San Leone (I) Papa, detto Magno, Dottore della Chiesa, Festa 10 novembre

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Caterina63
00giovedì 10 novembre 2011 11:58
San Leone (I) Magno (Papa dal 29/09/440 al 10/11/461)san Leone Magno


Arcidiacono (430), consigliere di Celestino I e di Sisto III, inviato da Valentino a pacificare le Gallie, venne eletto papa nel 440 circa. Fu un papa energico, avversò le sopravvivenze del paganesimo; combatté manichei e priscillanisti. Intervenne d’autorità nella polemica cristologica che infiammava l’Oriente, convocando il concilio ecumenico di Calcedonia, nel quale si proclamava l’esistenza in Cristo di due nature, nell’unica persona del Verbo.
Nel 452 fu designato dal debole imperatore Valentiniano III a guidare l’ambasceria romana inviata ad Attila.
I particolari della missione furono oscuri: è solo che il re degli Unni, dopo l’incontro con la delegazione abbandonò l’Italia. Quando Genserico nel 455 entrò in Roma, Leone ottenne dai Vandali il rispetto della vita degli abitanti, ma non poté impedire l’atroce saccheggio dell’Urbe. Dotato di un alto concetto del pontificato romano, fece rispettare ovunque la primazia del vescovo di Roma. Compose anche preghiere contenute nel “Sacramentario Veronese”. Benedetto XIV, nel 1754 lo proclamò dottore della Chiesa, E’ il primo papa che ebbe il titolo di Magno (Grande).

Etimologia: Leone = leone, dal latino

Martirologio Romano: Memoria di san Leone I, papa e dottore della Chiesa: nato in Toscana, fu dapprima a Roma solerte diacono e poi, elevato alla cattedra di Pietro, meritò a buon diritto l’appellativo di Magno sia per aver nutrito il gregge a lui affidato con la sua parola raffinata e saggia, sia per aver sostenuto strenuamente attraverso i suoi legati nel Concilio Ecumenico di Calcedonia la retta dottrina sull’incarnazione di Dio. Riposò nel Signore a Roma, dove in questo giorno fu deposto presso san Pietro.


"Per bocca di Leone, ha parlato Pietro"

L'opera contro gli eretici possiamo dire che fu la prima che gli si presentò, quando salì sulla Cattedra di san Pietro.
Genserico, re dei Vandali nell'anno 439, rotta la pace fatta con Valentiniano, riprese la sua conquista in armi dell'Africa, espugnando Cartagine.
La situazione che si presentava era che in Africa vivevano e si erano stanziate molte famiglie patrizie romane e, anzi, al momento dell'invasione di Alarico, molti Romani avevano abbandonato la città rifugiandosi oltremare ove avevano stanziato i propri possedimenti in terre allora ricche, fertili, e soprattutto, sicure da ogni minaccia di invasione, e in Africa, in quei tempi, la vita prometteva prosperità, sicurezza.
Cartagine stessa era allora una città bella, ricca, accattivante, con edifici sontuosi, un porto traboccante di attività, scuole e biblioteche, circhi, teatri, terme e giardini. Professori di retorica e di filosofia facevano le loro lezioni nelle pubbliche scuole in greco e in latino.
Ma non era tutto rose e fiori!
In mezzo a tanta prosperità, ricchezza e benessere, era dilagato anche il vizio, molto diffuso soprattutto negli ambienti benestanti che costituivano la maggioranza della popolazione, la prostituzione era largamente diffusa e, attraverso il porto, approdavano navi da ogni parte del Mediterraneo, mercanti dall'Egitto, dalla Grecia, dalla Siria, dandosi convegno portando ognuno non solo scambi di merci, ma anche di uomini, servi, o per solo diletto carnale, inoltre ognun portava con sé anche la propria religione, le sue superstizioni, riuscendo a coalizzarsi fra loro pur di scacciare dalla città il Cristianesimo, visto già allora, come religione che castigava i costumi osceni, le perversioni sessuali, la prostituzione, il benessere e la ricchezza intese come una anarchia verso i Comandamenti del Signore.
Nessun luogo come questo, in quei tempi, era così favorevole al propagarsi delle eresie e dei peccati più gravi, in questi tempi dovette fare i conti il Pontificato di Papa Leone I detto Magno.
Sappiamo inoltre quanto fosse diffuso in Africa il manicheismo, venuto dalla Persia, a darci ricche informazione fu il grande sant'Agostino di Ipponia nelle sue Confessioni, chè egli pure, in gioventù, ne fu traviato cadendo in questa eresia.

