Storie quotidiane di conversione alla Chiesa di Cristo, di ieri e di oggi

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Caterina63
00venerdì 17 aprile 2009 12:31
I nuovi cattolici

Storie di una generazione che “tradisce” l’educazione sessantottina all’ateismo e all’indifferenza per abbracciare la Chiesa


di Lorenzo Fazzini

«Fino a 20 anni non mi sono mai fatto nessuna domanda su Dio: i miei genitori, gente del Sessantotto, non mi avevano battezzato: loro non hanno mai praticato, sono credenti in maniera formale. Non mi hanno fatto battezzare perché, mi dicevano, “non vogliamo importi niente”. Per me Dio non esisteva, la Chiesa si basava su cose non tangibili. Poi ho iniziato ad avvertire un desiderio di qualcosa che mi riempisse la vita. Alcuni incontri mi hanno cambiato: ad esempio quello con il parroco della chiesa di San Lazzaro che ha iniziato a parlarmi del Vangelo. L’annuncio di Cristo mi ha messo in crisi, in particolare quella frase: “Io sarò sempre con voi”, cioè la vicinanza di Dio a chi è lontano». Daniele, 25 anni, studente di Fisica a Padova, è un neofita, battezzato nella veglia di Pasqua del 2007.

«Durante l’adolescenza gli amici mi prendevano in giro perché ero una “comunista”, non battezzata. I miei, battezzati, avevano lasciato libere me e mia sorella e anche i nostri due fratelli più piccoli, anche se ci hanno sempre educati alla generosità. La Bibbia non sapevo cosa fosse, per me Pasqua era semplicemente la festa in cui si aprono le uova di cioccolato. Però, crescendo, sentivo un’inquietudine. Poi una compagna di università mi ha invitato ad un ritiro tenuto da francescani. Lì un frate mi ha parlato di Dio Padre e del suo amore per me. E ho iniziato a pregare. Allora ho capito cos’era quell’inquietudine che mi portava a tenere un diario di cose mie e raccontare tutto a un “Tu”». Elisa ha 26 anni, abita a Verona, è medico specializzanda in ginecologia. Due anni fa è stata battezzata nella chiesa di San Bernardino nel capoluogo scaligero. Sua sorella Chiara, 24 anni, educatrice, ha seguito il suo esempio un anno dopo. «Anche se all’inizio la scelta di Elisa mi faceva rabbia», racconta Chiara, diventata cristiana durante la veglia pasquale dell’anno scorso.

Analoga l’educazione all’insegna della “libertà di scelta” ricevuta da Eva, 27 anni, figlia di genitori cristiani poi allontanatisi dalla fede. «Quando sono nata – racconta – hanno preferito non battezzarmi per lasciare a me la scelta una volta raggiunta la maturità». La laurea in storia dell’arte alla Cattolica di Milano e poi la decisione che meditava da tempo: quella di intraprendere il percorso per il battesimo. «Pur non essendo battezzata, sono sempre stata credente, quindi sentivo che mi mancava qualcosa che lo ufficializzasse». L’ufficializzazione è arrivata durante la scorsa veglia di Pasqua, quando Eva ha ricevuto Battesimo, Eucaristia e Cresima dalle mani del cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi.

Daniele, Elisa, Chiara, Eva. Non sono solo mosche bianche in un’Italia che assiste a un ritorno nella Chiesa dei “nipoti del Sessantotto”. I figli di quei genitori degli anni Settanta che hanno fatto della libertà un totem intoccabile oggi domandano di diventare cattolici. I dati confermano che sono in aumento i nostri connazionali che, non avendo ricevuto da neonati il Battesimo (una pratica andata in crisi nel post Concilio) ora domandano l’ammissione alla Chiesa. «Molti catecumeni hanno come retroterra di esperienza il ’68» conferma don Andrea Lonardo, responsabile dell’ufficio catechistico del vicariato di Roma, che coordina il cammino dei nuovi cattolici nella Capitale. «Ho incontrato figli di molti anticlericali, anche di intellettuali. Arrivano al Battesimo in modi diversi: alcuni da movimenti come Comunione e Liberazione o i Neocatecumenali, la maggior parte da percorsi autonomi. Ogni anno a Roma abbiamo una media di 110 battesimi di adulti all’anno, metà stranieri metà italiani: ci sono giovani universitari o persone sui 40-50 anni».

