Sant'Ambrogio e Milano...... il martirio di sant'Alessandro

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Caterina63
00venerdì 30 aprile 2010 18:50
Per sant'Ambrogio quei barbari senza legge non erano la minaccia più seria

Macché Gog e Magog!
Sono solo gli Unni


Pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni pronunciate nel convegno "Ambrogio e i barbari" organizzato dall'Accademia Ambrosiana che si è tenuto a Milano nella Biblioteca Ambrosiana e nell'Università degli Studi.

di Luigi F. Pizzolato

Qualcuno rinviene notizia degli Unni già in Erodoto, ma è probabile che questi parli di una popolazione genericamente scitica, che è stata da qualcuno identificata con gli Unni per l'assonanza linguistica, con un apparentamento agli Xiongnu (o Hsiung-nu), gruppo nomade stanziato nella Mongolia ai tempi della dinastia Han - dal 206 prima dell'era cristiana all'anno 220.

Fino alla fine del quarto secolo le fonti sono avare di notizie sugli Unni probabilmente perché una serie di circostanze, e politiche e religiose e culturali, tendevano a spostare il pericolo barbarico in altre direzioni. O si voleva col silenzio rimuovere una paura che con gli Unni si farà quasi di natura apocalittica? Una prima ondata di tale paura si ebbe già sotto l'impero di Giuliano, quando Ilario (364) prospettava la venuta dell'Anticristo durante la sua generazione:  ma il pericolo era forse collegato non tanto ai barbari, quanto agli ariani, e precisamente all'imperatore Valente, e ai vescovi ariani Ursacio e Aussenzio; o ai barbari in quanto ariani. Secondo la documentatissima storia degli Unni di Maenchen-Helfen, la paura s'impenna verso il 378, data della battaglia epocale di Adrianopoli. Ambrogio non manca di riportarne il clima nel coevo discorso funebre per il fratello Satiro:  "Se tu sapessi che ora l'Italia è minacciata da un nemico tanto vicino, come saresti afflitto, come deploreresti che nel baluardo delle Alpi consiste tutta la nostra salvezza e che con tronchi d'alberi si costruisce il muro di difesa del nostro pudore". Si tratta di un nemico "impurus atque crudelis che non risparmia né la pudicizia né la vita".

Il nemico che al momento atterrisce non è però, direttamente, l'Unno, ma il Goto; e peraltro solo Rufino di Aquileia in Occidente vedrà in Adrianopoli il punto di partenza della crisi finale dell'Impero:  "Questa battaglia fu allora e successivamente l'inizio del male per l'Impero romano", mentre altri autori cristiani videro, per lo più, nella sconfitta di Valente, il trionfo dell'ortodossia nicena sull'arianesimo prodotta anzi proprio a opera di barbari ariani. Ciò poté - come vedremo - alimentare perfino l'illusione che i barbari potessero svolgere una funzione provvidenziale e non solo negativa.

Agostino - sempre restio a lasciarsi affascinare da una escatologia anticipata, e dettagliata - ancora negli anni venti del v secolo rifiuta la tesi terroristica escatologica che, rifacendosi alle iniziali G e M, nei Geti e nei Massageti vede l'incarnazione di Gog e Magog. Il suo discepolo Orosio, più giocondo negatore di paure escatologiche, in compagnia degli altri autori d'Occidente, non dimostra alcun interesse per gli Unni. Agli inizi della seconda decade del secolo v, Girolamo stesso riprende e rifiuta tale interpretazione etnica nominativa che "Giudei e cristiani giudaizzanti" davano a Gog e Magog, e li connetteva però a barbari che avevano la collocazione geografica degli Unni e anche un collegamento con le potenze diaboliche escatologiche. Quodvultdeus identificherà Gog e Magog con altri barbari, come i Goti e i Mauri o i Massageti. Il fatto che questi ultimi fossero allora già scomparsi dalla scena ha fatto pensare che sotto quel nome si celino gli Unni, che sarebbero significati da Magog. Ma siamo ormai nel 445/455, quando il pericolo unno è incarnato ormai ravvicinatamente da Attila.

