Solo il Ministro può imporre le mani: nascita e tradizione di questo ATTO sacramentale

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Caterina63
00giovedì 17 maggio 2012 17:52
[SM=g1740733]al fine di chiarire una volta per tutte che NESSUN LAICO può imporre le mani su altri laici o sui Sacerdoti o Consacrati, riporteremo qui una serie di Documenti validi.... cominciando con questa COSTITUZIONE APOSTOLICA di Paolo VI che spiega le origini e la tradizione di questo gesto che è un atto SACRAMENTALE...


COSTITUZIONE APOSTOLICA

DIVINAE CONSORTIUM NATURAE

IL SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE

PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
A PERPETUA MEMORIA

 

La partecipazione alla natura divina, che gli uomini ricevono in dono mediante la grazia di Cristo, rivela una certa analogia con l'origine, lo sviluppo e l'accrescimento della vita naturale. Difatti i fedeli, rinati nel santo Battesimo, sono corroborati dal Sacramento della Confermazione e, quindi, sono nutriti con il cibo della vita eterna nell'Eucaristia, sicché, per effetto di questi Sacramenti dell'iniziazione cristiana, sοnο in grado di gustare sempre più e sempre meglio i tesori della vita divina e progredire fino al raggiungimento della perfezione della carità. Molto giustamente sοnο state scritte in proposito queste parole: Viene lavata la carne, perché l'anima sia liberata da ogni macchia; viene unta la carne perché l'anima sia consacrata; viene segnata la carne, perché anche l'anima sia rinvigorita; la carne è adombrata dall'imposizione delle mani, perché anche l'anima sia illuminata dallo Spirito; la carne si pasce del corpo e del sangue di Cristo, perché anche l'anima si nutra abbondantemente di Dio (TERTULLIANO, De resurrectione mortuorum, VIII, 3: CCL, 2, p. 931).

Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella consapevolezza delle sue finalità pastorali, ha fatto oggetto di particolare cura e attenzione questi Sacramenti dell'iniziazione, prescrivendo che i relativi riti fossero sottoposti a opportuna revisione, perché fossero più adatti alla capacità di comprensione dei fedeli. Poiché dunque è già entrato nell'uso liturgico il Rito del Battesimo dei Bambini, nella nuova forma preparata per disposizione dello stesso Concilio Ecumenico e pubblicata per Nostra autorità, appare conveniente pubblicare il rito della Confermazione, al fine di mettere in debita luce l'unità dell'iniziazione cristiana.

Per la verità, alla revisione delle modalità della celebrazione di questo Sacramento è stato dedicato nel corso di questi anni un grande e accurato lavoro; l'intenzione era ovviamente quella di procurare che più chiaramente apparisse l'intima connessione di questo Sacramento con l'intero ciclo dell'iniziazione cristiana (Cf CONC. VAT. II, Const. Sacrosanctum Concilium, 71, AAS 58 (1964), p. 118). Ora il nesso, che collega la Confermazione con gli altri Sacramenti del medesimo ciclo, non solo risulta apertamente dal fatto che i riti sono meglio coordinati tra loro, ma appare anche dai gesti e dalle parole, impiegati per amministrare la Confermazione. Ne risulta infatti che i riti e le parole di questo Sacramento esprimano più chiaramente le realtà sante da esse significate, e il popolo cristiano, per quanto possibile, riesca a capirne facilmente il senso e a parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria (Ibidem, 21, p. 106).

A tal fine Noi abbiamo voluto che, in questo laνοrο di revisione, fossero inseriti anche quegli elementi che si riferiscono all'essenza stessa del rito della confermazione, nel quale i fedeli ricevono come Dono lo Spirito Santo.

Il Nuovo Testamento mette bene in luce in che modo lo Spirito Santo assisteva il Cristo nell'adempimento della sua funzione messianica. Gesù, infatti, dopo aver ricevuto il Battesimo di Giovanni, vide su di sé discendere lo Spirito Santo (cf Mc 1, 10), il quale rimase sopra di lui (cf Gv 1, 32). Sempre dal medesimo Spirito egli fu spinto a dare pubblico inizio al ministero di Messia, forte della sua presenza e del suo aiuto. Quando Gesù impartiva i suoi salutari insegnamenti al popolo di Nazaret, fece capire con le sue parole che proprio a lui si riferiva l'oracolo di Isaia: Lo Spirito del Signore è sopra di me (cf Lc 4, 17-21).

In seguito promise ai suoi discepoli che lo Spirito Santo avrebbe aiutato anche loro, infondendo in essi il coraggio per testimoniare la fede anche di fronte ai persecutori (cf Lc 12, 12). Alla vigilia poi della sua passione, assicurò che avrebbe inviato agli apostoli, da parte del Padre, lo Spirito di verità (cf Gv 15, 26), che sarebbe rimasto con essi in eterno (cf Gv 14, 16) e li avrebbe validamente aiutati a rendere testimonianza a lui stesso (cf Gv 15,26). Infine dopo la sua risurrezione, Cristo promise l'imminente discesa dello Spirito Santo: Riceverete la virtù dello Spirito Santo, che discenderà su di voi, e mi sarete testimoni (At 1, 8; cf Lc 24, 49).

E in realtà, nel giorno della festa di Pentecoste, lo Spirito Santo discese in forma del tutto straordinaria sopra gli Apostoli, riuniti con Maria, Madre di Gesù, e con il gruppo dei discepoli: essi allora a tal punto ne furono pieni (At 2, 4) che, infiammati dal soffio divino, cominciarono ad annunciare le meraviglie di Dio. Pietro, poi, ritenne che lo Spirito disceso in quel modo sopra gli Apostoli, fosse il dono dell'età messianica (cf At 2, 17-18). Allora furono battezzati coloro che avevano creduto alla predicazione apostolica, e anch'essi ricevettero il dono dello Spirito Santo (At 2, 38). Fin da quel tempo gli Apostoli, in adempimento del volere di Cristo, comunicavano ai neofiti, attraverso l'imposizione delle mani, il dono dello Spirito, destinato a completare la grazia del Battesimo (cf Αt 8, 15-17; 19, 5 ss). Questo spiega perché nell'Epistola agli Ebrei viene ricordata, tra i primi elementi della formazione cristiana, la dottrina dei battesimi e anche dell'imposizione delle mani (cf Eb 6, 2). E appunto questa imposizione delle mani che giustamente viene considerata dalla tradizione cattolica come la prima origine del Sacramento della Confermazione, il quale rende, in qualche modo perenne nella Chiesa la grazia della Pentecoste.

Da tutto ciò appare evidente la speciale importanza della Confermazione ai fini dell'iniziazione sacramentale, per la quale i fedeli, cοme membra del Cristo vivente, a lui sono incorporati e assimilati per il Battesimo, come anche per la Confermazione e l'Eucaristia (Cf CONC. VAT. II, Decr. Ad Gentes divinitus, 36. AAS 5S (1966), p. 983). Nel Battesimo i neofiti ricevono il perdono dei peccati, l'adozione a figli di Dio nonché il carattere di Cristo, per cui vengono aggregati alla Chiesa e diventano, inizialmente, partecipi del sacerdozio del loro Salvatore (cf 1 Pt 2, 5.9). Con il Sacramento della Confermazione, coloro che sono rinati nel Battesimo, ricevono il dono ineffabile, lo Spirito Santo stesso, per cui sono arricchiti di una forza speciale (CONC. VAT. II, Const. dogm. Lumen Gentium, 11, AAS 57 (1965), p. 15), e, segnati dal carattere del medesimo Sacramento, sono collegati più perfettamente alla Chiesa (Ibidem.;cf Decr. Αd Gentes divinitus, 11, AAS 58 (1966), pp. 959-960) mentre sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere, con la parola e con l'opera, la loro fede, come autentici testimoni di Cristo (Cf CONC. VAT. II, Decr. Presbiterorum Ordinis, 5. AAS 58 (1966), p. 997). Infine la Confermazione è talmente collegata con la Sacra Eucaristia che i fedeli, già segnati dal Santo Battesimo e dalla Confermazione, sono inseriti in maniera piena nel Corpo di Cristo mediante la partecipazione all'Eucaristia (Cf Ibidem, pp. 997-998).

Il conferimento del dono dello Spirito Santo, fin dalle antiche età, avveniva nella Chiesa secondo riti diversi. Tali riti in Oriente e in Occidente subirono molteplici trasformazioni, ma sempre tali da mantenere intatto il significato di comunicazione dello Spirito Santo.

In molti riti dell'Oriente sembra che fin dall'antichità fosse più frequente, nel comunicare lo Spirito Santo, il rito della crismazione, che non era ancora chiaramente distinto dal Battesimo (Cf ORIGENE, De Principiis, I, 3, 2; GCS, 22, p. 49 sq.; Comm. in Εp. ad Rom., V, 8; PG 14, 1038: CIRILLO DI GERUSALEMME, Catech. XVI, 26; XXI 1-7; PG, 33, 956; 1088-1093). Tale rito è anche oggi in vigore presso la maggior parte delle Chiese Orientali.

In Occidente si hanno testimonianze molto antiche, relative a quella parte dell'iniziazione cristiana, nella quale fu poi ravvisato distintamente il Sacramento della Confermazione. Infatti, dοpο l'ablazione battesimale e prima della recezione del cibo eucaristico, vengono indicati molti gesti rituali da compiersi, come l'unzione, l'imposizione della mano e la «consignatio» (Cf  TERTULLIANO, De Baptismo, VII-VIII; CCL, I, p. 282 sq.; B. BOTTE, La tradition apostolique de Saint Hippolyte: Liturgiewissenschaftliche Quellen und Forschungen, 39, Münster in W., 1963, pp. 52-54;  AMBROGIO, De Sacramentis, II, 24; III, 2, 8; VI, 2, 9; CSEL, LXXIII, pp. 36, 42, 74-75; De Mysteriis, VII, 42; ibidem, p.106) che sono contenuti nei documenti liturgici (Liber Sacramentorum Romanae Ecclesiae Ordinis Anni circuli, ed. L.C. MOHLBERG Rerum Ecclesiasticarum Documenta, Fontes, IV, Roma, 1969, p. 75; Das Sacramentarium Gregorianum nach den Aachener Urexemplar, ed. H. LIETZANN: Liturgiegeschichtliche Quellen, 3 Müster in W., 1921, p. 53 sq.; Liber Ordinum, ed. M. Férotin: Monumenta Ecclesiae Liturgica, V, Paris, 1904, p. 33 sq.; Missale Gallicanum Vetus, ed. L. C. MOHLBERG: Rerum Eclclesiasticarum Documenta, Fontes, III, Roma, 1958, p. 42; Missale Gothicum, ed. L. C. MOHLBERG: Rerum Ecclesiasticarum Documenta, V, Roma 1961, p. 67; C. VOGELR ELZE, Le Pontifical Romano-Germanique du dixième siècle, Le Texte, II: Studi e Testi, 227, Città del Vaticano 1963, p. 109; M. ANDRIEU, Le Pontifical Romain au Moyen-Age, t. 1, Le Pontifical Romain du XIIe siècle: Studi e Testi, 86, Città del Vaticano 1938, pp. 274 sq. et 289; t. 2, Le Pontifical de la Curie Romaine au XIIIe siècle: Studi e Testi, 87, Città del Vaticano 1940, pp. 452 sq.)
sia in molte testimonianze dei Padri. Da allora, lungo il corso dei secoli, sorsero discussioni e dubbi circa gli elementi che appartengono sicuramente all'essenza del rito della confermazione.
Giova, pertanto, ricordare almeno alcune di quelle testimonianze, che fin dal secolo XIII contribuirono non poco nei Concili Ecumenici e nei Documenti dei Sommi Pontefici a illustrare l'importanza della crismazione, in mοdο però da non far dimenticare l'imposizione delle mani.