«Il fenomeno dei catecumeni italiani non è nuovo» spiega don Gianandrea Di Donna, che guida il settore catecumenato della diocesi di Padova. «I numeri sono aumentati, non sono altissimi ma ci sono». Guardiamo all’esempio della città veneta: nel settembre 2008 hanno iniziato l’iter verso il Battesimo 33 adulti, di cui 10 italiani; nel 2007 erano 24, con 4 “indigeni”. Nel 2006, 23 aspiranti battezzandi di cui 6 italiani. Attualmente, a Padova sono in cammino verso il Battesimo 80 uomini e donne, di cui 15 italiani. Il trend è positivo anche a Milano. «Da poche decine di catecumeni siamo passati a centinaia» sottolinea don Paolo Sartor, referente dell’arcidiocesi di Milano per i “nuovi cattolici”. Quest’anno saranno 153 i catecumeni che verranno battezzati dal cardinal Tettamanzi a Pasqua. «Il numero degli adulti che si battezzano è in lieve crescita anche da noi. O come diceva il cardinal Martini: “Sono molti, anche a Milano, coloro che passano il largo confine tra l’ombra e la luce”».


Un percorso lungo che non si fa da soli


La conferma arriva dalla Conferenza episcopale italiana, come certifica don Guido Benzi, direttore dell’ufficio catechistico della Cei, che ogni anno raccoglie cifre e numeri delle 223 diocesi italiane in tema di battesimi di adulti. «Siamo passati dai 1044 battesimi del 2005 ai 1302 battesimi del 2007. Di questi ultimi 535 sono uomini e 773 donne» annota. Di questi, 543 catecumeni sono italiani e 727 immigrati. Quindi non sono solo gli stranieri che si stabiliscono in Italia a chiedere di entrare nella Chiesa, in parte perché scoprono la fede cristiana ab origine, in parte perché trovano nella comunità cattolica un ulteriore elemento di integrazione sociale. Esiste, ed è ampio, anche l’incremento dei catecumeni italiani. Ribadisce don Lonardo di Roma: «Da un paio di anni a questa parte le cifre dei catecumeni italiani sta aumentando anche nella Capitale». Il responsabile della Cei traccia poi una sorta di profilo del “nuovo cattolico italiano”: «Emerge l’identikit di persone prevalentemente tra i trenta e i cinquant’anni rappresentative di tutti i ceti sociali. Nel 2007 la regione con il maggior numero di battesimi è stata la Lombardia, seguita a ruota da Toscana, Lazio, Emilia-Romagna e Sicilia».

Ma come si diventa cattolici da adulti nell’Italia del 2009? «Il cammino del catecumenato non è un percorso facilissimo – annota don Benzi. Dopo un periodo di preparazione la persona viene affidata ad un “accompagnatore” che la aiuta nella conoscenza della fede cristiana, nella lettura della Parola di Dio, nella preghiera e nella conoscenza della vita della Chiesa. Questo periodo può durare anche due anni. C’è poi un cammino specifico, normalmente nell’ultimo anno, ritmato anche da alcuni “passaggi” che sono fissati nel rito dell’iniziazione cristiana degli adulti. Di norma il Battesimo, la Confermazione e l’Eucaristia dell’adulto vengono celebrate dal vescovo in cattedrale nella notte di Pasqua».

I modi di arrivare al fonte battesimale sono diversi, ma «un dato costante è l’incontro con altri battezzati (colleghi di lavoro, amici operatori in associazioni di volontariato, vicini di casa) che testimoniano la fede», annota don Benzi della Cei. «Interessante è come la persona del parroco non sia marginale al cammino che conduce alla decisione di diventare cristiani. Insomma si ha l’impressione di un lavorio silenzioso e tenace dello Spirito che conduce le persone attraverso gli ordinari fatti e luoghi della vita alla scoperta della fede e del volto di Gesù». «Un’esperienza particolare, l’incontro con un sacerdote, un periodo di sofferenza: in mezzo a tali vicende queste persone iniziano a porsi il problema di Dio e del senso della vita» spiega don Di Donna di Padova. «E incontrano la risposta nella persona di Cristo. Non ho mai trovato motivazioni banali nei catecumeni adulti, ma il senso di qualcosa che manca, che non si trova nell’ordinario». Sottolinea don Benzi: «È come se questo tessuto delicato ma resistente di relazioni positive ed autentiche, di aiuti, testimonianze e incontri non possa essere registrato nei paludati salotti di certa cultura».

