Institutio del 2008 prevede la possibilità di omettere il cingolo, se il camice è confezionato in maniera tale da aderire al corpo senza di esso. Nonostante questa concessione, bisogna riconoscere: a) il valore tradizionale e simbolico dell’uso del cingolo; b) il fatto che difficilmente il camice – sia in foggia più tradizionale, che soprattutto nei tagli più moderni – aderisce da sé al corpo. Se la norma prevede la possibilità, essa dovrebbe però restare piuttosto ipotetica in via di fatto: in concreto, il cingolo risulta sempre necessario. A volte si trovano oggi dei camici che hanno il cingolo incorporato: una fettuccia di stoffa unita al camice per mezzo di una cucitura all’altezza della vita e che si annoda al momento della vestizione: in questi casi la preghiera sul cingolo può essere recitata mentre si annoda. Resta però di gran lunga preferibile la forma tradizionale.

[6] «Il Sacerdote che porta la casula secondo le rubriche non tralasci di indossare la stola. Tutti gli Ordinari provvedano che ogni uso contrario sia eliminato»: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, 25 marzo 2004, n. 123.

Caterina63
00mercoledì 21 ottobre 2009 20:30


Missale Romanum


Institutio Generalis Missale Romanum


IV. Le vesti sacre



335. Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, non tutte le membra svolgono lo stesso compito. Questa diversità di compiti nella celebrazione dell’Eucaristia, si manifesta esteriormente con la diversità delle vesti sacre, che perciò devono essere segno dell’ufficio proprio di ogni ministro. Conviene però che tali vesti contribuiscano anche al decoro dell’azione sacra. Le vesti che indossano i sacerdoti e i diaconi e gli altri ministri laici, prima di essere destinate all’uso liturgico, vengono opportunamente benedette secondo il rito descritto nel Rituale Romano[137].



336.
La veste sacra comune a tutti i ministri ordinati e istituiti di qualsiasi grado è il camice stretto ai fianchi dal cingolo, a meno che non sia fatto in modo da aderire al corpo anche senza cingolo. Prima di indossare il camice, se questo non copre l’abito comune attorno al collo, si usi l’amitto. Il camice non può essere sostituito dalla cotta, neppure sopra la veste talare, quando, secondo le norme, si indossano la casula o la dalmatica, oppure quando si deve indossare la stola, senza la casula o la dalmatica.


337.
Nella Messa e nelle altre azioni sacre direttamente collegate con essa, veste propria del sacerdote celebrante è la casula o pianeta, se non viene indicato diversamente; la casula s’indossa sopra il camice e la stola.


338.
Veste propria del diacono è la dalmatica, da indossarsi sopra il camice e la stola; tuttavia la dalmatica, o per necessità o per il grado minore di solennità, si può tralasciare.


339.
Gli accoliti, i lettori e gli altri ministri laici possono indossare il camice o un’altra veste legittimamente approvata nella loro regione dalla Conferenza Episcopale (Cf. n. 390).


340.
La stola indossata dal sacerdote gira attorno al collo e scende davanti, diritta. La stola indossata dal diacono poggia sulla spalla sinistra e, passando trasversalmente davanti al petto, si raccoglie sul fianco destro.


341.
Il piviale viene indossato dal sacerdote nelle processioni e nelle altre azioni sacre, secondo le rubriche proprie dei singoli riti.


342.
Riguardo alla forma delle vesti sacre, le Conferenze Episcopali possono stabilire e proporre alla Sede Apostolica adattamenti richiesti dalle necessità e dagli usi delle singole regioni
[138].


343.
Per la confezione delle vesti sacre, oltre alle stoffe tradizionali, si possono usare altre fibre naturali proprie delle singole regioni, come pure fibre artificiali, rispondenti alla dignità dell’azione sacra e della persona. In questa materia è giudice la Conferenza Episcopale
[139].


344.
La bellezza e la nobiltà delle vesti si devono cercare e porre in risalto più nella forma e nella materia usata, che nella ricchezza dell’ornato. Gli ornamenti possono presentare figurazioni, o immagini, o simboli, che indichino l’uso sacro delle vesti, con esclusione di ciò che non vi si addice.


345.
La differenza dei colori nelle vesti sacre ha lo scopo di esprimere, anche con mezzi esterni, la caratteristica particolare dei misteri della fede che vengono celebrati, e il senso della vita cristiana in cammino lungo il corso dell’anno liturgico.


346.
Riguardo al colore delle sacre vesti, si mantenga l’uso tradizionale, e cioè:

a) Il colore bianco si usa negli Uffici e nelle Messe del tempo pasquale e del tempo natalizio. Inoltre: nelle celebrazioni del Signore, escluse quelle della Passione; nelle feste e nelle memorie della beata Vergine Maria, dei Santi Angeli, dei Santi non Martiri, nelle solennità di Tutti i Santi (1 novembre) e di san Giovanni Battista (24 giugno), nelle feste di san Giovanni evangelista (27 dicembre), della Cattedra di san Pietro (22 febbraio) e della Conversione di san Paolo (25 gennaio).

b) Il colore rosso si usa nella domenica di Passione (o delle Palme) e nel Venerdì santo, nella domenica di Pentecoste, nelle celebrazioni della Passione del Signore, nella festa natalizia degli Apostoli e degli evangelisti e nelle celebrazioni dei Santi Martiri.

c) Il colore verde si usa negli Uffici e nelle Messe del tempo ordinario.

d) Il colore viola si usa nel tempo di Avvento e di Quaresima. Si può usare negli Uffici e nelle Messe per i defunti.

e) Il colore nero si può usare, dove è prassi consueta, nelle Messe per i defunti.

f) Il colore rosaceo si può usare, dove è tradizione, nelle domeniche Gaudete (III di Avvento) e Laetare (IV di Quaresima).

g) Nei giorni più solenni si possono usare vesti festive più preziose, anche se non sono del colore del giorno.

Per quanto riguarda i colori liturgici, le Conferenze Episcopali possono però stabilire e proporre alla Sede Apostolica adattamenti conformi alle necessità e alla cultura dei singoli popoli.


347.
Le Messe rituali si celebrano con il colore ad esse proprio, oppure con colore bianco o festivo. Le Messe per varie necessità con il colore proprio del giorno o del tempo, oppure con colore viola se hanno carattere penitenziale (ad es. le Messe in tempo di guerra o di disordini; in tempo di fame; per la remissione dei peccati). Le Messe votive si celebrano con il colore adatto alla Messa che si celebra o anche con il colore proprio del giorno o del tempo.



Caterina63
00mercoledì 27 gennaio 2010 21:43

Le preghiere apologetiche dell’Ordo Missae


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi


ROMA, mercoledì, 25 novembre 2009 (ZENIT.org).- In questo articolo, scritto originariamente in spagnolo, si spiegano l’importanza e il significato delle preghiere «apologetiche» durante la celebrazione della Santa Messa. Si tratta di preghiere che il sacerdote recita a bassa voce, in «segreto» davanti a Dio, per partecipare più consapevolmente e degnamente ai misteri divini che celebra in favore di tutta la Chiesa. I fedeli accompagnano queste preghiere sacerdotali con riverente silenzio esterno e con raccoglimento interiore, che favoriscono una comprensione più piena di quanto si svolge sull’altare e quindi una partecipazione più attiva alla liturgia.


***

Un silenzio che contempla e adora

Le preghiere apologetiche dell’Ordo Missae

La sacra liturgia, che il Concilio Vaticano II qualifica come l’azione sacerdotale di Cristo, e quindi la fonte e il culmine della vita ecclesiale, non può mai ridursi ad una semplice realtà estetica, né può essere considerata come uno strumento a fini puramente pedagogici o ecumenici. La celebrazione dei santi misteri è soprattutto azione di lode rivolta alla maestà suprema di Dio uno e trino, azione voluta da Dio stesso. Con essa l’uomo, personalmente e comunitariamente, si presenta davanti al Signore per rendergli grazie, cosciente del fatto che il suo stesso essere non può raggiungere la propria pienezza se non lo loda e non compie la sua volontà, nella costante ricerca del Regno che è già presente e tuttavia verrà definitivamente nel giorno della parusia del Signore Gesù[1].

Alla luce di ciò, è chiaro che la direzione di ogni azione liturgica – che è la stessa per sacerdote e fedeli – è quella rivolta verso il Signore: al Padre attraverso di Cristo nello Spirito Santo. Perciò «sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, bensì verso l’unico Signore»[2]. Si tratta di vivere costantemente il «conversi ad Dominum», quel volgersi ora verso il Signore, che suppone la conversio, il dirigere la nostra anima verso Gesù Cristo e, in questo modo, verso il Dio vivente, ossia verso la luce vera[3].

In questo modo, la celebrazione liturgica è vissuta come atto di quella virtù di religione che, coerentemente alla sua natura, deve caratterizzarsi per il profondo senso del sacro. In essa, l’uomo e la comunità devono essere consapevoli di incontrarsi, in modo speciale, dinanzi a Colui che è il tre volte Santo e il Trascendente. Di qui che «un segno convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha presso i fedeli è senza dubbio la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente in mezzo a noi»[4].

L’atteggiamento appropriato nella celebrazione liturgica non può essere altro se non quello pieno di riverenza e di stupore, che scaturisce dal sapersi in presenza della maestà di Dio. Non era forse questo ciò che Dio stesso voleva indicare, ordinando a Mosè di togliersi i sandali dinanzi al roveto ardente? Non nasceva forse da questa coscienza l’atteggiamento di Mosè ed Elia, che non osarono guardare Dio faccia a faccia?[5]

In questo quadro si intendono meglio le parole del II Canone della Messa, che definiscono perfettamente l’essenza del ministero sacerdotale: «Astare coram te et tibi ministrare». Sono dunque due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: «Stare in presenza del Signore» e «servire alla sua presenza».

Il Santo Padre Benedetto XVI, commentando simile ministero, notava che il termine servizio si adotta fondamentalmente per riferirsi al servizio liturgico. Ciò implica diversi aspetti e, tra gli altri, la vicinanza e la familiarità. Scriveva il Papa:

«Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timore riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani»[6].


In effetti, prima di qualunque celebrazione liturgica, ma in modo speciale prima dell’Eucaristia – memoriale della morte e risurrezione del Signore, grazie al quale si fa realmente presente questo avventimento centrale della salvezza e si realizza l’opera della nostra redenzione – dobbiamo porci in adorazione dinanzi al Mistero: Mistero grande, Mistero di misericordia. Che cosa infatti avrebbe potuto fare di più Gesù per noi? Realmente, nell’Eucaristia egli ci mostra un amore che arriva «fino alla fine» (Gv 3, 1), un amore che non conosce limiti[7]. Rimaniamo attoniti e storditi dinanzi a una realtà così straordinaria: con quanta umile condiscendenza Dio ha voluto unirsi all’uomo! Se fra poche settimane staremo, commossi, davanti al presepe, contemplando l’incarnazione del Verbo, cosa non dobbiamo sentire davanti all’altare, sul quale Cristo fa presente nel tempo il suo Sacrificio, attraverso le povere mani del sacerdote? Non resta che inginocchiarsi e adorare in silenzio il grande Mistero della fede[8].

Conseguenza logica di quanto si è detto è che il popolo di Dio deve poter vedere, nei sacerdoti e anche negli altri ministri dell’altare, un comportamento pieno di riverenza e di dignità, che sia capace di aiutarli a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole o spiegazioni.

Nel Messale Romano detto «di san Pio V», come pure in diverse liturgie orientali, si trovano preghiere molto belle, con le quali il sacerdote esprime il più profondo sentimento di umiltà e riverenza dinanzi ai santi misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualunque liturgia[9]. Alcune di queste orazioni presenti nel citato Messale – che nella sua edizione del 1962 è il Messale proprio della «forma straordinaria» del Rito Romano – sono state riprese nel Messale promulgato dopo il Concilio Vaticano II. Queste preghiere sono chiamate tradizionalmente «Apologie».

A queste orazioni si riferisce la Institutio Generalis Missalis Romani al n. 33. Dopo il riferimento alle orazioni che il sacerdote pronuncia come celebrante a nome di tutta la Chiesa, la IGMR afferma che «talvolta [egli prega] invece anche a titolo personale, per poter compiere il proprio ministero con maggior attenzione e pietà. Tali preghiere, che sono proposte prima della proclamazione del Vangelo, alla preparazione dei doni, prima e dopo la Comunione del sacerdote, si dicono sottovoce».

Queste brevi formule pregate in silenzio invitano il sacerdote a personalizzare il suo compito, a consegnarsi al Signore anche a titolo personale. Esse sono allo stesso tempo un modo eccellente di incamminarsi – come gli altri fedeli – all’incontro con il Signore in modo interamente personale, oltre che comunitario. E questo è un primo aspetto di essenziale importanza, perché solo nella misura in cui si comprendono e si interiorizzano la struttura liturgica e le parole della liturgia, si può entrare in consonanza interiore con esse. Quando ciò succede, il sacerdote celebrante non parla con Dio solo come persona individuale, bensì entra nel «noi» della Chiesa che prega.

Se la celebratio è preghiera, ossia colloquio con Dio – colloquio di Dio con noi e nostro con Dio – l’«io» proprio del celebrante si trasforma, entrando nel «noi» della Chiesa. Si arricchisce e si allarga l’«io» pregando con la Chiesa, con le sue parole, e si intavola realmente un colloquio con il Signore. In questo modo il celebrare è realmente celebrare «con» la Chiesa: il cuore si dilata – ovviamente non in senso fisico, ma nel senso che esso si mette «con» la Chiesa in colloquio con Dio.
 
In questo processo di allargamento del cuore, le orazioni apologetiche ed il silenzio contemplativo e adorante che esse producono rappresentano un elemento importante e perciò fanno parte della struttura della celebrazione eucaristica da più di mille anni.

In secondo luogo, nel cammino verso il Signore ci accorgiamo della nostra indegnità. Perciò diventa necessario durante la celebrazione chiedere che Dio stesso ci trasformi ed accetti che partecipiamo in quella actio Dei che configura la liturgia. Di fatto, lo spirito di conversione continua è una delle condizioni personali che rendono possibile la actuosa participatio (partecipazione attiva) dei fedeli e dello stesso sacerdote celebrante. «Non ci si può aspettare una partecipazione attiva alla liturgia eucaristica, se ci si accosta ad essa superficialmente, senza prima interrogarsi sulla propria vita»[10].

Il raccoglimento ed il silenzio prima e durante la celebrazione si comprendono in questo contesto e facilitano il realizzarsi delle parole di Benedetto XVI: «Un cuore riconciliato con Dio abilita alla vera partecipazione»[11]. Ne consegue di nuovo che le orazioni apologetiche svolgono un ruolo importante nella celebrazione.

Ad esempio, le preghiere apologetiche «Munda cor meum», recitata prima della proclamazione del Vangelo, o «In spiritu humilitatis», che precede il lavabo dopo la presentazione delle oblate (pane e vino), permettono al sacerdote che le prega di prendere coscienza della realtà della sua indegnità e, allo stesso tempo, della grandezza della sua missione. «Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo, rimanda a Lui»[12].

Il silenzio e i gesti di pietà e raccoglimento del celebrante muovono i fedeli che partecipano alla celebrazione a rendersi conto della necessità di prepararsi, di convertirsi, data l’importanza del momento liturgico cui partecipano: prima della lettura del Vangelo, o nell’imminenza dell’inizio della Preghiera Eucaristica.

Da parte loro le apologie «Per huius aquae et vini» durante l’Offertorio, o «Quod ore sumpsimus, Domine» durante la purificazione dei vasi sacri, si inquadrano perfettamente all’interno del desiderio di essere introdotti e trasformati nella e a causa della actio divina. Dobbiamo costantemente ricordare alla nostra mente e al nostro cuore che la liturgia eucaristica è actio Dei che ci unisce a Gesù attraverso il suo Spirito[13]. Queste due apologie orientano la nostra esistenza verso l’incarnazione e la risurrezione e, in realtà, costituiscono un elemento che favorisce la realizzazione di quel desiderio della Chiesa, che i fedeli non assistano alle celebrazioni come muti spettatori, ma che vi prendano parte attivamente dando grazie a Dio e imparando ad offrire se stessi insieme a Cristo[14].

Non ci sembra eccessivo, allora, affermare che le apologie svolgono un ruolo di primo piano nel ricordare al ministro ordinato che «è il medesimo Sacerdote Cristo Gesù di cui realmente il ministro fa le veci. Costui se, in forza della consacrazione sacerdotale che ha ricevuto, è in verità assimilato al Sommo Sacerdote, gode della potestà di agire con la potenza dello stesso Cristo che rappresenta (virtute ac persona ipsius Christi)»[15].

Allo stesso tempo, esse ricordano al sacerdote che, essendo ministro ordinato, egli è «il legame sacramentale che collega l’azione liturgica a ciò che hanno detto e fatto gli apostoli e, tramite loro, a ciò che ha detto e operato Cristo, sorgente e fondamento dei sacramenti»[16]. Le orazioni dette in segreto dal sacerdote costituiscono pertanto un mezzo straordinario per unirsi gli uni agli altri, per formare una comunità che è «liturga» e che partecipa tutta rivolta versus Deum per Iesum Christum.

Una delle apologie, conservata nell’Ordo Missae post-conciliare, rende perfettamente ciò che andiamo dicendo: «Domine Iesu Christe, Fili Dei vivi, qui ex voluntate Patris cooperante Spiritu Sancto per mortem tuam mundum vivificasti». Di fatto, le orazioni che il sacerdote prega in segreto, e questa in particolare, possono aiutare in modo efficace sacerdote e fedeli a raggiungere la chiara consapevolezza che la liturgia è opera della Santissima Trinità. «La preghiera e l’offerta della Chiesa sono inseparabili dalla preghiera e dall’offerta di Cristo, suo Capo»[17].

Così le apologie si configurano da più di mille anni come semplici formule purificate dalla storia, piene di contenuto teologico, che permettono al sacerdote che le prega, e ai fedeli che partecipano al silenzio che le accompagna, di rendersi conto del mysterium fidei al quale partecipano e così unirsi a Cristo riconoscendolo come Dio, fratello e amico.

Per questi motivi, dobbiamo rallegrarci che, nonostante il fatto che la riforma liturgica post-conciliare abbia drasticamente ridotto il numero e notevolmente ritoccato il testo di queste orazioni, esse continuino ad essere presenti anche nel più recente Ordo Missae. L’invito ai sacerdoti è a non trascurare queste preghiere durante la celebrazione e anche a non trasformarle da preghiere del sacerdote a preghiere di tutta l’assemblea, leggendole ad alta voce al pari di tutte le altre orazioni. Le orazioni apologetiche si basano su ed esprimono una teologia diversa e complementare a quella che fa da sfondo alle altre orazioni. Questa teologia si manifesta nel modo silenzioso e riverente con il quale sono pregate dal sacerdote e accompagnate dagli altri fedeli.



[Traduzione dallo spagnolo di don Mauro Gagliardi]



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1) Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21.09.2001.

2) J. Ratzinger/Benedetto XVI, Prefazione al primo volume delle Gesammelte Schriften.

3) Cf. Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale, 22.03.2008.

4) Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 65.

5) Cf. Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21.09.2001.

6) Benedetto XVI, Omelia nella Messa Crismale, 20.03.2008.

7) Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 11.

8) Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2004.

9) Cf. Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21.09.2001.

10) Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 55.

11) Ibid.

12) Ibid., n. 23.

13) Cf. Ibid., n. 37.

14) Cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 48.

15) Pio XII, Mediator Dei, cit. in Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1548.

16) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1120.

17) Ibid., n. 1553.

Caterina63
00lunedì 29 marzo 2010 19:22
Riflessioni sull'Anno sacerdotale

La liturgia
radice ed essenza
del ministero


L'ultimo numero di "Rivista Liturgica", giunta al suo novantasettesimo anno, è dedicato tutto all'anno sacerdotale. Il fascicolo di quasi duecento pagine ha come titolo Liturgia e presbiteri:  oltre l'anno sacerdotale. Dall'editoriale del fascicolo prende spunto l'articolo che pubblichiamo a firma del direttore della rivista che è anche presidente della Pontificia accademia di teologia.
 

di Manlio Sodi

Il ministero presbiterale è strettamente connesso con l'azione liturgica della Chiesa. L'Anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI è un'occasione per approfondire tale connessione. Lo richiede sia l'essenza del sacerdozio ministeriale in sé, sia il rapporto che tale sacerdozio ha con l'insieme della storia della salvezza e la realtà della Chiesa in cammino e, soprattutto, la certezza che l'anno liturgico è il perenne e permanente anno sacerdotale. "Partecipi del suo ministero di salvezza":  in questa definizione offerta dalla lex orandi e che la liturgia canta nel prefazio della messa crismale, abbiamo la radice del ministero presbiterale. Da questa fons scaturiscono conseguenze che a livello teologico, pastorale, spirituale e mistico costituiscono l'essenza di tale ministero.

Il primo termine di identificazione è dunque il Cristo. Da qui la linea cristocentrica che viene a caratterizzare l'essenza del ministero presbiterale, e l'insieme delle attività che tale ministero è chiamato a svolgere. Ma sarà anche la linea cristocentrica a dare volto alla spiritualità e alla mistica che - tipica del presbitero - si muove da Cristo per immergersi nella vita trinitaria sotto l'azione dello Spirito proprio in conseguenza di quell'epiclesi che il presbitero è chiamato ad attuare in ogni azione sacramentale. Infatti, dall'esperienza profonda e unica dei santi misteri scaturisce la vita mistica del presbitero.

La definizione proviene ancora dalla lex orandi, dalla collecta della missa pro sacerdotibus. Nel presentare un aspetto del compito ministeriale, la collecta definisce l'identità del presbitero. "Dispensare" è un verbo che significa "dividere, distribuire fra più persone, regolare, ordinare", ma anche "amministrare, governare, aver cura"; in sintesi esso denota l'impegno in un servizio per gli altri; un impegno che non chiama in causa un lavoro di routine ma la trasmissione di una realtà che parte dal cuore di chi la deve trasmettere, perché è attraverso il cuore, le mani, la voce, e soprattutto la vita del presbitero che Cristo continua nel tempo ad agire.

"I santi misteri":  i termini rinviano immediatamente sia alla missione salvifica del Cristo sia all'identità profonda del presbitero chiamato in prima istanza a servire Cristo nei fratelli, come si esprime ancora lo stesso prefazio della messa crismale. Il momento e il gesto epicletico dell'imposizione delle mani rende i fedeli chiamati al presbiterato partecipi del ministero di salvezza proprio del Cristo. Ma la impositio manuum che richiama sempre l'evento originario del momento dell'ordinazione è anche il perenne gesto con cui l'azione dello Spirito Santo trasforma persone e realtà creaturali in segni ed eventi di salvezza. Tutti i sacramenti hanno almeno un'epiclesi (due per l'Eucaristia). E tale momento sacramentale non è solo per indicare il cuore del sacramento, ma anche per sperimentare che da questa azione dello Spirito scaturisce la grazia che rende la vita sempre più "spirituale". La vita del presbitero non può che essere all'insegna della spiritualità liturgica.

È ancora il prefazio della messa crismale a richiamare l'essenza della missione del presbitero e - di conseguenza - la sua identità:  la Parola e i sacramenti. L'abbondanza di Parola di Dio presente oggi nella liturgia - quella eucaristica in particolare, ma non si dimentichi quella della Liturgia delle Ore e quella presente in tutti gli altri sacramenti e sacramentali - pone con rinnovata urgenza l'approfondimento del tema della sacramentalità della stessa liturgia della Parola, a partire da due dati di fatto:  la presenza di Cristo "nella sua parola, perché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura" (Sacrosanctum concilium 7), e la profonda unità che lega la mensa della Parola a quella Eucaristica tanto "da formare un solo atto di culto" (ibidem 56).

Dall'approfondimento di questa realtà scaturisce un articolato elemento essenziale per la missione del presbitero:  individuare i mezzi e percorrere le vie attraverso cui il fedele è nutrito con la Parola, e cogliere come questo essenziale nutrimento costituisca la base di quella refectio (= ristoro, riposo, sollievo, e soprattutto nutrimento spirituale) quale si attua nei sacramenti, e che l'eucologia del Missale Romanum del Vaticano ii evidenzia ben cinquantadue volte.

Ogni "anno" è sempre chiuso in se stesso e presto dimenticato - al di là della colluvie più o meno ampia di "prodotti" - se non fa costante riferimento a quell'"anno" che permane sempre al di là di qualunque tematica. Sulla linea della Sacrosanctum concilium e della successiva riforma, è l'anno liturgico che ha bisogno di ritrovare la sua identità e la forza propulsiva di quanto ivi racchiuso. Dimenticare questo è fare un servizio molto parziale alla formazione dell'intero popolo di Dio. Anno sacerdotale, anno eucaristico, anno mariano, anno paolino, anno compostellano... sono tutti segmenti con grande capacità evocativa; la loro lectio permane però nella misura in cui contenuti e metodologie risultano strettamente radicati nella pedagogia costituita dall'anno liturgico, perché questo è Cristo stesso, e in questo deve confluire tutto il resto.

Un anno sacerdotale non passa invano qualora permetta di cogliere almeno tre ambiti che qualificano l'essenza stessa del sacerdozio ministeriale, ossia l'identità, la missione, la spiritualità.
I documenti del Vaticano ii, a partire dalla Sacrosanctum concilium e dalla Lumen gentium, e i documenti successivi hanno contribuito a mettere a fuoco tale identità.

Anche nel nostro tempo si percepisce l'urgenza di una ecclesiologia del ministero ordinato, che al di là delle connotazioni proprie di sacerdos e presbyter, aiuti a cogliere l'essenza di una missione che risulta essenzialmente radicata sul rapporto tra Cristo e il suo popolo attraverso la mediazione del presbitero.

La distinzione tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale richiede di essere frequentemente sottolineata perché è nell'equilibrio delle due identità che si coglie la distinzione e insieme la reciprocità.

Né psicologo né manager del sacro, ma "mezzo" per l'azione salvifica del Cristo. Può essere questo un titolo per attirare l'attenzione; di fatto è una sintesi che invita a considerare l'essenza della missione del presbitero.

Il confronto con i testi di ordinazione racchiusi nel Pontificale è quanto mai ricco di conseguenze. L'assidua meditazione di quei testi costituisce un richiamo eccellente per mantenere viva l'idea centrale della missione presbiterale.

Spiritualità è parola magica per alcuni; essa sembra racchiudere tutto, ma quando si cerca di scendere in dettaglio allora la diversità di opinioni rischia di non far percepire l'essenza della vita nello Spirito qual è appunto la spiritualità e, di riflesso, la mistica. Il presbitero trae la linfa della sua spiritualità da ciò che egli "celebra".


(©L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010)
Caterina63
00mercoledì 18 agosto 2010 16:37

Recensione blog: Prex Eucharistica di Cesare Giraudo


Al ritorno da qualche giorno di vacanza, che - come avete notato - ha interrotto l'aggiornamento del CantualeAntonianum, mi sono imbattutto in un blog liturgico relativamente nuovo. Si tratta, nientemeno, che dello spazio virtuale gestito da Padre Cesare Giraudo, notissimo gesuita liturgista, esperto in liturgia antica e orientale.

Il suo blog si focalizza, per ora, sulle problematiche della traduzione delle preghiere eucaristiche e sul retto intendere le formule latine del Canone Romano. Un'attenzione certosina al cesellare le parole liturgiche traspare dai post finora apparsi nel blog. Molti di questi post fanno riferimento ad articoli di Giraudo apparsi in varie riviste specializzate.
 
Merita senz'altro di essere letto e tenuto d'occhio per il futuro, soprattutto in questi anni di grandi discussioni sulle traduzioni liturgiche, in attesa di avere tra le mani la Terza Edizione in Italiano del Missale Romanum. La finalità del blog, esplicitamente asserita è: "Offrire elementi di riflessione a quanti sono interessati alla tradizione/traduzione delle Preghiere Eucaristiche in ordine alla III edizione del Messale Romano-Italiano". Speriamo che chi di dovere si avvalga di questi studi, per fornirci un testo liturgico quanto mai fedele e spirtuale.

Trovate l'autorevole blog PREX EUCHARISTICA a questo indirizzo:
Caterina63
00venerdì 20 agosto 2010 10:03
I caratteri della spiritualità del prete diocesano delineati da Giovanni Colombo nel 1950

«Cristo c'è e io l'amo»
La via della perfezione sacerdotale



di mons. Inos Biffi

Tra i vari scritti in cui Giovanni Colombo - cardinale e arcivescovo - elabora ed espone la teologia e la spiritualità del sacerdote diocesano, uno dei più articolati e completi è una lezione del 1950, che, mentre illustra i caratteri della direzione spirituale del presbitero, delinea i tratti coerenti e la forma propria della sua santità.

Possiamo intanto già ricordare una preziosa osservazione di Colombo, sull'importanza di una guida spirituale nello stato sacerdotale:  "In certe ore della vita, poi, o di fronte a decisioni irrevocabili da prendere, o in mezzo a un'improvvisa tempesta, o nello strazio di un grande dolore, o nell'umiliazione della propria miseria, come è rassicurante, pacificante, confortante la parola illuminata, affettuosa, autorevole di chi conosce tutte le nostre ore, anche le più indifferenti, e conosce il senso della nostra vita intera!".
Ma prosegue:  "Essere maestro dei maestri e guida delle guide, in una scienza quale è quella di fare i santi, richiede tali doti di mente, di cuore, di equilibrio, di prudenza, di esperienza, e perciò anche di età, per cui i direttori spirituali del clero non si possono improvvisare".

In ogni modo - precisa Colombo - tali direttori devono trovare i loro riferimenti e il loro obiettivo orientamento nella spiritualità sacerdotale che nasce intrinsecamente dal sacerdozio ministeriale, cioè in virtù del sacramento dell'Ordine e del carattere che esso comporta, così che "l'esigenza di perfezione" sgorga "perennemente dal carattere sacerdotale".

La perfezione del sacerdote nasce come conformità a Cristo sacerdote unico ed eterno:  contro la "falsa e perniciosa opinione" che la condizione del sacerdote ammetta "un compromesso tra santità e mondanità", si deve ritenere che "nessun obbligo alla perfezione è più stringente di quello che sorge dal sacramento dell'Ordine" e, quindi, "sia per la eminente dignità del suo carattere che lo configura a Cristo sacerdote unico ed eterno, sia per il suo ministero verso il corpo reale e il corpo mistico del Signore Gesù".

Si  tratta  di  "non  lasciar  sonnecchiare la grazia dell'Ordinazione sacerdotale".

Affermato questo, Colombo aggiunge che tale perfezione sacerdotale riceve caratteristiche e tratti proprio dalla modalità diocesana del suo esercizio. Anche se non si devono per ciò escludere, in casi singoli, forme propriamente "religiose":  "Il direttore spirituale conceda la più ampia libertà e assecondi i moti dello Spirito Santo". Ecco però, a seguire, lo schietto avvertimento:  "Con questo (...) non s'intende spingerlo ad approvare gli entusiasmi effimeri e i fervori sentimentali di certi giovani sacerdoti nell'emettere voti. Il voto è cosa molto grande e molto grave, che richiede seria ponderazione ed equilibrio. Meglio non farne, che poi trasgredirli. Non avvenga anche tra il giovane clero come tra le ragazze:  ci sono in giro assai più voti di vittima che anime veramente vittime, assai più voti di ubbidienza che spiriti veramente docili. Altrettanto si dica dell'iscrizione a Terz'Ordini o a sodalizi di perfezione".