Ritornando al tempo circostante Adrianopoli si può dire che Ambrogio teme principalmente i Goti, che pure sono visti come punitori della trasgressione alla fede verso Dio nell'Impero romano postcostantiniano - con il filoariano Valente. Ambrogio insomma colloca il pericolo in un popolo che a quel momento è più strutturato, con una gerarchia, e che è ostile anche in forza della sua stessa appartenenza ereticale. Ne ricorda le uccisioni di fedeli, le torture, l'esilio, le ordinazione di impii, i favori (munera) concessi ai traditori. Ma i seri preparativi militari di Graziano e di Teodosio, assunto a Imperatore della pars Orientis nel 379, danno ad Ambrogio la certa confidenza che quei barbari che hanno per di più violato la fede, non possano sentirsi ormai sicuri. E infatti, prima della fine del 379, i Goti con gli Alani e gli Unni saranno già risospinti dalle regioni meridionali dei Balcani. Gli Unni, a differenza di altre grandi popolazioni barbariche sviluppate in grandi nazioni, attendevano ancora, alla periferia dell'ecumene, l'avvento di un capo, mentre erano ancora sine legibus.

Se solo dopo il 390 in Occidente prendono rilievo gli Unni, in Oriente qualcosa cambiò proprio poco dopo la chiusura delle Storie di Ammiano. Girolamo nel 391 identifica ormai gli Sciti di Erodoto con gli attuali Unni e così - seguendo Giuseppe Flavio che identifica gli Sciti con Magog - viene a identificare gli Unni con Magog. Nel 393 gli Unni rappresentano, tra gli Sciti, la noua feritas. E quando nel 395 entrano da devastatori nelle province orientali, egli si spaventa:  Romanus orbis ruit. Quattro anni più tardi identificherà gli Unni coi popoli transcaucasici che Alessandro aveva contenuto fortificando le porte del Caucaso ed esclamerà:  auertat Iesus ab orbe romano tales ultra bestias!.

Nell'estate 395 grandi orde unniche valicarono il Don verso la foce. Alcuni gruppi si diressero verso sud-est in Persia, altri entrarono nelle province romane e segnatamente nell'Armenia e altri arrivarono a Osroene e a Ctesifonte. Un gruppo si diresse verso l'Asia minore e la Siria, mentre un loro passaggio in Tracia e nei Balcani è attestato da fonti orientali ma le fonti occidentali tacciono. Girolamo è però prossimo e attendibile per il vicino Oriente:  "In questo tempo l'armata romana era lontana e trattenuta da una guerra intestina in Italia". Quando un gruppo di Unni cavalcò fino alla Celesiria, era in corso il conflitto tra Stilicone e Rufino.
 
Poi gli Unni barbari portarono attacchi a varie città sull'Halys, sul Cydnus, sull'Oronte oltre che sull'Eufrate, fino a porre assedio ad Antiochia. Nel suo Commentario a Ezechiele, scritto prima del 435, Teodoreto di Ciro identifica Gog e Magog coi popoli Sciti che non vivevano lontano dalla Palestina e dice che "nei nostri tempi tutto l'Oriente era occupato da essi". Egli - nato nel 393 - era ancora infante quando fu minacciata la sua città natale di Antiochia, e dagli anziani verosimilmente conobbe il fatto. Ma questi Sciti sono proprio gli Unni di Girolamo, perché, per una specie di metonimia, Sciti era il nome globale che in questo caso designava la parte più pericolosa di essi, gli Unni, appunto.

Già in bocca di Martino di Tours, Sulpicio Severo pone l'affermazione:  "Non c'è dubbio che l'anticristo, concepito dallo spirito maligno, sarebbe già nato e ha già raggiunto l'età della fanciullezza, pronto ad assumere il comando (imperium) con l'età legale". Età che, a ben vedere e se non cadiamo in un eccesso di sottigliezza, corrisponde a quella degli Unni nell'Impero, per il quale essi nascono nel 375. Quello del 395 risultò peraltro una specie di blitz, e la paura si riassorbì ben presto e con essa si rianimò l'illusione. Già nel 397-398 Eutropio ricacciò gli Unni dalla Frigia e dalla Cappadocia fino ai piedi del Caucaso.