«Il profeta Geremia scrive: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre”. Ecco, è stata questa la sensazione che ho provato con Dio», spiega Daniele Dequal, padovano, battezzato a 23 anni dopo l’incontro decisivo con la comunità Nuovi Orizzonti fondata a Roma da Chiara Amirante. «Le mie resistenze sono state travolte da questo Amore, come se io fossi stato cercato da Dio e il contrario». Dopo un cammino di catecumenato durato 18 mesi Daniele ha ricevuto il battesimo nel 2007.


La fidanzata che voleva sposarsi in Chiesa[SM=g1740733]


Fabio Barbieri, della parrocchia di san Lorenzo in Monluè, a Milano, battezzando a Pasqua, è arrivato al cristianesimo per la sua fidanzata, che ha sempre voluto sposarsi in Chiesa. «E la cosa bella – racconta – è che adesso, se anche per caso dovessi rompere con questa ragazza, vorrei comunque ricevere il Battesimo e diventare cristiano». Per Federico, 35 anni, responsabile commerciale di un supermercato tra Venezia e Padova, la scelta di Cristo è arrivata tramite un’esperienza di sofferenza: «Anch’io sono un “nipote” del Sessantotto, i miei mi hanno lasciato “libero” senza farmi battezzare. Però sono cresciuto credendo che la vita continua dopo la morte e che abbiamo un’anima.
È stato dopo un periodo di problemi di salute che mi sono riavvicinato alla Chiesa. Ho incontrato un prete che mi ha raccontato di un Dio che è amore, non mi ha fatto una morale, ma mi ha spiegato che Dio vuole il nostro bene e che la nostra vita sia realizzata. Da lì ho pensato che potevo rivolgermi a Dio come a una persona. Durante un ricovero in ospedale sono entrato nella cappella: ho trovato il vangelo in cui Gesù dopo Pasqua arriva nel Cenacolo e dice agli apostoli: “Pace a voi”. Ho capito che il Signore entra nella nostra vita nonostante le nostre porte chiuse».

Così è cominciato l’iter che ha portato Federico al Battesimo la scorsa Pasqua.
 
In un tempo secondo cui la religione «avvelena ogni cosa», per dirla con Christopher Hitchens, le difficoltà, le derisioni, gli sbarramenti anti-cristiani della cultura di oggi colpiscono anche i neo-cattolici. «I catecumeni sanno che riceveranno un solo applauso, quello nella notte di Pasqua al loro battesimo», chiosa don Sartor di Milano. «Ho ricevuto più critiche che sostegno nella mia scelta, anche in famiglia, soprattutto in merito alle posizioni della gerarchia cattolica – afferma Daniele di Padova. Ma raramente si parla di cosa è veramente il cristianesimo. Per questo motivo queste critiche non mi fanno granché problema». E Fabio di Milano conclude: «In casa mia c’è sempre stato un certo astio per la Chiesa. Mio nonno era partigiano e dice che durante la guerra ha visto più preti-spie di quelli che erano dalla sua parte. Ma la mia risposta alle loro critiche è questa: se tu domani muori e non ci sei più, Uno solo è tornato indietro a dirci cosa c’è oltre la morte».

fonte: BlogdiRaffaella

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Caterina63
00martedì 11 agosto 2009 23:16
Farei peccato a lamentarmi!


Storia di una famiglia e della fede di un popolo
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di Antonio Gaspari



ROMA, venerdì, 31 luglio 2009 (ZENIT.org).- “Fares pecat a lamentam" scritto dall’insegnate di filosofia e storia Roberto Persico (Itacalibri 2009) è un libro che racconta la storia semplice e commovente di Dario e Clementina Nembrini, una coppia di cattolici bergamaschi, di umili origini e di scarse finanze, ma forti e fecondi nella fede.

I due vissuti tra il 1924 ed il 1994, genitori di dieci figli, sono stati esempio e testimoni delle virtù cristiane che tramite la famiglia diventano virtù sociali e civili e che trasmettono ovunque fede speranza e carità.