Nessun obbligo alla perfezione "è più stringente di quello che sorge dal sacramento dell'Ordine". In particolare, la forma della perfezione a cui deve aspirare il sacerdote diocesano è logico sia quella propria del suo stato, cioè di prete "dell'ordine del vescovo", incardinato al servizio di una diocesi, in un territorio predeterminato. "Il Sacerdote, sia per la eminente dignità del suo carattere che lo configura a Cristo sacerdote unico ed eterno, sia per il suo ministero verso il corpo reale e il corpo mistico del Signore Gesù, "è obbligato a sorpassare nella virtù e nella scienza gli altri uomini, di mezzo ai quali fu scelto" (Pio XII)".

Quanto al modello sacerdotale:  esso viene riconosciuto in termini avvincenti e luminosi nella figura di Cristo. Chi in quegli anni Cinquanta fu alunno liceale di Colombo, risente come in un'eco felice le sue lezioni su Gesù Cristo, e le appassionate esortazioni alla sua imitazione e alla sua sequela, mentre ricorda i testi da lui citati, come le vite di Gesù del Lagrange, del de Grandmaison, del Lebreton, o del Mauriac. Del resto, la sua critica letteraria mirava a ricercare e ritrovare nelle opere dei vari autori - poeti o romanzieri o saggisti - o la viva presenza, o la cocente nostalgia, o la tragica assenza di Gesù Cristo.

Terminando un saggio su La vedova Fioravanti di Moretti, a commento delle parole di don Dorligo, Colombo scriveva:  "Cristo c'è e io l'amo". Vi si trova la sintesi dottrinale e pedagogica del cardinale sul sacerdote, per il quale Cristo è "sentito come una persona viva, vicina, concreta".

Possiamo aggiungere, a rimarcare ulteriormente la ricchezza di questo testo di Colombo, alcune osservazioni, piene di saggezza e di delicata discrezione, che sono poi un invito ai direttori spirituali, come là dove afferma, a proposito di sacerdoti inerti e stanchi:  "Se un'affettuosa, paziente, intelligente direzione spirituale riuscisse (anche solo!), a tenerli in qualche modo ritti, sia pure su qualche binario morto, e impedire urti e deviazioni disastrose, quale incomparabile vantaggio per la Chiesa!"; aggiungendo:  "E vantaggio non minore potrebbe ottenere presso qualche sacerdote dotato di acuto ingegno, ma lampeggiante e sbilanciato; ricco di affezioni e di passioni tumultuanti e non debitamente infrenate. Nascosta tra qualità invidiabili c'è qualche tara psichica squilibratrice che fa tenere il cuore dei Superiori continuamente all'erta. Su tipi simili, spesso, più che il ragionamento o l'imposizione autoritaria o la minaccia, giova la fiducia, l'affettuosa pazienza, l'amicizia cordiale, l'interessamento e il soccorso tempestivo".

La via alla perfezione sacerdotale è quindi Gesù Cristo. "La spiritualità d'ogni sacerdote non può essere se non cristocentrica. Quella del sacerdote diocesano bisogna che lo sia, se fosse possibile in un modo più intenso e più concreto". E "quando si dice che la via della perfezione sacerdotale è Gesù Cristo, non va inteso come un complesso di verità religiose, stupende ma astratte. Gesù va inteso come veramente e interamente è:  persona viva, presente, vicina. Lo si può chiamare, certi di essere sentiti. Lo si può abbracciare nel nostro cuore, certi di non stringere un fantasma, un sogno, un ideale metafisico, ma una persona amante in carne ed ossa, in anima e divinità".

In particolare, il sacerdote coltiva la conoscenza di Cristo con "lo studio amoroso della Santa Scrittura, specialmente del Nuovo Testamento e delle più significative vite di Gesù; ecco l'approfondimento degli studi di Teologia; ecco le letture patristiche, ascetiche, mistiche, agiografiche". Solo con la lettura continuata e meditata di solide opere religiose "il sacerdote potrà dare alla propria mente una quadratura teologica e mettere nel proprio cuore la passione di una saporosa conoscenza di Gesù".
 
Celebrare con Gesù significa "consacrificarsi ogni giorno per la redenzione del mondo; pregare con Lui, significa saper dire con Lui al Padre in ogni circostanza concreta della vita:  Fiat voluntas tua". Ecco, allora, i "due segni per conoscere se il fuoco d'amore per Gesù è chiasso verboso o è fiamma reale che arde:  la preferenza assoluta su tutte le opere data alla preghiera, e l'accettazione gioiosa del sacrificio".

O dei sacrifici, che Giovanni Colombo determina come sacrifici "connessi col servizio apostolico", qualunque esso sia; connessi "con il posto assegnato e con il lavoro comandato". L'apostolato, infatti, è "una funzione gerarchica e la gerarchia assegna a ciascuno un posto e fissa un lavoro", per cui "bisogna amare il proprio posto e tenerlo fedelmente"; e, infine, "connessi con l'obbedienza quando è contraria alle proprie vedute e aspirazioni, quando falcia in fiore le iniziative più vagheggiate e coltivate".

Colombo giunge a dire che "bisogna essere convinti che certe aspirazioni buone, certe idee feconde, certe iniziative ci sono suggerite da Dio non perché le abbiamo ad attuare fino al frutto, ma perché gliele abbiamo ad offrire sull'altare dell'ubbidienza in stato di fiore. C'è più gloria di Dio, c'è più vantaggio per la Chiesa in certe nascoste e solitarie rinunce imposte dall'ubbidienza, che non in certi clamorosi successi".

Un'ultima considerazione:  "Il sacerdote con la sua opera mira a generare e a far crescere Gesù misticamente nelle anime. Perché l'opera sacerdotale possa attuare Gesù occorre che sia pura nell'intenzione e nello svolgimento:  pura da ogni ricerca del proprio io. Ci sono, infatti, delle opere che sembrano di zelo apostolico e non lo sono in realtà, o almeno non lo sono integralmente. Sono quelle opere che cercano il bene, non per amore del bene, ma per farne un piedistallo al monumento del proprio io; opere nelle quali il fine è la conquista della stima, del plauso, di un posto onorifico".

Si può convenire che queste parole vengono  da  molto  lontano;  si  sente in esse l'eco di  altri tempi e di stile desueto. Giovanni  Colombo  le scriveva oltre mezzo secolo fa.  La  questione  non  è  se  siano  ancora  di  moda - e infatti non lo sono - ma se siano vere.



(©L'Osservatore Romano - 20 agosto 2010)

Caterina63
00mercoledì 25 agosto 2010 11:48

Che cosa è un rito?



di padre Hani Bakhoum Kiroulos

ROMA, martedì, 24 agosto 2010 (ZENIT.org).- Il termine “rito” non è una innovazione della cristianità, ma è stato ripreso dalla Chiesa ed è stato utilizzato con tutta la sua ricchezza e la sua ambiguità.

Rito e liturgia

Il termine “rito” ha sempre avuto un senso religioso legato alla sfera liturgica che rimane fino ai nostri giorni. Già la Vulgata faceva di tale termine un sinonimo di cerimonia, di prescrizioni e dei costumi legati alla liturgia.

Con il “rito” la Chiesa indicava all’inizio la prassi di una certa liturgia, come il rito dell’aspersione dell’acqua o il rito di aggiungere l’acqua nel vino nella Santa Messa. Poi inizia ad indicare una cerimonia di culto, cioè tutta la funzione liturgica, come il rito del battesimo e il rito della messa ad esempio; o addirittura, indicava con il termine “rito”, l’insieme della liturgia stessa, come il rito romano, il rito ambrosiano a Milano[1].

Rito tra legge e disciplina

Alla fine del secolo XII, con Celestino III (1191- 1198), il termine “rito” viene usato per indicare l’insieme di leggi o dei costumi da rispettare e da osservare attentamente. Celestino III, infatti, impediva il mischiare dei vari riti ai Vescovi greci che cercavano di imporre l’osservanza dei loro riti e costumi al clero latino.

In seguito, il termine inizia a indicare tutta la comunità che osserva tali leggi, disciplina e liturgia. Appare, dunque, il senso di “chiesa particolare”.

Rito e chiesa particolare

Dal secolo XVII si inizia a parlare del rito Latino, del rito Armeno e del rito Greco. Appare, dunque, questo nuovo significato del termine “rito” come chiesa particolare.

La prima codificazione orientale continua ad usare il termine “rito” nei vari sensi seguendo il codice del 1917. Ad esempio, il Motu Proprio Cleri Sanctitati[2] di Pio XII nel can. 200 adopera il termine “rito” nel senso di cerimonia liturgica. Il Motu Proprio Crebrae Allatae[3], invece, nel can. 86 § 1. 2° col termine “rito” indica i fedeli che appartengono ad una chiesa particolare.

Dal Vaticano II al Codice dei Canoni delle Chiese Orientali

Il Concilio adopera il termine “rito” in due modi diversi - o per meglio dire - in due modi complementari[4]. Nel primo il Concilio Vaticano II apre una nuova dimensione al termine “rito” dandogli una nuova definizione. Nel secondo modo lo stesso Concilio adopera il termine “rito” col suo senso già ricevuto dal passato.

Da una parte il decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum[5], che è un decreto sulle Chiese Orientali, al n° 3 dà una definizione ben precisa del termine “rito”: “Queste Chiese particolari, sia dell'Oriente che dell'Occidente, sebbene siano in parte tra loro differenti in ragione dei cosiddetti riti - cioè per liturgia, per disciplina ecclesiastica e patrimonio spirituale”[6]. Si nota, dunque, che con il termine “rito” si indica l’insieme del patrimonio liturgico, disciplinare e spirituale di una chiesa particolare. Definendo così il termine “rito” il concilio prolunga il suo senso ricevuto già dal passato e attribuisce ad esso un senso canonico.

Il Concilio Vaticano II continua ad adoperare il termine “rito” indicando anche l’insieme degli atti liturgici o la loro funzione stessa, ad esempio: nel n°71 del SC[7] adopera l’espressione “rito della Confermazione”; nel n°19 del PO[8] “rito dell’Ordinazione” etc.

Dall’altra il Concilio Vaticano II adopera il termine “rito” come sinonimo di “chiesa particolare”. Infatti, il decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum, ai nn. 2, 3, 4 e, anche, nel titolo del paragrafo usa questa espressione: “Le Chiese Particolari o i Riti”. Per il Concilio Vaticano II, dunque, il termine “rito” è una espressione con cui si intende anche “la chiesa particolare”.

In seguito, il Codex Iuris Canonici[9] del 1983 semplifica la terminologia dando un solo e unico senso al termine “chiesa particolare”. Con la chiesa particolare nel Codex Iuris Canonici si intende solo la diocesi. Mentre con il termine “rito” si intendono le celebrazioni liturgiche, come è affermato dal can. 2.

Per le Chiese Orientali che sono in comunione con Roma il Codex Iuris Canonici, in diversi canoni, usa il termine “chiesa rituale sui iuris. Si nota, anche, che il Codex Iuris Canonici continua ad adoperare il termine “rito” per indicare una chiesa orientale.

Nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali il can. 28 § 1, dà una definizione ben precisa della nozione “rito”:

Il rito è il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris.

Si nota da questo canone che il rito diventa il patrimonio di un gruppo. Tale patrimonio non è comune, dunque, a tutte le chiese orientali: ciascuna ha il suo.

Il rito è un patrimonio che ha quattro elementi essenziali: liturgico e teologico, spirituale e disciplinare. Esso è deposito e totalità di una comunità religiosa nel suo insieme.

La nozione “rito”, in questo modo, riceve una ricchezza e chiarezza per la prima volta nella storia della chiesa. Diventa il modo di un popolo di vivere la propria fede.

Il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium non si ferma solo a definire la nozione “rito”, anzi, per evitare qualsiasi ambiguità, stabilisce la loro nascita e origine:

28 § 2. I riti di cui si tratta nel Codice sono, a meno che non consti altrimenti, quelli che hanno origine dalle tradizioni Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana

Cinque sono le tradizioni, le matrici, di tutti i riti. La tradizione è l’origine del rito. La stessa tradizione, addirittura, potrebbe essere l’origine di vari riti diversi.

Concludendo si nota che nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium la nozione “rito” prende il senso di patrimonio e con esso si esprime il modo di un gruppo di vivere la propria fede nella sua totalità liturgica, spirituale, culturale e disciplinare.


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1) Cfr. E. EID, Rite, Église de Droit Propre e Juridiction, in L’année canonique, 40 (1998), 7.

2) AAS, 49 (1957) 433- 600.

3) AAS, 41 (1949) 89- 117.

4) Cfr. E. EID, Rite, Église de Droit Propre e Juridiction, 9.

5  5) CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Decretum de Ecclesiis Orientalibus Catholicis, Orientalium Ecclesiarum, (21.XII. 1964), in AAS, 57 (1965), 76- 89.

6) OE 3.

7) CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Constitutio de Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, (4. XII. 1963), in AAS, 56 (1964) 97- 138.

8) CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Decretum de Presbyterorum Ministerio et Vita, Presbyterorum Ordinis, (7. XII. 1965), in AAS, 58 (1966) 991- 1204.

9) I. PAULI II PP., Codex Iuris Canonici, in AAS, 75 (1983), pars II, 1– 317.

Caterina63
00giovedì 7 ottobre 2010 19:04
La formazione liturgica dei sacerdoti

Per una celebrazione
degna e decorosa


La  missione  del  prete  nella  missione della  Chiesa  (a  cura  di  Markus Graulich e Jesu Pudumai Doss, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 284, euro 18) è il titolo di un volume, con prefazione del cardinale Cláudio Hummes, uscito a conclusione dell'Anno sacerdotale. Pubblichiamo ampi stralci del capitolo ix, dedicato alla formazione liturgica dei presbiteri, a firma del presidente della Pontificia Accademia di Teologia.

di Manlio Sodi

Sull'onda del movimento liturgico, il xx secolo è passato alla storia come il secolo dell'Eucaristia, nel senso che la progressiva riscoperta della partecipazione ai santi misteri ha fatto sì che la loro celebrazione fosse approfondita sotto vari aspetti. La confluenza di questo fiume di idee e di eventi ha dato vita alla riforma più profonda e radicale che la storia della liturgia abbia mai conosciuto, quella voluta dal concilio Vaticano ii. Dalla Sacrosanctum concilium in poi possiamo affermare che con la riforma liturgica è stata scritta la pagina senza dubbio più ampia ed eloquente circa l'Eucaristia.

I successivi interventi non hanno fatto altro che proporre approfondimenti, precisazioni, richiami su punti specifici di teologia, di disciplina, di orientamento pastorale.

In occasione del Giovedì santo 2003 (17 aprile) Giovanni Paolo II ha pubblicato la lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia con uno scopo ben preciso:  cogliere il rapporto tra Eucaristia e Chiesa per trarre alcune conclusioni in modo che proprio dalla celebrazione dell'Eucaristia emerga più chiaro ed eloquente il volto della Chiesa. Tra i vari aspetti trattati, il capitolo v si sofferma sul "decoro della celebrazione eucaristica". Perché questa attenzione attorno a ciò che di più prezioso la Chiesa ha "nel suo cammino nella storia" (n. 9)?

Il n. 47 dell'enciclica introduce la riflessione sul decoro della celebrazione rifacendosi a quanto avvenuto negli ultimi giorni immediatamente precedenti la passione e morte del Cristo Signore. I riferimenti all'unzione di Betania e all'impegno di preparare accuratamente una grande sala necessaria per consumare la cena pasquale danno l'avvio alla comprensione - ma prima ancora al fondamento - di quel criterio che è stato e sta alla base dello stile della Chiesa la quale "si è sentita spinta lungo i secoli e nell'avvicendarsi delle culture a celebrare l'Eucaristia in un "contesto" degno di così grande Mistero" (n. 48) perché "l'Eucaristia è un dono troppo grande per sopportare ambiguità e diminuzioni" (n. 10).

E lo ha sempre fatto lasciandosi guidare da una mens che l'enciclica precisa subito dopo. Se la logica del "convito" ispira familiarità, la Chiesa non ha mai ceduto alla tentazione di banalizzare questa "dimestichezza" col suo Sposo dimenticando che Egli è anche il suo Signore e che il "convito" resta pur sempre un convito sacrificale, segnato dal sangue versato sul Golgota.

La celebrazione è un evento in cui, nella logica del memoriale e per la potenza dello Spirito Santo, è reso attualmente presente - "una specialissima presenza" (n. 15) - il sacrificio unico di Cristo redentore.

Preparazione e formazione danno vita ad un atteggiamento:  quello tipico di colui che accosta il libro liturgico come strumento per la celebrazione e per la vita, in modo che la celebrazione sia un'esperienza sempre più piena della vita del Risorto.

È decorosa e degna una celebrazione quando i riti di initio rispecchiano il loro compito di "introdurre" e non si prolungano in modo eccessivo, tale da togliere equilibrio e proporzione agli altri momenti. L'animazione ha un ruolo determinante perché tutto possa essere concentrato sull'elemento più importante costituito dalla orazione "colletta".

È decorosa e degna una celebrazione quando i vari elementi della Liturgia della Parola sono vissuti in modo da rispecchiare - e rispettare - quel movimento dialogico entro cui si muove il rapporto tra Dio e il suo popolo. Tutti questi elementi, dalla prima lettura alla preghiera dei fedeli, hanno una logica finalizzata ad un'esperienza personale e comunitaria della Parola di Dio che trova nella liturgia eucaristica la sua piena attuazione.

È decorosa e degna una celebrazione quando l'insieme della Liturgia eucaristica rispecchia in modo armonico quanto i vangeli hanno sintetizzato attraverso il "prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede..." e la liturgia eucaristica attualizza, dalla preparazione dei segni sacramentali alla partecipazione alla mensa del Corpo e Sangue di Cristo.

È decorosa e degna una celebrazione quando i riti di conclusione - pur nella loro tipica brevità - rilanciano l'esperienza del mistero celebrato perché si attualizzi nella vita, sull'esempio di Maria "donna "eucaristica"".

Gli effetti di una celebrazione decorosa e degna si tratteggiano nella vita quando:  il messaggio dell'omelia permea la formazione della coscienza e si traduce in scelte di vita; il tempo da dedicare al culto eucaristico è ricercato come spazio per una più intensa preghiera personale e come prolungamento della celebrazione; l'attenzione agli ammalati fa sì che questi non siano privi della comunione "sacramentale" attraverso il servizio dei ministri straordinari dell'Eucaristia; si aiuta il fedele a sperimentare nella Liturgia delle Ore quell'atteggiamento di rendimento di grazie e di supplica che ha il suo culmen et fons nella stessa celebrazione dell'Eucaristia; la mistica cristiana procede dall'esperienza dei santi misteri per proiettarsi e riflettersi nelle tante scelte del vivere sociale, politico, ecc.

In conclusione, la serie di queste attenzioni può essere assunta come emblematica di tanti aspetti che nel loro insieme ricordano le variegate implicanze di un celebrare con dignità e decoro. Ai richiami dell'Ecclesia de Eucharistia si uniscono le tante attese dei fedeli che si pongono dinanzi alla duplice mensa eucaristica per poter offrire la propria vita "in Spirito e verità".

Celebrare con dignità e decoro è dunque collocarsi in un atteggiamento ecclesiale che permetta di partecipare al Mistero, favorendo così una vera esperienza mistica. A questo traguardo è possibile giungere qualora si faciliti la conoscenza e la valorizzazione di tutti quei linguaggi - sono più variegati e completi che l'esperienza cristiana possa offrire - che sono "propri" della celebrazione, e che sono volti a "evocare e sottolineare la grandezza dell'evento celebrato".

Educare alla logica e ai contenuti di tali linguaggi è la sfida che interpella la formazione a diversi livelli di competenza:  dalla formazione liturgica dei futuri presbiteri a quella dei vari animatori della comunità, come frutto anche di un metodo teologico qual è quello delineato in Optatam totius 16. Quel dettato conciliare, che attende ancora di essere assimilato e attuato, racchiude e rilancia una proposta di sintesi che quando comincerà ad essere patrimonio della cultura teologica e della formazione pastorale e catechetica si rivelerà come autentica carta vincente in ordine a una vita eucaristica.

Il risultato non sarà tanto da intravedere in una celebrazione ancora più decorosa e degna, ma in un'azione liturgica che mentre sintetizza con il suo linguaggio simbolico la vita del fedele orientata alla Pasqua di Gesù Cristo, dà adito a un linguaggio teologico che crea sintesi tra lex credendi e lex vivendi attraverso e nel contesto della lex orandi. E in questa logica che l'Ecclesia continuerà a svilupparsi nel tempo perché paschali nascitur de mysterio e de Eucharistia vivit!

Quale lectio, dunque, per l'oggi e per il domani? I documenti del Vaticano ii, a partire dalla Sacrosanctum concilium e dalla Lumen gentium, hanno richiamato in più occasioni gli elementi che denotano l'identità del presbitero. Documenti successivi, sia a livello di Chiesa universale che di Chiese locali, hanno contribuito a mettere a fuoco tale identità.

In questo contesto anche nel nostro tempo si percepisce l'urgenza di una ecclesiologia del ministero ordinato, che aiuti a cogliere l'essenza di una missione che risulta essenzialmente radicata sul rapporto tra Cristo e il suo popolo attraverso la mediazione del presbitero.

La differenza tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale richiede di essere frequentemente sottolineata perché è nell'equilibrio delle due identità che si coglie la distinzione e insieme la reciprocità. Non confusione di ruoli dunque, ma fusione di intenti per lo sviluppo della comunità. Anche a questo riguardo la lezione proviene soprattutto dall'orizzonte della Lumen gentium accostata in parallelo con quanto racchiude il Pontificale Romanum nel De ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (29 giugno 1989).

Né psicologo né manager del sacro, ma "mezzo" per l'azione salvifica del Cristo. Può essere un titolo per attirare l'attenzione; di fatto è una sintesi che invita a considerare l'essenza della missione del presbitero. Da dove trae la linfa la spiritualità del presbitero? Da ciò che egli "celebra":  è dall'esperienza vitale delle singole celebrazioni che il presbitero trae quell'alimento che gli permette di vivere costantemente nel "clima" spirituale costituito dal fatto che è lo Spirito il principale "attore" di ogni azione liturgica. Modello è il Cristo; la conformazione alla Sua immagine è dono dello Spirito perché sia resa gloria e onore al Padre. E il segreto per essere maestri di vita spirituale a partire da una "presidenza" liturgica compiuta con diligenza, dignità e decoro.


(©L'Osservatore Romano - 8 ottobre 2010)
Caterina63
00giovedì 14 ottobre 2010 10:31

Le leggi son, ma chi pon mano ad elle (il caso della Messa nuova in latino)

Si diceva in un precedente post che nella Chiesa il diritto, la certezza della legge, il rispetto dei testi è aleatorio ed è una variabile dipendente dalle preferenze 'ideologiche' di chi deve applicare quei documenti. Eccone una dimostrazione, che dà il sempre attento Cantuale Antonianum, inerente la celebrazione in latino del Messale e dell'Officio riformati.
Enrico


C'è il diritto di celebrare in Latino, ma spesso - in certe chiese - è impossibile farlo, perchè nemmeno si trova il Messale in latino! Paolo VI aveva pensato anche al cosiddetto Missale Parvum, un riassuntino minuscolo di messale latino per i sacerdoti in viaggio: agile fascicolo con l'ordinario della Messa e poche celebrazioni proprie adatte ad ogni tempo liturgico o occasione. Risultato? Io non l'ho mai visto se non in libreria e in biblioteca. In sacrestia o tra i libri di un sacerdote è introvabile, nonostante un'istruzione della CEI, che riporta delle precisazioni sui "Principi e Norme" per la celebrazione, ricorda al n, 12 che almeno: "Ogni chiesa abbia a disposizione la forma abbreviata del Messale latino: «Missale parvum»".

Redemptionis Sacramentum 112 approfondisce il canone citato sopra e afferma: "La Messa si celebra o in lingua latina o in altra lingua, purché si faccia ricorso a testi liturgici approvati a norma del diritto. Salvo le celebrazioni della Messa che devono essere svolte nella lingua del popolo secondo gli orari e i tempi stabiliti dall’autorità ecclesiastica, è consentito sempre e ovunque ai Sacerdoti celebrare in latino".

Anzi, il prete che celebra l'Ufficio divino e la santa Messa "sine populo" (e per i religiosi la messa conventuale), secondo il Concilio Vaticano II (e Paolo VI) sarebbe ancor oggi tenuto a celebrare in latino, non in lingua vernacola, non essendoci motivi pastorali per sostituire, in quei casi, la lingua ufficiale con un'altra. Recita infatti il numero 54 della Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium: "Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua nazionale...". Non dice: "in tutte le messe si sostituisca il latino", ma solo che nelle messe "cum populo" si può - per motivi pastorali - usare la lingua parlata.

La Congregazione per l'educazione cattolica ha sempre ribadito che il sacerdote deve conoscere, almeno in modo generale, la lingua del suo rito. Così recita la disattesa Istruzione In ecclesiasticam futurorum del 1979: n. 19 "È particolarmente utile per gli alunni la dimestichezza con la lingua latina e con il canto gregoriano. Infatti, non solo deve essere conservata per i fedeli questa possibilità — prevista dal Concilio Vaticano II (cf. SC 54) — di pregare e cantare comunitariamente in latino nelle grandi assemblee, ma conviene che i futuri sacerdoti si radichino più profondamente nella tradizione della Chiesa orante, conoscano il senso genuino dei testi e perciò sappiano spiegare le versioni in lingue moderne, confrontandole con il testo originale". I rettori dei seminari pensano: "bubbole, meglio la psicologia e la sociologia della liturgia".

A proposito, poi, dei Messali bilingui. E' risaputo che i bellissimi messali detti "transitori" del 1965 (ma erano davvero transitori?) riportavano in colonne distinte le parti latine e la traduzione italiana, secondo il volere di Papa Paolo. Ma un colpo di mano del Consilium fece sì che l'edizione del Nuovo Messale del 1970 perdesse in un attimo il testo originale. In Italiano è proprio scomparso, in altre lingue - con un po' di fortuna - è finito nascosto in appendice. Scriveva in proposito Paolo Isotta, ricapitolando le tappe del misfatto sulle pagine del Corriere della sera (3/12/2008):

"Il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia trasmetteva l'ordine: «È desiderio del Santo Padre che i Messali, sia cotidiani che festivi, in edizione integrale o parziale, portino sempre a lato della versione in lingua vernacola il testo latino, su doppia colonna o a pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati, a tenore dell'Istruzione Inter Oecumenici del 26 settembre 1964 e del Decreto della S. Congregazione dei Riti De editionibus Librorum liturgicorum del 27 gennaio 1966.

Nel 1969 Paolo VI tornava ad ordinarlo anche alla Commissione Liturgica nazionale italiana, a proposito della intraprendenda traduzione, nel momento ove doveva addentrarsi essa «nell'augusto, austero, sacro, venerando, tremendo recinto delle Preci Eucaristiche», che costituiscono il cuore della Messa, il momento della consacrazione del Pane e del Vino. Innanzi alla metastasi inarrestabile delle traduzioni-interpretazioni dovette intervenire nel 1974 la Congregazione per la Dottrina della Fede stabilendo che «il significato da intendersi per esse è, nella mente della Chiesa, quello espresso dall'originale senso latino».

Risultato: l'originale latino disparve, impedendo così a sacerdoti e studiosi d'intendere l'autentico significato del testo tradotto. L'elenco dei fraintendimenti commessi per malizia e, o, ignoranza comprenderebbe molti tomi".

Ma adesso, se i nostri solertissimi Vescovi si degneranno - dopo più di 10 anni - di mettere mano definitivamente alla versione della Terza edizione del Messale di Paolo VI, avremo una nuova possibilità di vedere esauditi i desideri dell'Augusto pontefice riformatore, e chissà, potremo forse tenere tra le mani un tomo comprensivo del testo originale, stampato almeno su una colonnina laterale. Utopia e fantasia, sento dire. Eppure i miracoli accadono.

Caterina63
00venerdì 29 ottobre 2010 23:04

La centralità della Consacrazione



di Enrico Finotti
 
– Per Consacrazione si intende quel piccolo ‘insieme rituale’ che avvolge le parole del Signore e che si è costituito come un complesso singolare con una propria definizione, posto nel cuore della prece eucaristica, comeculmen et fons della prece stessa.

La liturgia romana, infatti, prevede che, giunti alla soglia della Consacrazione subentrino delle precise modalità rituali che avvolgendo e compenetrando l’atto consacratorio lo elevano alquanto, quale momento proprio  del compimento del grande Mistero. Per questo il sacerdote: – sospende il ritmo celebrativo – muta il tipo di linguaggio passando dal genere narrativo al genere performativo – si inchina leggermente nel pronunziare le parole del Signore – le pronunzia con chiarezza, dignità e somma pietà – eleva le sacre specie e le adora genuflettendo. Questa ritualità mira ad affermare che ciò che le parole del Signore esprimono, qui ed ora lo realizzano.

Tutto questo sembra oggi costituire difficoltà e non è infrequente assistere alla quasi scomparsa del rito della Consacrazione, cuore del divin Sacrificio. Si notano riti consacratori furtivi, veloci, senza alcuna sospensione rituale, senza mutamento del tono di voce e con una notevole semplificazione degli atti adoranti connessi. Si percepisce insomma un diffuso disagio nel consacrare e una incertezza o comunque perplessità nel porre con dignità, calma e stile i riti consacratori stabiliti. Si nota così una certa schizofrenia tra il senso del mistero che pure incombe e la mentalità prevalente che tende alla sua obliterazione o comunque alla sua riduzione. L’incertezza del sacerdote poi si trasmette nei fedeli presenti e il popolo non coglie più in modo netto quello che succede: se ci si trova davanti ad un evento reale oppure ad un venerabile racconto?

Il problema, di non poco conto, si deve risolvere alla radice, considerando anche i limiti dei presupposti teologici oggi alquanto diffusi. Infatti, nel dibattito postconciliare riguardo alla riforma liturgica si sono evidenziate due considerazioni vere:

1. Nei primi secoli l’intera Prece eucaristica era ritenuta consacratoria, senza preoccupazione del momento preciso in cui la transustanziazione si realizzava. Naturalmente non mancarono mai testimonianze chiare sul valore determinante delle parole del Signore nell’attuazione del Mistero.

2. Il confronto con la tradizione orientale ha portato positivamente a considerare l’importanza dell’invocazione dello Spirito Santo (epiclesi), che l’Oriente ritiene formalmente essenziale alla ‘metabolizzazione’ delle specie.

Questi dati sono certo preziosi e utili per assicurare aspetti teologici e liturgici di alto profilo. Infatti, l’unità e la sacralità dell’intero Canone e la forza dell’Epiclesi sono riscoperte preziose e non più rinunciabili. Tuttavia anche la tradizione occidentale ha fatto progressi teologici importanti e altrettanto irrinunciabili: l’individuazione delle parole del Signore come forma essenziale dell’Eucaristia e la loro valenza epicletica in quanto esse stesse pervase dalla potenza dello Spirito Santo.

I pronunciamenti del Magistero della Chiesa in tal senso sono molteplici e certi. Prescindere dalla tradizione latina per un ritorno archeologico ai primi secoli o per un allineamento con la tradizione orientale non è saggio e non apporta alcun vero arricchimento né alla teologia, né all’ecumenismo, ma piuttosto sarebbe un impoverimento sui due fronti. Occorre allora accogliere di buon grado la scelta della tradizione liturgica romana ed interpretarla con coerenza celebrando con precisione e convinzione i riti che la esprimono.