Innocenzo III, Nostro Predecessore, così scrisse: Con la crismazione sulla fronte viene designata l'imposizione della mano che con altro vocabolo si dice confermazione, poiché per mezzo di essa viene dato lo Spirito Santo per la crescita e per l'irrobustimento (Lett. «Cum venisset»; PL, 215, 285. La professione di fede imposta dallo stesso Pontefice ai Valdesi ha questa affermazione: Confirmationem ab episcopo factam, id est impositionem manuum, sanctam et venerande accipiendam esse censemus; PL, 215, 1511).
Un altro Nostro Predecessore, Innocenzo IV, ricorda che gli Apostoli comunicavano lo Spirito Santo con l'imposizione della mano, rappresentata dalla confermazione o dalla crismazione sulla fronte (Lett. «Sub Catholicae professione»; MANSI, Conc. Coll., t. 23, 579).
Nella Professione di fede dell'imperatore Michele Paleologo, letta nel II Concilio di Lione, si fa menzione del Sacramento della Confermazione, che i Vescovi conferiscono mediante l'imposizione delle mani ungendo con il crisma i battezzati (MANSI, Conc. Coll., t. 24, 71). Il Decreto per gli Armeni, emanato dal Concilio di Firenze, afferma che la materia del Sacramento della Confermazione è il crisma ottenuto con Olio . . . e balsamo (Epistulae Pontificiae ad Concilium Florentinum spectantes, ed. G. HOFMANN: Concilium Florentinum, vol. I, ser. A, pars II, Roma 1944, p. 128) e, citate le parole degli Atti degli Apostoli riguardo a Pietro e Giovanni, i quali conferirono lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani (cf At 8, 17), aggiunge: Al posto poi di quella imposizione della mano, nella Chiesa viene data la confermazione (Ibidem, p. 129).

Il Concilio di Trento, anche se non intende affatto definire il rito essenziale della Confermazione, lo designa tuttavia con il solo nome di sacro crisma della Confermazione (Concilii Tridentini Actorum pars altera, ed. S. EHSES: Concilium Tridentinum, V. Act. II, Friburgo Br., 1911, p. 996). Benedetto XIV cosi dichiarò: Pertanto ciò che è fuori discussione, deve essere affermato; cioé che nella Chiesa Latina si conferisce il Sacramento della Confermazione usando il Sacro Crisma, ossia Olio di Oliva mescolato con Balsamo e benedetto dal Vescovo, mentre il Ministro traccia un segno di Croce sulla fronte del cresimando, e pronunzia le parole della forma (Lett. «Ex quo primum tempore», 52; Benedicti XIV . . . Bullarium, t. III, Prato 1847, p. 320).

Molti Teologi, tenendo conto di queste dichiarazioni e tradizioni, sostennero che fosse necessaria, per la valida amministrazione della Confermazione, la sola unzione con il crisma, fatta sulla fronte con l'imposizione della mano; tuttavia, nei riti della Chiesa Latina era sempre prescritta l'imposizione delle mani prima della unzione dei cresimandi.

Riguardo poi alle parole del rito con cui si comunica lo Spirito Santo, bisogna tener presente questo: già nella Chiesa nascente Pietro e Giovanni, a compimento della iniziazione dei battezzati in Samaria, pregarono per essi perché ricevessero lo Spirito Santo e poi imposero le mani su di loro (cf At 8, 15-17). In Oriente, nei secoli IV e V, appaiono, nel rito della crismazione, i primi indizi delle parole sigillo del dono dello Spirito Santo (Cf CIRILLO DI GERUSALEMME, Catech., XVIII, 33; PG 33, 1056; ASTERIO, Vescovo di Amasea, In parabolam de filio prodigo, in «Photii Bibliotheca», Cod. 271; PG 104,213. Cf etiam Epistola cuiusdam Putriarchae Constantinopolitani ad Martyrium Episcopum Antiochenum; PG, 119, 900). Tali parοle furono ben presto recepite dalla Chiesa di Costantinopoli e sono adoperate tuttora dalle Chiese di rito Bizantino.

In Occidente, invece, le parole di questo rito che completa il Battesimo, fino ai secoli XII e XIII non furono chiaramente fissate. Ma nel Pontificale Romano del secolo XII ricorre per la prima volta la formula, che poi divenne comune: Io ti segno con il segno della croce e ti confermo con il crisma della salvezza. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (M. ANDRIEU, Le Pontifical Romain au Moyen-Age, t. 1, Le Pontifical Romain du XIIe siècle: Studi e Testi, 86, Città del Vaticano 1938, p. 247).

Da ciò che abbiamo ricordato è chiaro che nell'amministrazione della confermazione in Oriente e in Occidente, anche se in modo diverso, ebbe il primo posto la crismazione, che comunque rappresenta l'imposizione delle mani usata dagli Apostoli. E poiché quella unzione con il crisma convenientemente significa l'unzione spirituale dello Spirito Santo, che viene dato ai fedeli, Noi intendiamo confermare l'esigenza e l'importanza della medesima.

Circa le parole che si pronunciano nell'atto della crismazione, abbiamo in verità considerato secondo il suo giusto valore la dignità della veneranda formula che si usa nella Chiesa Latina; ad essa tuttavia riteniamo che sia da preferire l'antichissima formula propria del rito Bizantino, con la quale si esprime il Dono dello stesso Spirito Santo e si ricorda l'effusione dello Spirito che avvenne nel giorno di Pentecoste (cf At 2, 1-4.38). Adottiamo pertanto questa formula, riportandola quasi alla lettera.

Perché dunque la revisione del rito della Confermazione comprenda opportunamente anche l'essenza stessa del rito sacramentale, cοn la Nostra Suprema Autorità Apostolica decretiamo e stabiliamo che in avvenire sia osservato nella Chiesa Latina quanto segue:

IL SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE SI CONFERISCE MEDIANTE L'UNZIONE DEL CRISMA SULLA FRONTE, CHE SI FA CON L'IMPOSIZIONE DELLA MANO E MEDIANTE LA PAROLE «RICEVI IL SIGILLO DEL DONO DELLO SPIRITO SANTO».

Tuttavia, l'imposizione delle mani sopra gli eletti, che si compie con l'orazione prescritta prima della crismazione, anche se non appartiene all'essenza del rito sacramentale, è da tenersi in grande considerazione, in quanto serve a integrare maggiormente il rito stesso e a favorire una migliore comprensione del Sacramento. È chiaro che questa imposizione delle mani, che precede la crismazione, differisce dall'imposizione della mano, con cui si compie funzione crismale sulla fronte.

Dopo aver stabilito e dichiarato tutti questi elementi relativi al rito essenziale del Sacramento della Confermazione, Noi approviamo con la Nostra Autorità Apostolica anche il Rito del madesimo Sacramento, revisionato dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, d'intesa con le Sacre Congregazioni per la Dottrina della Fede, per la Disciplina dei Sacramenti e per l'Evangelizzazione dei Popoli, per quanto attiene alla materia di loro competenza. L'edizione latina del Rito, che contiene la nuova forma, andrà in vigore non appena sarà pubblicata; mentre le edizioni in lingua volgare, preparate dalle Conferenze Episcopali e approvate dalla Santa Sede, andranno in vigore dal giorno che sarà deciso dalle medesime singole Conferenze; il vecchio Rito potrà essere usato fine al termine del 1972. Tuttavia, dal 1 ° gennaio 1973, tutti gli interessati dovranno fare uso soltanto del nuovo Rito.

Tutto quello che qui abbiamo stabilito e prescritto, vogliamo che abbia, ora e in avvenire, piena efficacia nella Chiesa Latina, nonostante - per quanto è necessario - le Costituzioni Apostoliche, emanate dai Nostri Predecessori, e le altre disposizioni, anche se degne di speciale menzione.

Dato a Roma, presso S. Pietro, il 15 agosto 1971, solennità dell'Assunzione della Beata Vergine Maria, anno nono del Nostro Pontificato.

PAOLO PP. VI

Caterina63
00giovedì 17 maggio 2012 18:01

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 10 gennaio 2007

 

Stefano il Protomartire

Cari fratelli e sorelle,

dopo il tempo delle feste ritorniamo alle nostre catechesi. Avevo meditato con voi le figure dei dodici Apostoli e di san Paolo. Poi abbiamo cominciato a riflettere sulle altre figure della Chiesa nascente e così oggi vogliamo soffermarci sulla persona di santo Stefano, festeggiato dalla Chiesa il giorno dopo Natale. Santo Stefano è il più rappresentativo di un gruppo di sette compagni. La tradizione vede in questo gruppo il germe del futuro ministero dei ‘diaconi’, anche se bisogna rilevare che questa denominazione è assente nel Libro degli Atti. L’importanza di Stefano risulta in ogni caso dal fatto che Luca, in questo suo importante libro, gli dedica due interi capitoli.