Nel presentare il libro che racconta la storia dei suoi genitori, il 2 luglio a San Benedetto del Tronto, nel corso della Festa dedicata al beato Pier Giorgio Frassati dalla Compagnia dei Tipi Loschi (www.tipiloschi.com), Vincenzo Nembrini ha confessato che si sapeva che i loro genitori erano buoni e fedeli, ma nessuno avrebbe immaginato quanta era la fede che nutrivano nel Signore.

Pochi gli studi, avviati fin da giovani al lavoro, Dario e Clementina frequentavano assiduamente la Chiesa e l’oratorio, svolgendo opere e apostolati con l’Azione Cattolica.

Dario faceva il meccanico e Clementina svolgeva lavori domestici e nei campi. Nonostante le ristrette disponibilità economiche i due si sposarono e misero al mondo dieci figli. In un paio di occasioni Clementina stette male e rischiò la gravidanza, ma si affidò a Maria e tutto si risolse.

Nel 1963 Dario scoprì di essere affetto da sclerosi multipla, una malattia tremenda che conduce progressivamente all’immobilità ed alla morte. Ma la disgrazia non ha indebolito la sua fede, anzi, fino all’ora del ritorno a Dio (1994), Dario ringraziò sempre il Signore per quanto gli aveva dato.

Era allegro, sorrideva, rincuorava chi lo veniva a trovare e ripeteva in dialetto bergamasco che “a lamentarsi si fa peccato!”.

Intervenendo al Convegno Ecclesiale Diocesano nella Basilica di San Giovanni in Laterano, nel giugno 2007, Franco Nembrini ha raccontato che “per poter parlare della mia esperienza di padre e di insegnante devo partire dalla mia esperienza di figlio”, perché “non posso non riconoscere che io ho visto per la prima volta cosa fosse l’educazione con mio papà e mia mamma”.

“Sono il quarto di dieci figli e l’immagine che ho del mio povero papà è quando, nella stanzetta dove dormivamo noi sette figli maschi (siamo sette maschi e tre femmine), si inginocchiava in mezzo alla stanza e incominciava a dire il Padre Nostro. Questo era mio padre: uno che guardava una cosa più grande di lui e ci invitava ad andargli dietro senza bisogno di dircelo”.

“Era uno che, quando sono diventato più grande e tornavo a casa a tarda ora per i mille impegni che c’erano, lo trovavo sempre in piedi, perché non è mai in vita sua andato a letto se non dopo aver chiuso la porta alle spalle dell’ultimo figlio rientrato, e quando alle due o alle tre di notte arrivavo a casa, e per non farlo arrabbiare troppo gli dicevo: 'Dai, papà, diciamo Compieta insieme' lui mi rispondeva: 'Vai a letto, cretino, che domani mattina devi lavorare: dico io Compieta per te', e si fermava e diceva la quarta o la quinta volta Compieta, la diceva per me, perché io potessi andare a riposare”.

“Il giorno prima di morire, paralizzato a letto, completamente afono, gli ho chiesto come stava, e ha risposto allo stesso modo con cui aveva risposto per tutta la vita: 'farès pecat a lamentam' che in italiano significa 'Tutto è Grazia'. Mio padre era così”.

Racconta Bepin, uno dei figlioli, che soldi in casa ce ne son stati sempre pochi, ma mai ha visto i genitori disperati. Preoccupati sì, ma sempre pronti a trovare la soluzione con il lavoro e la condivisione.

I due, Dario e Clementina, confidavano totalmente nel Signore, e niente li ha mai spaventati. I soldi erano pochi, ma la carità e l’accoglienza non sono mai state messe in discussione.

Gli spazi erano ridotti, ma chiunque andava a casa dei Nembrini trovava accoglienza, a tavola e a dormire.

I soldi non bastavano mai, ma c’era sempre qualcuno che stava peggio e quindi i Nembrini preparavano il pacchetto per la vedova con quattro figli. Il Po straripava e Clementina chiamava i figli per scegliere gli indumenti “belli e non rovinati” per i bambini sfollati. E poi le coperte per le missioni, per i sacerdoti anziani e per gli ammalati.

Neanche il “68” riesce a scardinare la solida famiglia dei Nembrini, anche se uno dei figlioli passa dal seminario a dirigere un gruppo extraparlamentare.

Fu in quegli anni che nella famiglia Nembrini entrò il carisma di Comunione e Liberazione. Con don Giussani che andò a visitare la famiglia Nembrini, e la loro casa divenne una delle prime sezioni di quel gruppo di giovani che parlavano di Gesù.