E’ allora necessario riscoprire la bellezza della‘grande forma’ della Consacrazione per conferire splendore liturgico al grande momento ed imprimere con una forza singolare quel senso adorante e sacrificale che oggi è debole e che una vera arte del celebrare, fedele alle indicazioni liturgiche, è in grado di suscitare.
 

©© 2010 liturgiaculmenetfons.it – (qui l’articolo correlato di don Finotti, “lIl valore dell’elevazione eucaristica”)

Caterina63
00venerdì 29 ottobre 2010 23:10

Benedetto e Gregorio: le colonne della liturgia latina


di Enrico Finotti
 
- Fin dai primissimi tempi la liturgia della Chiesa si espresse in due forme, tra loro connesse, in modo che l’una sia l’estensione e l’approfondimento dell’altra. Si tratta della liturgia ordinaria del popolo di Dio e, al suo interno, quella più specifica degli asceti e delle vergini. La prima celebra i divini misteri nel tessuto della vita di ogni giorno, seguendo i ritmi e le situazioni in cui si trova la comunità cristiana, l’altra prepara e prolunga nei tempi e approfondisce nei contenuti i misteri celebrati nella riunione domenicale e feriale, che tutti accomuna.

Questa due modalità, che rispondono a specifiche sensibilità spirituali e a diversa disponibilità di tempo e di lavoro, convivono dentro la comunità cristiana e si intrecciano, come espressioni legittime e complementari della liturgia quotidiana e settimanale della Chiesa locale. In tal modo l’intera assemblea liturgia riceve permanentemente il beneficio e la testimonianza di una dedizione cultuale più intensa ed estesa, a contatto con la vita della comunità, che gli asceti offrivano a Dio per il bene e il progresso di tutti i fratelli nella fede. Essi, infatti, anticipavano nella lode e nella meditazione, la convocazione di tutto il popolo con i suoi pastori, e la estendevano poi in altre ore del giorno e della notte, impossibili a chi viveva nei normali ritmi giornalieri. Gli asceti e le vergini non vivevano quindi da estranei alla loro comunità cristiana, ma erano pienamente inseriti in essa e stavano in primo piano nella comune celebrazione dei divini Misteri, dai quali i fedeli laici attingevano la forza per il loro impegno secolare e gli asceti la luce per una vita spirituale più intensa e fervente.

Con l’avvento della libertà religiosa queste pratiche ulteriori, che nei primi secoli erano per lo più facoltative e fatte solo dai più zelanti, ricevono una più precisa organizzazione sia nei riti, come nelle persone che le assolvono e si avviano verso una forma sempre più istituzionalizzata. Questa situazione, più evoluta, è già evidente nella Chiesa di Gerusalemme del IV secolo, secondo il noto diario della pellegrina spagnola Egeria.

Ebbene, queste due diverse intensità nell’esercizio del culto sono all’origine della due fondamentali forme liturgiche, comuni in Oriente e in Occidente, designate oggi come: la liturgia cattedrale e la liturgia monastica. La prima scaturisce dal modulo tipico dei riti rivolti all’assemblea di tutto il popolo, la seconda deriva da quelle forme supplementari, consentite solo ad alcuni, gli asceti e le vergini. Un esempio di composizione di queste due forme lo si può individuare nella Liturgia delle Ore, dove, le Lodi, i Vespri e la Veglia domenicale, si ritengono appartenenti all’antico ufficio cattedrale, mentre le Ore minori diurne (terza, sesta, nona compieta) e l’Ufficio notturno feriale si configurano come sviluppi successivi dell’Ufficiatura monastica (1).

In seguito, con la nascita e la crescente affermazione del monachesimo e soprattutto col passaggio dalla forma eremitica a quella cenobitica, la liturgia monastica tende a separarsi notevolmente dal seno della Chiesa locale e ad esprimersi sempre più in ambienti diversi e con forme proprie, più consone al carisma specificatamente contemplativo. Si giungerà così, nell’alto medioevo, alla realizzazione matura di quelli che saranno i due luoghi precipui della vita della Chiesa e dell’irradiazione evangelica: la città con la liturgia della sua cattedrale e il monastero con la liturgia abbaziale. Qui le due forme liturgiche potranno percorrere strade distinte in strutture rispettivamente più adatte e con un diverso tipo di assemblea liturgica: quella del popolo e quella dei monaci. Questa opportunità consentirà alle due forme – cattedrale e monastica – di raggiungere una maggiore identità e di esprimersi con una propria genialità, ma produrrà anche una più profonda divaricazione tra monaci e laici.

In questo quadro storico i due grandi, Benedetto e Gregorio, emergono quali personalità rappresentative delle due forme liturgiche: Benedetto è il simbolo della liturgia monastica, Gregorio è il simbolo della liturgia cattedrale.

In verità essi assurgono anche ad essere i paladini dell’intera vita ecclesiale dell’Occidente. Infatti, la loro persona è strettamente collegata alle due Regole, che essi hanno donato alla Chiesa. La Regola monastica di san Benedetto organizza il monachesimo occidentale e pone le basi costitutive delle abbazie; La Regola pastorale di san Gregorio Magno, imposta la pastorale occidentale e pone le basi della vita diocesana e dei suoi pastori.

La liturgia monastica, in primo luogo, privilegia il monito evangelico del pregare incessantemente (1 Ts 5,17) e si impegna ad una assolvenza tendenzialmente piena dell’intero salterio e di un più ampio lezionario biblico. Ciò è reso possibile da un regime di vita consono alla contemplazione, diurna e notturna, e si può realizzare solo in ambienti adatti a questo scopo, col supporto di una comunità che condivida preghiera, lavoro e riposo. Gli Angeli che contemplano sempre il volto di Dio ne sono icona e la vita celeste ne è modello.

L’intimità totale con Dio e l’olocausto della verginità, la fusione sinfonica nella comunità, unita all’abnegazione di se stessi, delineano il cuore del monaco e offrono il clima spirituale più idoneo per l’attuazione del canto corale e regolare delle lodi divine. Soprattutto dopo la fine della grandi persecuzioni si sentì l’esigenza di non rinunciare a quella radicalità evangelica che era caratteristica delle origini eroiche del cristianesimo e, di fronte all’inevitabile allentamento della preghiera in un popolo cristiano sempre più numeroso, ma con conversioni talvolta sommarie, si intese conservare la generosità degli inizi con una vigorosa proposta esistenziale, che tenesse vivo lo spirito della primitiva comunità cristiana. In tal senso la liturgia monastica, in tutte le sue variabili, costituisce un bacino di spiritualità irrinunciabile per la santità e l’elevazione qualitativa dell’intero popolo di Dio. San Benedetto è l’interprete insuperato della liturgia monastica occidentale e il suo carisma è descritto con rara eloquenza in uno dei responsori più belli dell’Ufficio Romano, che si canta proprio nella sua festa dell’11 luglio:

San Benedetto, lasciando la casa e l’eredità paterna per essere gradito a Dio, si consacrò interamente a lui nella vita monastica.

* Abitò solo con se stesso, sotto gli occhi di colui che vede tutto.

Si ritirò dal mondo, con l’ignoranza di chi sa troppo bene, e con la sapienza di chi non vuol sapere.

* Abitò solo con se stesso, sotto gli occhi di colui che vede tutto (2)

La liturgia cattedrale, invece, si cura prevalentemente di introdurre il popolo nei misteri e di disporlo a riceverne con frutto la grazia. Elevare il popolo alla liturgia e portare la liturgia al popolo è la preoccupazione del pastore. Il popolo nella sua globalità e nelle situazioni ordinarie di vita è il referente fondamentale di questa forma liturgica. E il genio specifico del pastore vigilante sta nel coniugare con equilibrio l’integrità del mistero con la sua trasmissione, senza ridurre o eliminare uno dei due termini. L’intento pastorale ricerca nella continuità della tradizione l’impiego migliore di formule, preci, simboli e riti verificando con responsabilità e competenza la loro abilità a comunicare quella grazia, che devono poter esprimere in modo adeguato.

Per questo la liturgia cattedrale tende ad essere breve, incisiva, semplice, elastica. Essa segue il ritmo diversificato delle categorie comuni dei cristiani, che vivono nella società e sono impegnati nel lavoro quotidiano. Tuttavia non è priva di fascino, di sacralità e di solennità, come dimostra la liturgia della Chiesa Romana, che da sempre si esprime con riti brevi, lineari, nobili e solenni. E’, infatti, la nobile semplicità (SC 34) (3) il carisma di questa Chiesa con la quale tutte le Chiese devono concordare. E dalla nobiltà della forma romana spira un senso del sacro essenziale ed eccelso e, proprio per questo, incisivo nella pastorale. San Gregorio Magno è il modello della liturgia cattedrale romana. Egli, come risulta dal suo Sacramentario, ha fatto sintesi delle migliori tradizioni liturgiche precedenti e, da buon pastore, ha consegnato al suo popolo una liturgia capace di coinvolgerlo con efficacia nei misteri salvifici.
 
La sua opera liturgica ebbe una tale diffusione e una così vasta recezione nella Chiesa latina da varcare i secoli, fino a giungere ai nostri tempi. Il suo genio pastorale lo raccomanda quale referente per ogni successiva riforma della liturgia, che, mediante uno sviluppo organico dell’ininterrotta Tradizione, immette nel popolo cristiano, che si diversifica nelle culture, quell’unica energia divina che non può mai essere corrotta. Anche Gregorio trova nel meraviglioso responsorio della sua memoria liturgica del 3 settembre, una mirabile sintesi dell’intera sua opera pastorale e in particolare del suo splendido genio liturgico:

Dalle profondità delle Scritture trasse norme di azione e contemplazione, e immise nella vita del popolo l’acqua viva del Vangelo.

* La sua voce continua a risuonare nella Chiesa.

Come aquila colse dall’alto il senso delle cose; con la forza della carità provvide agli umili e ai grandi.

* La sua voce continua a risuonare nella Chiesa (4).

Il mutuo legame tra le due forme liturgiche – cattedrale e monastica – è ancora assicurato da Gregorio e Benedetto. Infatti, Benedetto – monaco – assume come base liturgica per le sue comunità monastiche il rito dell’Urbe – sicut psallit Eccelsia Romana – e così salva la forma romana antica e classica e la trasmette ai posteri. Gregorio – vescovo – adatta alle esigenze del suo popolo la liturgia di sempre, ma sempre col cuore legato al monastero e con un continuo riferimento alla sua personale esperienza di monaco. In tal modo, né manca a Benedetto la comunione con la liturgia cattedrale, né manca a Gregorio la comunione con la liturgia monastica.

Si ritorna così a quel nesso indissolubile delle origini, quando popolo e asceti, condividevano nell’unica Chiesa locale le due anime della liturgia. Un legame che mai dovrebbe essere perduto per l’edificazione dell’unico popolo di Dio. Benedetto e Gregorio, non solo affermano la legittimità e la ricchezza delle due forme liturgiche, ma al contempo ne proclamano l’unità indissolubile e il comune orientamento al servizio dell’unica Chiesa di Dio.

Il carisma gregoriano continua nella Chiesa in eminenti figure di Pontefici, che hanno saputo, come san Gregorio Magno, adattare le forme variabili dell’unica liturgia, alle diverse situazioni dei tempi e dei popoli. Pontefici come, san Pio V, san Pio X, Pio XII e Paolo VI – per ricordare i più recenti – non sono che la continuità nel tempo della Chiesa delle cure soprannaturali che il Pastore divino esercita continuamente per la salvezza del suo popolo. In essi si è manifestato il carisma del grande Gregorio e per essi la Liturgia è apparsa in tutta la sua perenne vitalità.

Scrutandola nelle profondità del suo mistero, colsero dall’alto il senso delle cose e, con opportune riforme, immisero nella vita del popolo del loro tempo l’acqua viva del Vangelo. Infatti, gli interventi liturgici di tutti i grandi Papi riformatori furono fondamentalmente a carattere pastorale e possono venir riassunti nel principio, auspicato da san Pio X, che ispira e consacra il movimento liturgico: “Essendo Nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca in tutti i modi e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima ed indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa” (Motu proprio: ‘Tra le sollecitudini’’, 22 novembre 1903).

Gli interventi legittimi di tutti i Romani Pontefici non possono essere considerati alla stregua di operazioni private, per quanto qualificate, ma sono atti del supremo Magistero della Chiesa e quindi devono essere assunti con spirito religioso in quel cammino di continuità e di organico sviluppo, che, sotto la guida dello Spirito Santo, informa e sospinge l’intera vita della Chiesa. Qualora venisse meno questa visione di fede, crollerebbe la natura stessa del vivere
in Ecclesia e cum Ecclesia. Non può perciò essere giustificata in alcun modo alcuna scelta difforme dalla comunione gerarchica (Lumen gentium 21), né in senso ‘tradizionalista’, né in senso ‘progressista’.

Ma sarà soprattutto il Servo di Dio Paolo VI, che, per decreto del Concilio Ecumenico Vaticano II, darà un’attuazione del tutto singolare al carisma gregoriano in ordine alla riforma generale della Liturgia Romana. Egli in continuità col pensiero maturato nel movimento liturgico ed espresso da Pio XII al Primo Congresso Internazionale di Liturgia Pastorale tenuto in Assisi il 22 settembre 1956 – “Il movimento liturgico è in tal modo apparso come un segno delle disposizioni provvidenziali di Dio riguardo al tempo presente, come un passaggio dello Spirito Santo nella sua Chiesa, miranti ad avvicinare sempre più gli uomini ai misteri della fede e alle ricchezze della grazia, che hanno la loro sorgente nella partecipazione attiva dei fedeli alla vita liturgica” – realizzerà la riforma liturgica più vasta e organica che mai prima fosse stata compiuta. In lui risplende una grande sintesi – non ancora possibile nei secoli precedenti – dell’intero arco della storia della liturgia a partire dalle fonti più antiche; i riti e le preci riprendono l’equilibrio e la semplicità degli inizi; ed in linea con le migliori epoche creative dei grandi complessi rituali classici, offre un nuovo e considerevole apporto eucologico, che, coerente con la Tradizione, integra gli sviluppi dottrinali degli ultimi secoli nella prospettiva teologica del Concilio Ecumenico Vaticano II.

L’intento pastorale di Gregorio risplende anche in Benedetto XVI, che non vuole che nulla di ciò che è vero, nobile, giusto… e merita lode (Fil 4, ) ed è valido nella tradizione liturgica secolare della Chiesa, vada perduto, e ci richiama al detto evangelico: «… ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52).


Note

1 RIGHETTI, M., Storia liturgica, ed. Ancora, 1969, vol. II, p. 605: “…alla fine del IV secolo vediamo organizzato presso le principali Comunità un duplice servizio ecologico o Cursus: il Cursus secolare, che comprende una ufficiatura quotidiana vespertina e mattutina, più una vigilia ad galli tantum nella tarda notte di ogni domenica; e un Cursus semiofficiale, che comprende la veglia notturna feriale quotidiana e le tre ore diurne a terza, sesta, nona. Di essi, il primo, universalmente praticato e seguito dal clero e dal popolo, asceti compresi, rappresenta il servizio ecologico liturgico ordinario delle Chiese (cursus cathedralis); il secondo, limitato al ceto degli asceti d’ambo i sessi (monaci, vergini), è lo sviluppo paraliturgico di quella preghiera privata, diurna e notturna, propria, come dicemmo, delle anime particolarmente consacrate al servizio di Dio entro o fuori le mura di un monastero (cursus monasticus)”.

2 SAN BENEDETTO, ABATE E PATRONO D’EUROPA, festa 11 luglio., Uff. di lett. resp. II

3 “I riti splendano per nobile semplicità, siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni, siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34).


4 SAN GREGORIO MAGNO, memoria 3 sett., Uff. di lett. resp. II

Tratto da “La centralità della liturgia nella storia della salvezza – Le sorti dell’uomo e del mondo tra il primato della Liturgia e il suo crollo” edizioni Fede &Cultura 2009, pagg. 96-102.

Caterina63
00mercoledì 10 novembre 2010 11:47

La liturgia nel Santuario celeste e nel tempo della Chiesa

di Enrico Finotti

- La perfetta Liturgia, celebrata sulla terra dall’uomo-Dio nel suo Sacrificio pasquale, una volta per sempre, continua perennemente ad essere presentata, davanti al trono della divina Maestà, sull’altare d’oro del cielo, dal Signore risorto e glorificato:

Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato (Ap 5, 6).

“…noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della maestà nei cieli, ministro del santuario e della vera tenda che il Signore, e non un uomo, ha costruito” (Eb 8, 1-2).

Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli; egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso. La legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti all’umana debolezza, ma la parola del giuramento, posteriore alla legge, costituisce il Figlio che è stato reso perfetto in eterno” (Eb 7, 26-28).

Questa medesima Liturgia, che è officiata nel santuario del cielo, si compie contemporaneamente sugli altari della terra, nel tempo della Chiesa, fino alla fine dei secoli. E’ l’unica Liturgia, che si svolge in cielo e in terra, presieduta dall’unico Sommo Sacerdote, Cristo Gesù, che offre l’unico e identico Sacrificio, consumato sulla Croce. Ma mentre nel cielo si celebra nella luce, nella gloria e nella visione beatifica tra gli Angeli e i Santi adoranti, sulla terra si compie nel mistero, è velata dai simboli sacramentali e avviene nel regime ancora oscuro della fede. E’ tuttavia l’unico servizio cultuale, ormai indefettibile e insuperabile, senza più possibilità di crollo o fallimento, ma che sulla terra attende soltanto, dopo la grande tribolazione degli ultimi tempi, la sua piena manifestazione nella potenza del Regno di Dio, continuamente invocato e atteso.

Questa Liturgia, celebrata quaggiù nella Chiesa peregrinante, è affidata dal Signore stesso al collegio dei dodici Apostoli, che ricevono, fin dall’inizio della loro chiamata, il duplice mandato:liturgicopastorale. Le medesime parole con le quali nostro Signore li sceglie e li chiama, contengono i due aspetti distinti e inseparabili nell’unità del loro ministero apostolico.

Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni” (Lc 3, 13-15).

Stare con lui è impegno liturgico di adorazione e di intimità divina; esser mandati a predicare e a scacciare i demoni è impegno regale di collaborazione con la carità di Cristo per l’edificazione della umanità rigenerata e dell’intera creazione, che riprende vita. Il mandato – liturgico e operativo – affidato in principio agli Angeli e ai progenitori, ora è nuovamente consegnato a coloro che sono le colonne della nuova creazione (Mt 19, 28) e i capostipiti del nuovo popolo di Dio. In tal modo la nuova creazione è fondata su quei due cardini sui quali fu stabilita la prima e risplendono nella Chiesa quelle due dimensioni che eternamente brillano nella SS. Trinità: la Liturgia e la Carità. Veramente si verifica nella chiamata degli apostoli la legge di sempre: si tratta di una nuova e più piena imitazione di Dio stesso, che operaadora, che contempla eama. Mediante il loro ministero, la Liturgia e la Carità divine hanno una applicazione visibile nella Chiesa e viene attuato quel culto e quella carità che hanno nella Santissima Trinità il modello supremo e la perenne sorgente, e nel duplice compito, già affidato agli Angeli e ai Progenitori, i primi anticipi.

La Liturgia apostolica, tuttavia, si specifica in relazione a Cristo, porta necessaria e scala indispensabile per ascendere a Dio e offrirgli un culto perfetto. Gli Apostoli insomma hanno ricevuto la stessa Liturgia di Cristo, il Kyrios, e non possono altro che adorare il Padre per Cristo, con Cristo e in Cristo. Essi offrono a tutte le genti la cifra segreta del culto vero e insuperabile e rivelano al mondo il nome di quell’altare, di quel sacrificio e di quel sacerdote, di fronte al quale gli Angeli si sono divisi e dal quale i Progenitori si sono allontanati.

Maria, l’immagine perfetta della Chiesa, assunta in anima e corpo nella gloria e partecipe pienamente della pasqua di Cristo, è perennemente associata alla liturgia celeste, che il Figlio eleva per sempre davanti al trono della Maestà divina. Al contempo, quale Madre amorosa, partecipa con misteriosa sollecitudine alla liturgia terrena della Chiesa, ancora in cammino verso la patria beata. Ella continua a pronunziare verso di noi e per noi quelle parole che rivolse ai servi alle nozze di Cana: “Fate quello che vi dirà” (Gv 2, 5). E così, fino alla fine del pellegrinaggio terreno e poi fin sulle soglie dell’eternità, la dolce voce della Madre ci sospinge, e si attua per gli eletti quella mirabile legge di salvezza: Per Mariam ad Jesum. La sua più grande solennità, l’Assunzione, domina sovrana nel cuore del tempo liturgico ‘della Chiesa’- il tempo per annum – per consolare il cammino dei pellegrini col fulgore della sua gloria e confortarli nell’arduo combattimento pasquale sulla via verso il cielo.

La Madre di Gesù, come in cielo, glorificata ormai nel corpo e nell’anima, è immagine e inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di certa speranza e di consolazione, fino a quando verrà il giorno del Signore” (Lumen gentium, 68).

Il crollo della Liturgia terrena alla fine dei tempi con la grande apostasia e la manifestazione dell’anticristo.

Mentre la Liturgia della Nuova ed eterna Alleanza, perennemente celebrata nei cieli dal Figlio reso perfetto in eterno e sempre vivo per intercedere per noi (Eb 7, 28. 25), non avrà più né corruzione, né fine, ma sarà eterna fonte di salvezza e beatitudine per tutti gli eletti; questa medesima Liturgia, che viene, invece, celebrata sulla terra, nel regime sacramentale della fede, è ancora esposta ai pericoli e cammina nell’insicurezza di questa valle di esilio e di pianto. Anzi, nel tempo della Chiesa si ripeterà nelle vicende della storia quel moto pendolare, che caratterizzò i secoli che precedettero la venuta del Salvatore. Il cammino accidentato del popolo di Dio vede, infatti, continuamente alternarsi i tempi felici del primato della Liturgia con quelli tristi del suo crollo. La storia della Chiesa e dell’umanità ne sono eloquente dimostrazione. Per di più il Signore stesso e tutte le Scritture ci hanno annunziato un misterioso e finale crollo della Liturgia sulla terra, al termine della storia. Saranno i tempi della grande apostasia dalla fede e della manifestazione dell’anticristo.

Quel giorno d’ira, di angoscia e di afflizione (Sof 1, 15), sarà l’ultimo e maturo frutto di quel crollo della Liturgia, che ebbe il suo esordio nel peccato originale e il suo vertice nella passione del Signore.

Il profeta Daniele ne annunziò il mistero:

Alla fine dei tempi sorgerà un re, che proferirà insulti contro l’Altissimo e distruggerà i santi dell’Altissimo; penserà di mutare i tempi e la legge; i santi gli saranno dati in mano per un tempo, più tempi e la metà di un tempo. Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente. Allora il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e obbediranno(Dan 7, 25-27).

L’apostolo Paolo lo ricorderà con estrema chiarezza:

Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è gia in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità (2 Ts 2, 1-12).

 

Ma, come nel Sacrificio pasquale del Signore si esprimevano al contempo la estrema iniquità e la perfetta giustizia e la bestemmia e l’adorazione si affrontarono in un prodigioso duello(Messale Romano, Sequenza di Pasqua), così nel lembo estremo della storia umana, alla fine del presente mondo, quando l’iniquità sembrerà trionfare definitivamente, la salvezza risplenderà pienamente. E come nella pienezza dei tempi il Signore della vita, che era morto, regnò vittorioso (Sequenza di Pasqua), così alla fine dei tempi, la Chiesa, estenuata dalla prova, sarà finalmente liberata dall’impero delle tenebre (Lc 22, 53) e dall’ombra della morte (Lc 1, 70), perché il Signore Gesù distruggerà l’iniquo con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta (2 Ts 2, ).

In quel giorno tremendo e glorioso, quando passerà il mondo presente e il Figlio dell’Uomoapparirà sulle nubi del cielo rivestito di potenza e splendore per il giudizio di tutte le genti (Mess. Rom. pref. di Avv. I/A), lo sguardo supplice degli eletti si rivolgerà alla Regina, che sta alla sua destra (sal 44, 10). L’immagine eloquente del giudizio universale nella cappella Sistina in Vaticano la dipinge avvolta nel suo manto ceruleo. Lei è l’avvocata dei peccatori e la madre di misericordia e per Lei lo sguardo severo del Giudice sarà reso benevolo verso tutti coloro che non avranno rifiutato liberamente il dono della grazia del Redentore.

Tratto da padre Enrico Finotti, La centralità della liturgia nella storia della salvezza, Edizioni Fede & Cultura presentato anche nel post precedente


Caterina63
00mercoledì 17 novembre 2010 19:32

La nobile semplicità delle vesti liturgiche


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi



di Uwe Michael Lang, C.O.*

ROMA, mercoledì, 17 novembre 2010 (ZENIT.org).- La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come «lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione. Il pensiero cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla Sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica come ausiliaria, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria teologica.

Questo insegnamento risuona nell’omelia del Santo Padre Benedetto XVI durante la Santa Messa con dedicazione della chiesa della Sagrada Familia a Barcellona (7 novembre 2010): «La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo». La bellezza divina si manifesta in modo del tutto particolare nella sacra liturgia, anche attraverso le cose materiali di cui l’uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali: l’edificio del culto, le suppellettili, le vesti, le immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse.

Va riletto in merito il quinto capitolo sul «Decoro della celebrazione liturgica» nell’ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia di Papa Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove egli afferma che Cristo stesso ha voluto un ambiente degno e decoroso per l’ultima cena, chiedendo ai discepoli di prepararla nella casa di un amico che aveva una «sala grande e addobbata» (Lc 22,12; cf. Mc 14,15). L’enciclica ricorda anche l’unctio di Betania, un evento significativo che precorse l’istituzione dell’Eucaristia (cf. Mt 26; Mc 14; Gv 12). Di fronte alla protesta di Giuda che l’unzione con olio prezioso costituisse uno «spreco» inaccettabile, viste le necessità dei poveri, Gesù, senza diminuire l’obbligo della carità concreta verso i bisognosi, dichiara il suo grande apprezzamento per l’atto della donna, perché la sua unzione anticipa «quell’onore di cui il suo corpo continuerà ad essere degno anche dopo la morte, indissolubilmente legato com’è al mistero della sua Persona» (Ecclesia de Eucharistia, n. 47). Giovanni Paolo II conclude che la Chiesa, come la donna di Betania, «non ha temuto di “sprecare”, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia» (ivi, n. 48). La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore.

In fondo, la cura attenta per le chiese e per la liturgia deve essere un’espressione dell’amore per il Signore. Anche in un luogo dove la Chiesa non ha grandi risorse materiali, non si può tralasciare questo compito. Già un papa importante del Settecento, Benedetto XIV (1740-1758) nella sua enciclica Annus qui (19 febbraio 1749), dedicata soprattutto alla musica sacra, ha esortato il suo clero affinché le chiese fossero ben tenute e dotate di tutte gli oggetti sacri necessari per la degna celebrazione della liturgia: «Teniamo a sottolineare che non parliamo della sontuosità e della magnificenza dei sacri Templi, né della preziosità delle sacre suppellettili, sapendo anche Noi che non si possono avere dappertutto. Abbiamo parlato della decenza e della pulizia che a nessuno è lecito trascurare, essendo la decenza e la pulizia compatibili con la povertà».

La Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si è pronunciata in modo simile: «Nel promuovere e favorire una autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri» (Sacrosanctum Concilium, n. 124). Questo passo si riferisce al concetto della «nobile semplicità», introdotto dalla stessa Costituzione al n. 34. Questo concetto pare originare dall’archeologo e storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), secondo il quale la scultura classica greca era caratterizzata da «nobile semplicità e quieta grandezza». All’inizio del Novecento il noto liturgista inglese Edmund Bishop (1846-1917) descriveva il «genio del Rito Romano» come contrassegnato da semplicità, sobrietà e dignità (cf. E. Bishop, Liturgica Historica, Clarendon Press, Oxford 1918, pp. 1-19). Questa descrizione non è priva di merito, ma bisogna essere attenti alla sua interpretazione: il Rito Romano è «semplice» in confronto agli altri riti storici, come quelli orientali che sono distinti da grande complessità e sontuosità. Però, la «nobile semplicità» del Rito Romano non si deve confondere con una fraintesa «povertà liturgica» ed un intellettualismo che possono condurre alla rovina della solennità, fondamento del Culto divino (cf. il contributo essenziale di san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae III, q. 64, a. 2; q. 66, a 10; q. 83, a. 4).

Da tali considerazioni risulta evidente che i paramenti sacri debbono contribuire «al decoro dell’azione sacra» (Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 335), soprattutto «nella forma e nella materia usata», ma anche, pur in modo misurato, negli ornamenti (ivi, n. 344). L’uso delle vesti liturgiche esprime l’ermeneutica della continuità, senza escludere un particolare stile storico. Benedetto XVI fornisce un modello nelle sue celebrazioni, quando indossa sia le casule di stile moderno che, in qualche occasione solenne, le pianete “classiche”, usate anche dai suoi predecessori. Così si segue l’esempio dello scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, paragonato da Gesù ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro nova et vetera (Mt 13,52).

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*Padre Uwe Michael Lang è Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

ricordiamo che:

Il Santo Padre ha nominato Consultori della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti i Reverendi don Nicola Bux e lo stesso don Mauro Gagliardi

Caterina63
00martedì 7 dicembre 2010 12:42

Durante la notte


Durante la notte, una squadra di volontari aveva ricollocato l’altare là dove era stato per secoli, tutti vecchi, giovani, donne e uomini nessuno escluso attendeva l’uscita di don Camillo. Dietro la banda, un miliardo di bambini, dietro ai bambini don Camillo che reggeva il grande Cristo crocifisso e avanzava con passo lento e sicuro. Via via che il corteo avanzava, la gente ai lati della strada si accodava. Il grande crocifisso di legno era pesante e le cinghia della tasca di cuoio che reggeva il piede della croce segava le spalle a don Camillo. E la strada era lunga.
“Signore”, sussurrò don Camillo a un certo punto “prima che mi si spacchi il cuore vorrei poter arrivare in chiesa e rivederVi là , sull’altare.”
“Ci arriveremo, don Camillo, ci arriveremo” rispose il Cristo che oramai pareva a tutti più bello.
E arrivarono.


In questo racconto di Guareschi vedo quella parte della Chiesa che insieme al Papa sta virando verso i sereni porti della Tradizione; pur con molte difficoltà, già si scorgono alcune luci della costa.
Anch’io mi sento un umile membro di questo equipaggio.

Guareschi già anticipa quello che si sta realizzando adesso, un “profeta” insomma e anche noi siamo come quella squadra di volontari che è costretta a lavorare di notte, nel silenzio, nel nascondimento, come se fossimo dei malfattori, pur di ritornare “all’altare che stava lì da secoli” …siamo un po’ come il lievito che non si vede ma che svolge il suo ruolo fondamentale o come il sale, se vogliamo rimanere in termini evangelici.

Ma il buio non ci scoraggia, perchè, nonostante le avversità che incontriamo, tutti vecchi, giovani, donne, uomini sono con noi. Ebbene si, non solo gli anziani (come molti vogliono farci credere) ma soprattutto i giovani sono la maggioranza in questa barca che è la Chiesa, che grazie al buon timoniere sta ritornando alla Fede immutata dei Padri.