Il racconto lucano parte dalla constatazione di una suddivisione invalsa all’interno della primitiva Chiesa di Gerusalemme: questa era, sì, interamente composta da cristiani di origine ebraica, ma di questi alcuni erano originari della terra d'Israele ed erano detti «ebrei», mentre altri di fede ebraica veterotestamentaria provenivano dalla diaspora di lingua greca ed erano detti «ellenisti». Ecco il problema che si stava profilando: i più bisognosi tra gli ellenisti, specialmente le vedove sprovviste di ogni appoggio sociale, correvano il rischio di essere trascurati nell'assistenza per il sostentamento quotidiano. Per ovviare a questa difficoltà gli Apostoli, riservando a se stessi la preghiera e il ministero della Parola come loro centrale compito decisero di incaricare «sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza» perché espletassero l'incarico dell’assistenza (At 6, 2-4), vale a dire del servizio sociale caritativo. A questo scopo, come scrive Luca, su invito degli Apostoli i discepoli elessero sette uomini. Ne abbiamo anche i nomi. Essi sono: «Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola. Li presentarono agli Apostoli, i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,5-6).

Il gesto dell’imposizione delle mani può avere vari significati. Nell’Antico Testamento il gesto ha soprattutto il significato di trasmettere un incarico importante, come fece Mosè con Giosuè (cfr Nm 27,18-23), designando così il suo successore. In questa linea anche la Chiesa di Antiochia utilizzerà questo gesto per inviare Paolo e Barnaba in missione ai popoli del mondo (cfr At 13,3). Ad una analoga imposizione delle mani su Timoteo, per trasmettergli un incarico ufficiale, fanno riferimento le due Lettere paoline a lui indirizzate (cfr 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6).

Che si trattasse di un’azione importante, da compiere dopo discernimento, si desume da quanto si legge nella Prima Lettera a Timoteo: «Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui» (5,22). Quindi vediamo che il gesto dell’imposizione delle mani si sviluppa nella linea di un segno sacramentale.
Nel caso di Stefano e compagni si tratta certamente della trasmissione ufficiale, da parte degli Apostoli, di un incarico e insieme dell’implorazione di una grazia per esercitarlo.

La cosa più importante da notare è che, oltre ai servizi caritativi, Stefano svolge pure un compito di evangelizzazione nei confronti dei connazionali, dei cosiddetti “ellenisti”, Luca infatti insiste sul fatto che egli, «pieno di grazia e di fortezza» (At 6,8), presenta nel nome di Gesù una nuova interpretazione di Mosè e della stessa Legge di Dio, rilegge l’Antico Testamento nella luce dell’annuncio della morte e della risurrezione di Gesù. Questa rilettura dell’Antico Testamento, rilettura cristologica, provoca le reazioni dei Giudei che percepiscono le sue parole come una bestemmia (cfr At 6,11-14). Per questa ragione egli viene condannato alla lapidazione.

(..)

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UDIENZA DEL 25 APRILE 2012

Nella catechesi del mercoledì scorso avevo sottolineato la preghiera unanime della prima comunità cristiana di fronte alla prova e come, proprio nella preghiera, nella meditazione sulla Sacra Scrittura essa ha potuto comprendere gli eventi che stavano accadendo. Quando la preghiera è alimentata dalla Parola di Dio, possiamo vedere la realtà con occhi nuovi, con gli occhi della fede e il Signore, che parla alla mente e al cuore, dona nuova luce al cammino in ogni momento e in ogni situazione. Noi crediamo nella forza della Parola di Dio e della preghiera. Anche la difficoltà che stava vivendo la Chiesa di fronte al problema del servizio ai poveri, alla questione della carità, viene superata nella preghiera, alla luce di Dio, dello Spirito Santo. Gli Apostoli non si limitano a ratificare la scelta di Stefano e degli altri uomini. ma «dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,6). L’Evangelista ricorderà nuovamente questi gesti in occasione dell’elezione di Paolo e Barnaba, dove leggiamo: «dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono» (At 13,3). Conferma di nuovo che il servizio pratico della carità è un servizio spirituale. Ambedue le realtà devono andare insieme.

Con il gesto dell’imposizione delle mani, gli Apostoli conferiscono un ministero particolare a sette uomini, perché sia data loro la grazia corrispondente. La sottolineatura della preghiera – «dopo aver pregato», dicono – è importante perché evidenzia proprio la dimensione spirituale del gesto; non si tratta semplicemente di conferire un incarico come avviene in un’organizzazione sociale, ma è un evento ecclesiale in cui lo Spirito Santo si appropria di sette uomini scelti dalla Chiesa, consacrandoli nella Verità che è Gesù Cristo: è Lui il protagonista silenzioso, presente nell’imposizione delle mani affinché gli eletti siano trasformati dalla sua potenza e santificati per affrontare le sfide pratiche, le sfide pastorali. E la sottolineatura della preghiera ci ricorda inoltre che solo dal rapporto intimo con Dio coltivato ogni giorno nasce la risposta alla scelta del Signore e viene affidato ogni ministero nella Chiesa.

Cari fratelli e sorelle, il problema pastorale che ha indotto gli Apostoli a scegliere e ad imporre le mani su sette uomini incaricati del servizio della carità, per dedicarsi loro stessi alla preghiera e all’annuncio della Parola, indica anche a noi il primato della preghiera e della Parola di Dio, che, tuttavia, produce poi anche l'azione pastorale. Per i Pastori questa è la prima e più preziosa forma di servizio verso il gregge loro affidato. Se i polmoni della preghiera e della Parola di Dio non alimentano il respiro della nostra vita spirituale, rischiamo di soffocare in mezzo alle mille cose di ogni giorno: la preghiera è il respiro dell’anima e della vita.

(..)

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LETTERA AI SACERDOTI  del beato Giovanni Paolo II - Giovedì Santo 1991

Nella potenza dello Spirito Santo, operante nella Chiesa dal giorno di Pentecoste, questo sacramento, attraverso la lunga serie delle generazioni sacerdotali è stato affidato anche a noi nel presente momento della storia dell'uomo e del mondo, la quale in Cristo è diventata definitivamente storia della salvezza. Ciascuno di noi, cari fratelli, ripercorre oggi con la mente e col cuore la propria via al sacerdozio e, in seguito, la propria via nel sacerdozio, che è via della vita e del servizio e che a noi è derivata dal Cenacolo. Tutti ricordiamo il giorno e l'ora allorché, dopo aver recitato insieme le Litanie dei Santi, prostrati sul pavimento del tempio, il Vescovo impose su ciascuno di noi le sue mani, in profondo silenzio.

Sin dai tempi apostolici, l'imposizione delle mani è il segno della trasmissione dello Spirito Santo, che è, egli stesso, il supremo artefice della santa potestà sacerdotale: autorità sacramentale e ministeriale. Tutta la liturgia del triduum sacrum ci avvicina al Mistero pasquale, da cui tale autorità ha il suo inizio per essere servizio e missione: a questo possiamo applicare le parole del Libro di Isaia, pronunciate da Gesù nella sinagoga di Nazareth: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato».


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Dal Catechismo della Chiesa Cattolica

1150 Segni dell'Alleanza. Il popolo eletto riceve da Dio segni e simboli distintivi che caratterizzano la sua vita liturgica: non sono più soltanto celebrazioni di cicli cosmici e di gesti sociali, ma segni dell'Alleanza, simboli delle grandi opere compiute da Dio per il suo popolo. Tra questi segni liturgici dell'Antica Alleanza si possono menzionare la circoncisione, l'unzione e la consacrazione dei re e dei sacerdoti, l'imposizione delle mani, i sacrifici, e soprattutto la pasqua. In questi segni la Chiesa riconosce una prefigurazione dei sacramenti della Nuova Alleanza.

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DALLA LUMEN GENTIUM  Costituzione del Concilio Vaticano II - Paolo VI

Per compiere cosi grandi uffici, gli apostoli sono stati arricchiti da Cristo con una effusione speciale dello Spirito Santo disceso su loro (cfr. At 1,8; 2,4; Gv 20,22-23), ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori (cfr. 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6-7), dono che è stato trasmesso fino a noi nella consacrazione Episcopale [54]. Il santo Concilio insegna quindi che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell'ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del sacro ministero [55].
(...)
Dalla tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e dall'uso della Chiesa sia d'Oriente che d'Occidente, consta chiaramente che dall'imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione è conferita la grazia dello Spirito Santo [56] ed è impresso il sacro carattere [57] in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua vece [58]. È proprio dei vescovi assumere col sacramento dell'ordine nuovi eletti nel corpo episcopale.


[SM=g1740733]

DECRETO Missione Ad Gentes - Paolo VI


Laddove le conferenze episcopali lo riterranno opportuno, si restauri l'ordine diaconale come stato permanente, secondo le disposizioni della costituzione sulla Chiesa (98). È bene infatti che gli uomini, i quali di fatto esercitano il ministero di diacono, o perché come catechisti predicano la parola di Dio, o perché a nome del parroco e del vescovo sono a capo di comunità cristiane lontane, o perché esercitano la carità attraverso opere sociali e caritative, siano fortificati dall'imposizione delle mani, che è trasmessa fin dagli apostoli, e siano più saldamente congiunti all'altare per poter esplicare più fruttuosamente il loro ministero con l'aiuto della grazia sacramentale del diaconato.


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MENTI NOSTRAE - Pio XII 23 settemebre 1950 Anno Santo

Ad ogni Sacerdote ripetiamo pertanto la parola dell'Apostolo: " Non trascurare la grazia che è in te, che ti è stata data... con l'imposizione delle mani del presbiterio " (1 Tm 4, 14); " mostra te stesso in tutto come modello di bene operare, nella dottrina, nell'integrità, nella gravità; il parlare (sia) sano, comprensibile, affinché l'avversario resti confuso, non avendo nulla da dire contro di noi " (Tt 2, 7.8).