La casa Nembrini divenne il luogo della preghiera, degli incontri, delle serate passate a discutere di fede e di politica o a giocare a carte e a cantare.

Eugenio Nembrini, chiamato “genio” dai fratelli perchè era quello che leggeva e studiava di più di tutti, si farà sacerdote seguendo la strada indicatagli da don Giussani. Lo stesso don Giussani sarà tra coloro che celebrarono il matrimonio di Miriam, una dei dieci della famiglia Nembrini.

Dario e Clementina erano cresciuti nell’Azione Cattolica, e ad un certo punto i tempi cambiarono così velocemente che rischiarono di non capire cosa capitasse ai giovani. Fu grazie a don Giussani che tutti ritrovarono la strada giusta.

Dario disse un giorno a don Giussani: “Noi li abbiamo messi al mondo, ma è lei che ce li ha resi figli”.

Nell’introduzione al libro don Massimo Camisasca, superiore della Fraternità Sacerdotale di San Carlo Borromeo, ha scritto che la vita di Dario e Clementina “rimane come benedizione per le numerosissime persone che attraverso di loro e attraverso di loro e attraverso i loro figli hanno incontrato Dio, forza e giovinezza della loro vita”.

Non sappiamo se Dario e Clementina saranno annoverati tra le schiere dei beati, di certo è che attraverso la loro intercessione stanno avvenendo nascite miracolose e tanta gente trova in maniera insperata un posto di lavoro.


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Caterina63
00lunedì 15 marzo 2010 18:50
Storie di conversione:  il conte Grigorij Suvalov

«Non posso dare due rubli invece di dare tutto»


di Andrea Maria Erba

"Ci sono - scrive Roberto Ugo Benson - mille e mille strade che conducono alla città. Uno sarà guidato dal suono dell'organo, un altro dal profumo dell'incenso, uno se ne andrà tenendo una Bibbia in mano; questi è uno storico, quegli un mistico, il terzo un filantropo; questi è il peccatore che implora il perdono; quell'altro un uomo semplice che vuol essere illuminato, quello infine è un santo che reclama l'unione con Dio; uno è condotto dalla mano della madre, l'altro si strappa agli amici per seguire Cristo. Così se ne vanno, questi mille e mille, seguendo ciascuno la propria strada, ciascuno mosso da una potenza che gli resta misteriosa, ma tutti finiscono per incontrarsi davanti alla stessa porta, quella porta di cui si parla nell'Apocalisse, che tutti devono varcare e che è fatta di una sola perla".

Se ogni itinerario spirituale, da sant'Agostino al cardinal Newman, è sempre un dramma che si svolge nell'intimo della coscienza, poche conversioni sono state così dolorose come quella del conte russo Grigorij Suvalov, diventato padre Agostino barnabita.

Nato nella Chiesa ortodossa, ma cresciuto nell'indifferentismo religioso, attraversò, si può dire, tutte le strade prima di giungere, di chiarezza in chiarezza, alla luce della verità. La dirittura morale, l'anima sincera e naturaliter christiana, lo spirito vivo e penetrante, sensibile e appassionato per tutto ciò che è puro e nobile, l'inquietudine che lo tormentava nella ricerca della felicità; soprattutto la scuola del dolore e il culto dell'amicizia lo accompagnarono costantemente e aprirono nel suo cuore la via alla grazia, alla fede, alla pace sognata.

Suvalov apparteneva a una famiglia aristocratica, benemerita della patria, delle arti e della cultura. Uno zio, generale dell'esercito, ebbe l'incarico di accompagnare Napoleone sconfitto all'isola d'Elba, un altro suo antenato aveva fondato l'università di Mosca.

A Pietroburgo, dov'era nato il 25 ottobre 1804, il piccolo Grigorij compì i primi studi nella scuola dei gesuiti. Rimasto orfano di padre, su consiglio dello stesso imperatore, fu collocato in un collegio protestante vicino a Berna in Svizzera. Qui studiò letteratura e poesia e si diede agli sport. Si trasferì poi a Pisa dove apprese la lingua italiana così bene da poterla maneggiare con scioltezza sorprendente. Il risveglio critico della giovinezza lo portò a una breve avventura sentimentale e lo immerse nelle teorie filosofiche del nichilismo assorbito da un poemetto di Friedrich Schiller che lo accompagnerà per lungo tempo.