E’ proprio la vista dei giovani che atterrisce quello sparuto gruppo che rema contro.

E in quel don Camillo, stanco, affaticato per il peso della Croce, da ricollocare sull’altare maggiore, vediamo il nostro Papa,che seppur sofferente “procede con passo lento ma sicuro” e ha fiducia in me, in te, in noi e come un atleta ci lascia il testimone, a noi che siamo più forti, e nel lasciarcelo sembra quasi di sentire la rassicurante voce di Nostro Signore che dice: “Ci arriveremo, ci arriveremo”.

E arriveremo. @
Ecclesia Mater


 Coraggio allora....adoperiamoci per far ritornare IL CROCEFISSO SUI NOSTRI ALTARI E NELLE CASE E NEI CUORI.....


Caterina63
00venerdì 7 gennaio 2011 12:00
Riccardo Pane
Liturgia creativa      

Considerazioni irrituali su alcune presunte applicazioni della riforma liturgica

pp. 120 - formato mm 115x190 -  € 12,00 

Se siete persuasi che la riforma liturgica del Concilio Vaticano II sia sinonimo di improvvisazione, di paramenti in poliestere, di calici di latta, di canzonette da varietà e assenza del sacro; o se siete convinti che la riforma abbia liquidato latino e gregoriano e rivoltato l’assetto architettonico delle nostre chiese, allora questo libretto riserva non poche sorprese.

Gli amanti della liturgia creativa troveranno questo testo irritante, irriverente, a tratti impertinente.

I fautori della discontinuità e di un’improbabile tenzone fra il partito di Pio V e quello di Paolo VI si accorgeranno, con sconcerto, di militare tutti dalla stessa parte: basta leggere i documenti conciliari, basta osservare le norme liturgiche, basta essere fedeli ai principi della riforma, per scoprire che non c’è stata alcuna rivoluzione. Insomma, liturgia e fantasia non fanno rima sempre...
 

Per saperne di più: http://www.esd-domenicani.it/sito/spot.asp?IDscheda=746 

Alleghiamo il Sommario, dalla cui lettura si ricava lo stile umoristico e tutt’altro che ieratico:

1 Liturgia creativa, ovvero della difficile via della fedeltà;

2 Della liturgia orizzontale, ovvero: cosa succede quando si dimentica che la liturgia è rivolta al Padre;

3 Di Marta che pretendeva di prendersi la parte migliore: ovvero cosa succede se si fraintende l’attiva partecipazione dei fedeli;

4 Della liturgia della parola: ovvero la parola di Dio ridotta ad antipasto;

5 Dell’omelia: ovvero il siparietto del prete;

6 Delle didascalie, ovvero: come la pubblicità può rovinarti il film proprio sul più bello;

7 Delle preghiere dei fedeli, ovvero: come insegnare al buon Dio a fare il suo mestiere;

8 Latine loqui, sed extra ecclesiam, Si parli pure in latino, ma non in chiesa;

9 I segni liturgici, ovvero: quando liturgia fa rima con fantasia;

10 Arte sacra e senso del sacro, ovvero: quando il pauperismo diventa virtù evangelica;

11 Della musica sacra, ovvero: quando San...Remo prende il posto di Santa Cecilia;

12 Stasera mangiamo al cinese, ovvero: il fascino dell’esotico.


Per eventuali ordini, ulteriori informazioni sui Titoli e per tutte le Novità in Catalogo, La preghiamo di accedere al nostro sito www.esd-domenicani.it
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Cordiali saluti.
 

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Caterina63
00giovedì 20 gennaio 2011 19:02

Ma perchè non educhiamo celebrando?

di don Peppino Cito e don Gaetano Luca

Interrogativo di rammarico; come dire: “peccato che non approfittiamo abbastanza del tempo celebrativo per fare educazione del popolo di Dio!”.

Ma, detto così, rischia di suonare come giudizio tutto negativo sull’impegno profuso dai pastori nell’accogliere e curare tanti fedeli praticanti che continuano ad affollare in mille circostanze diverse le loro chiese: quasi che non stessero già educando, e da sempre!

Il rammarico, in verità, ci sembra giustificato almeno da una elementare lettura “incrociata” dei fatti: quanta gente frequenta ancora i nostri appuntamenti celebrativi e quanta ignoranza religiosa alberga ancora fra gli adulti e i giovani delle nostre popolazioni tanto da legittimare, anche in campo religioso, l’espressione “analfabetismo di ritorno”. Come dire che “più li teniamo in chiesa e meno escono formati!”.

Ma… perché non educhiamo celebrando?

Interrogativo di provocazione, come dire: proviamo ad abilitarci come “educatori” nei luoghi in cui i fedeli, invece di disertare, e senza essere invitati, tanto meno costretti, ma in ragione di una educazione religiosa pregressa, continuano ad affollare le nostre chiese per ragioni in parte misteriose, in parte comprensibilissime specialmente ai teologi appassionati alla Religiosità Popolare!

Perché, dunque, non proviamo a sfruttare “pedagogicamente” i tantissimi appuntamenti liturgici ancora tanto accorsati? Dalle messe festive a quelle feriali, dalle novene ai tridui, dai funerali ai trigesimi e anniversari, dai matrimoni alle nozze d’oro e d’argento, dalle prime comunioni alle cresime, in ogni parrocchia passano ogni mese (anche più volte al mese) migliaia di fedeli per almeno 45 minuti! Non è neppure una grande trovata!

Già negli orientamenti dei primi anni del millennio i vescovi italiani affermavano:

« La celebrazione eucaristica risulterà luogo veramente significativo nell’educazione missionaria della comunità cristiana… Di qui l’urgenza di esplicitare la rilevanza della liturgia quale luogo educativo e rivelativo » (CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 49).

E i nuovi orientamenti così ribadiscono:

« La liturgia è scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto, “luogo educativo e rivelativo” in cui la fede prende forma e viene trasmessa… Tra le numerose azioni svolte dalla parrocchia, “nessuna è tanto vitale e formativa della comunità quanto la celebrazione domenicale del giorno del Signore e della sua Eucaristia” » (CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, 39).

E Benedetto XVI, proprio nel capitolo della Sacramentum Caritatis dedicato all’arte del celebrare precisa acutamente e “pedagogicamente”:

«… l’esito maturo della mistagogia è la consapevolezza che la propria esistenza viene progressivamente trasformata dai santi Misteri celebrati. Scopo di tutta l’educazione cristiana, del resto, è di formare il fedele, come “uomo nuovo”, ad una fede adulta, che lo renda capace di testimoniare nel proprio ambiente la speranza cristiana da cui è animato » (Sacramentum Caritatis, 64).

Allora, sarebbe poi così strano che, proprio nel decennio dedicato all’educare, pensiamo ad abilitarci, preti e fedeli laici, nell’arte del celebrare?
È proprio strano che questo editoriale sull’“educare celebrando” sia firmato da due direttori, quello dell’Ufficio Catechistico e quello dell’Ufficio Liturgico? 

A voi lettori la risposta. @
Ecclesia Mater

tratto da “Impegno”, periodico d’informazione della diocesi Conversano-Monopoli, anno 15, n. 10, dicembre 2010, p. 1

Caterina63
00martedì 15 marzo 2011 18:27

[SM=g1740733] Ricordando anche questo thread:
Sacerdoti....rimettete l'ABITO perchè l'occhio vuole la sua parte! 


Il significato mistico della cotta - parte prima
 
Dell'abito dei chierici.
del Ven. Jean-Jacques Olier

PARTE IIa – DELLA COTTA

Il santo vescovo, parlando dell'abito dei chierici, lo chiama l'abito della santa religione (60) come noi lo abbiamo già detto.
Questo abito significa due cose: la morte a se stesso ed al peccato, e la vi ta dedicata a Dio. «Consideratevi, – dice S. Paolo, – come morti al peccato e non vivendo più che per Dio in nostro Signore Gesù Cristo» (61).
Questo doppio stato di vita e di morte ci è comunicato nel santo battesimo, per il quale noi moriamo come Gesù e risuscitiamo come Lui alla nuova vita (62); Di ciò facciamo solenne e speciale professione nella tonsura, quando noi dichiariamo di morire al mondo ed alle creature (63) per non vivere che di Dio, della sua gloria e del servizio della sua Chiesa (64).
S. Giacomo . esprime la nostra religione in questi due effetti: Religio munda, dice egli, et inmaculata apud Deum et Patrem, haec est visitare pupillos et viduas in tribulatione eorum et inmaculatum se custodire ab hoc saeculo (65). La nostra santa religione consiste innanzi tulto nell'essere completamente morti pel mondo, di modo che nulla resti in noi delle sue macchie, della corruzione delle sue massime e della impurità del suo amore.
In secondo luogo, essa consiste nel compiere santamente le opere di carità e di vita divina, come soccorrere il prossimo nelle sue necessità, in vista di Dio, per famore del quale noi serviamo anche e soprattutto quelli da cui non possiamo aspettarci niente (66).

L'abito, come la religione, è duplice: esterno e interiore. Per essere universale, completo, la religione deve essere tale, imperocchè l'uomo è composto di corpo e di anima e deve quindi rendere palese in tutto se stesso e al di fuori e nell'intimo suo, il suo culto e la sua religione (67).
L'abito esteriore consiste dapprima nella nera sottana di cui abbiamo testè parlato che significa la morte al mondo e a tutti gli istinti, i sentimenti di Adamo, in unione con la morte e sepoltura del Figliuolo di Dio, che il chierico deve manifestare al mondo con le sue opere e con tutta la slia condotta. In secondo luogo, consiste nella cotta, che rappresenta la vita nuova di Gesù Cristo, stabilita in noi in seguito alla morte del peccato; la sua risurrezione e la sua vita divina, resa sensibile ai figli della Chiesa per mezzo della purezza, della santità e di tutte le virtù che devono risplendere nei chierici (68).
Questo abito è stato imitato da quasi tutti gli ordini, dei Carmelitani, dei frati di S. Bernardo, degli Agostiniani e dei Domenicani che hanno diviso il loro abito fra il nero e il bianco per esprimere esteriormente ciò che devono interiormente praticare, vale a dire la mortificazione della carne e la vita dello spirito (69).


Questi due santi esprimono i due principali misteri della nostra religione: San Bruno, col candore del suo abito, rappresenta la risurrezione di Nostro Signore, mentre S. Benedetto aveva dapprima raffigurato nel color nero del suo, il santo mistero della sua morte (70).
Questi due misteri e questi due stati del Figlio di Dio, esprimono nei chierici la veste talare e la cotta di cui sono rivestiti.
L'abito interiore dei chierici è Gesù Cristo stesso. Questo abito è ben diverso da quelli esteriori che non hanno che un legame morale con i corpi che ne sono rivestiti e che li coprono soltanto, senza penetrarli (71); mentre questi penetra e s'insinua nell'anima che ne è rivestita. Ed è Cristo stesso in noi, che in certo modo, si confonde con noi, riempiendoci delle sue perfezioni e della sua sostanza, compenetrandoci di tutto se stesso e manifestando in noi le sue qualità divine (72); di modo che, per mezzo della sua sostanza, si forma come una stessa cosa di lui e di noi.

È di questo abito che S. Paolo voleva fossero vestiti tutti i cristiani, quando diceva: Induimini Dominum Jesum Christum (73). Il vescovo, dando ai chierici la cotta, che rappresenta la perfezione e il compimento della nostra religione mostra loro l'impegno formale e l'obbligo speciale che hanno nel rivestirla, dicendo a ciascuno di essi: Induat te Dominus novum hominem, qui secundum Deum creatus est, in justitia et sanctilate veritatis. Il Signore ti rivesta dell'uomo nuovo, che fu creato da Dio nella vera giustizia e santità. Parole misteriose (74) che ci denotano la condotta invisibile di Dio nella sua Chiesa e la santità che Egli esige dai chierici. Per comprenderle, bisogna considerare che l'uomo, riabilitato da Gesù Cristo nel battesimo, non è conforme ad Adamo nello stato della sua innocenza, poiché questi era stato creato in uno stato di universale santità, vale a dire santo nell'anima e santo nel corpo (75).

L'uomo rinnovato e rifugiato nella Chiesa, che è il vero paradiso terrestre, non è creato in questa santità universale, ma in uno stato di santità e di giustizia, in justitia et sanctitate; di santità, perché è fatto figlio di Dio; di giustizia perché l'uomo battezzato, che porta una carne ribelle e pesante che per lui è giogo penoso e sensibilissimo peso, deve avere in sé lo spirito di zelo e di giustizia contro se stesso per castigare questa carne, per ridurla in servitù crocifiggendola con la giustizia e punendola del suo orgoglio e della sua insolenza.
Bisogna che, per virtù dello spirito di Cristo che lo anima, egli la sottometta alla legge di Dio, che la costringa, suo malgrado, a servire il prossimo, che la riduca a un totale annientamento di se stessa. In questo, il nuovo uomo differisce dall'antico che era stato creato in un tal grado di santità, che la carne e i sensi seguivano le disposizioni dello spirito, col quale vivevano in perfetta intelligenza, essendo sempre d'accordo nei loro movimenti e sempre egualmente portati ad azioni di santità e di giustizia: ciò che non avviene più nell’uomo nuovo e nei cristiani la cui carne non è santificata (76). La seconda differenza fra la santità del cristiano rinnovato e riformato in Gesù Cristo, e quella dell'uomo primitivo nello stato d'innocenza, è che la santità del cristiano lo porta senza posa a privarsi, più che può, delle creature (77) che, dopo il peccato, non gli sono che soggetti di tentazione (78) per dedicarsi a Dio con una fede pura, sciolto da ogni legame umano (79). Invece la santità del primo uomo e la grazia dell'innocenza non lo separavano in tal modo dalle creature, anzi ad esse lo avvicinavano per ammirarne le bellezze divine espresse in esse, ciò che lo innalzava a Dio, pur trattandosi di forme visibili che cadevano sotto i suoi sensi.

Questa differenza dimostra la grande purezza del nostro stato rinnovato in Gesù Cristo, che ci santifica e ci consacra al Padre in un distacco universale delle cose, dedicandoci a lui nella sua verità e scorgendolo al lume della fede pura, senza soffermarci alle esteriorità di tutto questo mondo. Sanctifica eos in veritate (80), diceva altra volta Nostro Signore al Padre suo. O Signore, santificate i servi vostri nella verità, e cioè uniteli al vostro essere divino, e non solo figuratamente come facevate altra volta (81). Poiché la religione dei veri adoratori è di adorare Dio in spirito e verità (82) e non più solamente sotto delle ombre.


NOTE

(60) Habitum sacrae religionis. Pontifical. Rom.
(6t) Existimate vos mortuos quidem esse peccato, viventes autem Deo in Christo Jesu. Rom ., 6, 11.
(62) Consepulti ei in baptismo, in quo et resurrexistis per fidem operationis Dei, qui suscitavit illum a mortuis, Coloss., 2, 12.
E se S. Benedetto, per una devozione particolare alla morte ed alla sepoltura di Gesù, si è rivestito completamente di nero, doveva nascere da lui un altro santo, l'umile san Bruno che, compiendo i disegni di Dio sul suo ordine, scelse l'abito bianco.
(63) Mortuum sibi deputet mundum, ac se mundi blandienltis illecebris exhibeat crucifixum. Jul. Pomer., de Vita Contempl., lib. 1, c. 8.
(64) Mercenarii sumus conducti… et ideo vocati a Christo, ut haec sola operemur, quae pertinent ad gloriam Dei... proximique profectum. S. Chrysost., hom. 34 oper. imp. in Matth.
(65) Jacob. 1, 27. – Visitare pupillos et viduas, etc., id est, exercere se in operibus misericordiae erga proximum, et in operibus munditiae erga seipsum. Lyran., hic. – Per sacculum, intelligit mundum et omnia quae sunt in mundo. Qui (enim) mundum diligit, immaculatum se a saeculo non custodit. Gloss.
(66) Puritas cordis in duobus consistit, in quaerenda gloria Dei, et utilitate proximi, ut in omnibus... nihil suum quaerat... sed tantum aut Dei honorem, aut salutem proximorum, aut utrumque. S. Bernard. Ep. 42, ad Henr. Sen., seu. de Offic. Episc., cap. 3, IL 10.
(67) Duplex est cultus Dei, interior et exterior. Cum enim homo sit compositus et anima et corpore, utrumque debet applicari ad colendum Deum, ut scilicet anima colat interiori cultu, et corpus exteriori. D. Thom., 1, 2, q. 101, a. 2, in corp.
(68) Ad hoc a Deo dati estis, ut depravatos mores ac leges mundi, verbo et exemplis viriiiter impugnetis. Barth. a Martyr., Stim. Past. p. 2, c. 6. –Superpelliceum primo propter sui candorem, munditiam seu puritatem castitatis designat... Tertio denotat innocentiam; et ideo ante omnes alias vestes sacras induitur; quia divino cultui deputati, innocentia vitae, cunctis virtutum actibus superpollere debent, juxta illud Psalmi: Innocentes et recti adhaeserunt mihi. Durand., Rat. divin. Offic., lib. 3, cap. 1, n. 10, 11.
(69) Visum est, ut mihi videtur, magnis Patribus illis nigrum colorem magis humilitati, magis poenitentiae, magis luctui convenire... Vestes candidas magis gloriam quam abjectionem, magis gaudium quam moerorem antiquitus designasse. Petr. Cluniac. ab. ad S. Bernard abb. Claraval., lib. 4, Ep. 17.
(70) Veteres Palres candida veste ad spiritualium genesim indicandam usi sunt; cum albus color vitae symbolum sit, et alter mortis. Vicecomes, de Baptism., lib. 5, c. 9.
(71) Vestis ad honorem et gloriam pIane sacrati sanctique generis, Christus est: atque praeclarum ac supernum sanctarum animarum ornamentum. S. Cyril. Alex., de Ador. in spirit. et verit., lib. 11, qui est de Sac.
(72) David ex persona Dei, de eis qui in ecclesiis sacerdotali munere funguntur, dicit: Sacerdotes ejus induam salutari. Paulus induere Dominum Jesum praccepit; hoc illud est de caelo habitaculum, illa exultationis tunica, et indumentum salutis. Ibid.
(73) Rom., 13, 14.
(74) Dicitur iuduere Christum qui Christum imitatur; quia sicut homo continetur vestimento, et sub ejus colore videtur, ita in eo qui Christum imitatur, opera Christi apparent. D. Thom., in Ep. ad Rom. c. 13, v. 14.
(75) Adam non opus habebat eo adjutorio quod implorant sancti in hac vita, ad quos perlinet liberationis gratia, cum dicunt: Video aliam legem in membris meis pugnantem legi mentis meae, etc., quoniam in eis caro concupiscit adversns spiritum, et spiritus adversus carnem... Ille vero nulla tali rlxa a seipso adversus seipsum tentatus atque turbatus, in illo beatitudinis loco sua secum pace fruebatur, S. Aug. de Corrept. et Grat. 11, n. 29.
(76) Byssus est genus lini candidissimi, et ad summum candorem multa vexatione et ablutione perductum. Significat autem perfectam carnis munditiam, secundum illud quod in Apocalypsi legitur; Byssus sunt justifìcationes sanctorum. Hac munditia caro sacerdotis ex se non habet; sicut nec linum ex se est candidum; sed, sicut dictum est, multis castigationibus et ablutionibus redditur candidum, ut aptum fiat indumentis pontificum. Forma est sacerdotalis munditiae, ut secundum Apostolum sacerdotes carnem suam castigent, et in servitntem redigant; at praeunte gratia habeant per industriam, quod non potuerunt habere per naturam. Ivo Carnot., de Signif. indum. sacerd., serm. 3 in Synod. – Hugo a S. Victor., de Sacram. Christi fid., lib. 2, p. 4, c. 2.
(77) Qui non renuntiat omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus. Luc., 14, 33.
(78) Creaturae Dei in odium factae sunt et in temptationem animis hominum et in muscipulum pedibus insipientium. Sap. 14, 11.
(79) Oportet Christianum, abnegato mundo, transferri ex hoc saeculo, in quo versatur animus illecebris illectus a tempore transgressionis Adam, in alterurn saeculum, et intellectu in superiori ac divino mundo versari. S. Macar., hom. 24. – Contemptu universorum Christus sequendus est. S. Hilar, in Matth. , cap. 16, n. 11.
(80) Joan. 17, 17. – In veritate, id est, in me. S. Cyril. Alex., lib., 11 in Joan. , c. 10.
(81) Sanctificantur in veritate heredes Testamenti novi, cujus veritatis umbrae fuerunt sanctifcationes veteris Testamenti, et cum sanctificantur in veritate, utique sanctificantur in Christo qui veraciter dicit Ego sum via et veritas. S. Aug., tract. 108 in Joan. n. 2.
(82) Veri adoratores adorabunt Patrem spiritu et veritate. – Joan. 4, 23.

Dell'abito dei chierici.
del Ven. Jean-Jacques Olier

PARTE IIa – DELLA COTTA
(continuazione)

Ecco quale deve essere la religione dei chierici. Tenendo gli occhi chiusi alla vanità del mondo e non soffermandosi più a guardarne tutto ciò che passa (83) essi devono contemplare la maestà di Dio quale e in se stessa; devono vedere e intrattenere il Signore come l'amico fa con l'amico (84) non considerandola più soltanto attraverso le sue figurazioni come dei servi, ma scoprendone la faccia per la nudità della fede (85) che, benché oscura, non lascia mai di mostrarcelo tale quale egli è in se stesso e ben diversamente da come lo facevano le allegorie. Questo ci avvicina maggiormente a Lui e gli procura un culto infinitamente più santo nella nostra religione.
Questa santa religione nostra, pura e immacolata, questa religione di veri adoratori è rappresentata nella cotta che il chierico porta in tutte le sue funzioni.
Questo abito indica la purezza e l'eminente santità di vita che deve avere colui che riceve la tonsura; significa il candore, l'innocenza che deve essere in lui diffusa (86); e il color bianco (87) deve rendergli ognora più presente e sensibile l'impegno preso di dedicarsi alla santità, alla perfezione della vita.
Anticamente la Chiesa seguendo il suo solito sistema di rappresentare col segno esterno e sensibile le disposizioni del cuore, rivestiva di bianco i neo-battezzati, per rappresentare la purezza e l'integrità che richiedeva la vita di cui avevano fatto professione nel battesimo (88).

Similmente, essa ricopre oggi esteriormente di una bianca cotta i chierici ammessi alla tonsura, per segnalare la santità di cui devono essere interiormente rivestiti.
Per questo inoltre, essa fa indossare ai sacri ministri, quale segno di consumata purezza un amitto e un camice che coprono completamente la testa e il corpo (89); il vescovo poi, che deve avere una santità e una pienezza di grazia ben più abbondante per sé e per gli altri, mette anche, sopra il suo camice, due tuniche, di cui l'una che lo cinge più da presso, significa che, al di sopra della comune santità ve ne deve essere una più eminente; l'altra, più ampia, esprime la santità più estesa di cui deve essere rivestito per abbracciare tutta la Chiesa (90).

La cotta, inoltre, con il suo candore, raffigura lo splendore del cielo e la magnificenza della sua gloria. Esprime questa vita divina di cui il chierico è rivestito, vita di risurrezione che è, in sostanza, la vita di purezza e di splendore di cui godono i Santi nel cielo raffigurato nella Chiesa la quale, essendo la stessa quaggiù e nel paradiso, comincia a servirsi fin d'ora di quegli ornamenti di cui essa sarà poi eternamente ricoperta (91).
Le vesti di Gesù, nella trasfigurazione, divennero bianche come neve: Vestimenta ejus facta sunt alba sicut nix (92), per esprimere la sua vita gloriosa e divina del giorno della risurrezione. Anche gli Angeli che annunciarono questo divino mistero, apparvero con delle vesti bianchissime, Quasi a significare a tutta la Chiesa quale doveva essere l'innocenza e la purezza di quelli che un giorno vi avrebbero preso parte sulla terra.

Per mezzo della bianca cotta il Vescovo esprime al chierico come la sua anima debba esser tutta ripiena di grazia, di purezza e di santità, e come non gli sia più permesso di dedicarsi ad alcun impiego secolare o profano sotto un abito di cielo (93).
Il chierico, così abbigliato, esprime che è entrato nella vita nuova, vita di risurrezione, vita divina di cui vivono nel cielo per la gloria di Dio gli angeli e i santi (94).

Questa vita divina è quella del Figlio di Dio risorto e nella quale il chierico si perde, per cantarne più che le lodi e l'amore, assimilandosi per così dire lo spirito del divin Salvatore glorioso e glorificante il Padre.
Di modo che, come nel Cielo l'occupazione del Figlio di Dio e quella di tutti gli angeli e dei beati in Cristo è di essere occupati senza posa di Dio, di contemplarlo senza interruzione, di lodarlo, amarlo continuamente, nella loro innocenza e santità, così i chierici nella Chiesa devono essere in stato di lode, d'amore e di giubilo verso Dio (95).
Una distrazione volontaria è, in riguardo alla cotta, ciò che è un moto della carne in riguardo alla veste talare. L'una macchia la cotta, come l'altro la sottana; ed entrambi profanano questo duplice segno della santa religione dei chierici (96).

Quale morte e quale vita sono quelle dei chierici! Che cosa non abbraccia questa morte e che cosa non racchiude questa vita, che penetra nell'intimo di Cristo stesso e di questa vita divina nella quale si perdono e si inabissano i santi del cielo (97) per raggiungere il culto perfetto dovuto alla maestà di Dio? Per Jesum Christum in gloriam et laudem Dei (98). Sotto la cotta appare in parte la sottana, quasi a tener presente al chierico che la morte, espressa nel colore di questa veste, non lo ha ancora del tutto consumato come lo sarà in cielo, perché la carne che lo riveste ancora, quantunque mortificata ed animata da la grazia, risente ancora della corruzione (99).
Egli deve arrossire di vergogna, nell'apparire davanti al Signore circondato da una natura di peccato (100), indegno di entrare nel santuario e in un luogo santo che rappresenta il paradiso su la terra dove nulla di macchiato può avere accesso. Egli deve tollerare la sua natura con dolore e gemere senza posa nel vedersi ad essa assoggettato necessariamente.

L'abito talare si porta in pubblico per rivelare che si è morti al mondo ;si è ricoperti della cotta in chiesa per testimoniare che si partecipa . alla santa vita della Chiesa. Si abbandona la cotta uscendo da la chiesa e rientrando nel mondo, perche questi, corrotto come è, non è degno di vedere, frammischiato alle sue vanità, l'abito della santità e della purezza di ,}I Nostro Signore che la cotta rappresenta (101).. La santa Chiesa soltanto è degna di Dio e questa dimora di santità merita, sola, di possedere Gesù Cristo (102).
Senza di essa infatti, il mondo non vedrebbe né possederebbe mai questo adorabile Salvatore (103). Ad essa dobbiamo la gioia della .sua presenza fra noi; e non c'è che la purezza, non c'è che la santità di questa dimora che siano degni di Lui.

Bisogna che portiamo delle vesti da lutto quando usciamo dalla Chiesa, vero paradiso terrestre (104) all'infuori del quale noi ci troviamo esposti ad ogni sorta di travagli e di pene. Per questo, i santi preti sono sovente afflitti lontani da questo santo luogo, mentre provano una grande gioia e una profonda pace quando vi si trovano per compiere i loro offici e le loro funzioni.


NOTE

(83) Praeterit figura hujus mundii. 1 Cor., 7, 31. – Negatur his terrena divisio, ut ipsi dum saecularem sibi non vindicant portionem, fiant caelestis possessio; vel hoc solum noverint possidere, hoc est, fidei et devotionis obsequium. S. Ambr. in Ps. 118, serm. 8, n. 5.
(84) Loquebatur autem Dominus ad Moysen facie ad faciem sicut loqui solet homo ad amicum suum. Exod., 33, 11. – Ore ad os, sicut quondam cum sancto Moyse, loquitur cum sponsa, et palam, non per aenigmata et figuras, Deum videt. S. Bern., Serm. 45 in Cant., n. 6.
(85) Fide colitur Deus, S. Aug. in expos. Ep. ad Gal., c. 3, n. 21.
(86) Mitto vobis superpelliceum novum et candidum, quod repraesentet vobis vitae novitatem et munditiae candorem. Steph. Tornac., ep. 123, ad Albin. Cardinal.
(87) Candore vestis munditia vitae significatur. Tales enim Dominum decet habere ministros, qui nullo carnis corrumpantur contagio; sed perfecta mentis et corporis castitate splendeant. Hugo a S. Victor., de Sacram. Christ. fidei, 2, p. 3, c. 11, tom 3.
S. Isid. Hispal., Offic. Eccl., t. 2, c. 8.
(88) Vestis candida traditur baptizato, ad signiflcandam puritatem vitae quam debet post baptismum observare. D. Thom. , 3 p., q. 66, a.10, ad 3.
(89) Post amictllm albam sacerdos induit, quae membris corporis convenienter apta nihil superfluum aut dissolutum in vita sacerdotis aut in ejus membris esse debere demonstrat; haec, ob speciem candoris, munditiam demonstrat. Durand., Ration. divino Offic., lib. 3, c. 3.
(90) Post albam, pontifex induit tunicam, et super lunicam dalmaticam vestit. Per tunicam virtutes intimae intelliguntur, quas semper habere debet perfectas; per dalmaticam, ampliorem quam debet habere caritatem… Et quia pontifex magis expresse gerit similitudinem Salvatoris, quam simplex sacerdos, ideo pluribus utitur ornamentis. Durand., Ration. divin. Offic. lib. 3, c. 10 et 11.
(91) Per vestimenta candida intelligimus aliquo modo decorem animarum nostrarum, scilicet gloriam immortalitatis nostrae. Durand., Rat. divin. Offic. proem., n. 6. – Vestis candida gloriae praefert indumentum. Ivo Carnot:, serm. de Sacram. Neophyt.
(92) Matth. , 17, 2.
(93) Habitus albus pertinet ad perfectos, et ad illos, qui ita, per terrenorum contemptum, ad ea quae sursum sunt elevati sunt, ut sint quasi in caelis per beatitudincm glorificati. Biblioth. Praemonst., lib. 1, c. 4, sect. 13. –Vestes candidas magis gloriam quam abjectionem designasse... et Angelus resurgentis, et Angeli ascendentis Domini praecones indicarunt: ipseque Salvator, in illa transformationis suae gloria, vestibus niveis plaeclarus apparens, ostendit. Petr. Cluniac., lib. 4, Ep. 17 ad S. Bern.
(94) Dum superpelliceum, qui amictus ex tela linea candida constat, induit (clericus), cogitet quam personam sustineat, nempe a sordibus labeque puram, qualem vestitus ille indicat. Conc. Mediol. , 5, p. 3, tit. 6, Quae ad divin. Offic. pertinent.
(95) De sacerdote omnes non quasi carne induto, et humana natura praedito, sed quasi Angelo, omni reliqua infirmitate libero, judicium ferre volunt, S. Chrysost., de Sacerd., lib. 3, cap. 14. – Sitis per Christum sensibus innovati, abjecta saeculi hujus figura; et tota inveteratae imaginis deformitate projecta formam vestram in formam vestri reducite Salvatoris: ut novitas scnsuum vestrorum in vestris actibus elucescat, et caelestis homo caelesti habitu jam gradiatur in terra. S. Petr. Chrysol., serm. 120. – Deo servite assiduis divinarum laudum officiis; et in Ecclesia, quasi perpetua vestra sacerdotali clericalique statione continenter versamini. Conc. Mediol. 4, p. 3, tit. 7, Monitiones.
(96) Sicut pretiosam vestem exigua quaevis macula turpius decolorat, nobis ad immunditiam minima qluaelibet inobedientia sufficit; nec jam naevus est, sed gravis macula. S. Bernard. de divers. serm. 17, n. 4.
(97) Vita Christi electis ejus membris applicata, vita est caelestis patriae, in qua resurrexit a mortuis, et fruitur sedens ad dexteram Dei... haud secus ac si et resuscitati et ad Dei dexteram cum illo essemus assumpti. Naclant. Episc. Clugien. in c. 1 Ep. ad Ephes.
(98) Philip., 1, 11.
(99) Scio quia non habitat in me, hoc est in carne mea, bonum. Rom. 7, 18. – Quantumlibet in hoc corpore manens profeceris, erras si vitia putas emortua, et non magis suppressa. Velis, nolis, intra fines tuos habitat Jebusaeus, subjugari potest sed non exterminari. S. Bernard., serm. 58 in Cant., n. 10.
(100) Video autem aliam legem in membris meis repugnantem legi mentis meae, et captivantem me in lege peccati, quae est in membris meis. Infelix ego homo, quis me liberabit de corpore mortis huius? Rom., 7, 23, 24.
(101) Sacris vestibus indutos extra tabernaculum videri non permittit, ne sanctificatae res, si ad impuros homines perveniant, contracta ex alienis labe, sancti tabernaculi venerationem imminuant. S. Cyril. Alex., de Ador. in spirit. et verit., lib. 12.
(102) Tabemaculum Dei in terra, Ecclesia ejus est.
S. Aug. in Ps. 41, n. 9.
(103) Candelabrum est Ecclesia quae bajulat verbum vitae. S. Chrysost. hom. 10 op. imp. in Matth., cap. 5.
(104) Ponite vobis Ecclesiam ante oculos ad instar similitudinemque paradisi. S. Àug. in Ps. 47, n. 9.