Ora, l'invesione violenta di Genserico, aveva fatto scappare molta gente da Cartagine: famiglie Romane, che fuggite al tempo di Alarico, qui vi trovarono rifugio, tornarono a chiedere asilo alla Città Eterna.
E Roma aprì loro il proprio seno, ma con loro essi portarono i vizi, i peccati e le false religioni che lì avevano imparato. L'errore manicheo, con tutte l'immoralità che si portava, cominciò così a dilagare anche nella Città di Roma.
Appena Papa Leone venne messo al corrente, e lui stesso verificò certi cambiamenti, immediatamente agì per porre al riparo il gregge innocente e puro: fece raccogliere i libri dei Manichei, e dopo avergli dato una lettura, preoccupato dei contenuti abominevoli contenuti, li fece bruciare in pubblico, e in pubblico pronunciò un sermone per spiegare e mettere in guardia i fedeli e il popolo di Roma, contro questo pericolo insidioso.
E quando venne informato che taluni, recidivi, andavano imperterriti nelle comunità cristiane per sovvertire la pace dottrinale, invocò giustizia dall'autorità civile la quale, dopo una consultazione, li condannò all'esilio fino a quando non avessero rinunciato ai loro perversi intrighi di corruzione delle anime.
Nel frattempo il Papa inviò un messaggio ai Vescovi per avvisarli di quanto fosse accaduto a Roma, mettendoli in guardia dalla minaccia incombente, e perchè fossero attenti e vigili, nelle proprie Diocesi, per non permettere il diffondersi di tale eresia
.

E mentre la lotta contro i Manichei ebbe così un carattere assai più limitato, la Chiesa continuava la sua battaglia contro l'Arianesimo.
[SM=g1740733]  E mentre si riconosceva la consustanzialità del Verbo divino coll'unica Natura del Padre e dello Spirito Santo, pur rimanendo distinte le tre Persone, i dibattiti s'erano spostati sulla Divina Persona di nostro Signore Gesù Cristo +: come si doveva concepire, in Lui, l'unione del Verbo Divino coll'Essere anche veramente uomo e Figlio vero di Maria Santissima?
Si manifestarono nella Chiesa due tendenze divergenti:
- l'una, quella proveniente dall'arianesimo, riconoscendo integre in Gesù Cristo + l'umanità e la divinità, cercava di spiegare il Mistero contenuto, ammettendo un influsso eccelso e permanente del Verbo, dell'ispiriazione  profetica, una specie di "assistenza costante del Padre e dello Spirito Santo sul Figlio";
- l'altra, notando giustamente che, rimanendo in questo concetto, si negava l'integrità divina del Verbo Incarnato, tendeva piuttosto a sacrificare, tuttavia anch'essa finiva per sacrificare l'essere umano, cioè, la perfetta umanità di Cristo assunta dalla Beata Vergine Maria, di Cui Gli era Figlio in pienezza e completezza, composta di carne e sangue, anima e corpo, perfettamente operante e vivente come la nostra, tale offuscamento spostava una propria tendenza esclusivamente al rigore della divinità del Verbo.