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RITIRO SPIRITUALE AD ARS CON Giovanni Paolo II 6.10.1986

3. Questo significa dirvi, cari amici, che a buon diritto possiamo ammirare lo splendore del sacerdozio ministeriale, come pure la vocazione religiosa, perché vi è un certo rapporto tra le due cose. Conoscete le parole del curato d’Ars: “Che gran cosa essere sacerdote! Se il sacerdote stesso lo capisse, ne morirebbe” (Nodet, 99).
Che meraviglia è in effetti esercitare, quali vescovi o quali sacerdoti, la nostra triplice missione sacerdotale, indispensabile alla Chiesa:
1) quella di annunciatore della buona novella: far conoscere Gesù Cristo; porsi in rapporto autentico con lui; vegliare sull’autenticità e la fedeltà della fede, perché non abbia dei cedimenti, non sia né alterata, né sclerotizzata; e anche mantenere nella Chiesa lo slancio evangelizzatore, formare allo apostolato;
2) quella di dispensatore dei misteri di Dio: renderli presenti in modo autentico, in particolare il mistero pasquale attraverso l’Eucaristia, e il perdono; permettere ai battezzati di accedervi, e prepararli ad essa. A tali ministeri, i laici non potranno mai esser delegati; è necessaria un’ordinazione sacerdotale, che consenta d’agire in nome di Cristo-Capo;
3) quella infine di pastore: costruire e mantenere la comunione tra i cristiani, nella comunità che ci è affidata, insieme alle altre comunità diocesane, tutte in collegamento col successore di Pietro. Prima di essere specializzato, in funzione delle sue competenze personali e in accordo col suo vescovo, il sacerdote è infatti il ministro della comunione: in una comunità cristiana che rischia spesso di disintegrarsi o di chiudersi, egli assicura allo stesso tempo il raduno della famiglia di Dio e la sua apertura. Il suo sacerdozio gli conferisce il potere di guidare il popolo sacerdotale (cf. Lettera del Giovedì Santo 1979, n. 5)


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Caterina63
00giovedì 17 maggio 2012 18:46

COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

 

L’APOSTOLICITÀ DELLA CHIESA E LA SUCCESSIONE APOSTOLICA*

(1973)

 

Proemio

Il presente studio vorrebbe chiarire il concetto di successione apostolica, da una parte perché la presentazione della dottrina cattolica al riguardo appaia di maggiore utilità per la vita della Chiesa cattolica, e d’altra parte perché lo esige il dialogo ecumenico.

Il dialogo ecumenico, infatti, è avviato un po’ dappertutto nel mondo, con prospettive d’un avvenire fruttuoso, qualora i cattolici vi parteciperanno nella fedeltà alla loro identità cattolica. Vorremmo dunque presentare la dottrina della Chiesa cattolica relativa alla successione apostolica, allo scopo di confortare i nostri fratelli nella fede e per contribuire allo sviluppo e alla maturazione del dialogo ecumenico.

Enumeriamo alcune difficoltà nelle quali più spesso ci si imbatte:

- Che cosa si può ricavare dalla testimonianza del Nuovo Testamento, considerato scientificamente? Come dimostrare la continuità tra il Nuovo Testamento e la Tradizione della Chiesa?

- Qual è la funzione dell’imposizione delle mani nella successione apostolica?

- Non è forse la tendenza, in certi ambienti, a ridurre la successione apostolica all’apostolicità comune a tutta la Chiesa, o, al contrario, a ridurre l’apostolicità della Chiesa alla successione apostolica?

A monte di tutti questi interrogativi si pone il problema dei rapporti tra la Scrittura, la Tradizione e le dichiarazioni solenni della Chiesa.

Ogni riflessione è subordinata alla visione della Chiesa che, per volontà del Padre, sgorga tutt’intera dal mistero del Cristo nella sua Pasqua, animata dallo Spirito e organicamente strutturata. Noi intendiamo collocare la funzione propria ed essenziale della successione apostolica nella Chiesa intera che confessa la fede apostolica e che rende testimonianza al suo Signore.

Ci appoggiamo alla Sacra Scrittura, che ha per noi il duplice valore di documento storico e di documento ispirato. Come documento storico, il Nuovo Testamento racconta i fatti principali della missione di Gesù e della Chiesa del primo secolo; come documento ispirato, esso attesta questi fatti fondamentali, li interpreta e manifesta il loro vero significato interiore e la loro coerenza dinamica. Come espressione del pensiero di Dio nelle parole degli uomini, la Scrittura ha valore direttivo per il pensiero della Chiesa di Cristo in ogni tempo.

Una lettura della Scrittura che riconosca ad essa, in quanto libro ispirato, un carattere normativo per la Chiesa di tutti i tempi, è necessariamente una lettura all’interno della Tradizione della Chiesa, che ha riconosciuto la Scrittura come ispirata e normativa. Questo riconoscimento del carattere normativo della Scrittura implica fondamentalmente il riconoscimento della Tradizione, in seno alla quale la Scrittura si è maturata ed è stata considerata ed accettata come ispirata. Il suo carattere normativo e il suo rapporto alla Tradizione si condizionano, dunque, scambievolmente. Ne segue che ogni considerazione propriamente teologica della Scrittura è, al tempo stesso, considerazione ecclesiale.

L’insieme del documento ha dunque questo punto metodologico di partenza: ogni tentativo di ricostruzione, che pretendesse isolare le fasi particolari della costituzione degli scritti neotestamentari e separarli dal loro vivo accoglimento da parte della Chiesa, è in sé contraddittorio.

Questo metodo teologico, che vede nella Scrittura un insieme indivisibile legato alla vita e al pensiero della comunità, in seno alla quale è conosciuta e riconosciuta come Scrittura, non significa per nulla neutralizzare il punto di vista della storia in nome d’un apriorismo ecclesiastico che dispenserebbe da una lettura rispondente all’esigenze del metodo storico.

Il metodo adottato permette di percepire i limiti d’un puro storicismo: esso sa bene che un’analisi puramente storica d’un libro preso isolatamente e separato dalla storia del suo influsso non può dimostrare con certezza che il cammino della fede nella storia è il solo possibile. Ma questi limiti della dimostrabilità storica, della quale non è consentito dubitare, non distruggono affatto il valore e il peso proprio della conoscenza storica. Al contrario, il fatto dell’accettazione della Scrittura come tale, che per la Chiesa primitiva ha valore costitutivo, deve sempre essere di nuovo pesato nel suo significato: bisogna cioè ripensare il rapporto fra le parti nelle loro differenze, con l’unità dell’insieme. Ciò implica pure che non si può ridurre la Scrittura stessa a una serie di abbozzi messi uno accanto all’altro, ciascuno dei quali sarebbe alla base di un progetto di vita orientato su Gesù di Nazareth, ma che bisogna comprenderla come espressione di un cammino storico che manifesta l’unità e la cattolicità della Chiesa.

In questo cammino, che comprende tre grandi tappe: il tempo precedente alla Pasqua, il tempo apostolico e quello post-apostolico [1], ogni momento ha la sua propria importanza, ed è significativo che gli uomini apostolici di cui parla la Dei Verbum (n. 18), abbiano potuto elaborare una parte degli scritti del Nuovo Testamento. Allora appare chiaramente in che maniera la comunità di Gesù Cristo ha risolto il problema di rimanere apostolica pur essendo diventata post-apostolica. Esiste per conseguenza un carattere normativo specifico della parte post-apostolica del Nuovo Testamento per il tempo della Chiesa dopo gli Apostoli, edificata certamente sugli Apostoli, i quali hanno essi stessi Cristo per fondamento.

Negli scritti post-apostolici, la Scrittura stessa rende testimonianza alla Tradizione, e già comincia a manifestarsi il Magistero nel richiamo all’insegnamento degli Apostoli (cf. Act 2, 42; 2 Pt 1, 20). Questo Magistero avrà la sua piena fioritura nel secondo secolo, nel momento in cui si espliciterà pienamente il concetto di successione apostolica.

Insieme, Scrittura e Tradizione, meditate e autenticamente interpretate dal Magistero, ci trasmettono fedelmente l’insegnamento di Cristo, nostro Dio e Salvatore, e regolano la dottrina che la Chiesa ha la missione di proclamare a tutti i popoli e di applicare ad ogni generazione fino alla fine dei secoli.

In questa prospettiva propriamente teologica — secondo la dottrina del Vaticano II — noi abbiamo redatto gli enunziati seguenti circa la successione apostolica e sulla valutazione dei ministeri che esistono nelle Chiese e Comunità non aventi ancora piena comunione con la Chiesa cattolica.

I. L’apostolicità della Chiesa e il sacerdozio comune

1. I Simboli di fede confessano che la Chiesa è apostolica. Ciò non significa soltanto che essa continua a confessare la fede apostolica, ma che è decisa a vivere sotto la norma della Chiesa primitiva, espressa dai primi testimoni del Cristo e retta dallo Spirito Santo, che il Signore le ha donato dopo la sua risurrezione. Le Lettere e gli Atti degli Apostoli ci mostrano la presenza efficace di questo Spirito nella Chiesa intera, non solo per quanto concerne la sua diffusione, ma più ancora nella trasformazione dei cuori: egli li rende conformi agli intimi sentimenti di Cristo. Stefano martire ripete le parole di perdono del Signore morente; Pietro e Giovanni, flagellati, gioiscono d’essere stati degni di soffrire per lui; Paolo porta le stigmate (Gal 6, 17), vuol essere configurato alla morte di Cristo (Phil 3, 10), non vuol conoscere altro che il crocifisso (1 Cor 1, 23; 2, 2), e comprende la sua esistenza come un’assimilazione al sacrificio espiatorio della croce (Phil 2, 17; Col 1, 24).

2. Quest’assimilazione ai sentimenti del Cristo e soprattutto alla sua morte sacrificale per il mondo costituisce il significato ultimo di ogni vita che vuol essere cristiana, spirituale, apostolica.

Perciò la Chiesa primitiva adatta il vocabolario sacerdotale dell’Antico Testamento a Cristo, agnello pasquale della Nuova Alleanza (1 Cor 5, 7) e — per riferimento a lui — ai cristiani la cui vita si specifica in rapporto al mistero pasquale. Convertiti dalla predicazione del Vangelo, essi sono convinti di vivere un sacerdozio santo e regale, trasposizione spirituale di quello dell’antico popolo (1 Pt 2, 5. 9; cf. Ex 19, 6; Is 61, 6), resa possibile dall’intervento dell’offerta sacrificale di Colui che ricapitola in sé tutti gli antichi sacrifici ed apre la strada verso il sacrificio totale ed escatologico della Chiesa (cf. S. Agostino, De Civitate Dei, X, c. 6).

Di fatto i cristiani, pietra viva del nuovo edificio che è la Chiesa fondata su Cristo, offrono a Dio un culto nella novità dello Spirito, culto personale, giacché si tratta d’offrire la vita «in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rom 12, 1; cf. 1 Pt 2, 5), e insieme comunitario, perché tutti insieme rappresentano quell’«edificio spirituale», quel «sacerdozio santo» e «regale» (2 Pt 2, 9), il cui scopo è di offrire «sacrifici spirituali, graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 2, 5).

Questo sacerdozio ha insieme una dimensione morale — deve essere esercitato ogni giorno ed in ogni atto della vita quotidiana —, una dimensione escatologica, in vista dell’eternità futura giacché Cristo ha fatto di noi «un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1, 6; cf. 5, 10; 20, 6), e una dimensione propriamente culturale, poiché l’Eucaristia di cui vivono è paragonata da San Paolo ai sacrifici dell’Antica Legge ed anche — per con­trasto — a quelli dei pagani (1 Cor 10, 16-21).