Caterina63
00martedì 5 aprile 2011 23:06

Pianete e casule rosa (IV domenica di Quaresima - Laetare)

In occasione della IV domenica di Quaresima in primavera e della III domenica di Avvento nell'autunno inoltrato la Chiesa latina "fa prendere aria" ai paramenti rosacei che si usano solo due volte all'anno. Oggi è una di queste. La domenica Laetare, dalla prima parola dell'introito della messa, viene a rallegrarci a metà cammino penitenziale verso la Pasqua, ed è sottolineata dal colore rosaceo delle vesti dei ministri.

Dico rosaceo perchè le pianete antiche, come si vede dall'esempio che posto come illustrazione, mostrano non il rosa-porcello che va oggi per la maggiore, ma un serio colore salmonato, o rosa antico, che non fa sorridere e ammiccare nessuno quando vede un sacerdote uscire dalla sagrestia in cotali paludamenti.

Le foto, come vedete, propongono una pianeta rosacea del XVIII-inizi XIX secolo (con galloncino argentato rifatto e non originale), una pianeta del 1600, con fondo rosa su cui si aprono disegni intessuti nella trama di colore verde-azzurro cangiante (un tessuto molto prezioso, ma non molto apprezzabile per confezionare un paramento sacro - almeno per i miei gusti liturgici di una certa sobrietà e poco inclini agli eccessi rococò).
La terza foto mostra un confronto tra pianeta rosacea e moderna casula in lana e seta rosa-porcello:  non c'è gioco. 10 a 0 per il colore antico.

le foto sono dalla sacrestia della Basilica di Sant'Antonio di Padova


Testo preso da: Cantuale Antonianum http://www.cantualeantonianum.com/#ixzz1IgXMbwi3
http://www.cantualeantonianum.com 

 
Caterina63
00martedì 19 aprile 2011 18:02
Benedetto, "maestro di liturgia"




Mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie
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oppure qui MP3
per ascoltare...

Il Papa ci ricorda spesso che la bellezza della Liturgia, per quanto noi riusciamo ad esprimerla, è un modo per rendere presente qui, tra di noi, la bellezza stessa dell'amore di Dio per noi.
Nell'ambito liturgico, ciò che il Papa sta indicando con la sua parola e con il suo esempio, è l'applicazione compiuta e fedele del Concilio Vaticano II, in sviluppo armonico con tutta la tradizione liturgica precedente della Chiesa.

Dal mio punto di vista il Santo Padre è un Maestro di liturgia, per quanto riguarda i contenuti, l'insegnamento e il pensiero, e allo stesso tempo un grande 'liturgo', perché ci insegna l'arte della celebrazione. Benedetto XVI ha mutato la liturgia con il suo stesso stile celebrativo e allo stesso tempo con le sue indicazioni e orientamenti.

Se c'è una sottolineatura nelle celebrazioni presiedute dal Papa è proprio questa ricerca di andare al cuore e all'essenza della Liturgia, che è il Mistero del Signore celebrato nel quale tutti siamo chiamati ad entrare, in quel clima di adorazione e di preghiera che anche il momento del silenzio contribuisce a creare.

Questo VI anniversario dell'inizio del Pontificato è sicuramente per me un momento di gioia e anche di gratitudine al Signore, proprio per il fatto che dall'ottobre del 2007 ho avuto questo dono di poter essere chiamato a servire da vicino Benedetto XVI in un aspetto della vita della Chiesa così importante, anche per lo stesso Santo Padre. Ci sono tanti momenti che rimangono scritti nella memoria e nel cuore.

Ogni celebrazione porta con sé tanti ricordi, ma credo in modo particolare quelli legate ai viaggi papali. Da una parte costituiscono un impegno, anche più gravoso del solito, ma portano con sè tanta gioia spirituale per come il Papa viene accolto, in uno spirito di grande fede.
 
DA SOTTOLINEARE UNA RISPOSTA DI MONS GUIDO MARINI:

Il Papa HA APPLICATO E STA APPLICANDO ALLA LETTERA COME DEVE ESSERE CELEBRATA LA MESSA VOLUTA DALLA RIFORMA DEL CONCILIO .... i sacerdoti e i Vescovi, aggiungiamo noi, dovrebbero così OBBEDIRE AL PAPA IMITANDOLO NEL MODO DI CELEBRARE....

Caterina63
00martedì 26 aprile 2011 19:52
[SM=g1740733] Da molti anni, oserei dire 10 per l'esperienza diretta....assistiamo ad una MODA nelle Parrocchie con la quale si SCIMMIOTTA E SI IMITA l'Ultima Cena di Gesù in una forma ERRATA che sta gettando confusione: si può fare? non si deve fare? ma che significa? ecc....

Un esempio lo avete se cliccate qui:
http://it.gloria.tv/?media=147556 

l'autore del video ha CHIUSO l'opportunità di replicare.... e allora, fraternamente, gli ho scritto in messaggio privato questa risposta che giro anche a voi:

  E' sbagliato non dare modo di fare una correzione fraterna chiudendo i commenti al video.... dica al suo Parroco che sta sbagliando di grosso a far fare in Parrocchia una messa in scena del genere: la Pasqua del Signore fu altra cosa e il Papa la spiega nella Sacramentum Caritatis che sarebbe più importante per voi leggere e meditare, nonchè APPLICARE, anzichè perdere tempo con le cene degli altri e che non a torto agli Ebrei stessi non piace affatto questo teatrino, li state offendendo...  
dice Benedetto XVI:  
 
 Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla.  
 
L'istituzione dell'Eucaristia  
10. In tal modo siamo portati a riflettere sull'istituzione dell'Eucaristia nell'Ultima Cena. Ciò accadde nel contesto di una cena rituale che costituiva il memoriale dell'avvenimento fondante del popolo di Israele: la liberazione dalla schiavitù dell'Egitto. Questa cena rituale, legata all'immolazione degli agnelli (cfr Es 12,1-28.43-51), era memoria del passato ma, nello stesso tempo, anche memoria profetica, ossia annuncio di una liberazione futura. Infatti, il popolo aveva sperimentato che quella liberazione non era stata definitiva, poiché la sua storia era ancora troppo segnata dalla schiavitù e dal peccato.
 
Il memoriale dell'antica liberazione si apriva così alla domanda e all'attesa di una salvezza più profonda, radicale, universale e definitiva. È in questo contesto che Gesù introduce la novità del suo dono.
Nella preghiera di lode, la Berakah, Egli ringrazia il Padre non solo per i grandi eventi della storia passata, ma anche per la propria « esaltazione ». Istituendo il sacramento dell'Eucaristia, Gesù anticipa ed implica il Sacrificio della croce e la vittoria della risurrezione. Al tempo stesso, Egli si rivela come il vero agnello immolato, previsto nel disegno del Padre fin dalla fondazione del mondo, come si legge nella Prima Lettera di Pietro (cfr 1,18-20). Collocando in questo contesto il suo dono, Gesù manifesta il senso salvifico della sua morte e risurrezione, mistero che diviene realtà rinnovatrice della storia e del cosmo intero. L'istituzione dell'Eucaristia mostra, infatti, come quella morte, di per sé violenta ed assurda, sia diventata in Gesù supremo atto di amore e definitiva liberazione dell'umanità dal male.  
 
Figura transit in veritatem  

11. In questo modo Gesù inserisce il suo novum radicale all'interno dell'antica cena sacrificale ebraica. Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla.
Come giustamente dicono i Padri, figura transit in veritatem: ciò che annunciava le realtà future ha ora lasciato il posto alla verità stessa. L'antico rito si è compiuto ed è stato superato definitivamente attraverso il dono d'amore del Figlio di Dio incarnato. Il cibo della verità, Cristo immolato per noi, dat ... figuris terminum (20). Con il comando « Fate questo in memoria di me » (Lc 22,19; 1 Cor 11,25), Egli ci chiede di corrispondere al suo dono e di rappresentarlo sacramentalmente.  
 
Buona Pasqua DI NOSTRO SIGNORE....

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Ricordandovi che NOI Cattolici riviviamo quell'evento con la Messa detta IN COENA DOMINI: MESSA DELLA CENA DEL SIGNORE....  - durante la quale si fa la Lavanda dei piedi, e che si può fare anche al di fuori della Messa - al termine della quale si fa l'adorazione Eucaristica con la Reposizione, ossia il Santissimo Sacramento viene messo in un Tabernacolo preparato appositamente a ricordare gli eventi di quella Notte Santa in cui venne arrestato e processato....va detto dunque che alcuni sostengono che tale errore di rivivere l'Ultima Cena scimmiottando la cena ebraica, sia di matrice NEOCATECUMENALE.... ed è vero... ma purtroppo non è solo un errore loro, è una MODA che sta prendendo piede in moltissime Parrocchie, ebbene, fate sapere ai vostri Sacerdoti che è sbagliato!!!


Come si deve svolgere allora quel Giovedì Santo?
Come ci ha insegnato la Chiesa e come è solito ripetere il Pontefice....

DIFFIDATE DA CIO' CHE NON E' CATTOLICO specialmente a riguardo dei RITI SACRI....





P.S.
il video in questione è stato rimosso...... ma non è sufficiente rimuovere le immagini SE NON SI RIMUOVE L'ERRORE....

due immagini dell'errore sono qui  MONITO per tutti i Sacerdoti per evitare di divulgare ciò che non ha nulla a che fare con i riti CATTOLICI.....

Prima immagine del Sacerdote vestito da rabbino ebraico...

Seconda immagine del Sacerdote che utilizza i calici della Messa per la cena ebraica.

Video della celebrazione della Pasqua Ebraica con i comunicandi della Parrocchia San Paolo Apostolo in Crotone, secondo la modalita' diabolica della setta Neocatecumenale...

Verranno gli ingannatori che, secondo i loro desideri, cammineranno nella via dell’empietà” (Gd. 18)



VOGLIAMO RICORDARE a questi Sacerdoti che la loro Ordinazione non c'entra più con il sacerdozio LEVITICO....il "nuovo" Sacerdozio di cui Cristo è L'UNICO, è "al modo di Melchisedek"....

Ecco invece un'esempio concreto di come dobbiamo vivere questi Tempi Liturgici:

Radicati nella Fede

ecco il link ad un blog, che ricordato da un lettore, vale la pena di visitare!
Da segnalare: i video delle celebrazioni del Triduo Sacro, e le parole del sacerdote. (e la presenza di fedeli giovani!)




Card. Scherer: il “vero Gesù” non è quello che ciascuno si costruisce


Ci sono molte immagini “distorte e fantasiose”


SAN PAOLO, venerdì, 22 aprile 2011 (ZENIT.org).- L'Arcivescovo di San Paolo (Brasile), il Cardinale Odilo Scherer, invita i cattolici a non accontentarsi “di qualsiasi immagine di Gesù Cristo”.

In un articolo apparso sulla rivista “O São Paulo”, il porporato invita a non fermarsi alle immagini di Gesù “che si limitano a promettere miracoli e non chiedono la conversione del cuore, o nascondono il cammino della croce”.

“Sono tante le immagini distorte e fantasiose su Gesù, nel corso della storia e anche oggi”, ha affermato.

La Chiesa, “comunità dei discepoli di Gesù Cristo, ha sofferto molto all'inizio per affermare e preservare l'immagine attendibile di Gesù e per trasmetterla in modo fedele attraverso i secoli”.

“Non ha mai assunto interpretazioni discordanti dalla testimonianza degli apostoli, di quelli che 'hanno visto' Gesù, sono stati con lui e lo hanno incontrato dopo la sua morte e resurrezione - 'non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato' (At 4,20)”.

Il Cardinale ha sottolineato che le celebrazioni della Settimana Santa e della Pasqua suscitano alcune domande per le quali si devono cercare risposte sincere.

“Chi è Gesù Cristo? Quali sono stati i suoi insegnamenti? Perché è stato condannato alla morte di croce? Che cosa dicono le testimonianze del Nuovo Testamento sui fatti ricordati nella celebrazione della Pasqua? Che significato hanno la sua vita, passione e morte per l'umanità e per ciascuno di noi? Qual è la mia relazione personale con Gesù Cristo?”

Riferendosi al secondo libro di Papa Benedetto XVI su “Gesù di Nazaret”, il porporato ha affermato che una delle preoccupazioni del Papa “è quella di fornire ai lettori l'accesso al 'vero Gesù' e l'incontro con lui, come ci è fatto conoscere dalla Scrittura e dalla fede della Chiesa”.

“Il 'vero Gesù' non è quello che ciascuno di noi si costruisce in base alle proprie convenienze, ai sentimenti o ai preconcetti, ma colui che ci è fatto conoscere da quanti sono stati con lui e lo hanno raccontato nel Nuovo Testamento”.

“E anche dalla fede della comunità dei fedeli, nella Chiesa, che persevera 'nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere' (cfr. At 2,42) – ha dichiarato –; lì il Risorto stesso continua ad essere presente e si manifesta ai suoi, come fece dopo la resurrezione”.


Caterina63
00giovedì 5 maggio 2011 12:44

Sancte Pie, ora pro nobis... et pro Sancta Ecclesia! (che tanto hai amato!)

San Pio V



.Oratio dal Messale 1962, che ottimamente impetra l'intercessione di questo grande Papa, riassumendo i suoi grandi meriti a difesa della Chiesa e della Cristianità.

"Deus, qui ad conterendos Ecclesiae tuae hostes, et ad divinum cultum reparandum, beatum Piium Pontifice maximum eligere dignatus es: fac nos ipsius defendi praesidiis et ita tuis inhaerere obsequiis: tu, omnium hostium superatis insidiis, perpetua pace laetemur. Per Dominum"
.(O Dio, che ti sei degnato di eleggere il beato Pio a sommo Pontiefice per abbattere i nemici della Tua Chiesa e per restaurare il culto divino; fa che noi, aiutati dal suo soccorso, ci dedichiamo totalmente al tuo servizio e vinciamo le insidie di tutti i nemici e raggiungiamo la pace etenra. Per il Signore).



*


Da Cantuale Antoniuam:
Una bella preghiera sacerdotale da dire alla fine della Messa come ringraziamento e saluto alla Santa Trinità. San Pio V l'aveva inserita come preghiera privata (devozionale) del sacerdote prima della benedizione al termine della Messa. Con la riforma è caduta in oblio, ma si può lodevolmente sussurrarla anche dopo la benedizione. Chi celebra il rito ordinario la può recitare tra sé anche mentre saluta l'altare e il tabernacolo e inizia la processione di ritorno in sacrestia. Sussurrando questa preghiera i gesti si faranno con più calma e attenzione devota. Provare per credere.

"Placeat tibi, sancta Trinitas, obsequium servitutis meæ: et præsta, ut sacrificium quod oculis tuæ maiestatis indignus obtuli, tibi sit acceptabile; mihique et omnibus pro quibus illud obtuli, sit, te miserante, propitiabile. Per Christum Dominum nostrum. Amen"
«Ti sia gradito, o santa Trinità, l'ossequio del mio servizio sacerdotale: e concedi che il sacrificio che - sebbene indegno, ho offerto agli occhi della tua divina maestà - sia a te accetto; e, per la tua misericordia, sia di giovamento a me e a tutti coloro per i quali l'ho offerto. Per Cristo Nostro Signore. Amen».
.

Testo preso da: Cantuale Antonianum maggio 2010

http://www.cantualeantonianum.com/2010_05_01_archive.html#ixzz1KzjkgTN9
http://www.cantualeantonianum.com


La Vita di Cristo ripresentata nalla Santa Messa (di S. Vincenzo Ferreri) - I parte

grazie a un padre francescano conventuale per la traduzione.





LA VITA DI CRISTO RIPRESENTATA NELLA SANTA MESSA
di S. Vincenzo Ferreri




Fate quello che Egli vi dirà (Gv. 2,5). Prendiamo queste parole dall’originale del Vangelo di san Giovanni capitolo secondo versetto cinque.
Oggi predicherò a voi un tema molto devoto e poco frequente, cioé la vita santa di Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, così come si ripresenta nella Messa solenne. A me pare sia un argomento molto gradito e amato da Dio, e per tutti voi vantaggioso e meritorio. In modo speciale per noi Sacerdoti, che celebriamo questo santo sacramento della Messa.
Però perché questo nostro sermone serva in primo luogo di lode, gloria e onore a Dio e possa in secondo luogo giovare a tutti, specialmente ai chierici, così come anche ai fedeli laici, saluteremo la Vergine Maria dicendo: Ave Maria.

*
[Dopo un’articolata introduzione che spinge alla docile obbedienza del discepolo verso il Maestro, del malato verso il medico, il santo predicatore così continua:]






La Vergine Maria, Madre della Grazia, sapendo che chi desidera salvarsi é necessario che si guidi e si governi secondo la volontà del suo divin Figlio, a tal fine ci dà un prezioso e grande consiglio: che sempre ci guidiamo e governiamo con la volontà di suo Figlio, e dichiara il tema: Fate quello che Egli vi dirà (Gv. 2,5). Ecco il tema del sermone. E così entro nell’assunto.
Esattamente, tra tutte le cose che Gesù comandò a noi cristiani per conseguire e raggiungere la gloria, c’è questa: che ripresentiamo la sua santa e benedetta vita nella Messa. Perché quando il giorno del Giovedì santo della Cena istituì questo santo sacramento della Messa, ordinò: Fate questo in mio ricordo (Lc. 22,19 e 1Cor. 11,23). Non disse solo in memoria e commemorazione della Passione, ma in mio ricordo; ossia, di tutta la vita di Cristo, che deve ripresentarsi dal giorno della nascita fino al giorno dell’Ascensione.
Alcuni potrebbero dire: “Questo comando fu dato solo ai chierici”. Ma io vi dico che quest’ordine è sia per i chierici che per i fedeli laici. Per i chierici perchè commemorino la vita di Cristo celebrando; per i fedeli perchè commemorino la vita di Cristo udendo e ascoltando. Esattamente quel che il tema dice: Fate quello che Egli vi dirà (Gv. 2,5). E’ questo, cioè, commemorare la vita di Cristo, i chierici celebrando e i laici udendo e ascoltando devotamente.


E già entriamo nell’assunto.
Abbiate presente quanto vi indico: sin dal giorno in cui Gesù scese dal Cielo per incarnarsi, fino al giorno in cui salì al Cielo, tutta la sua vita è ripresentata nella Messa solenne principalmente per mezzo di trenta azioni, anche se ben sappiamo che ci sono molte altre opere che non conosciamo. Perciò l’evangelista Giovanni nell’ultimo capitolo dice: Ci sono molte altre cose che Gesù ha fatto. Se si scrivessero una per una, penso che neppure tutto il mondo basterebbe a contenere i libri che si scriverebbero (Gv. 21,25). Furono tante le opere di Nostro Signore Gesù Cristo che se si specificassero tutte e ognuna in modo dettagliato, non ne potremmo raccontare né cento né mille, neppure diecimila, perché bocca d’uomo non potrebbe dire quanti sono i misteri.
Ora questi sono riassunti e condensati come gli atomi stanno nel sole, e pertanto non possono conoscersi e scoprirsi.





Però il chierico è in cammino verso Colui che è il mistero. Perciò adesso vi dico quali sono i principali misteri. Già altre volte ho predicato su quest’argomento, però mai ho detto tutti i misteri. Alcune volte ho predicato suddividendo la vita di Cristo ripresentata nella Messa in dieci opere, altre volte in quindici, altre in venti. Ora la vita di Cristo l’ho suddivisa in trenta opere. Pertanto ascoltate devotamente.

1.- E la prima opera che realizzò Gesù Cristo, Figlio di Dio e nostro Salvatore, in questo mondo fu l’Incarnazione, quando discese dal Cielo ed entrò nel seno verginale di Maria Vergine, rivestendosi dell’umanità. Pertanto vi dico che si rivestì di umanità, perché la divinità è segretamente nascosta sotto l’umanità. E dovete sapere che l’Incarnazione si realizza da parte di tutta la Trinità perché le opere della Trinità sono indivisibili, però tuttavia solo il Figlio è rivestito di umanità.
Questo si dimostra per mezzo di una comparazione di tre che indossano a uno una unica tunica. E’ certo che tutti lo rivestono, però soltanto uno permane rivestito e non gli altri. Così, il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo rivestirono dell’umanità il Figlio, però solo il Figlio rimase vestito di umanità e incarnato.
E quanto vi dico viene ripresentato nella Messa solenne e non nell’altra. Perché quando il sacerdote [san Vincenzo, in verità, usa sempre la parola presbitero] entra nella sacrestia, ivi i tre lo rivestono, cioè: il diacono, il suddiacono e il medesimo sacerdote che si riveste, aiutato dagli altri, però lui solo rimane vestito. Così il Nostro Salvatore Gesù Cristo, grande e sommo Sacerdote, fu rivestito in quella gloriosa sacrestia [nel manoscritto al margine: reliquie, gemme, ed altri ornamenti preziosi si conservano per davvero in quella gloriosa sacrestia], cioè, la Beata Vergine, piena di virtù, di grazia e di perfezioni, lo conserva tutto come un tesoro per la nostra salvezza, ossia: il Salvatore del mondo, Gesù, Dio e uomo e gli ornamenti sono l’umanità.

E se volete una più alta contemplazione: così come il sacerdote è rivestito nella sacrestia e nessuno del popolo l’ha visto vestirsi, così ugualmente quando Gesù Cristo, Sommo Sacerdote, si rivestì di umanità nella sacrestia, ch’è la Beata Vergine, per dire la Messa nell’altare della croce, nessuno del popolo giudeo lo seppe, né lo vide quando si incarnò, perché questo avvenne molto segretamente.
E se ancora volete più profondamente contemplare: così come il sacerdote si riveste nella sacrestia con sette vestiti, cioè: la cotta, se è semplice sacerdote, o se vescovo il rocchetto, o se religioso lo scapolare che supplisce la cotta; perché il presbitero non deve rivestirsi direttamente sul suo proprio vestito [su propia ropa]. Il secondo vestito è l’amitto [nel manoscritto: lo amit]. Il terzo è l’alba [o càmice, -nel manoscritto: la camisa]. Il quarto è il cingolo. Il quinto è la stola. Il sesto è il manipolo. Il settimo è la càsula [nel manoscritto: la casulla]. Così il sommo sacerdote Gesù fu rivestito nel ventre della Vergine Maria, che si dice sacrestia, con sette vestiti che sono i sette doni dello Spirito Santo. Di questi vestiti parla Isaia 11, 1-2, quando dice: Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore: spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Ecco come i sette doni dello Spirito Santo di cui fu rivestito sono ripresentati dai sette vestiti con cui il sacerdote si riveste in sacrestia.
E in queste altre parole di Isaia (Is. 4,1) parlando di questi vestiti, o doni dello Spirito Santo, li chiama donne quando dice: Sette donne afferreranno un uomo solo in quel giorno, cioè nell’incarnazione. Sette donne, è come dire che i sette doni dello Spirito Santo, ricevono un solo uomo, ossia Gesù Cristo. E questo lo ripresentano i sette indumenti del sacerdote. E perciò il sacerdote prima di tutto deve indossare la cotta [el sobrepelliz] che è il primo di questi sette vestiti. Fin qui la prima opera di Gesù Cristo ripresentata nella Messa solenne. Pertanto molto bene si dice: Fate questo in mia memoria (Lc. 22, 19 ; 1 Cor. 11,23).


2. – La seconda opera che compì nostro Signore Gesù Cristo fu la Natività, perché Egli non volle nascere in un palazzo come il Pretorio pieno di magnificenze. E la notte fu chiara come il giorno. E volle nascere tra Giuseppe e la Vergine, e giacere coricato tra il bue e l’asino. Le schiere angeliche cantavano: Gloria a Dio nel più alto dei cieli (Lc. 2, 14). I pastori vennero ad adorarlo. Ecco allora che (Cristo) dapprima stava in quella gloriosa sacrestia, cioè la Beata Vergine, però in seguito si manifestò pubblicamente e si rivelò.
E questo lo ripresenta il sacerdote quando esce dalla sacrestia, giacchè il sacerdote ripresenta Cristo; mentre il diacono e il suddiacono stanno a ripresentare la Vergine e Giuseppe che stavano a ciascun lato di Cristo; i due accoliti ripresentano il bue e l’asino; e la luce che portano gli accoliti sui candelieri ripresentano quel chiarore che brillò alla nascita di Gesù Cristo, sommo sacerdote; il coro dei chierici che cantano “Gloria al Padre e al Figlio”, ecc. quando il sacerdote esce dalla sacrestia ripresenta il coro degli Angeli cantando: Gloria in excelsis Deo (Lc. 2,14) durante la nascita di Gesù Cristo. In alcune chiese esiste il lodevole uso che quando si dice “Gloria al Padre” suonano i campanelli, così si ripresenta la gioia dei pastori che suonavano le loro zampogne.
Così ugualmente, il sacerdote esce con il volto e le mani lavate, ben pettinato, per cui in alcune sacrestie esiste un pettine, ed esce con il piviale dorato [nel manoscritto: capa dorada] ed egli tutto puro senza colpa [sine taca] né macchia. Questo è così per dimostrare che Gesù Cristo esce, o nasce, senza alcuna colpa, né macchia, né corruzione della Vergine e nasce con grande gioia. Per questo il re Davide canta nel Salmo (Sal. 18,6): I cieli narrano … nel sole pose la sua tenda; ed egli medesimo come sposo che esce dalla stanza nuziale. Perché esce bello e rasato [nel manoscritto: affaytàs], così come lo sposo esce dall’abitazione con anelli alle mani. E tutto ciò nella Messa solenne.

3. – La terza opera realizzata meravigliosamente dal Figlio di Dio fu che l’ottavo giorno volle esser circonciso. E a quanti si interrogano con certa diligenza perché mai si esegua la circoncisione (cf. Lc. 2,21) (dico) guardate l’eccellenza di quest’opera, quanto Cristo si umiliò. Giacché così come il ladro si marca col fuoco, o gli si accorciano le orecchie in seguito a un furto perché sia conosciuto, così Dio per segnalare quel furto (latrocinio), quello che fece Adamo, ordinò di circoncidere gli uomini senza escludere il nostro Gesù Cristo per quanto Egli non era obbligato alla circoncisione perché non venne dalla corrotta generazione di Adamo, ma era puro e senza macchia, però volle ugualmente circoncidersi.
E questo il sacerdote lo ripresenta quando ai piedi dell’altare dice: “Io peccatore”, ecc. Giacché anche se il sacerdote si fosse già sacramentalmente confessato, sale all’altare con altre mancanze, e perciò si proclama peccatore benché sia santo, come santo è Giovanni Battista.
E così mostra e fa capire che Gesù Cristo, che possiede la pienezza e la fonte della santità, volle mostrarsi anche peccatore e soggetto alla legge della circoncisione. Così il sacerdote confessandosi è come se togliesse il velo o il panno che tiene davanti a sé, e questo ripresenta quanto avviene nella circoncisione di Gesù Cristo: la pelle fu tolta e messa a parte. E guardate a quanto con autorità afferma la lettera ai Romani (Rm. 8,3): Dio …: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, Egli ha condannato il peccato nella carne, ecc. Non dice che avesse il peccato della carne, ma che inviò suo Figlio in una carne simile a quella del peccato e volle passare per la circoncisione, come se fosse carne del peccato, ecc.

4. – La quarta opera fatta da Gesù fu il guidare col segno d’una stella dagli estremi confini del mondo orientale i santi Re Magi che L’adorarono coricato poveramente nel presepio tra gli animali: Aprirono poi i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra (Mt. 2,11).
E questo il sacerdote lo ripresenta quando dopo fatta la confessione, inchina il capo profondamente [nel testo: fino alle ginocchia], e così con la testa inchinata adora e dice questa preghiera: “Togli da noi, o Signore, le nostre iniquità, affinché possiamo entrare con mente pura nel Santo dei Santi …”.
Allora come i santi Re Magi offrirono tre doni – oro, incenso e mirra – così il sacerdote quando è inchinato offre l’incenso della devota orazione dicendo: “Togli da noi”, ecc. e offre oro quando s’abbraccia all’altare con una grande e riverente adorazione, offre mirra amara al segnarsi con la santa croce ricordando la dolorosa e crudele Passione di nostro Signore Gesù Cristo, come dicendo col profeta Geremia nelle Lamentazioni, secondo il terzo lamento (Lm. 3, 20-21): Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me la mia anima. Questo intendo richiamare alla mia mente, e per questo voglio riprendere speranza. E questa memoria dolorosa è ripresentata nell’amarezza della mirra.

5. – La quinta opera realizzata dal nostro Salvatore Gesù Cristo in questo mondo fu quando volle presentarsi nel Tempio e la Beata Vergine e Madre sua lo portò allo stesso Tempio e l’offrì al sacerdote, stando lì presenti anche Simeone e quella santa profetessa Anna che lodavano Dio.
Questo il sacerdote lo ripresenta quando passa all’angolo dell’altare e preso il libro dice l’Introito della Messa; il diacono e il suddiacono che gli sono accanto ripresentano Simeone e Anna. Gli accoliti e tutti gli altri che ascoltano l’ufficio, ma che non devono salire all’altare, ripresentano quando la Vergine Maria e Giuseppe e altri amici stavano di lontano ascoltando umilmente [da altri manoscritti: la Vergine Maria era degna di avvicinarsi all’altare] dov’era il santissimo Bambino, però non volle farlo per darci esempio di come non dobbiamo avvicinarci all’altare [da altri manoscritti: quando non c’è necessità; nel caso contrario sempre ne avremo responsabilità]. E quando San Simeone ricevette tra le sue braccia il prezioso e glorioso Figlio della Vergine, intonò quel canto (Lc. 2, 29-32): Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, che ha quattro strofe che si cantano [nel manoscritto: capella] e perciò il sacerdote ripresentando questo compie quattro azioni. Dapprima: l’Introito della Messa; poi: i Kyrie eléison [nel manoscritto: los kirios]; poi ancora: il Gloria in excelsis e infine: l’orazione.