La prima tendenza, che s'incentrava in Teodoro di Mopsuestia ed in Nestorio, era stata condannata dal Concilio di Efeso del 431 per opera di san Cirillo d'Alessandria, appoggiato e sostenuto dal Papa Celestino.
Ma neppure i sermoni di san Cirillo furono sufficienti a chiarire la situazione, anzi, dopo la morte di lui, un suo ammiratore, l'archimandrita Eutiche di Costantinopoli, prese a sostenere pubblicamente che in Cristo non potevano ammettersi le due nature, la divina e l'umana, reali e distinte, ma un'unica natura scaturendo nel monofismo.
Ma questa era una assurdità che faceva volatizzare l'umanità di Cristo! la quale non era più, per loro, consustanziale alla nostra, compromettendo il ruolo dell'Incarnazione, il Mistero della Redenzione, il ruolo della Vergine Madre, la consustanzialità di quell'invito del Cristo stesso del conformarci a Lui nell'agire come umanamente Egli agì, e nel conseguire il premio in quel divenire come Lui, divinizzando l'Uomo.
L'eresia di Eutiche venne condannata dal Vescovo Flaviano di Costantinopoli, ma come i superbi e gli orgogliosi, egli non si sottomise all'obbedienza e come recidivo si organizzò con i suoi seguaci mettendo in tumulto tutto l'Oriente Cristiano.
Il Vescovo Flaviano allora informò Papa Leone supplicandolo di intervenire e celebre e famosa rimase la sua risposta attraverso una Lettera:
la natura Umana e Divina - scriveva Leone Magno - sono unite ipostaticamente in Gesù, vale a dire che, rimanendo integre e perfette nel loro operare, costituiscono un'unica Persona.
Questa definizione non piacque ad Eutiche e neppure al Vescovo Dioscoro di Alessandria i quali, godendo i favori della corte imperiale, rifecero adunare un concilio ad Efeso che, dopo aver torturato il Vescovo Flaviano, e dopo aver usato violenza contro gli inviati del Pontefice e contro tutti i Vescovi loro contrari, ottennero dalla corte imperiale la condanna dei loro avversari e persino la condanna della Lettera di Papa Leone.
Papa Leone protestò, seppur inutilmente, apertamente e ripetutamente contro l'inaudita prepotenza ed interferenza della corte imperiale, insistendo sulla dottrina da lui insegnata, ma non potè opporsi sulla decisione della Corte, che domandava così un nuovo Concilio.
Questo Concilio infatti si riunì nell'anno 451 a Calcedonia, sul Bosforo; Leone non vi potè recarsi di persona a causa anche della situazione politica in Italia e di problemi che regnavano a Roma, ma inviò i suoi legati col compito esplicito di far accettare a tutti quella Lettera dogmatica, ch'egli aveva inviato al vescovo Floriano.

Ed eccoci alla famosa frase che è incisa a pié di questo articolo.
Nonostante le aspre contese, che resero difficile l'opera apologetica nei lavori del concilio, i legati pontifici riuscirono a raccogliere il suffragio della gran parte dei Vescovi radunati, e quando ebbero finita la lettura della Lettera di Papa Leone, davanti a tutta l'assemblea, dopo un breve silenzio che scese in tutta l'aula del convito, un solo grido si alzò in tutta l'assemblea:
" Per bocca di Leone, ha parlato Pietro!"

Si narra di una leggenda, a proposito di questa epistola, che val bene ricordare: si narra che Leone, dopo averla scritta, la depositò sulla Tomba dell'Apostolo Pietro e, digiunando, pregando e facendo penitenze per quattordici giorni consecutivi, supplicò al Principe degli Apostoli di aiutarlo in quest'ora difficile e di "correggergli" il testo per renderlo convincente e impugnabile.
In capo alle due settimane, sembra che Papa Leone abbia trovato il suo scritto "corretto dal Principe degli Apostoli"....

Ma un'altra mina minacciava l'unità della Chiesa.
Il Concilio di Calcedonia aveva senza dubbio accettato la Lettera di Papa Leone nel campo dogmatico, tuttavia aveva aperto una breccia pericolosa. Dando un posto preminente al Patriarca di Costantinopoli, nel campo gerarchico, innalzandolo al di sopra anche dei due Patriarcati quali quello di Alessandria fondato da san Marco evangelista, e quello di Antiochia nel quale vi aveva governato anche san Pietro e nel quale, citato negli Atti degli apostoli, scaturì per la prima volta il termine di "cristiano", contro questa supremazia, insomma, che mirava alla piena autonomia di Costantinopoli da Roma stessa, Papa Leone comprese che si stava minacciando l'unità della Chiesa ed immediatamente, anche in questo caso, alzò energicamente la sua voce.
Nel 445 Velentiniano III aveva proclamato l'autorità ecclesiastica suprema di Roma nell'Impero Occidentale, e nel 449 scrivendo a Teodosio II, [SM=g1740733] sosteneva che era indispensabile per consercare la pace degli Imperi d'Oriente e d'Occidente: "conservare intemerata la dignità della venerazione competente al Beato Apostolo Pietro, dimodochè il beatissimo Vescovo di Roma, a cui l'antichità istessa gli conferì il principato del sacerdozio sopra tutti, abbia possibilità e facoltà di giudicare circa la fede e i Vescovi".