Addirittura verso il 400 Girolamo constatava con soddisfazione:  Huni discunt psalterium. Anche Prudenzio, in quel torno d'anni, fa un elenco irenico dei vari popoli barbarici - tra i quali gli Unni - che insieme coi Romani "camminano tutti sull'unico suolo, che hanno tutti un unico cielo e un unico oceano che racchiude il nostro mondo". Orosio stesso testimonia la sostanziale convivenza pacifica degli Unni coi Romani e la loro ricerca di stanzialità proprio in quella fase in cui insiste Ambrogio, tra gli anni 388-395, e perfino constata una loro predisposizione alla conversione. La grande paura in seguito riprenderà a partire dall'Oriente, nel 405, quando essi rinnoveranno la pressione sull'Impero sospingendo gli altri popoli barbarici, soprattutto i Goti e i Vandali.

Ambrogio però abbandona, per così dire, gli Unni verso il 390, senza averli mai considerati un pericolo grave. Non accenna nemmeno agli avvenimenti del 393-395. Se fosse vissuto di più, Ambrogio si sarebbe dovuto ricredere. Ma il successo futuro degli Unni sotto Attila sarebbe stato comunque in linea con la diagnosi di Ambrogio, perché allora quella congerie di bande era diventato un popolo.


(©L'Osservatore Romano - 1 ° maggio 2010)

Caterina63
00giovedì 2 agosto 2012 13:23

Il martirio dei santi Nabore e Felice
12 luglio

pubblicato 2011 da 30giorni


297 d.C. Due soldati dell’esercito imperiale arrivano a Milano dall’Africa.
Vengono martirizzati a Lodi. Anche se sono stranieri e ospiti, Ambrogio li considera il granello di senape da cui nasce la Chiesa di Milano


di Lorenzo Cappelletti


«Si può facilmente immaginare la sorpresa e la gioia» (è lui stesso a esprimersi così) di Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano, quando, alla vigilia del Natale 1959, gli giunse notizia dal vescovo di Namur che erano stati là fortunosamente rinvenuti i crani dei santi martiri Nabore e Felice.

Continua Montini: «Dobbiamo dirci fortunati per questo eccezionale episodio che ci richiama allo studio della nostra storia religiosa, legata, con nodo intrecciato dallo stesso sant’Ambrogio, alla memoria di questi santi, ci invita a considerare l’importanza che ha avuto la venerazione delle reliquie nella nostra spiritualità ambrosiana, ci esorta a rinnovare il nostro culto verso questi pignora della nostra fede». Furono pignora di Milano cristiana, in effetti, quei due soldati; cioè furono al contempo segni sicuri, caparre e ostaggi, secondo le diverse valenze del termine latino. Sui basamenti di quella Chiesa di Milano, ancora piccola al tempo della persecuzione di Diocleziano e sterilem martyribus (senza martiri), come la dirà poi sant’Ambrogio, finalmente venivano scritti dei nomi. Finalmente in quei corpi essa cominciava ad avere la caparra della sua fede.

A quella Chiesa di Milano erano stati donati in pegno dalle lontane terre dell’Africa occidentale. Erano Mauri genus, provenivano cioè dalla Mauritania e forse appartenevano a quella tribù dei Getuli che costituì una delle riserve cui attinsero di preferenza gli eserciti del Basso Impero. Erano di stanza a Milano, allora residenza dell’augusto Massimiano Erculeo e anche delle sue truppe scelte. «Solo hospites terrisque nostris advenae / ospiti del nostro suolo, e di passaggio nelle nostre terre», li dice sant’Ambrogio. Eppure sono loro per antonomasia i Mediolani martyres (i martiri di Milano), perché la loro vera nascita (dies natalis) non avvenne nel sangue getulo della loro madre di carne, ma nel sangue del martirio (due vasetti di vetro custodiscono ancora le tracce di quel sangue che, con cura, come tante altre volte avvenne, qualche cristiano aveva raccolto).
Furono uccisi di spada, dopo essere stati individuati come cristiani, in quell’anticipo della persecuzione di Diocleziano del 297 consistente nell’epurazione dall’esercito, o comunque in misure degradanti per coloro che si rifiutavano al culto idolatrico.
Niente di favolistico o di inventato ad arte in questo e tanti altri martìri di soldati.