6. – La sesta opera compiuta dal Salvatore e Signore Nostro Gesù Cristo in questo mondo fu la fuga dalla Terra Promessa verso la terra d’Egitto, scappando dal pazzo furore di Erode, ed ivi per sette anni visse in esilio e nascosto con la sua divina Madre e Giuseppe. Ciò è ripresentato nella Messa quando il suddiacono con un accolito si appresta a pronunciare (proclamare) l’Epistola mentre il sacerdote e il diacono restano seduti separati dall’altare, e così stando seduto alla sede compie sette opere che ripresentano quei sette anni che Gesù Cristo con Maria e Giuseppe passò in esilio. Prima: si legge l’Epistola; secondo: si dice o legge il Responsorio; terzo: si legge l’Alleluia; quarto: si legge il verso e la prosa della Messa solenne; quinto: si prepara un servizio per sé medesimo, l’acqua e il vino; sesto: benedice l’incenso; settimo: dà la benedizione al diacono.
Queste sette cose le compie restando nel medesimo posto per dimostrare che il Salvatore dimorò sette anni in Egitto.

7. – La settima opera fatta dal nostro Salvatore Gesù Cristo in questo mondo fu, una volta morto il Re Erode, ritornare dall’Egitto verso la terra Promessa, e la sua Madre e Giuseppe Lo condussero al Tempio di Gerusalemme per sacrificare e lì si perdette e dopo tre giorni fu trovato tra i dottori della legge; e veniva interrogato di qualche questione e come dice san Girolamo nel prologo della Bibbia: “Insegna molto più che prudentemente interroga”.
E questo è ripresentato dal sacerdote quando dalla sede va all’altare e con gran diligenza pensa ciò che ascolta del Vangelo; e insegna molto più quando medita e ascolta, e con ciò può dirsi che così Gesù Cristo nel Tempio ascoltava i giudei e li interrogava. Proprio così san Luca nel suo Vangelo (2,46) dice: ascoltandoli attentamente e interrogandoli. Allo stesso modo la contemplazione che fa il sacerdote udendo il Vangelo non è altro se non una interrogazione. E così mostra che Gesù Cristo interrogando prudentemente istruiva i dottori nella fede. Perciò immediatamente il sacerdote dopo [in altri manoscritti: che il diacono termina] l’Evangelo, canta il “Credo in Dio”, dove sono contenuti i princìpi della fede (le sue verità fondamentali).


8. – L’ottava opera che il nostro Salvatore Gesù Cristo fece in questo mondo fu l’incontro nel Tempio con Maria sua Madre che fu benedetta col gusto di così grande gaudio che non poté contenere le lacrime e benedì il Signore. Ora ammirate che cosa fece il glorioso Signore e quanta fu la sua abbondantissima e grande umiltà, che appena intravide sua madre benedetta si avvicinò a lei e a Giuseppe e confortava la sua sacralissima Madre, asciugandole le lacrime [nel manoscritto: torquant – li les làgrimes] e ritornò con gli stessi a Nazareth, e pur essendo il Re dei Re e il Signore di tutto il mondo, pur tuttavia voleva essere suddito di sua Madre e di Giuseppe. Lo dice Luca (Lc. 2,51): Ed era loro sottomesso.
Queste consolazioni che Gesù offriva a sua Madre le ripresenta il sacerdote quando, detto il Credo, si volge al popolo dicendo: Il Signore sia con voi. E dopo ciò segue tutto quel che fa il sacerdote sull’altare preparando i corporali e l’ostia e il calice che appartengono al sacrificio e ripresenta quel ministero e servizio che offrì nostro Signore Gesù Cristo alla sacralissima sua Madre. Perciò Egli medesimo diceva in Matteo (Mt. 20,28): Il Figlio dell’uomo non è venuto ad essere servito, ma a servire.


9. – La nona opera, realizzata dal Signore e nostro Salvatore Gesù Cristo, fu che dopo aver accudito e servito sua Madre, per quel che si legge in san Matteo e san Marco (cf. Mt. 13,55; Mc. 6, 3) il nostro Salvatore nella sua umiltà aiutava suo padre putativo Giuseppe nell’ufficio (professione) di carpentiere [nel manoscritto: fuster], dal momento che nella sua anzianità non poteva più maneggiare la sega, e pertanto l’aiutava a maneggiarla. Perciò riferendosi a questo passo evangelico il Maestro Nicolàs di Lyra dice che Gesù esercitò questa professione. A ragione i giudei, vedi in Matteo (cf. Mt. 13, 55) e Marco (cf. Mc. 6, 3), dicevano: Non è questi il figlio del carpentiere? Perché nostro Signore Gesù Cristo aiutava Giuseppe per poter vivere, perciò credevano i giudei che fosse suo figlio. [Nel manoscritto a continuazione si legge: Qué estùpidos!].(!)
Dopo di ciò il benedetto Signore arrivò all’età di trent’anni e fu a battezzarsi per quanto Egli non ne avesse necessità. Ma lo fece per santificare le acque per nostra salvezza.
Questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote lava le sue mani. Adesso vi domando: Perché il sacerdote si lava le mani? Forse non lavò la sua coscienza con la confessione sacramentale nonché le mani prima della Messa? Certo che sì, giacché non facendolo direbbe la Messa per la condanna della sua anima. Pertanto buona gente, il sacerdote lava le sue mani non perché sia bisognoso di pulizia, bensì per ripresentare il Salvatore e nostro Signore Gesù Cristo che ha la pienezza d’ogni santità e non necessitava di battesimo, però per umiltà e per nostra utilità Egli stesso volle battezzarsi e darci la virtù dell’acqua per lavarci.

A tal fine il sacerdote pur sacramentalmente confessato, benché sia santo e senza alcuna macchia di peccato, deve lavarsi le mani. Perciò il sacerdote dice: Lavo le mie mani nell’innocenza e mi muovo attorno al tuo altare, o Signore, come dice il Salmo (Sal. 25, 6) supplica di un giusto nella persecuzione. In sintesi voglio dire: Ch’io sia puro e senza alcuna macchia di peccato, per essere annoverato tra gli innocenti; ma tu, Signore, che sei pienezza di santità, per ripresentare quel salutare bagno del nostro battesimo volesti esser lavato, e per questo io mi laverò adesso [nel
manoscritto: Quaix que vulla dir: jatseia que yo sia pur, et net de màcula de peccat, per
lo qual sia computat entre los innocents, emperò, Senyor, per representar aquell
llavament del nostre baptisme, que jatseia que vós fósseu plenitudo de santedat, emperò
volgués ésser llavat, perço yo·m llavaré ara].
10. – La 10ma opera che fece il nostro Salvatore Gesù Cristo in questo mondo fu – secondo quanto si legge in san Marco (cf. Mc. 1, 12) e san Matteo (Mt. 4, 1-11) – che dopo essere battezzato

venne condotto nel deserto dove per quaranta giorni e quaranta notti digiunò, in questo tempo non prese nessun alimento corporale, ma se ne stette sempre in orazione non per sé stesso, non avendone bisogno, ma per noi peccatori.
E ciò si ripresenta nella Messa quando il sacerdote davanti al centro dell’altare a mani giunte si umilia tanto quanto può chinando la testa e dicendo: Guarda l’umiltà delle nostre anime e la contrizione dei nostri cuori, per mostrare quelle umiliazioni e prostrazioni che il nostro Salvatore faceva nel deserto pregando. Poi il sacerdote volgendosi verso il popolo dice: “Pregate, fratelli, affinché il mio e vostro sacrificio sia gradito”, col fine di mostrare che Gesù Cristo pregava per noi. E così come le orazioni che Gesù Cristo elevava nel deserto erano molto segrete e non le udiva nessun

altro uomo, così anche questa preghiera Segreta che dice il sacerdote, la deve dire anche in segreto e non può essere ascoltata da altri.



(continua)



fonte: MariaGiglioDellaTrinità blog





Caterina63
00giovedì 12 maggio 2011 09:15

La Vita di Cristo ripresentata nella Santa Messa - II parte

(segue da Link1 )




11. – L’11ma opera fatta dal nostro Salvatore e Signore Gesù Cristo in questo mondo fu che dopo aver digiunato nel deserto cominciò a predicare e proclamare ad alta voce: Convertitevi, perché è vicino il Regno dei Cieli! (Mt. 4, 17). Prima del digiuno non si manifestò, ma volle fare penitenza di nascosto e in occulto nel deserto. Lasciato poi il deserto, istruiva le genti dicendo: “Fate penitenza” e indicava loro qual vita dovevano vivere e insegnava loro come potessero evitare i peccati. E facendo questo ricorreva villaggi, città e castelli. E come con parole insegnava la sua santa dottrina, così anche la mostrava con le sue opere. Perciò il libro degli Atti degli Apostoli (At. 1, 1) dice: Ciò che Gesù fece ed insegnò fin dal principio.
Buona gente [nel manoscritto: bona gent], grande sarebbe la benignità del re di Aragona se egli medesimo percorresse l’intero suo Regno ed egli stesso nelle piazze pubblicasse e raccomandasse la sua legge e i suoi ordinamenti. Bene, proprio così ha fatto Gesù, Re dei Re e Signore dei signori, lodando potentemente la sua legge, e nel caso non trovasse un pulpito adatto niente lo fermava ma usava qualunque podio o scala delle piazze e di là esponeva la sua legge; se all’inizio non aveva tanta reputazione tra giudei e farisei perché si fermassero ad ascoltare le sue prediche, dopo però, perché la sua fama crebbe tanto volevano toglierlo di mezzo.
Questo lo ripresenta il sacerdote quando dice ad alta voce il Prefazio: “In alto i cuori!”. Per mostrare che così come Gesù Cristo parlava con la bocca e insegnava con l’esempio, ugualmente anche il sacerdote, dicendo il Prefazio, tiene o deve tenere le mani alzate e non abbassate, per così mostrare ch’egli, che predica la parola di Dio, deve con l’esempio e i fatti dimostrare quelle parole che annunzia e proclama. Perciò san Paolo attribuendo a Gesù Cristo tutto questo diceva: Non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all’obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito Santo (Rm. 15, 18-19). Così ogni predicatore, ecc.

12. – La 12ma opera che realizzò il nostro Salvatore e Signore Gesù Cristo fu che non solamente mostrava con le sue opere quel che predicava, bensì anche confermava la sua dottrina con miracoli che nessuno, che non fosse Dio, poteva fare. E questo lo realizzava principalmente come Signore. Ai ciechi dava la luce; i paralitici, mal ridotti a pelle e ossa, ringiovanivano; ai sordi ridonava l’udito; i muti parlavano e i morti risuscitavano (Mt. 11, 5).
Tutto ciò lo ripresenta nella Messa il sacerdote quando dice: “Santo, Santo, Santo è il Signore Dio delle schiere celesti”, ecc. Tre volte dice Santo per mostrare che i miracoli che Gesù Cristo faceva non li realizzava per virtù umana bensì in virtù delle tre divine persone Padre, Figlio e Spirito Santo, un solo Dio. Dice poi l’ “Osanna” – che è come dire: “salvaci!” – per mostrare che Gesù Cristo faceva i miracoli, e li faceva per la nostra salvezza.

13. – L’opera 13ma che il nostro Salvatore Gesù Cristo realizzò in questo mondo – dopo aver perfettamente predicato ed essersi mostrato chiaramente per quel che era e aver completato in modo eccellente la sua opera evangelizzatrice durata quasi quattro anni completi, e confermata con le sue opere, con miracoli – vedendo vicino il tempo della sua passione si riunì per cenare con i suoi discepoli e lì in segreto tenne loro un gran sermone che nessun evangelista riferisce se non il solo san Giovanni e questo sermone va dal capitolo 13 non completo fino al capitolo 17.
Questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote dice il Cànone segretamente e lo dice talmente in segreto che nessuno lo ode fuorché quanti sono con lui, ossia il diacono e il suddiacono. Perché quel sermone che tenne Gesù nell’altare della Cena fu anche segreto, giacché nessuno l’udì tranne i seduti a mensa con Lui, cioè, gli Apostoli.

14. – La 14ma opera fatta dal nostro Salvatore e Signore Gesù Cristo dopo aver tenuto quel gran sermone a cena con gli Apostoli fu l’incamminarsi verso l’orto degli ulivi per fare orazione e pregò tre volte Dio Padre dicendo: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! … Lo spirito è pronto, ma la carne è debole (Mt. 26, 39.41). Gesù in quanto Dio non temeva la morte, però sì come uomo. E pertanto, consapevole delle sofferenze che avrebbe patito, diceva: Padre mio, se è possibile, che passi, ecc. Quest’amarezza della passione si basa nella sensualità che è inferma, però lo spirito sta pronto. Pregando per la terza volta, sperimentò un tremore e un sudore di sangue, fu allora che gli apparve l’angelo a confortarlo (Lc. 22, 43-44). Non come se Gesù avesse bisogno di coraggio, ma come lo scudiero che conforta il suo signore forse dicendogli: “Signore sforzatevi, perché adesso otterrete vittoria sui vostri nemici” [nel manoscritto: Senyor sforçau-vos, que ara haurem victória de vostres
enemichs]; così l’angelo diceva al nostro Salvatore: “Guardate mio Signore alle anime sante che v’aspettano nel Limbo dell’inferno e che già bramano la gloria, e così conforterete l’umanità vostra”. E il clementissimo Signore pregò per sé e per noi. Per sé medesimo pregando Dio Padre per la sua risurrezione; non perché stesse dubbioso della sua risurrezione, o impotente per risuscitare, ma perché così conveniva che fosse. E questo lo faceva come uomo. E pregò anche per noi: perché non mancasse a Lui la costanza e la volontarietà di morire per noi, e a noi il costante ardore e la fermezza nel sostenere anche la morte per Lui medesimo e così risuscitare gloriosi.
Si ripresenta nella Messa quando il sacerdote traccia tre croci sul calice dicendo: “Benedetta (bene+dictam), gradita (adscrì+ptam) e approvata (ra+tam)”, significando quelle tre orazioni che il Salvatore elevò nell’orto. Fa poi altre due croci sull’ostia mostrando così che [Gesù] pregava per due, ossia, per sé medesimo [in quanto uomo] e per noi.

15. – La 15ma opera che il nostro Salvatore e Signore Gesù Cristo fece in questo mondo fu che dopo l’orazione nell’orto arrivò una gran moltitudine di gente con spade e bastoni, e il benigno Signore volle esser preso e legato. Così stretto con funi Lo condussero con grande obbrobrio e gravi insulti davanti a Pilato. Dove finalmente gli fu annunziata la sentenza di condanna ad esser crocifisso, (sentenza) alla quale il benignissimo Signore non volle appellare, ma anzi abbracciando la stessa croce sulla quale sarebbe stato crocifisso, la caricò sulle spalle e la portò fino al luogo dove doveva essere appeso.
E questo si ripresenta nella Messa quando il Sacerdote tiene l’ostia nelle mani per consacrarla e traccia il segno di croce sull’ostia. E questa croce fatta sull’ostia significa la sentenza di morte data da Pilato su Gesù Cristo.

16. – La 16ma opera di Gesù Cristo in questo mondo dopo la lettura della sentenza di morte fu l’esser condotto al monte Calvario e lì fu appeso in mezzo a due ladroni. E fu elevato in alto fino a tener sospeso tutto il suo corpo fissato con i chiodi delle sue due mani.
E questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote innalza l’Ostia tra la mano destra e la sinistra, che sono i due ladroni, che stavano uno a destra e l’altro alla sinistra. E l’Ostia nel mezzo significa Gesù che stava in mezzo ad entrambi. E la bianchezza dell’Ostia indica come Gesù in croce impallidì e perse il colorito e il sangue. Poi il sacerdote elevando il calice ripresenta quando Gesù Cristo in croce offrì il suo sangue, dicendo: “Padre mio, benedici e accetta il mio sangue , che Ti offro per la remissione dei peccati di tutto il genere umano”. E perciò il sacerdote eleva il calice come dicendo:”Padre, Ti offriamo il prezzo della nostra redenzione”.

17. – La 17ma opera fatta da Gesù Cristo in questo mondo fu che durante tutto il tempo che stette inchiodato sulla croce non cessò di pregare, dicendo ad alta voce: “¡Elí, Elí! ¿lemá sabactaní?”, ebraico che in latino vuol dire: “Deus meus, Deus meus , ut quid dereliquisti me?” (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?) (Mt. 27, 46).
Dice san Girolamo che in quel momento Gesù iniziò la recita del salmo “Dio mio, Dio mio!” (Sal. 21) e prolungò la sua orazione dicendo i salmi seguenti fino a quel passo che dice: “Nelle tue mani raccomando il mio spirito” (Sal. 30, 6; Lc. 23, 46). In tutto sono 150 versetti, e Cristo li recitò tutti dalla croce: e corrispondono al numero dei salmi del Salterio. E mentre stette in croce quei giudei non cessarono di lanciarGli ingiurie e vituperi dicendoGli: “Malvagio tu, che hai ingannato il mondo [nel manoscritto: O, tu malvat, que has enganat lo món!] Imbroglione!, che salvò altri e non può ora salvare se stesso”. Altri dicevano: “Falso profeta! Dicesti avresti distrutto il Tempio di Dio e in tre giorni l’avresti ricostruito”. Un altro ancora diceva: “Se è il Figlio di Dio, che discenda immediatamente dalla croce!” (cf. Mt. 27, 40-42). E altre ingiurie Gli dicevano. E il benigno Signore nulla diceva, ma teneva pazienza e continuava orando.
E questo lo ripresenta il Sacerdote quando stende le braccia e poi dice: “Pertanto, Signore, noi tuoi servi ricordando …”. Così ugualmente il Sacerdote non cessa di dire queste parole per mostrarci che Gesù in croce continuava la preghiera e non desisteva.

18. – La 18ma opera compiuta da Gesù in questo mondo fu che nonostante Egli fosse tutta una ferita e avesse quattro piaghe alla mani e ai piedi, pur tuttavia volle ancora sopportare per amore nostro che gliene aprissero un’altra nel costato, e uscì sangue e acqua. Fu questo un gran miracolo perché il suo sangue fu sparso nel sudore e nella flagellazione, e nell’atto della coronazione di spine, ed altresì nella perforazione delle mani e dei piedi, eppure dopo essere morto all’aprirGli il costato uscì sangue e acqua (cf. Gv. 19, 34).
Tutto ciò si ripresenta nella Messa quando il Sacerdote con l’Ostia traccia cinque croci, dicendo: “Per Lui, con Lui ed in Lui”, per significare in questo modo le cinque piaghe di nostro Signore Gesù Cristo, ecc.

19. – La 19ma opera che in questo mondo fece il nostro Salvatore e Signore Gesù Cristo fu, quando crocifisso, disse ad alta voce le sette parole. La prima parola fu quando Egli pregò per tutti i suoi crocifissori dicendo: Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno (Lc. 23, 34). Difatti credevano di appendere al legno un imbroglione o un uomo peccatore, mentre in realtà crocifiggevano proprio il Figlio di Dio Redentore.
La seconda parola quando disse al ladrone: Oggi, sarai con me in Paradiso (Lc. 23, 43).
La terza parola è, o fu, quando vedendo sua Madre che se ne stava morendo per l’indicibile ammirabile dolore – che meraviglia fu mai quella di questo Cuore che non si spezzò! [nel manoscritto: que maravella era com no trencava per lo cor – dicendo: “O Signore e figlio mio carissimo! Al ladrone gli parli e a me non vuoi? Non vuoi parlare? Che piaccia alla tua clemenza dire qualche parola alla Madre tua tanto desolata”. E allora il Signore le disse: Donna, ecco tuo figlio (Gv. 19, 26). Quindi volto a san Giovanni disse: Ecco tua Madre (Gv. 19, 27).
La quarta parola fu quando disse: Elì, Elì! Lemà sabactanì? Cioè: Dio mio, Dio mio! Perché mi hai abbandonato? (Mt. 27, 46). Non che lo abbandoni nella sua divinità, se non che fu abbandonato dai parenti, amici e Apostoli.
La quinta parola fu quando disse: Ho sete (Gv. 19, 28). La Vergine Maria udendo suo figlio aver sete desiderò in quell’istante che le sue viscere si convertissero in acqua perché Egli potesse bere. E allora, disse: “Figlio mio carissimo, e Signore, non tengo acqua, però se vuoi le lacrime, ricevi questo velo che sta pieno di lacrime”.
La sesta parola fu quando disse: Tutto è compiuto! (Gv. 19, 30), cioè, tutta l’umana redenzione.
E la settima parola quando disse: Padre, nelle tue mani, affido il mio spirito (Lc. 23, 46). E inclinò la testa come se dicesse: “Madre mia, consolati con il discepolo e vigilate bene mentre a Dio vi affido perché già me ne muoio e me ne vado all’altro mondo”.
Si ripresenta nella Messa quando il sacerdote dice il “Pater noster” in cui ci sono sette richieste che indicano le sette parole che Gesù pronunciò sulla croce. Così allo stesso modo il sacerdote pronuncia queste petizioni ad alta voce, perché Gesù disse quelle parole a voce alta, ecc.




(continua)




fonte: MariaGiglioDellaTrinità blog



La vita di Cristo ripresentata nella Santa Messa - III parte

(segue da qui Link 1 e da qui Link 2) (di san Ferretti)





20. – La 20ma opera che il nostro Salvatore fece in questo mondo fu che non contento con la morte e le piaghe che sopportava sulla croce volle ancora che la sua preziosa umanità si dividesse in tre parti. La prima parte perché il suo corpo rimase sulla croce. La seconda parte fu il sangue che si sparse alla base della croce. La terza parte fu la sua anima, che discese agli inferi con i santi padri. E in questo modo fu divisa l’umanità di Gesù Cristo.
Questo lo ripresenta il sacerdote quando spezzetta l’Ostia in tre parti e le tiene insieme per dimostrare che per quanto l’umanità venne divisa in tre parti, nonostante la divinità rimase con ciascuna di esse. E ciò si spiega chiaramente con l’esempio di un vetro o cristallo esposto al sole, perché dividendo o frantumando vetro o cristallo, il sole non cessa di illuminarne le parti divise, e le illumina molto bene allo stesso modo che se fossero unite; sono difatti tutte illuminate dalla chiarezza solare, sia in una come nell’altra forma. Così, l’umanità di Cristo, pur divisa in più parti, tuttavia ogni singola parte era personalmente e sostanzialmente piena della divinità, come ciascuna parte del vetro sta piena di sole.

21. – La 21ma opera realizzata in questo mondo dal nostro Salvatore e Signor Gesù Cristo fu l’aver convertito molte persone di diverse condizioni. Volle che già si vedesse il frutto della redenzione. E per questo convertì dapprima il ladrone, che fu un uomo di mala vita, ribelle, criminale. In secondo luogo convertì il Centurione ch’era il capitano della gente armata e che disse: Veramente costui era Figlio di Dio (Mt. 27, 54). In terzo luogo convertì l’umile popolo, ed è san Luca che lo cita dicendo: Anche tutte le genti che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto (Lc. 23, 48). Si noti che dice “tutte le genti”, non le truppe maliziose come gli scribi o farisei, bensì le genti semplici e profane che vedendo il miracolo che accadeva battendosi il petto dicevano: “Che miserabili! Abbiamo crocifisso il Salvatore”.
E perché nostro Signore nella sua passione convertì queste tre classi di persone, per questo in suo ricordo il sacerdote dice tre volte “Agnello di Dio”. La prima volta lo diciamo particolarmente per ogni peccatore supplicando che lo perdoni come perdonò al ladrone, e ugualmente a me che sono peccatore. La seconda volta, chiediamo che come illuminò e aprì gli occhi del Centurione che comandava la milizia, così ugualmente illumini e perdoni chiunque governi il popolo, o abbia cura pastorale delle anime, affinché esse raggiungano la salvezza. La terza volta diciamo “Agnello di Dio” per chiedere che come convertì l’umile popolo così ugualmente converta il comune popolo cristiano e lo conservi in buona salute e in pace e gli perdoni tutti i suoi peccati.

22. – La 22ma opera che Gesù realizzò in questo mondo per amore nostroè che dopo la sua sacra morte non volle direttamente salire al Cielo bensì per la sua grande umiltà volle prima discendere agli Inferi molto segretamente per dare la gloria ai santi padri, che al vederLo la ottennero. E i santi padri dicevano: “Glorioso Signore! Sono tanti gli anni che (Ti) aspettavamo”, difatti da cinquemila anni lo aspettavano con grandi aneliti e sospiri.
Questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote lascia cadere nel calice una parte dell’Ostia che ivi si impregna, per mostrare come nella visita dell’anima di Cristo al Limbo le anime dei santi si estasiarono di gloria e furono così inebriate e illuminate dall’amore di Dio che ignoravano quanto era loro successo e con dolce amore lodavano e benedicevano Dio, dicendo: Benedetto il Signore Dio di Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo … (Lc.1, 68).

23. – La 23ma opera che realizzò fu che dopo la sua benedetta morte volle esser deposto dalla croce per le mani di Giuseppe di Arimatea e di Nicodemo, che col permesso di Pilato lo tolsero dalla croce e lo posero sulla pietra [mensa del sepolcro].
E la Beata Vergine Maria con altre sante donne, e parenti e amici, stava d’intorno al corpo. E baciando gli occhi la Vergine Maria diceva: “O gloriosi occhi che scrutinavano i cuori umani con i loro pensieri!”. E baciava gli orecchi dicendo: ”O orecchi che udivano i canti che intonano in Cielo gli Angeli!”. Poi baciava il naso, dicendo: “O naso che percepisti il fragrante odore della gloria paradisiaca!”. Poi Gli baciava il Volto santo dicendo: “O Volto che dai gloria agli Angeli!”. Poi baciava la ferita del Costato, dicendo: “O porta gloriosa che ci introduci in Paradiso! O Fedeli cristiani che anelate entrare in Paradiso, venite, qui c’è la porta aperta, giacché mio figlio l’aprì per voi!”. Poi baciava le mani, dicendo: “O mani che creaste il cielo e la terra con tutto ciò che contengono!”. Poi baciava i suoi piedi, dicendo: “O piedi benedetti che misurarono la gloria del Paradiso!”. E (san) Lazzaro, santa Maria Maddalena, santa Marta, Giuseppe d’Arimatea e tutti gli altri fedeli si avvicinavano a quel sacratissimo corpo e pensavano il momento propizio per poterlo adorare e offrirgli totale riverenza.
Questo nella Messa lo ripresenta il sacerdote quando dopo aver dato la pace, per un breve momento sostiene nella sua mano l’Ostia prima di consumarla e allora il buon sacerdote se è devoto e immaginando il dolore della Vergine Maria, della Maddalena e dell’altra Maria e dei buoni cristiani che facevano quel cerchio intorno al corpo di Cristo, vedendo le piaghe e le ferite che Cristo sopportò per la redenzione del genere umano, deve piangere abbondantemente e sentire gran dolore e contrizione di cuore, ecc.

24. – La 24ma opera che il nostro Salvatore realizzò in questo mondo fu voler essere unto con balsamo e mirra e poi avvolto in una sindone bianca e immacolata ed esser posto e rinchiuso in un sepolcro di pietra, nuovo e senza alcuna alterazione o rottura.
Questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote riceve il corpo di Cristo, giacché il corpo del Sacerdote è il monumento nuovo di Gesù Cristo. E vi faccio notare che dico nuovo, perché nel corpo del sacerdote non deve esistere nessuna macchia, o immondezza di peccato come nel sepolcro di Gesù Cristo nel quale nessuno ancora era stato posto (Gv. 19, 41). Sì dev’ essere nuovo per la purezza e la castità. E come il monumento era di pietra resistente, così il presbitero deve essere forte e fermo in una vita buona e di fede.
E così come il corpo di Cristo venne avvolto in una sindone bianca e immacolata, altrettanto il corpo del sacerdote per la castità deve essere bianco e immacolato, perché dentro vi riposa il corpo di Cristo.
E così come il corpo di Cristo fu tutto imbalsamato ugualmente il corpo del sacerdote deve essere pieno di virtù, di giustizia e di perseveranza nella penitenza.
E così come Cristo riposa in quella bianca tela, ugualmente riposa nella coscienza del sacerdote, che è il sepolcro di Cristo.
Possiamo così ragionevolmente credere – benché non si trovi nei testi della Bibbia – che la Beata Vergine e gli altri fedeli cristiani credendo che Cristo risusciterebbe il terzo giorno, raccolsero il sangue ch’era stato versato ai piedi della croce e lo misero in un vaso limpido e fu posto nel sepolcro con il corpo, sì che la Vergine Maria sapeva che il sangue insieme col corpo risusciterebbe il terzo giorno. E perciò il sacerdote come sepolcro di Gesù Cristo che è santo e prezioso come il sepolcro di Gerusalemme – giacché quello è di pietra e tu sei a immagine e somiglianza di Dio, e il corpo del sacerdote è stato consacrato tutto, cresimato e unto e più santo.
C’è anche da considerare che in quel sepolcro fu posto il corpo di Cristo morto, e nel corpo del sacerdote si pone vivo. Ed ancora, ivi venne posto una sola volta, e il sacerdote lo riceve moltissime volte e alcuni lo ricevono tutti i giorni [e oggi più volte al giorno!].
Ed ancora il corpo di Cristo non si macchiò in quel sepolcro essendo avvolto nella sindone e perciò quel sepolcro è detto santo: molto più santo si dice il corpo del sacerdote, dove il corpo di Cristo non si pone avvolto, bensì tutte le carni, le ossa e le membra lo toccano. O sacerdote! Diligentemente medita in questo.

25. – La 25ma opera realizzata da Cristo in questo mondo fu che risuscitò da vita mortale a vita immortale. E poi fu trovato il sepolcro aperto.
E questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote dal centro dell’altare va all’angolo del medesimo per mostrare che così Gesù Cristo passò dalla vita mortale alla immortale. E il sacerdote presenta il calice vuoto per mostrare che il sepolcro di Cristo fu trovato aperto e vuoto. Allora il diacono piega i corporali per mostrare che nel sepolcro si trovarono le bende e il sudario ripiegati [su se stessi], ecc. (cf. Gv. 20, 5-7).

26. – La 26ma opera che Gesù Cristo realizzò in questo mondo fu che dopo la sua gloriosa Risurrezione si manifestò (apparve) a santa Maria Maddalena e agli Apostoli, però prima ancora apparve alla Vergine Maria. Non solo le si manifestò da solo, come fece con santa Maria Maddalena, bensì insieme a tutti i santi Patriarchi e Profeti e altri santi Padri.
E ora, buona gente [nel manoscritto: bona gent], meditate quale consolazione doveva tenere la Vergine Maria quando vedeva il glorioso suo Figlio con quella moltitudine di Santi.
Tutto ciò si ripresenta nella Messa quando il sacerdote dice: “Il Signore sia con voi!”. E di seguito dice (canta) l’orazione postcommunio che ripresenta le parole di consolazione che si scambiarono nostro Signore Gesù Cristo e la sua gloriosa Madre, e come i santi Padri lodavano il nostro e loro Salvatore. E di seguito facevano riverenze alla Madre dicendole: “Regina del Cielo”, non piangete più, e non abbiate né tristezza né disgusto, ecc.