Di questa autorità Leone si avvalse con man ferma per riordinare la gerarchia ecclesiastica che non poteva rilassarsi o restare indifferente, nel generale collasso del principio di autorità. Ed il suo intervento mite, ma anche energico, diretto, rapido ed improntato a giustizia, si fece sentire in tutto il mondo dell'epoca, in Gallia e nell'Illiria, con effetti solleciti e duraturi.
Papa Leone non rivendicava la sua autorità Petrina per ambizioni personali:
"Se qualcosa di bene io compio, gli è Cristo Signore, il quale, a mezzo mio, reca in atto l'opera. Non in me mi glorio, che senza di Lui non posso nulla, sì bene in Lui, che è ogni mio potere".
Così negli anni in cui l'unità dell'Impero si sgretolava miseramente, si affermava con la parola, con l'esempio e con l'azione la Missione della Chiesa per mezzo di Papa Leone Magno, in quella indistruttibile unità della vera Chiesa di Gesù Cristo.
L'eresia monofista sarebbe durata ancora molti secoli trascinando con sé non la vera Chiesa di Cristo, ma quelle comunità che pur volendosi dire cristiane, o cattoliche, in realtà vivevano già dissociate da questa Chiesa, minate nella decadenza dottrinale, nell'abbiezione più profonda del proprio orgoglio, della superbia, della disobbedienza al Principe degli Apostoli.


Fonte: Leone Magno e Gregorio Magno, i Papi grandi per Dottrina - 1940 - con imprimatur A.Traglia, Archiep. Caesarien.
[SM=g1740733] Trascritto da LDCaterina - si prega di riportare la fonte senza estrapolare, grazie-






Caterina63
00giovedì 10 novembre 2011 18:43

 

Attila e san Leone Magno

 


Attila il flagello di Dio e san Leone I Magno, Pontefice

 

Come iniziò la storia di Attila che un giorno decise di mettere a fuoco l'Occidente per impadronirsene?

 

Ahimè, come fu Eva a spingere Adamo a commettere quel danno, ancora una volta, una donna, irrequieta e perfino cristiana, fu all'origine delle violente reazioni di Attila, che solo un Santo Pontefice seppe ricondurre alla ragione.

Senza dubbio che Attila sarebbe giunto in Italia anche senza la provocazione di una donna, ma la storia di Onoria, perchè è di lei che parliamo, è così brevemente narrata.

 

Alla Corte di Ravenna viveva Valentiniano III e sua sorella Onoria.

Questa principessa era tanto bella quanto altrettanto irrequieta e trovava assai triste la vita di corte.

Onoria sognava di infrangere ogni giorno quelle etichette e sognava ad occhi aperti avventure, ma ben presto molti si ebbero a lamentare del comportamento della principessa tanto che, la madre Galla Placidia, per evitar peggior guai, decise di farla allontanare un pò dalla città, mandandola a Bisanzio.

Quando la nave attraccò in porto, il cuore della principessa si accese e s'infiammò dei tanti nuovi aromi, del Corno d'Oro, il panorama vastissimo e giocondo della città promettevano una vita gioiosa all'irrequieta Onoria, ma ben presto dovette cambiare idea.

Il palazzo imperiale di Bisanzio, infatti, ai tempi di Teodosio II, era una specie di convento, molto fastoso, sì, ricco di ogni comodità per l'epoca, con molta servitù, ma retto da una rigidissima  ed austera disciplina. L'imperatore, per esempio, passava le ore libere dagli affari di Stato a trascrivere e miniare con arte minuziosa e perfetta gli scritti degli autori prediletti; l'imperatrice Eudossia, bellissima, intelligente e raffinata, figlia di un filosofo e dotta essa stessa di filosofia e pure di teologia, si occupava di problemi religiosi e dogmatici; le tre sorelle maggiori dell'imperatore, pur vivendo nel palazzo, si erano consacrate al Signore, mantenendo in casa stessa un clima da monastero.

L'ardente Onoria di fronte a tutto questo non potè resistere, e già rimpiangeva la corte di Ravenna!

Un giorno venne a sapere delle invasioni di Attila, e subito il suo cuore s'accese, senza sapere neppure chi fosse, come era, a lei l'affascinava l'avventura.

Mentre seppe di uno schiavo che andava dalle parti dove si trovava Attila, verso la Tracia e fino nella Pannonia dove c'era il suo accampamento, lo commissionò di recargli un suo anello accompagnato da una lettera nella quale l'ingenua fanciulla gli si offriva come sposa portandogli in dote una buona parte di dominio dell'Occidente.

Ad Attila che era pagano e aveva un intero harem, assai poco dovette interessare di quella irrequieta e forse anche un pò viziata principessa, ma ciò che aveva catturato l'attenzione del Re Unno era la dote: gli si offriva l'occasione di diventare imperatore di non poca porzione dei territori d'Occidente.