L’esercito era ormai da tempo, almeno dalla metà del III secolo, il fulcro del potere imperiale; insieme con esso, l’altro punto di forza considerato irrinunciabile dal potere imperiale del momento era il recupero della antica tradizione religiosa: la fedeltà ad essa veniva ora riconosciuta come unico criterio di verità, di moralità e di ordine. Non a caso Diocleziano e Massimiano, i due augusti a capo dell’Impero, avevano assunto fin dal 289 il titolo rispettivamente di Iovius e di Herculius, volendo fondare la loro autorità attraverso l’autoadozione nella famiglia delle tradizionali divinità romane. Da una parte, alcuni filosofi prestati alla politica, come Teotecno o come il neoplatonico Ierocle, con impazienza furiosa, davano copertura teoretica e più raffinate ragioni a quella politica religiosa. Dall’altra, la potente casta degli aruspici, tradizionali custodi del paganesimo etrusco-romano, fomentava questa medesima politica religiosa col denunciare la presenza dei cristiani come ragione del “silenzio” della divinità, cioè dell’inefficacia dei vaticini.

 

Così, Nabore e Felice – che sembrano già cristiani da quanto racconta la loro Passio del V secolo: e dunque non avrebbero ricevuto neppure la fede a Milano, come sembra invece suggerire sant’Ambrogio nel suo Inno (ostaggi sì, pignora, ma totalmente donati, non dovuti) – subiscono l’interrogatorio di rito e sono spinti al sacrificio agli dei dell’Impero. Il loro rifiuto comporta l’esecuzione capitale a Lodi, dove forse esisteva una comunità cristiana più cospicua da terrorizzare. Le loro spoglie, trafugate da una matrona, vengono riportate però a Milano (anche come vittime sono nuovamente donate a questa comunità) e cominciano ad essere oggetto di grande venerazione. Finché sant’Ambrogio non scopre vicino ai loro sepolcri i corpi dei santi Protasio e Gervasio, di cui si erano perse le tracce, sebbene non fossero del tutto ignoti alla memoria dei più vecchi fra i cristiani milanesi. «Senes repetunt audisse se aliquando horum martyrum nomina, titulumque legisse. Perdiderat civitas suos martyres quae rapuit alienos / I vecchi ripetono di aver sentito i nomi di questi martiri [Protasio e Gervasio] e di aver letto una iscrizione. La città che rubò i martiri altrui, aveva perduto i suoi [Protasio e Gervasio]».

Il culto dei martiri ritrovati soppianta quello di Nabore e Felice e altrettanto fa la nuova Basilica, edificata da sant’Ambrogio per Protasio e Gervasio, rispetto alla piccola e antica Basilica naboriana, di cui poi in epoca moderna si perderanno addirittura le tracce.

Non potevano avere altro destino quei pignora. «Granum certe sinapis res est vilis et simplex: si teri coepit vim suam fundit... Granum sinapis martyres nostri sunt Felix, Nabor et Victor: habebant odorem fidei sed latebant. Venit persecutio, arma posuerunt, colla flexerunt, contriti gladio per totius terminos mundi gratiam sui sparsere martyrii, ut iure dicatur: in omnem terram exiit sonus eorum. / Un granello di senape è veramente cosa umile e semplice: solo se si prende a frantumarlo spande la sua forza... Granello di senape sono i nostri martiri Felice, Nabore e Vittore: possedevano la fragranza della fede, ma di nascosto. Venne la persecuzione, deposero le armi, piegarono il collo; uccisi di spada, diffusero la grazia del loro martirio fino ai confini del mondo, perché a buon diritto si dica: per ogni terra si è diffusa la loro voce».
Ma mentre Vittore prese a Milano dimora stabile e separata dai suoi compagni di milizia e di martirio, il granello dei santi Nabore e Felice non aveva finito di spandere la sua forza fino ai confini del mondo.
Il luogo dove ancora riposavano sempre più declassati era diventato dal 1200 sede di una chiesa e poi di un convento francescano.