27. – La 27ma opera che Gesù Cristo realizzò fu quando in questo mondo apparve agli Apostoli e mostrandosi in mezzo a loro disse: Pax vobis (Gv. 20, 19).
E questo viene ripresentato dal sacerdote quando mettendosi al centro dell’altare e volgendosi verso il popolo dice: “Il Signore sta con voi!” che quasi vuol dire, è come se dicesse pace a voi.


28. – La 28ma opera che fatta da Gesù Cristo in questo mondo fu che quando doveva salire al Cielo, chiamando gli Apostoli disse loro: Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura; dicendo anche: Chi crederà e sarà battezzato si salverà (Mc. 16, 15-16; Mt. 28, 19-20).
Questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote dice: “Potete andare in pace”, dando permesso al popolo di ritornare alle loro case per compiere i loro doveri, perché si è completato l’ufficio e il sacrificio, così come Cristo dette agli apostoli il permesso (missio) di andare per il mondo essendo stato compiuto il sacrificio.

29. – La 29ma opera di Gesù Cristo in questo mondo fu quando compì la promessa fatta a Pietro e agli Apostoli, dando al beato Pietro il reale possesso del Papato con queste parole: Pasci le mie pecore (Gv. 21, 17). Allora fu fatto papa. E agli altri chierici disse: Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete i peccati … (Gv. 20, 22-23).
E questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote sul finire della Messa torna a umiliarsi inclinando il capo davanti all’altare tanto quanto può, dicendo: “Gradisci, o Trinità santa, ecc.” E quindi rende grazie baciando l’altare e chinandosi per mostrare l’infinita misericordia con cui Egli volle umiliarsi e quale potere così alto Egli tiene - ossia, per perdonare i peccati - (potere) che è solo di Dio e l’ha dato (anche) agli uomini: Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo? (Mc. 2,7). E perciò (il sacerdote) si inchina per mostrare che dinanzi a Dio si inchinerebbe [Gesù Cristo] essendo uomo giacché gli uomini non avevano questo potere. Conseguentemente bacia l’altare riconoscendo questa grazia e subito si segna col segno della santa croce indicando che per la virtù della santa croce venne l’assoluzione, ecc.

30. – La 30ma opera che Gesù Cristo realizzò in questo mondo fu quando apparve alla sua gloriosa Madre e agli Apostoli e li benedisse insieme ai cristiani uomini e donne. E perciò disse il beato Luca: Elevate le sue mani, li benedisse … e fu portato verso il cielo (Lc. 24, 50-51). Allora diceva la Vergine Maria, (interiormente) piangendo: “O Figlio mio, non vengo con Te? Mi lasci qui tra i giudei?”. Allo stesso modo gli Apostoli piangevano dicendo: “Signore, quando ti vedremo di nuovo e quando ritornerai?”. E allora, ecco qui che Cristo dette la benedizione e salì al cielo, donde era uscito.
E questo si ripresenta nella Messa, quando il sacerdote data la benedizione, ritorna nella sacrestia donde era uscito.
Ecco qui come tutta la vita di Cristo sta ripresentata nella Messa. E perciò il tema dice: Fate quello che Egli vi dirà (Gv. 2, 5). Cioè, ripresentare nella Messa tutta la vita di Cristo e non soltanto la Passione. Pertanto, buona gente [nel manoscritto: bona gent], Fate questo in mio ricordo (Lc. 22, 19 e 1 Cor. 11, 23). Cioè, che voi chierici [devotamente celebrerete la vita di Cristo e voi laici] devotamente udendo e non parlando nella messa, né avvicinandovi all’altare, bensì pregando in silenzio, perché così non disturberete che vi sta vicino. Per questo la Vergine Maria lo diceva: Fate quello che Egli vi dirà (Gv. 2, 5), che è il tema.
Alcuni questo non l’incontrano nella Bibbia, però a me sembra che con tutto questo concordano altre autorità: Ascoltate il giudizio del padre, figli amati, e operate così per essere salvi (Sir. 3, 2). Voi cristiani che siete “figli amati, ascoltate il giudizio del padre”, ossia la Messa e “perché siate salvi”. Questa autorità chiama “giudizio” (precetto, comando) la Messa, perché ne abbiate grande riverenza, tanto i sacerdoti che dovete andare alla celebrazione di questo sacramento infiammati d’amore, e tanto le genti del popolo che devono con gran riverenza, ascoltare, non parlando né avvicinandosi all’altare.
Questo è il sermone predicato.
Rendiamo grazie a Dio.











Caterina63
00sabato 14 maggio 2011 21:17
Il convegno sul motu proprio "Summorum Pontificum"

Dalla liturgia antica un ponte ecumenico


 

del sig. cardinale KURT KOCH

"Una speranza per tutta la Chiesa" è il titolo del 3° convegno sul motu proprio Summorum pontificum di Benedetto XVI che si è tenuto oggi, sabato 14, presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino, al quale hanno partecipato, fra gli altri, il cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani e il segretario della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei". Delle relazioni di questi ultimi due pubblichiamo, rispettivamente di seguito e in basso, ampi stralci.

"La riforma della liturgia non può essere una rivoluzione. Essa deve tentare di cogliere il vero senso e la struttura fondamentale dei riti trasmessi dalla tradizione e, valorizzando prudentemente ciò che è già presente, li deve sviluppare ulteriormente in maniera organica, andando incontro alle esigenze pastorali di una liturgia vitale".

Con queste parole illuminanti il grande liturgista Josef Andreas Jungmann ha commentato l'articolo 23 della costituzione sulla sacra liturgia del concilio Vaticano II, dove vengono indicati gli ideali che "devono servire da criterio per ogni riforma liturgica" e di cui Jungmann ha detto: "Sono gli stessi che sono stati seguiti da tutti coloro che con avvedutezza hanno richiesto il rinnovamento liturgico". Diversamente, il liturgista Emil Lengeling ha affermato che la costituzione del concilio Vaticano II ha segnato "la fine del medioevo nella liturgia" ed ha operato una rivoluzione copernicana nella comprensione e nella prassi liturgica.
Ecco qui menzionate le due facce interpretative opposte, che costituiscono il punto cruciale della controversia sviluppatasi intorno alla liturgia dopo il concilio Vaticano II: la riforma liturgica postconciliare deve essere presa alla lettera ed intesa come "ri-forma" nel senso di un ripristino della forma originaria e quindi come ulteriore fase all'interno di uno sviluppo organico della liturgia, oppure questa riforma va letta come una rottura con l'intera tradizione della liturgia cattolica e addirittura la rottura più evidente che il Concilio abbia realizzato, ovvero come la creazione di una nuova forma?

Il fatto che i padri conciliari intendessero la riforma solo nel senso della prima affermazione è stato approfonditamente mostrato soprattutto da Alcuin Reid. Tuttavia, in ampi circoli all'interno della Chiesa cattolica si è sempre di più imposta la seconda interpretazione, che vede nella riforma liturgica una rottura radicale con la tradizione e intende addirittura promuoverla. Questo sviluppo ha condotto, nella comprensione e nella prassi liturgica, a nuovi dualismi.
È certo che il motu proprio potrà far compiere passi avanti nell'ecumenismo solo se le due forme dell'unico rito romano in esso menzionate, ovvero quella ordinaria del 1970 e quella straordinaria del 1962, non vengono considerate come un'antitesi ma come un mutuo arricchimento. Poiché il problema ecumenico si cela in questa fondamentale questione ermeneutica.
Un primo dualismo afferma che prima del Concilio la santa messa era intesa soprattutto come sacrificio e che dopo il Concilio essa è stata riscoperta come cena comune. Nel passato si è naturalmente parlato dell'Eucaristia come di un "sacrificio della messa". Oggi però questo aspetto non solo è meno conosciuto, ma è stato addirittura accantonato o semplicemente dimenticato. Nessuna dimensione del mistero eucaristico è diventata tanto contesa dopo il concilio Vaticano II quanto la definizione dell'Eucaristia come sacrificio, sia come sacrificio di Gesù Cristo che come sacrificio della Chiesa, al punto che vi è da temere che un contenuto fondamentale della fede eucaristica cattolica possa finire completamente nell'oblio. Contro tale dualismo, il Catechismo della Chiesa cattolica tiene unito ciò che è indivisibile: "La messa è a un tempo e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce, e il sacro banchetto della comunione al Corpo e al Sangue del Signore".

Un ulteriore dualismo intorno al quale tende a polarizzarsi la visione di una liturgia preconciliare e di una liturgia postconciliare sostiene che, prima del Concilio, era soltanto il sacerdote il soggetto della liturgia, mentre dopo il Concilio l'assemblea è stata elevata al ruolo d'onore di soggetto della celebrazione liturgica. Certo è indiscutibile che, nel corso della storia, il ruolo originario di tutti i fedeli come co-soggetti della liturgia sia andato man mano scemando e che l'ufficio divino comunitario della Chiesa primitiva nel senso di una liturgia che vedeva partecipe l'intera comunità abbia assunto sempre più il carattere di una messa privata del clero. L'esistenza di una continuità di fondo tra la liturgia antica e la riforma liturgica avviata dal concilio Vaticano II traspare dalla visione ampia e approfondita della costituzione liturgica, secondo cui il culto pubblico integrale è esercitato "dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra" e ogni celebrazione liturgica deve essere pertanto considerata come "opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa". Il Catechismo aggiunge poi: "alcuni fedeli sono ordinati mediante il sacramento dell'Ordine per rappresentare Cristo come Capo del Corpo".

Alla luce del primato cristologico dovrebbe essere evidente che la liturgia cristiana trova il suo senso più profondo nella glorificazione e nell'adorazione del Dio trino e dunque nella santificazione degli uomini. Anche questa dimensione fondamentale della liturgia è diventata vittima di un ulteriore dualismo nel periodo postconciliare, ovvero è stata sempre più assorbita dal concetto di partecipazione. Qui si tratta però di una falsa contrapposizione. Noi possiamo e dobbiamo consumare il cibo eucaristico anche con gli occhi e penetrare così nel mistero eucaristico, affinché esso poi ci si riveli pienamente nel mangiare il Corpo del Signore e nel bere il suo Sangue. Lo stesso Agostino amava sottolineare che nessuno deve mangiare "di questa carne" se non l'ha prima adorata: "Nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoravit".
Tra la liturgia antica e la riforma liturgica postconciliare non c'è una rottura radicale ma una continuità di fondo. Soltanto alla luce di questa convinzione si può comprendere il motu proprio Summorum pontificum di Papa Benedetto XVI. Il Santo Padre infatti non intende la storia liturgica come una serie di spaccature, ma come un processo organico di crescita, di maturazione e di auto-purificazione, nel quale naturalmente possono verificarsi sviluppi e progressi, senza però che continuità e identità vengano distrutte. Per il Papa non può esserci pertanto una contrapposizione tra la liturgia del 1962 e la liturgia riformata postconciliare.

In contrasto con questa chiara visione di sviluppo organico, la riforma liturgica postconciliare è considerata in ampi circoli della Chiesa cattolica come una rottura con la tradizione e come una nuova creazione; essa ha generato una controversia sulla liturgia che, vissuta in maniera emozionale, continua tutt'oggi a farsi sentire. Con il motu proprio Summorum pontificum, Papa Benedetto XVI ha voluto contribuire alla risoluzione di tale disputa e alla riconciliazione all'interno della Chiesa. Il motu proprio promuove infatti, se così si può dire, un "ecumenismo intra-cattolico". Ma questo presuppone che la liturgia antica venga intesa anche come "ponte ecumenico". Infatti, se l'ecumenismo intra-cattolico fallisce, la controversia cattolica sulla liturgia si estenderà anche all'ecumenismo e la liturgia antica non potrà svolgere la sua funzione ecumenica di costruttrice di ponti.
Anche se il motu proprio vuol favorire la pace intra-ecclesiale, non sarebbe giusto vedervi solo una concessione fatta ai cattolici che propendono per la liturgia antica, come la Fraternità Sacerdotale San Pietro o i seguaci dell'arcivescovo Marcel Lefebvre. Papa Benedetto XVI è convinto, piuttosto, che la forma straordinaria del rito romano sia un patrimonio prezioso che non deve essere relegato al passato, ma a cui si deve attingere anche nel presente e nel futuro, come ha sottolineato nella lettera di accompagnamento al motu proprio: "Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dar loro il giusto posto".

Questo rivela chiaramente quale è l'intenzione che anima il motu proprio. Il Papa ritiene che sia oggi indispensabile un nuovo movimento liturgico, che nel passato egli ha definito come "riforma della riforma" della liturgia. Il Santo Padre è infatti dell'avviso che la riforma liturgica postconciliare abbia portato molti frutti positivi, ma che gli sviluppi liturgici del dopo Concilio presentino anche molte zone d'ombra, dovute in gran parte al fatto che "il concetto di mistero pasquale del Concilio non è stato sufficientemente tenuto presente": "Ci si è troppo soffermati sugli aspetti puramente pratici, correndo il rischio di perdere di vista l'essenziale". Ecco perché è lecito chiedersi, in maniera critica, se nella riforma liturgica postconciliare siano stati davvero realizzati tutti i desideri dei padri conciliari, o se, sotto diversi aspetti, le affermazioni fondamentali della costituzione sulla sacra liturgia siano rimaste inadempiute o, addirittura, se negli sviluppi liturgici del dopo Concilio si sia andati intenzionalmente oltre tali affermazioni. Che sia non solo legittimo ma anche appropriato operare una distinzione tra la costituzione sulla sacra liturgia, la riforma liturgica postconciliare e i successivi sviluppi liturgici è provato già dal fatto che proprio i teologi che si erano impegnati nel movimento liturgico o che avevano partecipato ai lavori del Concilio sono presto divenuti seri critici degli sviluppi liturgici postconciliari.

Da qui traspare anche il senso più profondo della riforma della riforma avviata da Papa Benedetto XVI con il motu proprio: così come il concilio Vaticano II è stato preceduto da un movimento liturgico, i cui frutti maturi sono stati portati all'interno della costituzione sulla sacra liturgia, anche oggi c'è bisogno di un nuovo movimento liturgico, che si prefigga come obiettivo quello di far fruttificare il vero patrimonio del concilio Vaticano II nell'odierna situazione della Chiesa, consolidando al tempo stesso i fondamenti teologici della liturgia. Per far ciò occorre non solo la rivitalizzazione del primato cristologico, della dimensione cosmica e del carattere latreutico della liturgia, ma anche e soprattutto la riscoperta del significato basilare del mistero pasquale nella celebrazione della liturgia cristiana.

Di questo nuovo movimento liturgico il motu proprio costituisce solo l'inizio. Benedetto XVI infatti sa bene che, a lungo termine, non possiamo fermarci a una coesistenza tra la forma ordinaria e la forma straordinaria del rito romano, ma che la Chiesa avrà nuovamente bisogno nel futuro di un rito comune. Tuttavia, poiché una nuova riforma liturgica non può essere decisa a tavolino, ma richiede un processo di crescita e di purificazione, il Papa per il momento sottolinea soprattutto che le due forme dell'uso del rito romano possono e devono arricchirsi a vicenda. Egli indica anche come: "Nella celebrazione della messa secondo il messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all'antico uso. La garanzia più sicura che il messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni, il che rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo messale". Coloro che al contrario rifiutano il postulato di un nuovo movimento liturgico e vedono nel motu proprio un passo indietro rispetto al Vaticano II, verosimilmente intendono la riforma liturgica postconciliare come un punto d'arrivo, che va difeso con tutte le forze, secondo il rigido conservatismo di molti progressisti. Essi non solo non considerano gli sviluppi storici della liturgia come un processo organico di crescita e di maturazione, ma respingono anche l'ermeneutica della riforma sollecitata da Benedetto XVI per l'interpretazione del Vaticano II. Preferiscono infatti sostenere l'ermeneutica della discontinuità e della rottura, considerata inadeguata dal Papa, applicandola soprattutto al campo della liturgia e dell'ecumenismo. Anche il decreto sull'ecumenismo ha difatti segnato un nuovo inizio nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e le Chiese e Comunità ecclesiali non cattoliche. Ma neanche questa nuova svolta ecumenica ha comportato una rottura con la tradizione; essa si iscrive piuttosto in una continuità di fondo con la tradizione, come mostra il semplice fatto che non sarebbe mai stata possibile se nel periodo preconciliare non fossero già stati presenti impulsi ecumenici, almeno nel loro stadio embrionale, anche all'interno della Chiesa cattolica.

Affiora così la reale importanza ecumenica del motu proprio Summorum pontificum. Poiché Benedetto XVI non ha semplicemente applicato l'ermeneutica della riforma al campo della liturgia, ma ha sollecitato questa ermeneutica in primo luogo proprio per la costituzione conciliare sulla sacra liturgia. È precisamente in questo campo che traspaiono con chiarezza i due diversi tipi di ermeneutica che possono essere seguiti: l'ermeneutica della riforma, che prende certamente atto di sviluppi e progressi, ma che vede una continuità di fondo con la tradizione; oppure l'ermeneutica della discontinuità e della rottura, che contrappone liturgia, e dunque anche Chiesa, preconciliare a liturgia e Chiesa postconciliare e recide il legame con la tradizione. Proprio in questa alternativa risiede la questione fondamentale per il futuro della Chiesa cattolica e, al tempo stesso, per la credibilità del suo ecumenismo. Anche in questo senso il motu proprio Summorum pontificum si rivela importante a livello ecumenico. O meglio: il motu proprio può diventare un ponte ecumenico veramente solido soltanto se esso viene innanzitutto percepito e recepito come "una speranza per tutta la Chiesa".




Il significato dell'istruzione "Universae Ecclesiae"

 

di mons.GUIDO POZZO

La costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium del concilio Vaticano II, afferma che "la Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella Liturgia una rigida uniformità" (n. 37). Non sfugge a molti che oggi sia in questione la fede, per cui è necessario che le varietà legittime di forme rituali debbano ritrovare l'unità essenziale del culto cattolico. Il Papa Benedetto XVI lo ha ricordato accoratamente: "Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell'amore spinto sino alla fine (cfr. Giovanni, 13, 1) in Gesù Cristo crocifisso e risorto" (Lettera ai vescovi in occasione della revoca della scomunica ai quattro presuli consacrati dall'arcivescovo Lefebvre, 10 marzo 2009).

Il beato Giovanni Paolo II richiamava a sua volta che "la sacra liturgia esprime e celebra l'unica fede professata da tutti ed essendo eredità di tutta la Chiesa non può essere determinata dalle Chiese locali isolate dalla Chiesa universale" (Enciclica Ecclesia de Eucharistia, n. 51) e che "la liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità nella quale si celebrano i Misteri" (ivi, n. 52). Nella costituzione liturgica conciliare si afferma inoltre: "il Sacro Concilio, in fedele ossequio alla tradizione, dichiara che la Santa Madre Chiesa considera con uguale diritto e onore tutti i riti legittimamente riconosciuti, e vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati" (n. 4). La stima per le forme rituali è il presupposto dell'opera di revisione che di volta in volta si rendesse necessaria. Ora, le due forme ordinaria e extraordinaria della liturgia romana, sono un esempio di reciproco incremento e arricchimento. Chi pensa e agisce al contrario, intacca l'unità del rito romano che va tenacemente salvaguardata, non svolge autentica attività pastorale o corretto rinnovamento liturgico, ma priva piuttosto i fedeli del loro patrimonio e della loro eredità a cui hanno diritto.

In continuità col magistero dei suoi predecessori, Benedetto XVI promulgò nel 2007 il motu proprio Summorum Pontificum, con cui ha reso più accessibile alla Chiesa universale la ricchezza della liturgia romana, e ora ha dato mandato alla Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" di pubblicare l'istruzione Universae Ecclesiae per favorirne correttamente l'applicazione.
Nell'introduzione del documento si afferma: "Con tale motu proprio il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha promulgato una legge universale per la Chiesa" (n. 2). Ciò significa che non si tratta di un indulto, né di una legge per gruppi particolari, ma di una legge per tutta la Chiesa, che, data la materia, è anche una "legge speciale" che "deroga a quei provvedimenti legislativi, inerenti ai sacri Riti, emanati dal 1962 in poi ed incompatibili con le rubriche dei libri liturgici in vigore nel 1962" (n. 28). Va qui ricordato l'aureo principio patristico da cui dipende la comunione cattolica: "ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l'integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede" (n. 3). Il celebre principio lex orandi-lex credendi richiamato in questo numero, è alla base del ripristino della forma extraordinaria: non è cambiata la dottrina cattolica della messa nel rito romano, perché liturgia e dottrina sono inscindibili. Vi possono essere nell'una e nell'altra forma del rito romano, accentuazioni, sottolineature, esplicitazioni più marcate di alcuni aspetti rispetto ad altri, ma ciò non intacca l'unità sostanziale della liturgia.

La liturgia è stata ed è, nella disciplina della Chiesa, materia riservata al Papa, mentre gli ordinari e le conferenze episcopali hanno alcune competenze delegate, specificate dal diritto canonico. Inoltre, l'istruzione riafferma che vi sono ora "due forme della Liturgia Romana, definite rispettivamente ordinaria e extraordinaria: si tratta di due usi dell'unico Rito romano (…) L'una e l'altra forma sono espressione della stessa lex orandi della Chiesa. Per il suo uso venerabile e antico, la forma extraordinaria deve essere conservata con il debito onore" (n. 6). Il numero seguente riporta un passaggio-chiave della lettera del Santo Padre ai vescovi, che accompagna il motu proprio: "Non c'è nessuna contraddizione tra l'una e l'altra edizione del Messale Romano. Nella storia della liturgia c'è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso" (n. 7). L'istruzione, in linea col motu proprio, non riguarda solo quanti desiderano continuare a celebrare la fede nello stesso modo con cui la Chiesa l'ha fatto sostanzialmente da secoli; il Papa vuole aiutare i cattolici tutti a vivere la verità della liturgia affinché, conoscendo e partecipando all'antica forma romana di celebrazione, comprendano che la costituzione Sacrosanctum concilium voleva riformare la liturgia in continuità con la tradizione.









(©L'Osservatore Romano 15 maggio 2011)

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il peccato di INDUZIONE esiste cari sacerdoti......


Danno causato da una Messa celebrata male



da Cordialiter:

Mi narrò un certo religioso di molto credito, che, in Roma, vi fu un certo eretico che era deciso ad abiurare, ma avendo poi visto una Messa indevota, andò dal Papa e gli disse, che non voleva più abiurare, essendosi persuaso che né i sacerdoti né lo stesso Papa avevano vera fede per la Chiesa Cattolica. Perché –diceva-, se io fossi Papa, e sapessi esservi un sacerdote che dice la Messa con poca riverenza, lo farei bruciar vivo. Ma vedendo poi che vi sono sacerdoti che celebrano così, e non sono castigati, mi persuado che neppure il Papa ci crede. E così dicendo si licenziò, e non volle più abiurare.

(Brano tratto dagli scritti di Sant'Alfonso de Liguori)


Caterina63
00lunedì 1 agosto 2011 11:24
[SM=g1740733] quando anche l'occhio vuole la sua parte.....

Seta e luce: il dono di Pio X alla Cattedrale Tarvisina


Qualche scatto della splendida pianeta donata alla Cattedrale di Treviso da Papa Pio X. Il paramento, di produzione francese (seconda metà del secolo XIX) è fornito di stola, manipolo, borsa e velo da calice. In tela lamé, la pianeta è caratterizzata da una ricchissimo ricamo in vasta gamma di sete policrome, raffigurante la Crocifissione con il sapiente uso del punto pittura e del punto arazzo. Il prezioso manufatto è attualmente esposto al Museo Diocesano d'Arte Sacra.






Caterina63
00venerdì 25 novembre 2011 23:09

Le vesti e le insegne del Vescovo



Ecco due foto che mostrano come dovrebbe vestirsi correttamente (cioè secondo il Caeremoniale Episcoporum) un Vescovo per la Celebrazione della S. Messa:

Le vesti e le insegne del vescovo

56. Le vesti del vescovo nella celebrazione liturgica sono le stesse del presbitero; ma nelle celebrazioni solenni è opportuno che, secondo l’uso tramandato dall’antichità, indossi sotto la casula la dalmatica, che può essere sempre bianca.

57. Le insegne pontificali portate dal vescovo sono: l’anello, il pastorale, la mitra e la croce pettorale; inoltre il pallio, se gli compete di diritto.

61. La croce pettorale sia portata sotto la casula o sotto la dalmatica.


Foto di Mons. Eugenio Ravignani, Vescovo emerito di Trieste, da

http://sacrissolemniis.blogspot.com/2010/08/la-festa-di-san-rocco-in-venezia.html

[SM=g1740733]

e ancora... ricordiamo:

Principi e norme per l'uso del Messale Romano, n. 298: "La veste sacra comune a tutti i ministri di qualsiasi grado è il camice, stretto ai fianchi dal cingolo, a meno che non sia fatto in modo da aderire al corpo anche senza cingolo. Se il camice non copre pienamente, intorno al collo, l'abito comune, prima di indossarlo si deve mettere l'amitto".

Aggiungo che il buon gusto è merce rara quanto il buon senso... ossia, l'amitto come il cingolo, non sono degli accessori-opcional e privi di senso, l'abbiamo spiegato sopra.... un sacerdote non può fare a meno del BUON SENSO e vestire, per la Messa, IN MODO COMPLETO e non come spesso tristemente si osserva: SENZA LA CASULA, con un camice senza amitto e senza cingolo, con la stola portata come una sciarpa.... [SM=g1740729]

Il problema è che, in questo modo, ossia, con certa LIBERTA' nel vestire del Sacerdote, si è perduto completamente il senso del valore simbolico dei paramenti.

L'amitto e il cingolo, nelle rubriche del novus ordo, sono stati ridotti a semplici complementi dal camice, di cui si può fare a meno quando non servono, anche se non è così letteralmente descritto, la scelta libera dell'indossare ora uno ora l'altro, o perfino solo la stola...hanno prodotto una naturale ANARCHIA....

Ma non dobbiamo scordare che, accanto alla loro funzione pratica, i paramenti hanno anche un significato mistico
. L'amitto simboleggiava l'elmo con cui si armava il sacerdote contro gli assalti del demonio (orazione del Messale) e la virtù dell'umiltà (Pontificale Romano). Col cingolo si alludeva, in maniera abbastanza intuitiva, alla castità.

Anche prima si era in grado di fabbricare camici alti al collo e stretti in vita. Ma, per fortuna, si aveva un senso della liturgia che andava ben oltre le caratteristiche sartoriali degli abiti.

Del resto, se ci limitiamo alla dimensione puramente utilitaristica, non c'è bisogno di alcun paramento, di nessun orpello esteriore, di nessuna liturgia, in ultima analisi. Ecco che, allora, molti sacerdoti non usano la stola sotto la pianeta perché "non si vede". Altri, andando oltre, celebrano in borghese: fenomeno raro, oggi, almeno dalle nostre parti, meno raro negli anni Settanta.

I camicioni di oggi, spesso realizzati con materiali tessili che non si userebbero neppure per coprire la motocicletta nella propria rimessa, non sono soltanto brutti e ridicoli. Sono anche svuotati di quel senso ultraterreno che la saggezza della Chiesa aveva loro conferito in secoli di elaborazione liturgica. [SM=g1740730]

Le rubriche del Messale pre-Vaticano II prescrivevano che il sacerdote  baciasse l'amitto prima di usarlo.... e dal non baciarlo a non indossarlo più significa solo alimentare il dubbio che la Liturgia, il suo significato, il Sacerdozio stesso, hanno subito delle gravi modifiche...

    *  San Tommaso d'Aquino  vede nell'amitto un segno della fermezza nel compimento del ministero sacro da parte dei sacerdoti.
Summa Theologiae, Supplemento, q. 40, a. 7.

[SM=g1740733]



Caterina63
00venerdì 25 novembre 2011 23:30
[SM=g1740733]Cari Sacerdoti, e cari Vescovi.....
quando parliamo di Messa in latino, si fa una grande confusione volendo pensare, esclusivamente, alla Messa nella Forma detta Straordinaria, cioè quella "antica, quella "tridentina" quella detta "san Pio V".... tutti termini scorretti poichè, come ben sappiamo, sono nati DOPO il Concilio e per sottolineare volutamente una DIFFERENZA, spesse volte critica, odiosa, DI ROTTURA come spiega Benedetto XVI, con la Messa stessa, il Culto Cattolico rivolto a Dio....
La Messa in latino è un termine che si dovrebbe usare SEMPRE.... perchè questo identifica semplicemente che stiamo parlando della Messa, del Culto a Dio con le Norme della Chiesa di Roma, di rito Latino, appunto, come fin dai primi secoli veniva identificata la Chiesa retta dall'Apostolo Pietro, mentre per definire le Chiese Orientali si diceva LA CHIESA DI RITO GRECO....

E' ovvio che accanto al termine c'è anche un senso ed un significato: la Messa di rito latino si diceva in latino... la Messa in Oriente, ancora oggi, si dice in greco... ma nessuno se ne lamenta, mentre per il latino avete sollevato, e continuate a sollevare, enormi muri di diffidenza, di ignoranza, di confusione, e persino di odio, astio....

La Messa nella forma Ordinaria è anch'essa Messa in latino! e questo perchè il latino non è mai stato abrogato e sia Paolo VI, quanto Giovanni Paolo II, quanto Giovanni Paolo I appena eletto, ed oggi Benedetto XVI, tutti hanno celebrato e celebra oggi il Papa una parte del Canone, quello della Consacrazione, in latino....
Ma il latino è scomparso, e ne siete responsabili davanti a Dio.... dalle Parrocchie.... si continuano a calpestare le Norme sulla Liturgia, si continua ad ignorare i tanti richiami dei Pontefici, si continua a denigrare Benedetto XVI, si continua a disobbedire e a procedere con la fede del fai da te senza più i Vescovi che sappiano richiamare all'ordine i propri presbiteri, senza più la correzione fraterna....

Allora, vogliamo riscoprire l'importanza del latino nella liturgia? [SM=g1740733]

Le ragioni del latino

di Daniele Di Sorco


Gli argomenti a favore dell'uso del latino (o comunque di una lingua non corrente, cfr. per esempio i riti orientali più diffusi) nella liturgia possono essere ridotti a tre:

1) L'universalità. La Chiesa cattolica è universale, non solo perché si trova effettivamente diffusa su tutta la terra, ma perché la rivelazione divina da essa custodita è identica per ogni uomo. Tutti i cattolici degni di questo nome professano una stessa fede, credono nelle stesse verità, obbediscono agli stessi pastori. È del tutto logico, quindi, che all'unità della fede faccia riscontro l'unità della preghiera, per lo meno di quella preghiera ufficiale che i cattolici svolgono in forma comunitaria e pubblica, cioè della liturgia (Messa, Ufficio divino o Breviario, Sacramenti). Per la maggior parte delle persone, infatti, la liturgia è scuola di fede, è il momento in cui si apprendono e si mettono in pratica le nozioni relative alle principali verità di religione: di qui l'antico proverbio legem credendi lex statuat supplicandi (la norma della fede sia determinata dalla norma della preghiera). Per esempio, adorando con atti esteriori (genuflessioni, preghiere, ecc.) la santa Eucaristia nella Messa, si comprende più in profondità e si manifesta in forma pubblica la fede interiore nella Presenza reale di nostro Signore nel Sacramento dell'altare. La liturgia, in poche parole, è segno visibile del vincolo di unità che lega tutti i membri della Chiesa. Ora, tale vincolo può forze prescindere dalla lingua e accontentarsi soltanto del contenuto dei testi e dell'apparato delle cerimonie? La risposta è negativa. Ben lungi dal costituire un semplice mezzo con cui esprimere dei concetti (come un abito che si può cambiare a proprio piacimento, mentre il corpo resta lo stesso), la lingua costituisce, per il parlante, una vera e propria forma mentis. Per dimostrarlo, basta l'esperienza: quando andiamo all'estero, anche se conosciamo la lingua del posto, ci sentiamo spaesati, a disagio, come se avessimo a che fare a qualcosa che non ci appartiene; mentre se, nello stesso contesto, incontriamo qualcuno che parla italiano, la sensazione è quella di trovarsi subito a casa. Ecco il vantaggio di avere una lingua comune per i riti: quello di realizzare l'unità nella facoltà propria degli esseri razionali e che caratterizza in modo diretto e intuitivo la loro psicologia: l'espressione linguistica. Quando il latino era la lingua comune della liturgia, il cattolico che entrava in chiesa si sentiva automaticamente a casa propria, all'estero così come nel proprio paese di origine. Questa unità di linguaggio e, diciamolo pure, di sensazione, di impressione, non era che un riflesso di un'altra unità, ben più profonda, quella della fede. Non stupisce, allora, che tutti i tentativi di eresia abbiano avuto, tra le loro pretese, quello della liturgia in lingua nazionale: si voleva fare della fede qualcosa di soggettivo, di personale, di locale; e anche l'espressione esteriore e pubblica della fede doveva andare nella medesima direzione.