3. Ora, per la costituzione, l’animazione e la conservazione di questo sacerdozio dei cristiani, Cristo ha istituito un ministero, attraverso il segno e la strumentalità del quale egli comunica al suo popolo, nel corso della storia, i frutti della sua vita, della sua morte e della sua risurrezione. I primi fondamenti di questo ministero sono stati gettati fin dalla vocazione dei Dodici, che al tempo stesso rappresentano il nuovo Israele nella sua completezza e dopo la Pasqua saranno i testimoni privilegiati inviati per annunziare il Vangelo della salvezza, sono i capi del nuovo popolo, i collaboratori di Dio per l’edificazione del suo tempio (cf. 2 Cor 3, 9). La funzione di questo ministero è essenziale ad ogni generazione di cristiani. Deve dunque trasmettersi a partire dagli Apostoli attraverso una successione ininterrotta. Se si può dire che la Chiesa intera è stabilita sul fondamento degli Apostoli (Eph 2, 20; Ap 21, 14), bisogna anche e inseparabilmente affermare che questa apostoliche comune a tutta la Chiesa è legata alla successione apostolica ministeriale, che costituisce una struttura ecclesiale inalienabile al servizio di tutti i cristiani.

II. L’originalità del fondamento apostolico della Chiesa

Il fondamento apostolico ha come suo carattere proprio l’essere insieme storico e spirituale.

È storico nel senso che è posto da un atto di Cristo durante la sua vita terrestre: la chiamata dei Dodici fin dall’inizio del ministero pubblico di Gesù, la loro investitura per rappresentare il nuovo Israele e per essere associati sempre più strettamente al suo cammino pasquale che culmina nella croce e nella risurrezione (Mc 1, 17; 3, 14; Lc 22, 28; Io 15, 16). La risurrezione non rovescia ma conferma la struttura apostolica prepasquale. Cristo fa dei Dodici, in maniera speciale, i testimoni della sua risurrezione secondo lo stesso ordine che egli ha istituito prima della sua morte: la più antica confessione di fede nel Risorto include Pietro e i Dodici come testimoni privilegiati della risurrezione (1 Cor 15, 5). Coloro che Gesù aveva associati a sé dall’inizio del suo ministero fino alle soglie della sua Pasqua, possono testimoniare pubblicamente che proprio quello stesso Gesù è risuscitato (Io 15, 27). Dopo la defezione di Giuda e anche prima della Pentecoste, prima cura degli Undici è di far partecipare al loro ministero apostolico uno dei discepoli che hanno accompagnato Gesù dal tempo del suo battesimo, affinché sia insieme con essi testimone della sua risurrezione (Act 1, 17; 22 s.). Lo stesso Paolo, chiamato dal Risorto medesimo e così inserito nel fondamento della Chiesa, è consapevole di aver bisogno della comunione coi Dodici.

Tale fondamento non è solamente storico, ma anche spirituale. La Pasqua di Cristo, anticipata nella Cena, istituisce il popolo della nuova alleanza e avvolge quindi tutta la storia umana. La missione di evangelizzazione, di governo, di riconciliazione e di santificazione, affidata ai primi testimoni, non può essere ristretta al tempo della loro vita.

Per quanto concerne l’Eucaristia, la Tradizione, le cui linee fondamentali si stabiliscono già fin dal primo secolo (cf. Lc e Io), afferma che mediante questa partecipazione degli Apostoli alla Cena è stato loro conferito il potere di presiedere la celebrazione eucaristica. Il ministero apostolico è in tal modo un’istituzione escatologica. La sua origine spirituale trasparisce nella preghiera del Cristo, ispirata dallo Spirito Santo, nella quale egli discerne, come nelle grandi svolte della sua vita, la volontà del Padre (Lc 6, 12 s.). La partecipazione spirituale degli Apostoli al mistero del Cristo si completa nel dono pieno dello Spirito Santo, dopo la Pasqua (Io 20, 22; Lc 24, 44-49), e li introduce in una comprensione più profonda del mistero di lui (Io 16, 13-15). Così, per essere compreso in se stesso, il kèrigma non dev’essere separato né astratto dalla fede a cui i Dodici e Paolo hanno aderito nella loro conversione al Signore Gesù, né dalla testimonianza che ne hanno data con tutta la loro vita.

III. Gli Apostoli e la successione apostolica nella storia

I documenti del Nuovo Testamento mostrano una diversità nell’organizzazione delle comunità al principio della Chiesa, ancor viventi gli Apostoli, ma egualmente una tendenza del ministero di insegnamento e di direzione ad affermarsi e a rafforzarsi nel periodo successivo.

Gli uomini che dirigevano le comunità quando gli Apostoli erano ancora vivi o dopo la loro morte portano nei testi del Nuovo Testamento diversi nomi: presbytèroi-episkopoi, e sono descritti come poimènes, hégoumenoi, proistamenoi, kyberneseis. Ciò che caratterizza questi presbytèroi-episkopoi per rapporto al resto della Chiesa è il loro ministero apostolico d’insegnamento e di direzione. Quale che sia la maniera con cui sono stati scelti, per autorità o in dipendenza dai Dodici o da Paolo, essi partecipano all’autorità degli Apostoli istituiti da Cristo, i quali conservano per sempre la loro caratteristica unica.

Nel corso del tempo questo ministero ha conosciuto uno sviluppo, prodottosi in forza d’una conseguenza e di una necessità interne, e favorito da fattori esterni, soprattutto la difesa contro gli errori e la mancanza di unità fra le comunità. Ma quando le comunità furono private della presenza degli Apostoli e tuttavia vollero continuare a riferirsi alla loro autorità, fu necessario che venissero mantenute e continuate in maniera adeguata le funzioni degli Apostoli in seno a tali comunità e di fronte ad esse.

Già negli scritti neotestamentari che riflettono il passaggio dall’epoca apostolica a quella post-apostolica si delinea uno sviluppo che, nel secondo secolo, porta alla stabilizzazione e al riconoscimento generale del ministero del vescovo. Le tappe di questo sviluppo si scorgono negli ultimi scritti del corpus paolino e in altri testi che si riallacciano all’autorità degli Apostoli. Ciò che gli Apostoli avevano rappresentato per le comunità al tempo della fondazione della Chiesa, venne riconosciuto come essenziale per la struttura della Chiesa o per le comunità particolari, attraverso la riflessione del tempo post-apostolico al suo inizio. Il principio dell’apostolicità della Chiesa, acquisito in questa riflessione, portò con sé il riconoscimento del ministero d’insegnamento e di direzione come istituzione derivata da Cristo attraverso e mediante gli Apostoli. La Chiesa vive nella certezza che, prima di lasciare questo mondo, Gesù ha mandato gli Undici in missione universale, con la promessa di rimanere con loro tutti i giorni sino alla fine del mondo (Mt 28, 10-20). Il tempo della Chiesa, tempo di questa missione universale, resta dunque esso stesso compreso in questa presenza di Cristo, che è la medesima nel tempo apostolico e in quello post-apostolico, e che prende la forma d’un unico ministero apostolico.

Le tensioni tra comunità e soggetto d’un ministero d’autorità non possono essere totalmente evitate, come si vede già negli scritti del Nuovo Testamento. Paolo s’è applicato, da un lato, a comprendere il Vangelo con e nella comunità, e a trovare norme di vita cristiana; d’altro lato, però, egli si poneva di fronte ad essa col suo potere apostolico, quando trattavasi della verità del Vangelo (cf. Gal) e dei principi insostituibili di vita cristiana (cf. 1 Cor 7, ecc.). Similmente, il ministero di direzione non deve mai tagliarsi fuori dalla comunità ed elevarsi al disopra di essa, ma deve compiere il proprio servizio in seno ad essa e per essa. Tuttavia ricevendo la direzione apostolica — quella degli Apostoli medesimi o quella dei ministri che ad essi succedono — le comunità neotestamentarie si sottomettono alla direzione del ministero, riferito — per loro tramite — all’autorità del Signore stesso.

La scarsità di documenti non permette di precisare come si vorrebbe i passaggi operatisi. La fine del primo secolo ha conosciuto una situazione in cui gli Apostoli, i loro collaboratori immediati e infine i loro successori danno vita a collegi locali di presbytèroi e di episkopoi. Al principio del secondo secolo l’immagine del vescovo unico a capo delle comunità appare vigorosamente nelle lettere di sant’Ignazio, il quale afferma ancora che tale istituzione si trova stabilita «fino ai confini della terra» (Ad Ephesios, 3,2). Durante il secondo secolo questa istituzione è riconosciuta in maniera esplicita, nel solco della lettera di Clemente, come veicolo della successione apostolica.

L’ordinazione con l’imposizione delle mani, attestata dalle Lettere pastorali, appare all’interno del processo di chiarificazione come un passo importante per la tutela della tradizione apostolica e per la garanzia della successione nel ministero. I documenti del terzo secolo (Tradizione d’Ippolito) mostrano che essa era specificamente acquisita, e considerata come istituzione necessaria.

Clemente e Ireneo sviluppano una dottrina del governo pastorale e della Parola, facendo derivare dall’unità della Parola, della missione e del ministero l’idea della successione apostolica, divenuta base permanente della maniera con cui la Chiesa cattolica comprende se stessa.

IV. Aspetto spirituale della successione apostolica

Se, dopo questo prospetto storico, cerchiamo di comprendere la dimensione spirituale della successione apostolica, bisogna anzitutto sottolineare che, pur rappresentando con autorità il Vangelo e manifestandosi fondamentalmente come un servizio verso la Chiesa nella sua totalità (2 Cor 4, 5),il ministero ordinato esige dal ministro che egli renda presente Cristo umiliato (2 Cor 6, 4 ss.) e crocifisso (cf. Gal 2, 19 s.; 16, 14; 1 Cor 4, 9 ss.).

La Chiesa che egli serve è, nella sua totalità come in ciascuno dei suoi membri, animata e mossa dallo Spirito, giacché ogni battezzato è «ammaestrato dallo Spirito» (1 Thess 4, 9; cf. Hebr 8, 11 ss.; Ier 31, 33 ss.; 1 Io 2, 20; Io 6, 45). Il ministero sacerdotale, quindi, non potrà se non ricordargli con autorità quanto incoativamente è già incluso nella sua fede battesimale, ma la cui pienezza egli non potrà mai esaurire quaggiù. Allo stesso modo il fedele dovrà nutrire la propria fede e la propria vita cristiana con la mediazione sacramentale della vita divina. La norma della fede — che nel suo carattere formale noi designiamo come «regola di fede» — è a lui immanente per l’azione dello Spirito, pur rimanendo trascendente per rapporto all’uomo, poiché non può mai essere puramente individuale essendo essenzialmente ecclesiale e cattolica.