Forte di quella promessa di matrimonio avanzata dalla principessa, e dell'anello quale pegno, Attila cominciò a mandare ambasciatori a chiedere in sposa Onoria.

Naturalmente le richieste, prima a Bisanzio, poi a Ravenna quando la principessa era rientrata, furono respinte.

L'imprudente e viziata sognatrice aveva messo in moto una macchina più grande di lei e dei suoi stessi sogni che ben presto s'infrangeranno in amare lacrime, infatti, per riparare al danno, fu costretta ad essere maritata in fretta per testimoniare il fatto che le ambasciate di Attila, erano giunte tardi, poi fu chiusa in carcere affinchè non combinasse più guai e fino a quando non avesse maturato le responsabilità di cui doveva prendersi cura per continuare a mantenere il nome con l'appannaggio della corte.

Ma la precauzione di far sposare Onoria arrivò tardi; Attila aveva fiutato che il pretesto era troppo buono per lasciarselo sfuggire, e continuò ad avvalersi di quella lettera portando avanti alcune trattative, ma quando vide che queste non approdavano a nulla, prese le mosse verso l'invasione all'Occidente.

 


Attraversando la Germania, le schiere di Attila si accrebbero di altre tribù germaniche, pronte a muover battaglia e, nell'anno 451, Attila varcava il Reno, pronto ad invadere la Gallia.

L'unico che poteva fronteggiare il pericolo era Flavio Ezio, il capo delle milizie; ma le legioni imperiali erano scarse dinanzi ad una impresa così grande.

Ezio allora corse in Gallia per stringere una alleanza coi Visigoti, che fin dai tempi d'Ataulfo s'erano stanziati in Aquitania; tale alleanza era anche per essi vantaggiosa vista la minaccia di Attila che incombeva su di loro stessi, e così Teodorico, loro re, unì le sue schiere a quelle di Ezio.

Attila aveva varcato il Reno e le sue orde erano giunte sul suolo della Gallia, portando ovunque sangue, devastazione, orrore. Troyes, per esempio, fu risparmiata, per come ci raccontano le cronache, grazie alla protezione di san Lupo ed anche Parigi per santa Genoveffa verso i quali, i cittadini, avevano moltiplicato preghiere e suppliche, voti, digiuni e penitenze, scongiurando, non si sa come, l'allontanamento prodigioso degli Unni che decisero di non entrarvi. Mentre Metz venne completamente incendiata e i cittadini per oltre la metà uccisi con metodi orripilanti, Tangre venne invece completamente rasa al suolo dopo un violento saccheggio e la profanazione di molte fanciulle.

Attila intanto, giunto ad Orleans, vi pose il suo assedio.

La città era letteralmente terrorizzata, il Vescovo Aniano si valse di tutta la sua autorità di uomo virtuoso e saggio, e di Ministro di Dio paziente e di Preghiera, per sostenere i cittadini, consolarli, infondendo loro la speranza e la forza, il sacro timor di Dio, in attesa dell'arrivo dei soccorsi.

Infatti, mentre gli Unni erano già entrati nei sobborghi, apparvero come un prodigio le schiere di Ezio e Teodorico, le preghiere erano state esaudite.

Attila toglieva in fretta l'assedio, ma non per rinunciar alla battaglia, piuttosto per riorganizzare le schiere, e si fermò nella Sciampagna, in una località detta Campi Catalaunici dove avvenne lo scontro.

La battaglia fu terribile, per molte ore incerta, ma alla fine l'abilità di Ezio con le legioni imperiali e la forza ordinata alla giusta causa dei Visigoti, ebbe ragione sui nemici; Attila venne sconfitto, sul campo di battaglia giacevano centomila morti tra i quali lo stesso re Teodorico, re dei Visigoti, che come in un gioco imprevisto morì per salvare quella Roma che, suo padre Alarico, aveva a suo tempo presa e messa a sacco, morì Teodorico da eroe, come per riscattare le gesta del padre.

 

Intanto, Attila, sconfitto si ritirò oltre il Reno, ma per opera di Flavio Ezio l'Impero Romano aveva riportato la sua ultima vittoria.

Attila infatti, non per nulla un "barbaro", non si era affatto afflitto o avvilito, e neppure aveva perso il suo prestigio, l'invasione in verità, era appena cominciata, la sua cupidigia verso l'Impero d'Occidente, eccitava continuamente la sua rabbia, e nessuno e nulla su questa terra, avrebbe potuto fermare il suo furore e così, dopo lo svernamento del 452, egli rimontò a cavallo ma invece di attaccare la Gallia decise di scendere direttamente in Italia.