2) L'univocità. Si sente spesso dire che il latino è una lingua morta. Non è vero. Il latino è una lingua viva e vegeta, poiché c'è chi la parla (nella liturgia, nell'insegnamento di certi seminari) e chi la scrive (si pensi soltanto ai documenti ufficiali della Chiesa). Non è tuttavia una lingua di uso corrente, cioè una lingua che si usa per la conversazione quotidiana. Ma, a ben vedere, per la liturgia questo costituisce un indubbio vantaggio. La fede, infatti, è espressione di verità sempre uguali, che non mutano col passare del tempo e con l'evolversi della storia, poiché esse promanano da Dio, nel quale, come dice S. Giacomo nella sua epistola (1, 17), non c'è ombra né traccia di divenire. Ora, non c'è bisogno di essere un esperto di linguistica per rendersi conto di come il linguaggio corrente sia sottoposto a numerose e continue variazioni di significato. Basti pensare alla parola "salute", che nell'italiano di un tempo significava genericamente "salvezza (del corpo, quindi, ma soprattutto dell'anima = lat. salus), mentre oggi indica solamente la sanità fisica. Inoltre le parole del linguaggio corrente assumono per ciascuno una sfumatura particolare, sulla base del vissuto personale, dell'associazione spontanea di idee, della eccessiva familiarità dei concetti. Si capisce, dunque, che la lingua di uso corrente, per la sua eccessiva variabilità oggettiva e soggettiva, non è la più adatta per esprimere i contenuti della liturgia, che sono contenuti eterni, immutabili, come eterno e immutabile è l'oggetto cui si rivolgono, cioè Dio. Il latino, essendo uscito dall'uso quotidiano da più di un millennio, offre invece i requisiti richiesti, poiché il suo lessico, le sue formule, le sue modalità espressive sii sono cristallizzati in forme ben precise, dal significato univoco, che non possono essere in alcun modo travisate o alterate dalla percezione soggettiva.

3) La sacralità. Parliamo, naturalmente, non di una sacralità intrinseca (nessuna lingua di per sé è più sacra di altre), ma di una sacralità acquisita. Da secoli il latino, sottratto all'uso comune e impiegato principalmente in ambito ecclesiastico, viene percepito come lingua inscindibilmente legata al sacro, allo stesso modo in cui l'organo, pur essendo talvolta adoperato in altri contesti, viene automaticamente associato alla chiesa. Se la Chiesa ha conservato il latino (e, in oriente, il greco antico e il paleoslavo, tutte lingue fuori dall'uso), non è per ottuso immobilismo (lo dimostra il fatto che già nel IX secolo, quando il latino cominciava a non essere più compreso dalle masse, si ordinò ai sacerdoti di tenere l'omelia in volgare), ma per marcare, anche sul piano linguistico, la distinzione essenziale che separa il profano dal sacro. Anche a tale riguardo, è bene richiamare alla mente alcune nozioni di psicologia linguistica, che, per quanto elementari e scontate, sembrano essere trascurate da molti. L'uso di un tipo di linguaggio piuttosto che un altro è determinato dal contesto in cui ci si trova e dall'oggetto di cui si parla: altro è il modo con cui mi rivolgo a un parente o a un amico, altro è il modo con cui parlo a un superiore, altro ancora è il modo con cui interloquisco con un personaggio famoso. E, a parità di interlocutore, il mio modo di esprimermi sarà diverso a seconda che parli di una partita di calcio o della struttura interna dell'atomo. Ciascun registro linguistico è legato ad una situazione ben precisa. Sarebbe del tutto strano e fuori luogo parlare col proprio datore di lavoro impiegando lo stesso lessico e le stesse espressioni che si userebbero con un familiare. Non stupisce, dunque, che anche la liturgia, nella quale l'interlocutore è Dio stesso e l'oggetto sono le realtà soprannaturali, abbia un linguaggio proprio, radicalmente diverso da quello impiegato nella vita quotidiana e nelle attività profane. L'uso del latino serve per far comprendere meglio, anche sul piano dell'espressione verbale (che è uno dei piani più importanti della psicologia umana), che nell'azione liturgica siamo di fronte a qualcosa che, trascendendo la realtà immanente, non può essere espressa nello stesso linguaggio di quest'ultima. Del resto, anche ai tempi di Gesù, in Palestina la lingua corrente era l'aramaico, ma nelle sinagoghe il culto avveniva quasi interamente in ebraico antico, ad eccezione soltanto delle parti destinate all'istruzione del popolo.

Si potrebbe obiettare che l'uso del latino preclude la comprensione dei testi liturgici alla maggior parte del popolo e quindi ostacola uno dei fini del culto pubblico, che è l'edificazione dei fedeli. Tale rilievo ha il sapore delle contestazioni superficiali, che al primo impatto sembrano ovvie e scontate, ma che rivelano tutta la loro inconsistenza una volta che si esamini più approfonditamente la questione.

In primo luogo, la liturgia non è uno spettacolo teatrale, nel quale si debba ascoltare e comprendere ogni singola parola. La liturgia serve a farci penetratre, mediante il suo apparato di segni visibili, nelle realtà divine che in essa si celebrano. Per questo il sacerdote si spoglia dei suoi abiti quotidiani e si riveste dei sacri paramenti, per questo la celebrazione segue un rito codificato, per questo i cristiani si riuniscono in un luogo apposito e diverso da tutti gli altri, la chiesa. Si comprende facilmente, allora, come la partecipazione alla liturgia debba avvenire in primo luogo a livello interiore, con la comprensione profonda e personale del mistero che si celebra, con l'elevazione della mente a Dio, autore di tali misteri. Un rito che favorisce il senso esteriore del sacro, ne agevola la percezione interiore. Viceversa, un rito che, a causa dell'impiego di elementi troppo legati alla realtà quotidiana, non marca adeguatamente la differenza tra sacro e profano, non riesce a far penetrare adegutamente il fedele nella dimensione del mistero. Il risultato è una liturgia che ha per oggetto, non più Dio, ma la comunità stessa, che finisce per celebrare valori (o, talvolta, disvalori) esclusivamente umani, rispetto ai quali Dio o si trova in disparte (come i crocifissi nelle chiese moderne) o è del tutto escluso. In altre parole, celebrare la liturgia attingendo le sue principali caratteristiche dalla realtà profana (lingua corrente, canzonette, improvvisazioni, mortificazione del simbolismo) significa scadere nell'autoreferenzialità, e invogliare le persone ad abbandonare la pratica religiosa: infatti, se in chiesa trovo le stesse cose (o, meglio, un surrogato delle stesse cose) che mi offre il mondo, perché dovrei andarci?

Non è vero, poi, che la comprensione della liturgia tradizionale sia appannaggio di chi conosce la lingua latina. L'esperienza dimostra che il popolo aveva un'idea molto più chiara del valore della Messa e del significato dei riti quando essi venivano celebrati in una lingua ai più sconosciuta, che non oggi, quando tutto avviene in italiano e con un rito semplificato. Perché? Perché la liturgia è per lo più costituita da uno schema fisso, che si ripete sempre uguale in tutte le celebrazioni e che pertanto basta imparare una volta per tutte. Le parti variabili sono poche: nella Messa ve ne sono nove (antifona all'introito, orazione, epistola, versetti interlezionari, vangelo, antifona all'offertorio, secreta, antifona alla comunione, dopocomunione), di cui quattro sono canti, mentre soltanto due (epistola e vangelo, a cui si possono aggiungere, volendo, le tre orazioni) riguardano direttamente l'istruzione del popolo. Queste possono essere lette da chiunque su un messalino che riporta la traduzione del testo liturgico. E, in ogni caso, si è diffusa da molto tempo la consuetudine di leggere in volgare le letture scritturistiche. Riassumendo: le parti fisse (ordinario della Messa) sono sempre uguali, ed è sufficiente memorizzarle una volta per tutte, non quanto alla singola parola, s'intende, ma quanto al significato; le parti mobili (proprio della Messa) possono essere consultate sul messalino bilingue, grazie al quale, peraltro, il fedele può usare i testi liturgici a casa propria, per sua meditazione personale. La difficoltà di imparare almeno i rudimenti della lingua liturgica non è poi così grande come sembra, specialmente se si pensa che anche i testi italiani, per essere adeguatamente compresi, hanno comunque bisogno di una spiegazione (l'uso del volgare non basta per rendere i concetti teologici contenuti nella Messa automaticamente intellegibili) e che, in passato, perfino le persone di bassa cultura conoscevano a memoria le principali parti della liturgia, magari storpiando qualche desinenza latina ma avendo ben chiaro il significato.

Si tenga conto, infine, che l'uso di una lingua diversa da quella corrente stimola la concentrazione dei fedeli. Sembra un paradosso, ma è così. Un rito interamente celebrato in volgare non richiede alcuno sforzo di comprensione. Si può benissimo andare a Messa (tutti, credo, abbiamo fatto almeno una volta questa esperienza), ascoltare tutto, rispondere a tutto, ma avere la mente altrove. Molto, certo, dipende dalla disposizione personale, ma una responsabilità non piccola va attribuita alla facilità di un rito in cui la lingua è quella di tutti giorni, le cerimonie semplificate, l'atmosfera da riunione profana. L'ostacolo linguistico (che poi, come abbiamo visto al paragrafo precedente, è un ostacolo soltanto relativo) costituisce per il fedele un incentivo a compiere quello sforzo mentale che gli consente di entrare nella dimensione propria della liturgia, che è una dimensione radicalmente diversa da quella quotidiana.

In conclusione, possiamo affermare sulla base di solidi argomenti che i vantaggi derivanti dall'uso indiscriminato del volgare sono assai minori rispetto a quelli che si ottengono dall'uso del latino, e, in ogni caso, sono anch'essi subordinati alla spiegazione del significato dei riti e delle preghiere (catechesi liturgica). Per cui, a conti fatti, non c'è ragione per allontanarsi dalla pratica che non solo la Chiesa cattolica, ma anche le principali tra le false religioni hanno sempre e costantemente osservato.

Alle considerazioni di tipo teorico, se ne può aggiungere una, decisiva, di indole pratica. L'antico rito, grazie all'eminente sacralità che gli deriva dall'uso di una lingua diversa da quella corrente, ha prodotto, nel corso dei secoli, abbondantissimi frutti di spiritualità e santità, non solo nel clero e in coloro che conoscevano il latino, ma anche nel popolo illetterato e analfabeta, che non comprendeva le singole parole del rito, ma coglieva il senso ultimo della liturgia, il suo significato profondo. Oggi (ma potremmo fare un parallelo con la crisi religiosa conseguita all'introduzione del volgare e alla semplificazione dei riti nei paesi protestanti) assistiamo al fenomeno inverso: il rito in volgare e semplificato è materialmente intellegibile e i fedeli possono parteciparvi esteriormente con la massima comodità; ma ciò ha indotto la maggior parte dei cristiani (anche del clero, purtroppo) a ritenere che non fosse necessario andare oltre, che cioè lo spirito della liturgia consistesse nella comprensibilità stessa; il rito, quindi, ha valore non nella misura in cui avvicina a Dio, ma nella misura in cui esprime i bisogni e le aspettative della comunità: ecco il cerchio autoreferenziale, da cui Dio è praticamente escluso, e a creare il quale ha contribuito in misura non piccola una liturgia abbassata talmente a livello dell'uomo da essere divenuta interamente umana.

Con quale disposizione, dunque, bisogna riaccostarsi all'antica liturgia, se non la si è mai conosciuta o se non la si frequenta più da molti anni? Prima di tutto, senza la pretesa di restarne immediatamente affascinati. È vero che molti fedeli rimangono subito attratti dalla sacralità che promana dal rito antico, ma è anche vero che, per molti, la forza dell'abitudine, unita ad un'errata concezione della liturgia, che identifica il suo valore con la partecipazione e la comprensibilità esteriore), rende difficile l'immediata fruizione di un rito che si basa su presupposti nettamente diversi. Occorre, quindi, dare tempo al tempo: assistere al rito con mente sgombra da preconcetti, senza la smania di capire tutto subito, lasciandosi penetrare dalla sacralità del rito, riscoprendo il valore della preghiera personale (lasciata in disparte dalla moderna liturgia), apprezzando la funzione di una lingua che inizialmente si crede un ostacolo ma che poi si rivela chiave di accesso ad una dimensione ulteriore, quella del sacro e del divino, che molti probabilmente non hanno mai conosciuto nella preghiera liturgica.



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Caterina63
00martedì 3 gennaio 2012 11:02
[SM=g1740717] Rito della Vestizione del Vescovo: in Occidente e in Oriente
blog.messainlatino.it/2012/01/rito-della-vestizione-del-vescovo...



Qualche "video" divertente, che mostra momenti a-liturgici ... ma che hanno pur essi una loro precisa e scandita "liturgia": la vestizione del Vescovo.
Il primo video mostra il Vescovo (S. E. Mons. Mario Oliveri, della Diocesi di Albenga-Imperia) che, recitate le preghiere, assume i paramenti pontificali prima della S. Messa secondo la forma extraordinaria del Rito Romano (nella fattispecie l'occasione è la professione dei voti solenni di 7 Monache Francescane dell'Immacolata -ramo contemplativo- nella Basilica di Imperia Porto Maurizio, il 26.10.2008).
La "vestizione" può essere fatta in sacrestia, oppure "pubblica", cioè in una cappella della chiesa o addirittura al trono o al faldistorio.
Le preghiere che sono associate a ciascun momento o all'assunzione di ogni paramento, possono essere recitate insieme senza soluzione di continutià -come si vede in questo video- o recitate ad ogni momento o paramento a cui esse si riferiscono.
www.youtube.com/watch?v=L-XA_r7zSY4&feature=player_embedded

secondo video (tratto dal blog Byzantine, Texas del 22.12.2011), invece illustra i momenti della vestizione di un Vescovo Ortodosso di rito Bizantino e, se pur in inglese, spiega i significati e la simbologia dei gesti e dei paramenti assunti (si trova la spiegazione scirtta qui al sito indicato della chiesa rumena di S. Elia si trova il rispettivo bizantino del "Cerimonale episcopale", con alcune spiegazioni e i nomi dei paramenti).
In linea di massima questa ritualità della Vestizione pubblica è pressoché identica a quella previta per la vestizione del Vescovo Cattolico Bizantino.
www.youtube.com/watch?v=WKLxTWs886s&feature=player_embedded





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Caterina63
00lunedì 23 gennaio 2012 11:32
[SM=g1740733]Cari Sacerdoti.... qui abbiamo sviscerato l'argomento: NON ESISTE ALCUNA MESSA NEOCATECUMENALE.... invitiamo, sollecitiamo e supplichiamo i sacerdoti-parroci a smetterla di far stravolgere l'assetto del presbiterio delle parrocchie per avanzare una prassi liturgica neocatecumenale INESISTENTE.... [SM=g1740730] è il Papa che lo chiede: le approvazioni riguardanti al Cammino consistono solo nelle LORO CELEBRAZIONI INTERNE, ma a riguardo alla Parrocchia vige la disciplina e la regola del cum ECCLESIAE e la Messa che vi si celebra è quella che ci testimonia il Pontefice....

Diario Vaticano / Ai neocatecumenali il diploma. Ma non quello che si aspettavano

La Santa Sede ha approvato i riti che scandiscono le tappe del loro catechismo. Ma le particolarità con cui essi celebrano le messe restano sempre sotto osservazione. Alcune sono consentite. Altre no

di ***




CITTÀ DEL VATICANO, 23 gennaio 2012 – Prima dell’udienza con Benedetto XVI di tre giorni fa, dentro il Cammino neocatecumenale correva voce che in quell'occasione sarebbero state definitivamente approvate le “liturgie” del movimento ecclesiale fondato da Francisco "Kiko" Argüello e Carmen Hernández:

> "Placet" o "Non placet"? La scommessa di Carmen e Kiko


Tali voci davano addirittura per pronto il documento di convalida.

In realtà questo provvedimento non era assolutamente all’ordine del giorno in Vaticano, come si è potuto verificare nel corso dell’udienza col papa del 20 gennaio.

All'inizio dell'udienza, infatti, è stato letto un decreto del pontificio consiglio per i laici nel quale, con "il parere favorevole della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti", semplicemente si "concede l’approvazione a quelle celebrazioni contenute nel Direttorio catechetico del Cammino neocatecumenale che non risultano per loro natura già normate dai libri liturgici della Chiesa".

Più chiaramente il papa nel suo discorso ha ribadito che con il suddetto decreto soltanto "vengono approvate le celebrazioni" presenti nel Direttorio catechetico, che "non sono strettamente liturgiche".

Ciò vuol dire che i rituali approvati in questa occasione non riguardano in alcun modo la liturgia della messa o l’amministrazione dei sacramenti, ma solo le celebrazioni interne al Cammino che scandiscono le principali tappe del lungo catecumenato di ogni suo membro.

Benedetto XVI ha inoltre approfittato dell'udienza per rivolgere ai capi e ai membri del Cammino un "breve pensiero sul valore della liturgia". È si è trattato di un "pensiero" che aveva tutto il sapore di una lezione, densa e impegnativa nonostante la brevità.

In essa il papa ha ricordato che "il vero contenuto della liturgia" è si "opera del Signore Gesù", ma "è anche opera della Chiesa, che, essendo suo corpo, è un unico soggetto con Cristo". E con ciò ha messo in guardia dalla tentazione – presente nelle teorie liturgiche neocatecumenali ma non solo – di un "archeologismo" che pretenderebbe di riprodurre artificiosamente l'ultima cena di Gesù e le "frazioni del pane" dei primissimi tempi cristiani senza tener conto degli sviluppi liturgici che sono maturati legittimamente nella Chiesa nel corso dei secoli.

Nel suo discorso, inoltre, Benedetto XVI ha sottolineato il "carattere pubblico della Santa Eucaristia". Ha ricordato che in base agli statuti del Cammino approvati nel 2008 "i neocatecumenali possono celebrare l’Eucarestia domenicale nella piccola comunità dopo i primi vespri della domenica, secondo le disposizioni del vescovo diocesano". Ma ha subito aggiunto che "ogni celebrazione" deve essere "essenzialmente aperta a tutti coloro che appartengono" all’unica Chiesa di Cristo.

Le celebrazioni nelle piccole comunità – ha proseguito il papa – devono cioè produrre una "progressiva maturazione" che favorisca "il loro inserimento nella vita della grande comunità ecclesiale", ossia in concreto "nella celebrazione liturgica della parrocchia".

Il papa ha infine ribadito che "la celebrazione nelle piccole comunità" deve essere "regolata dai libri liturgici, che vanno seguiti fedelmente", sia pure "con le particolarità approvate negli statuti del Cammino".

Negli statuti del 2008 le particolarità consentite sono due.

La prima riguarda "la distribuzione della Santa Comunione sotto le due specie" e "sempre con pane azzimo", che i neocatecumenali devono ricevere "in piedi, restando al proprio posto".

La seconda è lo spostamento “ad experimentum” del "rito della pace dopo la Preghiera universale", cioè prima dell'offertorio, come del resto avviene da sempre nel rito ambrosiano, in uso nell'arcidiocesi di Milano.

Negli statuti si prevede inoltre che gli animatori delle comunità neocatecumenali preparino "brevi monizioni alle letture". Ma questo è già consentito dalle istruzioni generali del messale romano, per qualsiasi messa.

Non si fa cenno alcuno, invece, nei paragrafi degli statuti riguardanti la messa, alle cosiddette "risonanze", cioè ai commenti spontanei alle letture e al Vangelo fatti da chi partecipa alle messe delle comunità neocatecumenali, in aggiunta all'omelia del sacerdote.

Non solo questa delle "risonanze", quindi, ma ogni altra particolarità liturgica in uso nel Cammino che non è approvata esplicitamente dalla Santa Sede era abusiva prima dell’udienza dello scorso 20 gennaio e tale rimane anche dopo.

Ecco qui di seguito la "lezione" di liturgia impartita da Benedetto XVI ai neocatecumenali e, più sotto, un sommario dei loro rituali extraliturgici che hanno avuto l'approvazione delle autorità vaticane.

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"... CELEBRAZIONE REGOLATA DAI LIBRI LITURGICI, CHE VANNO SEGUITI FEDELMENTE..."

Benedetto XVI al Cammino neocatecumenale, 20 gennaio 2012



Cari fratelli e sorelle, [...] poco fa vi è stato letto il decreto con cui vengono approvate le celebrazioni presenti nel "Direttorio catechetico del Cammino neocatecumenale", che non sono strettamente liturgiche, ma fanno parte dell’itinerario di crescita nella fede. È un altro elemento che vi mostra come la Chiesa vi accompagni con attenzione in un paziente discernimento, che comprende la vostra ricchezza, ma guarda anche alla comunione e all’armonia dell’intero "Corpus Ecclesiae".

Questo fatto mi offre l’occasione per un breve pensiero sul valore della liturgia. Il Concilio Vaticano II la definisce come l’opera di Cristo sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa (cfr. "Sacrosanctum Concilium", 7). A prima vista ciò potrebbe apparire strano, perché sembra che l’opera di Cristo designi le azioni redentrici storiche di Gesù, la sua passione, morte e risurrezione. In che senso allora la liturgia è opera di Cristo? La passione, morte e risurrezione di Gesù non sono solo avvenimenti storici; raggiungono e penetrano la storia, ma la trascendono e rimangono sempre presenti nel cuore di Cristo. Nell’azione liturgica della Chiesa c’è la presenza attiva di Cristo risorto che rende presente ed efficace per noi oggi lo stesso mistero pasquale, per la nostra salvezza; ci attira in questo atto di dono di sé che nel suo cuore è sempre presente e ci fa partecipare a questa presenza del mistero pasquale. Questa opera del Signore Gesù, che è il vero contenuto della liturgia, l’entrare nella presenza del mistero pasquale, è anche opera della Chiesa, che, essendo suo corpo, è un unico soggetto con Cristo: "Christus totus caput et corpus", dice sant’Agostino. Nella celebrazione dei sacramenti Cristo ci immerge nel mistero pasquale per farci passare dalla morte alla vita, dal peccato all’esistenza nuova in Cristo.

Ciò vale in modo specialissimo per la celebrazione dell’eucaristia, che, essendo il culmine della vita cristiana, è anche il cardine della sua riscoperta, alla quale il neocatecumenato tende. Come recitano i vostri statuti, "L’eucaristia è essenziale al neocatecumenato, in quanto catecumenato post-battesimale, vissuto in piccola comunità" (art. 13 §1). Proprio al fine di favorire il riavvicinamento alla ricchezza della vita sacramentale da parte di persone che si sono allontanate dalla Chiesa, o non hanno ricevuto una formazione adeguata, i neocatecumenali possono celebrare l’eucaristia domenicale nella piccola comunità, dopo i primi vespri della domenica, secondo le disposizioni del vescovo diocesano (cfr. Statuti, art. 13 §2). Ma ogni celebrazione eucaristica è un’azione dell’unico Cristo insieme con la sua unica Chiesa e perciò essenzialmente aperta a tutti coloro che appartengono a questa sua Chiesa. Questo carattere pubblico della santa eucaristia si esprime nel fatto che ogni celebrazione della santa messa è ultimamente diretta dal vescovo come membro del collegio episcopale, responsabile per una determinata Chiesa locale (cfr. "Lumen gentium", 26).

La celebrazione nelle piccole comunità, regolata dai libri liturgici, che vanno seguiti fedelmente, e con le particolarità approvate negli statuti del Cammino, ha il compito di aiutare quanti percorrono l’itinerario neocatecumenale a percepire la grazia dell?'essere inseriti nel mistero salvifico di Cristo, che rende possibile una testimonianza cristiana capace di assumere anche i tratti della radicalità. Al tempo stesso, la progressiva maturazione nella fede del singolo e della piccola comunità deve favorire il loro inserimento nella vita della grande comunità ecclesiale, che trova nella celebrazione liturgica della parrocchia, nella quale e per la quale si attua il neocatecumenato (cfr. Statuti, art. 6), la sua forma ordinaria. Ma anche durante il Cammino è importante non separarsi dalla comunità parrocchiale, proprio nella celebrazione dell’eucaristia che è il vero luogo dell’unità di tutti, dove il Signore ci abbraccia nei diversi stati della nostra maturità spirituale e ci unisce nell’unico pane che ci rende un unico corpo (cfr. 1 Cor 10, 16s). [...]

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Il testo integrale del discorso del papa è in apertura thread


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DODICI RITI, PER ALTRETTANTE TAPPE



Il percorso di catechesi che ogni membro del Cammino compie dura almeno dieci anni e passa attraverso cinque fasi.

Ogni fase ha delle tappe contrassegnate da specifici rituali, in totale dodici.

Sono questi i rituali extraliturgici in uso nelle comunità neocatecumenali ora approvati dalle autorità vaticane.

PRIME CATECHESI

1. Rito della conversione. Accompagna la decima delle sedici catechesi introduttive. Il rito, molto dettagliato, precede e segue in forma comunitaria la confessione sacramentale individuale di ciascuno dei presenti. Per chi prosegue nel Cammino, tale rito sarà reiterato a cadenza mensile.

2. Consegna della Bibbia. Accompagna la quindicesima catechesi.

3. Rito del lucernario. Apre la "convivenza" di tre giorni che conclude le sedici catechesi introduttive. Altre celebrazioni della Parola ritmano questi stessi giorni e ritmeranno, settimanalmente, il prosieguo del Cammino.

PRECATECUMENATO

4. Primo scrutinio. Segna il termine di questa seconda fase, la cui durata è di almeno due anni.

PASSAGGIO AL CATECUMENATO

5. "Shemà". In ebraico: ascolta. È il rito che celebra l'accoglienza della Parola di Dio.

6. Secondo scrutinio.
Conclude il biennio di questa terza fase. Chi lo compie rinuncia a ricchezze personali anche cospicue, rimesse alla comunità.

CATECUMENATO

7. Consegna del Salterio. Cioè del libro dei salmi.

8. Traditio Symboli. Cioè la consegna del "Credo".

9. Redditio Symboli.
Cioè la confessione pubblica della propria fede, appresa col "Credo".

10. Consegna del Padre Nostro.
È il rito che introduce il terzo anno di questa quarta fase.

ELEZIONE

11. Libro della vita. Scrivendo il proprio nome in questo libro, il neocatecumenale apre i due anni di questa quinta e ultima fase del Cammino.

12. Rinnovo delle promesse battesimali. È l'approdo del Cammino. Il rito è compiuto durante la Veglia pasquale, che si prolunga fino all'alba e si conclude con un banchetto.

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Un indice di tutti i precedenti articoli di www.chiesa sul Cammino:

> Focus su MOVIMENTI CATTOLICI

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Gli ultimi tre precedenti servizi di www.chiesa:

19.1.2012
> Benedetto XVI, il Riformatore
È la "riforma", dice, la chiave di interpretazione del Concilio Vaticano II e dell'evoluzione del magistero, "nella continuità del soggetto Chiesa". È ciò che Lefebvre e i tradizionalisti non hanno mai voluto accettare. Gilles Routhier ricostruisce il passato e il presente della controversia

13.1.2012
> "Placet" o "Non placet"? La scommessa di Carmen e Kiko
I fondatori del Cammino neocatecumenale puntano a ottenere l'approvazione vaticana definitiva del loro modo "conviviale" di celebrare le messe. Il documento è pronto. Ma potrebbe essere modificato o bloccato in extremis. Il 20 gennaio il verdetto

11.1.2012
> Diario Vaticano / Troppi cardinali italiani e di curia? Papa Giovanni ne fece persino di più
E chi ne fece di meno fu Pio XII. Le statistiche sui cardinali creati dagli ultimi sei papi ridimensionano le critiche a Benedetto XVI, riaccese dall'annuncio del prossimo concistoro. Anche per l'Africa, nessuna marcia indietro

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Per altre notizie e commenti vedi il blog che Sandro Magister cura per i lettori di lingua italiana:

> SETTIMO CIELO

Ultimi tre titoli:

Crisi economica. Il Vaticano guarda oltre Atlantico

Monte Athos, Riduzioni, Cina, Catechismo, Neocatecumenali. Cinque postille

Neocatecumenali. Le illusioni degli "indignados"




così, anche la penna di Sandro Magister ci conferma quanto abbiamo voluto approfondire a riguardo del Cnc e nelle parole del Papa:
NON ESISTE ALCUNA MESSA NEOCATECUMENALE.... esiste la Liturgia della Chiesa, la Messa che è come la celebra il Papa, detta Forma Ordinaria, e la Messa antica detta Forma Straordinaria, non esistono altre "forme".. Kiko si metta l'anima in pace e la smetta di ingannare i membri del Cammino....

Cari Sacerdoti-Parroci, attenetevi alle richieste del Santo Padre, la Parrocchia non è di un Cammino, non è di Kiko, non è "vostra", ma NOSTRA, DI TUTTI e la Messa che tutti ci unisce e ci rende una sola cosa è quella testimoniata dal Santo Padre...
Prodigatevi nel riportare il Crocefisso sull'Altare CONSACRATO E CON LE RELIQUIE.... togliete quelle tavole imposte da Kiko.... e riportate un inginocchiatoio per quei fedeli che volessero prendere la Comunione in ginocchio, ne hanno il diritto!

Caterina63
00mercoledì 15 febbraio 2012 11:18
[SM=g1740717]Cari Amici, e Amici Sacerdoti....
dopo aver riscontrato il grande successo ottenuto da questo thread: Sacerdoti, riscopriamo insieme l'uso degli ABITI LITURGICI e della stessa LITURGIA SACRA
e avendo questo superato le 8mila visite e i 27 articoli, per facilitarvi una immediata lettura degli stessi, riteniamo opportuno aprire un nuovo spazio che abbia il medesimo fine e scopo di aiutare i fedeli ed anche guidare i Sacerdoti nella più ampia comprensione del loro Ministero.... [SM=g1740722]
da questo messaggio il thread proseguirà qui:
Sacerdoti, riscopriamo insieme l'uso degli ABITI LITURGICI e della stessa LITURGIA SACRA (2)

[SM=g1740750] [SM=g1740752]


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