In questa regola di fede l’immediatezza dello Spirito divino ad ogni persona è quindi necessariamente legata alla forma comunitaria di questa fede. L’affermazione di San Paolo, che «nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12, 3) è sempre valida: senza la conversione che solo lo Spirito accorda ai cuori, nessuno è in grado di riconoscere Gesù nella sua qualità di Figlio di Dio, e solo chi lo conosce come Figlio conoscerà veramente colui che egli chiama «Padre» (cf. Io 14, 7; 8, 19; ecc.). Dunque, poiché lo Spirito ci comunica la conoscenza del Padre mediante Gesù, la fede cristiana è trinitaria: la sua forma pneumatica include necessariamente questo contenuto, che si esprime e si realizza in maniera sacramentale nel battesimo trinitario.

La regola di fede, cioè il tipo della catechesi battesimale nella quale si estrinseca il contenuto trinitario, costituisce, in quanto unione della forma e del contenuto, il perno permanente dell’apostolicità e della cattolicità della Chiesa. Essa realizza l’apostolicità in quanto lega gli araldi della fede alla regola cristo-pneumatologica: essi non parlano in nome proprio, ma testimoniano ciò che hanno ascoltato (cf. Io 7, 18; 16, 13 ss.; ecc.).

Gesù Cristo si rivela come Figlio in quanto annunzia ciò che viene dal Padre. Lo Spirito si rivela come lo Spirito del Padre e del Figlio perché non prende del suo, ma li rivela e richiama quanto viene dal Figlio (Io 16, 13 s.). Ciò diventa, nel prolungamento del Signore e del suo Spirito, il carattere distintivo della successione apostolica. Il Magistero della Chiesa si distingue tanto da un puro magistero di dottori quanto da un potere autoritario. Qualora il magistero della fede passasse ai professori, la fede sarebbe legata ai lumi individuali, e così assoggettata in gran parte allo spirito del tempo. E qualora la fede dipendesse dal potere dispotico di certe persone individuali o collettive, chiunque di loro fosse a decretare ciò che è normativo, la verità sarebbe rimpiazzata da un potere arbitrario. Al contrario, il vero magistero apostolico è legato alla Parola del Signore e così introduce nella libertà di lui quanti l’ascoltano.

Nulla, nella Chiesa, sfugge alla mediazione apostolica: né i pastori né il gregge, né gli enunziati di fede né le norme di vita cristiana. Il ministero ordinato si trova anche doppiamente riferito a tale mediazione, essendo esso stesso sottoposto da una parte alla regola delle origini cristiane, e dall’altra — come dice Agostino — obbligato a lasciarsi istruire dalla comunità dei credenti che lui stesso ha l’obbligo di istruire.

Da quanto fin qui detto ricaveremo due conclusioni:

1. Nessun predicatore del Vangelo ha il diritto di escogitare un piano di annunzio evangelico secondo le proprie ipotesi. Egli annunzia la fede della Chiesa apostolica e non la propria personalità o le proprie esperienze religiose. Ciò comporta che ai due elementi menzionati della regola di fede — forme e contenuto — viene ad aggiungersene un terzo: la regola di fede esige un testimone inviato, che non s’autorizzi da se stesso e che nessuna comunità particolare è capace di autorizzare, e ciò in forza della trascendenza della Parola. L’autorizzazione non può venirgli se non sacramentalmente attraverso quelli che sono già inviati.
Certo, lo Spirito suscita sempre liberamente nella Chiesa differenti carismi di evangelizzazione e di servizio, animando tutti i cristiani alla testimonianza della loro fede, ma queste attività devono essere esercitate in riferimento ai tre elementi della regola di fede ora menzionati (cf. Lumen Gentium, n. 12).

2. La missione che in tal modo — ancora una volta secondo il principio trinitario — fa parte della regola di fede, si riferisce alla cattolicità della fede, che è una conseguenza della sua apostolicità e al tempo stesso la condizione della sua permanenza. Nessun individuo e nessuna comunità isolata, infatti, hanno il potere di inviare. Solo il legame al tutto (kat’holon) — la cattolicità nello spazio e nel tempo — garantisce la permanenza nella missione. Così la cattolicità spiega ancora che il fedele, in quanto membro della Chiesa, è introdotto alla partecipazione immediata della vita trinitaria attraverso la mediazione non solo dell’Uomo-Dio, ma anche della Chiesa, a lui intimamente associata.

Questa mediazione della Chiesa deve, in virtù della dimensione cattolica della sua verità e della sua vita, effettuarsi in maniera normativa, cioè mediante un ministero che le è conferito come forma costitutiva. Questo non dovrà soltanto riferirsi a un’epoca storicamente finita (rappresentata eventualmente da una serie di documenti); ma in questo riferimento dev’essere munito del potere di rappresentare esso stesso l’origine, il Cristo vivente, mediante un annunzio del Vangelo ufficialmente autorizzato e mediante la celebrazione, con autorità, di atti sacramentali, prima di tutto dell’Eucaristia.

V. La successione apostolica e la sua trasmissione

Poiché la Parola divina fatta carne è essa stessa l’annunzio e il principio della comunicazione della vita divina che ci si manifesta in essa, il ministero della Parola nella sua pienezza è anche ministero dei sacramenti della fede, prima di tutto dell’Eucaristia, nei quali la Parola, il Cristo, non cessa d’essere per gli uomini avvenimento attuale di salvezza. L’autorità pastorale è la responsabilità del ministero apostolico verso l’unità della Chiesa e il suo sviluppo, di cui la Parola è sorgente e di cui i sacramenti sono al tempo stesso manifestazione e luogo fondamentale di realizzazione.

La successione apostolica è dunque quest’aspetto della natura e della vita della Chiesa, che mostra la dipendenza attuale della comunità in rapporto a Cristo attraverso i suoi inviati. Il ministero apostolico è in tal modo il sacramento della presenza operante di Cristo e dello Spirito in seno al popolo di Dio, senza che però venga minimizzato l’influsso immediato del Cristo e dello Spirito su ogni fedele.

Il carisma della successione apostolica è ricevuto nella comunità visibile della Chiesa. Esso suppone che colui che viene inserito nel corpo dei ministri abbia la fede della Chiesa. Ma questo non basta. Il dono del ministero viene accordato in un’azione che è segno visibile ed efficace del dono dello Spirito, azione che ha come strumenti uno o alcuni degli stessi ministri già inseriti nella successione apostolica.

La trasmissione del ministero apostolico avviene dunque mediante l’ordinazione, che comprende un rito con un segno sensibile e un’invocazione a Dio (epiclèsi) affinché voglia accordare all’ordinando il dono del suo Spirito Santo insieme coi poteri necessari all’adempimento del suo compito. Fin dal Nuovo Testamento questo segno sensibile è l’imposizione delle mani (cf. Lumen Gentium, n. 21). Il rito dell’ordinazione sta a manifestare che quanto avviene in colui che è ordinato non è di origine umana, e che la Chiesa non dispone a suo piacimento del dono dello Spirito. [SM=g1740733]

Consapevole che la propria esistenza è legata all’apostolicità, e che il ministero trasmesso mediante l’ordinazione inserisce l’ordinato nella confessione apostolica della verità del Padre, la Chiesa ha giudicato necessaria alla successione apostolica nel senso stretto della parola l’ordinazione data e ricevuta nella fede che essa stessa vi ripone.

La successione apostolica del ministero riguarda tutta la Chiesa, ma non procede dalla Chiesa presa globalmente, bensì da Cristo agli Apostoli e, negli Apostoli, a tutti i vescovi sino alla fine dei tempi.

VI. Elementi per una valutazione dei ministeri non cattolici

Questa sintesi finora compiuta del modo come i cattolici comprendono la successione apostolica ci consente di presentare le linee generali per una valutazione dei ministeri non cattolici. [SM=g1740733]

In tale contesto è indispensabile avere sott’occhi le differenze di origine, le evoluzioni di queste Chiese e Comunità, è la concezione che esse hanno di se stesse.

1. Malgrado la diversa valutazione che esse fanno dell’ufficio di Pietro, la Chiesa cattolica, la Chiesa ortodossa e le altre Chiese che hanno conservata la realtà della successione apostolica, sono unite in una medesima comprensione fondamentale della sacra mentalità della Chiesa, sviluppatasi fin dal Nuovo Testamento attraverso i Padri comuni, in particolare sant’Ireneo. Queste Chiese considerano l’inserimento sacramentale nel ministero ecclesiale, realizzato attraverso l’imposizione delle mani con l’invocazione dello Spirito Santo, come la forma indispensabile per la trasmissione della successione apostolica, che sola fa perseverare la Chiesa nella dottrina e nella comunione. Questa unanimità nella coerenza mai interrotta tra Scrittura, Tradizione e sacramento, costituisce il motivo per cui la comunione tra queste Chiese e la Chiesa cattolica non è mai cessata del tutto e può essere oggi ravvivata.

2. Dialoghi fruttuosi si continuano con le Comunioni anglicane che hanno conservata l’imposizione delle mani, la cui interpretazione è cambiata. Non è qui possibile anticipare gli eventuali risultati di questo dialogo che indaga in quale misura gli elementi costitutivi dell’unità sono inclusi nella conservazione del rito dell’imposizione delle mani e delle correlative preghiere.

3. Le Comunità uscite dalla Riforma del sec. XVI si differenziano tra loro al punto che la descrizione dei loro rapporti con la Chiesa cattolica dev’essere considerata secondo le sfumature di ogni caso particolare. Tuttavia si possono individuare alcune linee comuni.

Il movimento comune della Riforma ha negato il legame tra la Scrittura e la Tradizione della Chiesa in favore della normatività della sola Scrittura. Anche se in seguito ci si richiama in diversa maniera alla Tradizione, tuttavia non si riconosce ad essa la medesima dignità di cui godeva nell’antica Chiesa. Poiché il sacramento dell’ordine è l’espressione sacramentale indispensabile della comunione nella Tradizione, la proclamazione della sola Scriptura ha comportato l’oscuramento dell’antica nozione della Chiesa e del suo sacerdozio. E così, di fatto, attraverso i secoli si è spesso rinunziato all’imposizione delle mani sia da parte di uomini già ordinati, sia da parte di altri. Là dov’è stata praticata, non sempre ha avuto il medesimo significato che nella Chiesa della Tradizione. Questa divergenza nel modo di introdurre nel ministero e di interpretarlo non è che il sintomo più rilevante della differente comprensione delle nozioni di Chiesa e di Tradizione.