 

Alla fine dell'inverno Attila mandò i suoi messi a Ravenna a chiedere di nuovo Onoria e la sua dote, ma ricevuta risposta che la fanciulla era già convolata a nozze, il re Unno si mosse verso il Friuli ma, valicato il Carso si trovò davanti uno ostacolo non tanto leggero, la città fortificata di Aquileia, sede di un grande Patriarcato la cui autorità era su tutto il Veneto e l'Istria, città ricca e prospera.

Ma le schiere di Attila erano spesso formate da Barbari che in passato avevano combattuto nell'esercito romano come mercenari, e così sapevano spesso le loro strategie, come agivano, come si muovevano, conoscevano la tattica latina; ma l'arte di costruire catapulte, organizzare assedi ecc... superava le loro cognizioni di meccanica e di tecnica e così, dopo tre mesi di assedio, tra gli Unni cominciò a diffondersi il malumore, anche i viveri scarseggiavano.

E così, mentre un giorno Attila stava quasi decidendo di abbandonare l'impresa, facendo un ultimo giro delle mura per scoprire un punto debole, egli guardò il alto e vide una cicogna volar via coi suoi piccoli; or si sa che la cicogna è fra gli uccelli più affezionati ai tetti delle case degli uomini, perchè vi trovano cibo, acqua ed anche un buon posto per il nido al quale si affeziona ritornando ogni anno. Attila, vedendo andar via la cicogna coi piccoli, comprese che la città doveva allora essere affamata, vuol dire che non c'era più un chicco di grano per la cicogna.

E così fu, ahimè, che Attila convinse le sue schiere a resistere, e quando attaccò sfondando una breccia, la sua strategia si era rivelata vincente: i cittadini erano così affamati che molti erano perfino morti, non vi fu alcuna resistenza.

Quello che accadde ad Aqileia non si può narrare!


[SM=g1740771] continua.........

 

 

 

Caterina63
00giovedì 10 novembre 2011 19:35

Attila da allora si compiaceva perciò di farsi chiamare "flagello di Dio" e, la leggenda che dove egli passava non crescesse neppur un filo d'erba, lusingava la sua feroce vanità, tale era il sovrano e tale anche il suo popolo che lo osannava.

Po la marcia dei Barbari riprese ancor più spaventosa, senza più trovar ostacoli, nè freno: Altino, Concordia, Padova, una dietro l'altra vennero ridotte in macerie; Vicenza, Verona, Bergamo, semi distrutte e saccheggiate sia nell'onore delle loro giovani fanciulle, sia negli onori prestigiosi, per Attila e le sue schiere oro o fanciulla, non faceva per lui differenza.

 

In qui giorni di grande e profonda angoscia, i cittadini che riuscivano a salvarsi, sfuggivi ai vari massacri, si rifugiarono nelle isole deserte della Laguna, quando ancora non vi era nulla tanto che neppure Attila ebbe interesse a recarvisi, e vivendo di pesca e del poco che potevano coltivare, bevendo acqua piovana, costituirono quella comunità che sarebbe poi diventata la grande e potente repubblica di Venezia.

 

Attila intanto si dirigeva a Milano e da li la sua meta era Roma!

Flavio Ezio aveva saputo dell'invasione, e si trovava in Gallia, ma invano egli aveva cerato ulteriori aiuti, i Visigoti, salvate le loro terre e perduto il proprio re, si ritirarono, e le legioni imperiali, dimezzate, non erano ancora in grado di affrontare nuovamente Attila. Ezio dovette accontentarsi di recar disturbo, limitandosi a piccole azioni di disturbo per rallentare la marcia verso Roma e dare il tempo di avvisare dell'immane tragedia, Valentiniano dal canto suo non fece altro che fuggire da Ravenna e correre verso Roma, credendola Città inespugnabile.

Il potere civile e militare, per quanto avesse fatto grande l'Impero in passato, mostrava ora la sua fine, il popolo a ragione era terrorizzato e chiedeva a Dio quell'aiuto che nessun imperatore, nessuna legione, nessuna alleanza avrebbe potuto dargli, e quand'anche Ezio avesse trovato ulteriori aiuti, quanti sarebbero stati massacrati da entrambi le parti e fra i civili? E chi avrebbe vinto?