Nell’autunno del 1797 fu adibito a caserma, prima per la cavalleria cisalpina e poi per le truppe francesi di passaggio. Nabore e Felice, «strappati a empie caserme» – come dice sant’Ambrogio nell’Inno a essi dedicato –, c’erano di nuovo finiti! Ma si involarono ben presto, in mezzo alla confusione indescrivibile di quegli anni, nascosti (latebant, come un tempo) nei loro busti preziosi di cui qualche soldato si sarà invaghito o da cui avrà tratto guadagno. E così arrivarono a Namur, allora francese come quasi tutta l’Europa, quella Namur che ha così strana assonanza col nome latino Nabore (Nabor o secondo un’altra grafia Navor). Per essere riconsegnati a quell’arcivescovo di Milano che da papa avrebbe dovuto coltivare ben altro che «la storia religiosa» o «la spiritualità ambrosiana», così come egli si esprimeva nel 1959.


Ridotto pelle e ossa e con la voce rotta dal pianto, Paolo VI avrebbe dovuto gridare la sua fedeltà a Gesù Cristo, rinnegando il prezioso involucro culturale in cui si era formato e che era divenuto soffocante bozzolo, per far diventare lui vuota crisalide. Quel grido liberò il suo volo, al di là di ogni sua immaginazione, facendolo discepolo nel presente e nella carne di quei santi martiri. Aveva detto Gesù a Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi.
Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio» (Gv 21, 18-19).


Caterina63
00giovedì 2 agosto 2012 13:41

Il martirio di sant’Alessandro
26 agosto


Anno 303. Un gruppo di militari convertiti al cristianesimo è in prigione per la fede. La loro unità stupisce i carcerieri. Fuggono. E la via della fuga diventa la via della gloria


di Lorenzo Cappelletti


Un gruppo di cristiani è in fuga da Milano, residenza dell’augusto d’Occidente Massimiano Erculeo e della sua corte. Stanno scappando in direzione di Como. Forse nell’estate del 303. Anche il mese e il giorno restano imprecisabili. I nomi di quegli uomini, però, la tradizione li ha precisamente conservati. Hanno portato sulla fronte il nome dell’Agnello: non potevano cadere nell’oblio.

Il signifer Alessandro, un ufficiale che comandava il primo manipolo dei triarii (i soldati scelti, quelli che entravano per ultimi in battaglia); i suoi compagni di milizia Cassio, Severino, Secondo e Licinio; Fedele, il fedele figlio spirituale del santo vescovo di Milano, Materno; due funzionari imperiali, Carpoforo ed Essanto, che si erano manifestati come cristiani proprio in occasione dell’arresto di Alessandro e compagni. Ecco i componenti di quel gruppo eterogeneo, ma così legato nella professione dell’unica fede da lasciar stupefatto il carceriere pagano (impius) Sillano di fronte al miracolo della loro unità (forte viderat miraculum: gli era capitato di assistere a un miracolo).

I notabili del gruppo, Carpoforo ed Essanto, avevano potuto, evidentemente grazie alla posizione che occupavano, trarre dal carcere Alessandro e compagni, e con Fedele li stavano aiutando a fuggire. Nelle loro intenzioni la fuga doveva evitare loro la dura prova del carcere e delle torture, che magari li avrebbero costretti ad apostatare. Quei cristiani sapevano che non c’era bisogno di gonfiare il petto. Anche una via di fuga sarebbe potuta bastare a glorificare Dio.
Alessandro e compagni erano stati incarcerati (in cippo constricti) perché cristiani, a Milano, presso il carcere Zebedeo (sul quale fin dal secolo V sarà poi eretta una chiesa che figurerà fra le più antiche parrocchie milanesi).

In effetti, dal 297-298 la persecuzione, voluta da Diocleziano stesso nella sua prima fase, aveva cominciato a colpire i militari, i più esposti, coloro per i quali era dovere inderogabile onorare pubblicamente gli dei dell’Impero. Non si volevano, comunque, spargimenti di sangue. Anche perché i tempi richiedevano la massima compattezza nelle file dell’esercito. La Legione tebea, ad esempio, cui appartenevano quei soldati, era in procinto di muovere verso le Gallie, dove da decenni regnava uno stato di endemica anarchia. La disciplina non poteva essere infranta. E disciplina erano anche, se non soprattutto, gli atti di culto che si celebravano in coincidenza con ricorrenze simboliche. Da tali atti si misurava l’affidabilità delle truppe e maxime degli ufficiali (in cosa sono diversi i nostri giorni?). Alessandro e compagni si saranno rifiutati a qualcuno di questi atti di culto e per questo furono incarcerati. Avevano poi trovato una via di fuga, come abbiamo visto.