Numerosi promettenti approcci[2] hanno cominciato a ristabilire dei contatti con questa Tradizione, anche se la rottura non è ancora effettivamente superata. In tali circostanze l’intercomunione eucaristica resta per il momento impossibile [3], perché la continuità sacramentale nella successione apostolica fin dalle origini costituisce per le Chiese ortodosse, come pure per la Chiesa cattolica, un elemento indispensabile della comunione ecclesiale.

Questa costatazione non significa affatto che le qualità ecclesiali e spirituali dei ministeri e delle Comunità protestanti siano per questo da tenere in poco conto. I ministri hanno edificato e nutrito le comunità. Mediante il battesimo, mediante lo studio e la predicazione della Parola, mediante la preghiera comune e la celebrazione della Cena, col loro zelo, essi hanno guidato gli uomini verso la fede nel Signore, aiutandoli così a trovare la via della salvezza. Ci sono dunque in queste comunità elementi che certamente appartengono all’apostolicità dell’unica Chiesa di Cristo [4].

Anche se l’unione con la Chiesa cattolica non può effettuarsi se non sacramentalmente — e mai con mezzi puramente giuridici o amministrativi[5] —, è evidente che la qualità spirituale di questi ministeri non può mai essere trascurata. Un tale atto sacramentale dovrebbe integrare nella Catholica i valori esistenti, e il suo rito dovrebbe indubbiamente esprimere che vengono assunti carismi già reali.


* Documento del gruppo di lavoro sui ministeri approvato «in forma generica» dalla Commissione Teologica Internazionale

[1] La presenza personale degli Apostoli caratterizza l’epoca apostolica; essa tuttavia non potrebb’essere delimitata da un’esatta cronologia, essendo gli Apostoli scomparsi nelle varie Chiese in epoche diverse. Il tempo post-apostolico è qui inteso come il periodo che va dalla morte degli Apostoli fino al compimento degli scritti canonici, che spesso si presentano sotto il nome e con l’autorità degli Apostoli a motivo della continuità col loro messaggio che essi rendono attuale.

[2] Si vedano i risultati di alcuni dialoghi bilaterali.

[3] Per l’ospitalità eucaristica in casi particolari cf. il Direttorio Ecumenico, n. 38 e ss.

[4] Cf. la Cost. Dogmatica Lumen Gentium, n. 15, e il Decreto Unitatis Redintegratio, nn. 3 e 19-23.

[5] Se si volesse rimpiazzare questo rito con un semplice decreto, qualunque sia l’autorità che lo emani si rischierebbe di sostituire il dono sacramentale, di cui non si può disporre a piacimento, col potere proprio dei ministri.

Caterina63
00lunedì 21 maggio 2012 15:14
[SM=g1740733]Ulteriori insegnamenti validi:

Padre Tiziano Respetto, gesuita ed esorcista, in una intervista del 27 ottobre 2008 , spiegava:

- Il 23 novembre del 2000 l’allora Card. Ratzinger pubblicò una specie di decalogo che disciplina tuttora tali preghiere di guarigione e liberazione. Comunque, tutti, ma proprio tutti i battezzati possono chiedere al Signore anche privatamente e senza un sacerdote di liberare un dato fratello o sorella dalle infestazioni diaboliche.

Quello che è soggetto a cautela, è il rivolgersi direttamente al demonio, una creatura sommamente perversa e intelligente, quindi molto pericolosa... Questo possono farlo i laici solo se è presente un sacerdote che presiede l’esorcismo e quindi recita le formule del rituale.

In generale, tutti, laici ed esorcisti devono evitare gesti “occulti” che possano far pensare a qualche rito “magico”, quindi l’esorcista può imporre le mani o la stola o un crocifisso quando è previsto, può soffiare sul demonopatico, e poco altro, non deve assumere atteggiamenti “sciamanici”, ossia gesti plateali, strani, bizzarri e non deve inondare di acqua santa il demonopatico. I laici, in quanto battezzati, possono validamente tracciare un segno di croce con il pollice sul sofferente, come accade durante il battesimo dei bambini, ma non possono imporre le mani, in nessun caso.

Fin dall'antichità è il padre, genitore, che imponeva le mani sul figlio in segno di benedizione, questa eventualità potrebbe essere nuovamente auspicata ai tempi nostri per spingere soprattutto i genitori, il padre, ad assumersi una gran bella responsabilità nei confronti della fede che intende professare proprio in famiglia, testimoniando di essere un vero credente ed un testimone concreto della dottrina della Chiesa, ma è un gesto che deve rimanere isolato, dentro al suo contesto familiare, mentre le madri solevano segnare la fronte dei propri figli con un piccolo segno di croce sia quando andavano a dormire, sia quando uscivano di casa, specialmente nella previsione di lunghi viaggi o di ingaggi in battaglie. Queste sono benedizioni, ma non sacramentali e, comunque, devono rimanere in ambito familiare, mai fatti pubblicamente.
E' evidente che all'interno di contesti familiari incoerenti, separati o divorziati, l'imposizione delle mani non avrebbe alcun senso, suonando piuttosto come segno contraddittorio, mentre il segno di una piccola croce da parte della madre, sulla fronte dei figli, resta sempre un segno auspicabile e da incoraggiare.

Oggi, soprattutto in ambienti carismatici si parla di persone, laici, "prescelti" per esercitare l'imposizione delle mani, nulla di ciò è vero! Non esistono "prescelti", tale imposizione delle mani in ambito pubblico diventa sempre un atto sacramentale e di conseguenza, essendo appunto pubblico, può essere fatto esclusivamente da un Sacerdote, o dal Diacono in determinate situazioni. I laici che compiono l'imposizione delle mani commettono un grave abuso, confondono i fedeli sugli atti sacramentali, in molti casi sono anche di scandalo specialmente per quei fedeli che non vivono in quelle comunità, dando così l'impressione che in alcune comunità ecclesiali ai laici è consentito fare ciò che altrove non è lecito fare.

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Cardinale Ratzinger dicembre 2000 dall'Istruzione per ottenere da Dio la guarigione, ripresa durante una conferenza dello stesso cardinale nel 2001 e ampiamente spiegata:

- Anche la prima evangelizzazione, secondo le indicazioni del Nuovo Testamento, era accompagnata da numerose guarigioni prodigiose che corroboravano la potenza dell'annuncio evangelico. Questa era stata la promessa di Gesù risorto e le prime comunità cristiane ne vedevano l'avverarsi in mezzo a loro: «E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: (...) imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16,17-18). La predicazione di Filippo a Samaria fu accompagnata da guarigioni miracolose: «Filippo, sceso in una città della Samaria, cominciò a predicare loro il Cristo. E le folle prestavano ascolto unanimi alle parole di Filippo sentendolo parlare e vedendo i miracoli che egli compiva. Da molti indemoniati uscivano spiriti immondi, emettendo alte grida e molti paralitici e storpi furono risanati» (At 8,5-7). San Paolo presenta il suo annuncio del vangelo come caratterizzato da segni e prodigi realizzati con la potenza dello Spirito: «non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all'obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito» (Rm 15,18-19; cfr. 1Ts 1,5; 1Cor 2,4-5). Non è per nulla arbitrario supporre che tali segni e prodigi, manifestativi della potenza divina che assisteva la predicazione, erano costituiti in gran parte da guarigioni portentose. Erano prodigi non legati esclusivamente alla persona dell'Apostolo, ma che si manifestavano anche attraverso i fedeli: «Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione?» (Gal 3,5).
E' tuttavia implicito che l'imposizione delle mani acquisisce, fin dal primo secolo, un atto sacramentale messa a disposizione solo  dei presbiteri e dei vescovi, e che già nelle prime comunità, questa distinzione, diventerà sempre più chiara. (..)

Durante l'attività pubblica di Gesù, molti malati si rivolgono a lui, sia direttamente sia tramite i loro amici o congiunti, implorando la restituzione della sanità. Il Signore accoglie queste suppliche e i Vangeli non contengono neppure un accenno di biasimo di tali preghiere. L'unico lamento del Signore riguarda l'eventuale mancanza di fede: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede» (Mc 9,23; cfr. Mc 6,5-6; Gv 4,48).
Ed è Gesù stesso che invia poi i malati da lui sanati ai sacerdoti, questo inviare ai sacerdoti diventerà la pratica e la prassi della Chiesa dopo l'Ascensione di Gesù al Cielo il quale consegna tale potestà di guarire, mediante anche l'imposizione delle mani, a coloro che porrà a guida delle varie comunità.

(...)
Non soltanto è lodevole la preghiera dei singoli fedeli che chiedono la guarigione propria o altrui, ma la Chiesa nella liturgia chiede al Signore la salute degli infermi. Innanzi tutto ha un sacramento «destinato in modo speciale a confortare coloro che sono provati dalla malattia: l'Unzione degli infermi».(8) «In esso, per mezzo di una unzione, accompagnata dalla preghiera dei sacerdoti, la Chiesa raccomanda i malati al Signore sofferente e glorificato, perché dia loro sollievo e salvezza».(9) Immediatamente prima, nella Benedizione dell'olio, la Chiesa prega: «effondi la tua santa benedizione, perché quanti riceveranno l'unzione di quest'olio ottengano conforto, nel corpo, nell'anima e nello spirito, e siano liberi da ogni dolore, da ogni debolezza, da ogni sofferenza(10); e poi, nei due primi formulari di preghiera dopo l'unzione, si chiede pure la guarigione dell'infermo.(11) Questa, poiché il sacramento è pegno e promessa del regno futuro, è anche annuncio della risurrezione, quando «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4). Inoltre il Missale Romanum contiene una Messa pro infirmis e in essa, oltre a grazie spirituali, si chiede la salute dei malati.(12)

Note

(8) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1511.

(9) Cfr. Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 5.

(10) Ibid., n. 75.

(11) Cfr. Ibid., n. 77.

(12) Missale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Editio typica altera, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXV, pp. 838-839.