 

Ed ecco all'opera il Sommo Pontefice, Papa Leone

 

In quei giorni accadde un fatto nuovo che mostrò agli italiani e a tutto il mondo che esiste un altro Potere, che non ha sede in questo mondo, ed è sicuro non tanto di sé quanto di Colui che lo detiene; un Potere che richiede adesioni, ma non si tratta di mercenari, ma di discepoli! Ma narriamo come si svolsero i fatti.

Roma, presa dalla disperazione, stabilì di mandare ad Attila un'ambasceria; furono scelti Avieno, senatore molto ricco, e Trigezio, che era stato Prefetto del Pretorio.

Ma con gran sorpresa il popolo reclamò che un altro personaggio andasse con loro, Leone, il loro Vescovo, che per energica intelligenza, ardore di carità, fede incrollabile, dava maggior affidamento per il buon esito della spedizione.

Così partirono i tre inermi, senz'armi, rappresentanti di Roma: l'esponente della politica di Roma, l'esponente delle forze armate, e l'esponente del Potere Divino, il Sommo Pontefice, essi erano tutti insieme e tutti uniti per fronteggiare un unico nemico, e com'erano lontani i tempi quando Roma non chiedeva, ma faceva grazia ai Barbari, mentre ora si muoveva per chieder essa  la grazia ad un re Barbaro.

E così dal colle Vaticano attraverso la Tuscia, l'Etruria, l'esiguo drappello va lungo le vie consolari che riportano ancora il ricordo delle grandi vittorie del passato; le popolazioni vedono il drappello, e si stringono al petto un commosso saluto, pregano per il Sommo Pontefice, i saluti ed ogni incoraggiamento sono per il Vescovo di Roma, l'unico che potrebbe davvero fermare quell'Unno, ma temono anche per lui: che cosa li aspetta? Di certo l'umiliazione, ed anche la morte, ma in quale modo? Cosa riservare al Vescovo di Roma e di tutta la cristianità?

 

La gente viene invasa da una certa preoccupazione, ma riesce anche a scorgere un prodigioso evento già solo al passaggio dello strano ed inusuale drappello, non è una scena che si può vedere ogni giorno, nè fu mai narrata, che della disperata spedizione finisca per trovarsi a capo Colui che non rappresenta un caduco e debole potere terreno, Colui che non fida in una spada oramai arrugginita, né in una legge civile che in questa situazione non serve a nulla, ma è niente meno che l'erede di san Pietro, che parla e agisce in nome di Cristo +, che con gli occhi fissa un'altra vita in cui il sopruso, la violenza, il delitto, non sono possibili.

Leone potrà osare di tutto davanti a quel flagello, perché sa che non potrà perdere nulla di ciò che veramente conta; questo comprende la gente al passaggio dello strano drappello e a Lui, al Successore di Pietro, la gente si stringe perché avverte nel cuore che nel momento del bisogno e della minaccia più incombente, Egli ha una via privilegiata, persino i criticoni o i senz'Iddio devono tacere al Suo passaggio e chinare la testa, e ben sperare nel Suo successo, se non per fede almeno per convenienza.

 

Così, nell'estate 452, l'ambasceria varca il Po, risale il Mincio, attraversa la dolce pianura che Virgilio aveva cantato con cuore di figlio innamorato nei giorni lontani, in cui Roma era grande.

Finalmente là, dove le acque del Garda riprendono corso e figura di fiume, là trovarono l'accampamento degli Unni, e nell'accampamento Attila li attendeva.

Questo spietato sovrano, che in altre occasioni si era compiaciuto della sua rozzezza e violenza, di aver umiliato sudditi e principi, e che altre volte si era compiaciuto di aver umiliato l'Impero, di fronte ai tre legati di Roma, rimase alquanto perplesso e, stranamente, cortese e perfino rispettoso.

Purtroppo non esistono testimonianze scritte del diretto colloquio che i 4 ebbero, Avieno e Trigezio - si riportano dalle narrazioni -  fecero offerte ad Attila e proposero patti, ma, proprio secondo di come andarono poi i fatti, non vi è da pensare che Attila avrebbe mai potuto accettare le proposte dei due romani, allorchè egli stesso si era sempre divertito ad umiliare simili proposte per imporre ancor con più ferocia il suo potere e dominio.