Ben presto, però, sono rintracciati. La Passio loro dedicata vuole che il 7 agosto Carpoforo ed Essanto siano stati trovati e uccisi in località Selvotta (Como); e il Martirologio roman o colloca nello stesso giorno il dies natalis di Cassio, Severino, Secondo e Licinio, benché di costoro non sussista una Passio. Fedele, a sua volta – narra la sua Passio –, separatosi dai compagni, sarebbe stato di lì a poco ritrovato e ucciso in località Samolaco (Sondrio). Il solo Alessandro sarebbe stato ricondotto a Milano alla presenza dell’imperatore e qui sollecitato in vario modo a sacrificare perché, narra la Passio, era caro all’imperatore. «Usque nunc quidem adhaesisti mihi / finora in verità mi sei stato caro».

In un’epoca ormai ufficialmente cristiana (cioè già dal IV-V secolo) si comincerà a parlare, come fa la Passio Alexandri (che forse risale a quel tempo, almeno nel suo nucleo originario), dell’imperatore Massimiano e di altri imperatori come di tiranni ferocissimi e crudelissimi; anche la Passio Alexandri lo dice «saevissimus et crudelissimus», peraltro contraddicendosi, come abbiamo visto. Certo, erano uomini di potere senza troppi scrupoli, ma in realtà Massimiano e i suoi predecessori, così come i loro funzionari, non esercitavano alcuna crudeltà gratuita nei confronti dei cristiani. La tradizione e la legge li obbligavano a esigere atti di obbedienza formale. Che più nulla fosse formale lo sperimentavano e quindi lo capivano i cristiani, ma per i pagani tutto lo era e principalmente la religione, che nel suo significato proprio vuol dire “scrupolosa ripetizione delle cerimonie” (religio, da relegere = ripetere).

Non desta stupore, perciò, che il gruppo di quei cristiani sia stato inseguito. L’ordine, secondo la Passio Alexandri, non era di ucciderli, ma di ricondurli in carcere (poi, come spesso accade, avranno incrudelito contro di loro). Semmai fa meraviglia – ma è storicamente del tutto plausibile (si trattava pur sempre di un ufficiale) – che il solo Alessandro sia scampato alla morte, e soprattutto l’insistenza persuasiva con cui si cercherà in tutti i modi di strapparlo alla condanna capitale, fino a costringerlo fisicamente a sacrificare.
Ribellatosi però anche in questa occasione, Alessandro – secondo la Passio – sarebbe riuscito a fuggire di nuovo. Stavolta, attraversato l’Adda, si rifugia nella boscaglia nei pressi di Bergamo. Ma, catturato, non riesce a scampare stavolta alla decapitazione, dopo essersi rifiutato per l’ennesima volta al sacrificio idolatrico. Una donna, Grata, con un misto di istintiva compassione e di apertura alla grazia (che furono anche di Maria di Magdala, di Salome e di Maria di Giacomo) ne raccolse le spoglie per darle a Bergamo come pretiosissimus thesaurus, e farne così certissimo fondamento storico e non convenzionale di quella Chiesa.

Chissà che Manzoni, il quale portava a ricordo del nonno il nome del santo martire, non abbia voluto, nel capitolo XVII dei Promessi sposi, far ripercorrere a Renzo, per macchie e campi, quella via di fuga da Milano a Bergamo che aveva attraversato il signifer Alessandro. Come Alessandro, Renzo fuggiva solo e impaurito, ma, diversamente da Alessandro, non dovette, neppure nella finzione romanzesca, offrire il suo corpo. Il corpo in sacrificio era già stato offerto, loro malgrado, da quei soldati, quando fra Milano, Bergamo e Como, non si sapeva cosa fosse il cristianesimo.
Si erano rifiutati, con un’ostinazione illogica agli occhi dei pagani, di offrire il sacrificio agli idoli, per offrire sé stessi come sacrificio vivente al Dio vivo. Realizzando, senza forse neppure conoscerle, le parole di Paolo: «Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale». Loghikèn latreían: quell’unica devozione logica, degna dell’uomo.

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