- Così nella chiamata dei Dodici alla prima loro missione, secondo i racconti di Matteo e di Luca, il Signore concede loro «il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità» (Mt 10,1; cfr. Lc 9,1), e dà loro l'ordine: «Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt 10,8). Anche nella missione dei settantadue discepoli, l'ordine del Signore è: «curate i malati che vi si trovano» (Lc 10,9). Il potere, pertanto, viene donato all'interno di un contesto missionario, non per esaltare le loro persone, ma per confermarne la missione.
Gli Atti degli Apostoli riferiscono in generale dei prodigi realizzati da loro: «prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli» (At 2,43; cfr. 5,12). Erano prodigi e segni, quindi opere portentose che manifestavano la verità e forza della loro missione.
Ma, a parte queste brevi indicazioni generiche, gli Atti riferiscono soprattutto delle guarigioni miracolose compiute per opera di singoli evangelizzatori: Stefano (cfr. At 6,8), Filippo (cfr. At 8,6- 7), e soprattutto Pietro (cfr. At 3,1-10; 5,15; 9,33-34.40-41) e Paolo (cfr. At 14,3.8-10; 15,12; 19,11-12; 20,9-10; 28,8-9). Siamo così sempre in ambito ecclesiale e gerarchico: la comunità riceve i benefici, i fedeli riuniti pregano per l'effusione di questi prodigi, compartecipano all'opera degli Apostoli e dei discepoli inviati da loro, ma non ne sono i diretti elargitori i quali restano in ambito ecclesiale i presbiteri, i vescovi, i diaconi.

(..)
Sia la finale del Vangelo di Marco sia la Lettera ai Galati, come si è visto sopra, ampliano la prospettiva e non limitano le guarigioni prodigiose all'attività degli Apostoli e di alcuni evangelizzatori aventi un ruolo di spicco nella prima missione. Sotto questo profilo acquistano uno speciale rilievo i riferimenti ai «carismi di guarigioni» (cfr. 1 Cor 12,9.28.30). Il significato di carisma, di per sé assai ampio, è quello di «dono generoso»; e in questo caso si tratta di «doni di guarigioni ottenute». Queste grazie, al plurale, sono attribuite a un singolo (cfr. 1 Cor 12,9), pertanto non vanno intese in senso distributivo, come guarigioni che ognuno dei guariti ottiene per se stesso, bensì come dono concesso a una persona di ottenere grazie di guarigioni per altri. Esso è dato in un solo Spirito, ma non si specifica nulla sul come quella persona ottiene le guarigioni. Non è arbitrario sottintendere che ciò avvenga per mezzo della preghiera, forse accompagnata da qualche gesto simbolico, ma mai a livello comunitario.

Ma resta di per se stesso significativo che fin dai primi secoli la Chiesa abbia sempre assunto in sè l'insegnamento di Giacomo in tutti gli ambiti nei quali si rende necessaria quella Preghiera di guarigione e per la quale si coinvolge tutta la comunità dei fedeli: «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14-15).
Si tratta di un'azione sacramentale che nessun laico può compiere:«Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui», unzione del malato con olio e preghiera su di lui, non semplicemente «per lui», quasi non fosse altro che una preghiera di intercessione o di domanda; si tratta piuttosto di un'azione efficace sull'infermo e che coinvolge tutta la comunità riunita. Il beneficio ricevuto dal singolo infermo, ricade su tutta la comunità perchè questa ha "chiamato a sè i presbiteri della Chiesa chiedendo di pregare per lui", è perciò per mezzo della Chiesa che il Signore manifesta i suoi prodigi le quali sono, appunto, uno dei segni più tangibili della Sua presenza in mezzo alla comunità "per mezzo dei presbiteri della Chiesa che pregheranno su di lui".
L'aspetto significativo è, infatti questo «pregare su di lui», si deve osservare che l'Apostolo non dice "pregare per lui" ma "su di lui", questa immagine che si "impone" sopra il malato, il bisognoso di una grazia speciale, così come anche di una assoluzione dai peccati, è quell'imporre le mani "su di lui" che il Signore ha delegato esclusivamente ai suoi, agli Apostoli, ai presbiteri, ai vescovi i quali hanno delegato i Diaconi in circostanze particolari. Ne vengono esclusi i laici non per una questione di classismo clericale, ma sempliecemente per una affermazione autorevole ecclesiale, una autorità che è il servizio stesso della gerarchia della Chiesa verso i bisognosi di guarigioni e per la quale lo Spirito Santo, invocato nelle preghiere da chi ha questa autorità e insieme alla comunità che crede, ha fede e spera, risponde.
E' infine da considerare che spetta alla gerarchia della Chiesa questo  «pregare su di lui» o su tutta la comunità come avviene infatti anche nella santa Messa, in sostanza è il vero e proprio mandato quello di «pregare su di lui» e che avviene in molti casi mediante l'imposizione delle mani come abbiamo visto per la Confessione o per la Cresima, mentre è diverso ciò che compete alla comunità e che è quello di «pregare per  lui, per loro», e allora «su di lui», è l'azione di tutta la Chiesa che adombra il malato, mentre «pregare per lui», coinvolge la comunità nell'atto che la Chiesa sta per compiere, dando forza all'azione della Chiesa. E' importante distinguere in tal senso il sacerdozio dei presbiteri Ordinati dal sacerdozio dei fedeli acquisito nel Battesimo, per questo ciò che compete al sacerdote non è affatto scontato che compete al fedele laico.



(..)
I Padri della Chiesa consideravano normale che il credente chiedesse a Dio non soltanto la salute dell'anima, ma anche quella del corpo. A proposito dei beni della vita, della salute e dell'integrità fisica, S. Agostino scriveva: «Bisogna pregare che ci siano conservati, quando si hanno, e che ci siano elargiti, quando non si hanno». Lo stesso Padre della Chiesa ci ha lasciato la testimonianza di una guarigione di un amico ottenuta con le preghiere di un Vescovo, di un sacerdote e di alcuni diaconi nella sua casa, e da lui chiamati nonostante fosse egli stesso vescovo, per dare testimonianza dell'insegnamento stesso della Chiesa.
Fa invece discutere, oggi, la presa di posizione di taluni che "su chi è malato" non chiamano i "presbiteri della Chiesa", ma agiscono da soli e agiscono in vece del presbitero, ma questo modo di agire è sbagliato.

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[SM=g1740733] L'ambiente PROTESTANTE-CARISMATICO

Per concludere questa breve esposizione, spieghiamo come mai, oggi, l'imposizione delle mani è dilagato anche in ambiente cattolico.
Come abbiamo visto, l'imposizione delle mani, in ambito cattolico era ed è riservato esclusivamente ai presbiteri inviati dai Vescovi e ai Diaconi in alcuni ambiti specifici, ma mai ai laici! Ed è un atto sacramentale, non esistono altri atti con questa imposizione che non sia sacramentale, si chiamerebbe "benedizionale", una benedizione che non necessita appunto, dell'imposizione delle mani.

Il dilagare di un protestantesimo carismatico dal Novecento ha portato anche in ambito cattolico il desiderio di agire forse più liberamente e più autonomamente dai presbiteri e soprattutto dai Vescovi.
Ma in ambiente protestante ciò è comprensibile, nelle loro comunità non esiste il "presbitero" e colui che chiamano "vescovo" non ha ricevuto alcuna Ordinazione sacramentale, non ha ricevuto alcun mandato, di conseguenza non hanno altri da "inviare" e il fedele non ha alcun presbitero da "chiamare affinchè preghi sul malato". In questa situazione è normale per loro che sia la comunità a fare le veci di colui che non hanno! [SM=g1740733]
Ma per noi non può mai essere "normale" una situazione del genere, per questo noi parliamo di "abuso". Nessuno può fare le veci del Sacerdote in ciò che gli compete per suo specifico mandato.

Insegnano in questo modo, dopo una lunga citazione dalle Scritture, i carismatici pentecostali:

- L'imposizione delle mani ha più consistenza se fatta da Cristiani maturi in ordine col Signore ed approvati dalla comunità.  La Scrittura ci ammonisce di non imporre le mani in fretta e su quelli lontani dalla chiesa ( in una nota a parte specificano che le mani non possono essere imposte nè sugli atei, nè sui cattolici perchè "lontani dalla Chiesa" [SM=g1740727] );

- In questi giorni di democrazia le donne vogliono imporre le mani sugli uomini, è meglio non farlo e rispettare l'ordine gerarchico che Dio ha stabilito ... ( breve commento indispensabile: diciamo così: sono d'accordo sul fatto che le donne devono stare dove Dio le ha messe, ma che loro rispettino "l'ordine gerarchico stabilito da Dio" quando rigettano l'Ordine Sacro, la Successione Apostolica, i sette Sacramenti e il primato Petrino, bè questo "ordine" fa davvero discutere, suonerebbe più come misoginia che gerarchia [SM=g1740725] );

- L'imposizione delle mani è un atto puramente di fede e obbedienza alla Parola di Dio. La sua efficacia non dipende dai sentimenti personali, ma da Dio che concede la crescita a chi vuole e come vuole e che è concesso a tutti i laici e non esclusivamente alla classe sacerdotale come intende dire la Chiesa di Roma (altro breve commento indispensabile: è da osservare la contraddizione ossia che per loro tale imposizione delle mani è dato a tutti i laici, ma sopra si specifica che sono escluse le donne  [SM=g1740727] , altra segnalazione importante: loro credono e sanno che la Chiesa di Roma non attribuisce ai laici questa imposizione delle mani, ma ahimè, molti cattolici carismatici ne sanno meno di loro... [SM=g1740733] ad ogni modo è normale per loro che ai laici sia dato di imporre le mani, essi NON hanno i "presbiteri" da chiamare perchè preghino "su di loro"... )

Ad onor del vero la Chiesa Cattolica non ha mai vietato, esplicitamente, che i laici impongano o meno le mani, Documenti espliciti che lo vietino non ce ne sono, ma non ci sono neppure Documenti che approvino questa moda.... l'insegnamento della Chiesa è sempre lo stesso, più che dire ciò che si deve fare o non fare, parte con il dire cosa fa la Chiesa... e su questo fare educa le comunità in ordine a ciò che spetta fare ai presbiteri, ai vescovi, ai diaconi e di conseguenza cosa devono fare e come devono comportarsi le comunità dei fedeli....
La Chiesa NON è un Soviet, non è una matrigna! pertanto si comporta come tale e cerca di spiegare ai fedeli, ai suoi figli, cosa Essa deve fare e in tal funzione come devono rispondere i figli....
si tratta di ragionare, accogliere un servizio, compartecipare in altri modi e non necessariamente facendo ciò che spetta ai presbiteri...
Ognuno nella Chiesa ha un suo proprio ruolo, rispettandoli si crea armonia, ordine, disciplina e copiosi frutti, diversamente si creano le distanze, gli abusi, le incomprensioni....

[SM=g1740771]

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