Si dice invece che Attila fu colpito dall'aspetto venerando dell'anziano Pontefice, ricoperto delle sue vesti liturgiche e che si esprimeva con ardente zelo cristiano; per la prima volta Attila non si trovava davanti i soliti legati politici, ma il Rappresentante di un Potere al quale non interessavano i palazzi e le città, ma chiedeva di risparmiare le persone, non scendeva a patti per salvare la Città, ma chiedeva in nome di Cristo la pace, gli chiedeva semmai di convertirsi ad un Potere più grande, anche quello sulla sua di anima.

Attila non era un "ateo", a quel tempo per quanto turbolento e violento, la fede nelle divinità era comunque sia un argomento che interessava anche i più barbari tra i barbari, è molto probabile perciò che la visione di un uomo che rivestiva un incarico così soprannaturale, abbia giocato un ruolo molto importante in tutta la vicenda, perchè subito Leone fece chiaro che il suo potere non gli veniva dalla spada che non brandiva, ma dalla Fede in quel Cristo che essendo già stato ucciso e poi Risorto, non sarebbe più morto, e così sarebbe avvenuto per tutti i suoi discepoli.

Attila, che non era uno sprovveduto, già conosceva la storia di questi chiamati "Cristiani" ed era già a conoscenza non delle loro imprese di dominio e di conquiste, ma dei tanti loro martiri, di quanto vennero già perseguitati e del perdono che essi donavano in punto di morte; trovarsi davanti il Capo di questi Cristiani, senza dubbio, deve aver lasciato in Attila una forte impressione benevola, egli si era creduto fino ad allora protetto dal potere soprannaturale delle sue divinità che non avevano fatto altro che seminare morte e distruzione, facendolo diventare anche superstizioso, la parola di chi veniva, senz'armi, in nome di un Altro che aveva Potere soprannaturale, non poteva non mettere nel cuore pure del più crudele conquistatore, un messaggio di sgomento.

 

L'episodio così si concluse in modo inaspettato, Attila venne ai patti, protestò che voleva solo la principessa Onoria come sposa e con la sua dote, ma rinunciò a continuare la sua avanzata, e diede l'ordine di smontare le tende e di iniziare la ritirata!

Attila se ne andava!

La notizia si sparse con la rapidità di un tuono in tutta l'Italia, Attila ritornava nella sua Pannonia sterminata. Qualche mese dopo i fatti narrano che dopo aver compiuto un'orgia nella sua tenda, Attila moriva soffocato dal suo stesso sangue. Chi tanto sangue innocente aveva fatto spargere, nel sangue era morto, e con lui tramontò il suo popolo perchè non ci si fa beffe di Dio, non si possono corrompere ed uccidere gli animi per bramosia di possesso, di gloria, di superiorità.

La conquista di Roma non è una impresa facile, pare davvero che la mano di Dio segni in qualche modo coloro che osano possederla!

 

Occorre dire che poi qui si inserì la voce della leggenda sul colloquio di Leone Magno con Attila e narra che, nel momento in cui il Papa si avvicinava al Barbaro, questi aveva veduto librate in aria, ai lati del Pontefice, due figure luminose: san Pietro e san Paolo, che con la spada in mano, parevano avventarsi minacciose contro di lui, Barbaro pagano.

Sembra che lo stesso Pontefice, a chi gli facesse presente la leggenda, senza smentirla o approvarla, spiegasse che: se anche le due figure dei Santi Pietro e Paolo, non fossero apparse davanti ad Attila, la maestà della Chiesa, iniziata dai due Santi, sfolgorava ugualmente nell'aspetto e nella Parola di Verità che egli pronunciava davanti al Re Unno, e che per la potenza di tale Verità, perfino il pagano sanguinario fu costretto da Dio a piegare la sua anima e a cedere.

Il ritorno a Roma di Papa Leone fu un trionfo universale e partecipato da tutta la Città che si mise a lodare Dio con canti, inni e processioni.

Queste feste durarono molto tempo e si rinnovarono, ogni anno, ed è ciò testimoniato da una predica del Santo e Magno Pontefice, che si lamenta del fatto che il popolo romano invece di recarsi a pregare sulla Tomba di san Pietro, vada piuttosto a veder spettacoli al Circo.

I Romani, ignari ed incoscienti, avevano presto dimenticato il pericolo di "ieri", e non volevano vedere il pericolo di "domani" ed andavano ad applaudire i loro campioni prediletti alla corsa delle bighe.

 

Attila  san  Leone Magno





Fonte: Leone Magno e Gregorio Magno, i Papi grandi per

Dottrina - 1940 - con imprimatur A.Traglia, Archiep. Caesarien.

e liberamente trascritto da LDCaterina63

 

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