A 18 anni Grigorij è un giovane esuberante e pieno di baldanza e l'imperatore Alessandro i lo nomina capitano degli ussari. Torna in patria e alla corte degli zar conosce la futura moglie:  Sofia Soltikov, una creatura tenera e nobile, profondamente religiosa che morirà nel fior degli anni tra continue sofferenze, ortodossa ma "cattolica nell'anima e nel cuore". Da essa avrà due figli:  Pietro e Elena.

La morte di Sofia spinse Suvalov a studiare la religione. Leggendo la Bibbia rimase colpito dal testo giovanneo che riporta la preghiera-testamento di Gesù:  ut unum sint. Scrive nelle sue memorie:  "Pareva deciso che quella parte del vangelo di san Giovanni dovesse convertirmi (...) Per la prima volta compresi che la verità è "una", perciò non vi può essere che "una" fede, "una" dottrina e che se il Cristianesimo è verità, non vi può essere che "una" Chiesa".

Dapprima si orientò verso la Chiesa greca ed ebbe colloqui con un sacerdote ortodosso. Costui, animato da retta intenzione, ammetteva come "buonissima" la Chiesa di Roma e diceva:  "Sono due sorelle, perché non vivere in pace l'una accanto all'altra?". Suvalov ebbe anche simpatie verso il protestantesimo, ma presto se ne ritrasse.

Un giorno si imbatté nelle Confessioni di sant'Agostino:  fu una rivelazione!
"Lo leggevo incessantemente, ne copiavo intere pagine, ne stendevo lunghi estratti. La sua filosofia mi riempiva di buoni desideri e di amore. Con quale trasporto di contentezza trovai in quel grand'uomo sentimenti e pensieri che fino allora avevano dormito nell'anima e che quella lettura ridestava".

Fu il classico colpo di fulmine che gli svelava nuovi orizzonti:  si innamorò per sempre del santo:  "Ho trovato in lui le mie follie, i miei dolori e la mia speranza. Desideravo, chiedevo, invidiavo il suo amore, il suo fervore, la sua fede". Il libro provvidenziale era stato un dono del gesuita Minini. Una sera, dopo aver ascoltato una predica del dotto religioso, Suvalov gli si era avvicinato per dirgli con abbandono confidenziale:  "Voglio diventare veramente cristiano, ma non immaginate, padre, che mi voglia far cattolico". "Prima di tutto - rispose il padre - si tratta di entrare in casa; poi sceglierete la stanza".

Leggeva con avidità altri capolavori di apologetica. In modo tutto speciale si appassionò alla lettura dei padri dei primi quattro secoli della Chiesa, verso i quali nutriva una straordinaria venerazione. Memore delle parole di Tommaso da Kempis, prese i libri nelle sue mani "come il giusto Simeone prese il Bambino Gesù fra le braccia per reggerlo e baciarlo". Dalla lettura passò spontaneamente alla preghiera. Pregava dal profondo del cuore, invocando "la fede e la forza", mentre si sentiva spinto a inginocchiarsi a un confessionale. In certi momenti s'immaginava ritto presso un altare, in una chiesa cattolica, nell'atto di celebrare la messa. Era un presentimento? Fu a Parigi che la Provvidenza lo attendeva per indicargli il porto sicuro dove approdare dopo lo smarrimento e la crisi. Ogni sera si recava in Notre-Dame per ascoltare i sermoni quaresimali del gesuita Di Ravignan, che diventerà lo strumento principale della grazia, il padre, la guida, il confidente di questo ricercatore della verità.

Fu un mattino della Settimana Santa del 1842 che, sotto le volte della cattedrale parigina, le due grandi anime si incontrarono e si compresero a fondo. Incoraggiato da amici suoi connazionali quali madame Swetchine, il principe Galitzin e il principe Gagarin convertiti; confortato da insigni ecclesiastici come il Bautin e Dupanloup, il conte Suvalov coronò la sua lenta ma sicura conversione alla fede cattolica. L'abate Pététot dell'Oratorio gli aprì le braccia, lo istruì e ne raccolse la confessione generale. Così preparato, il 6 gennaio 1843 veniva accolto nella Chiesa cattolica.

Lo attiravano i giovani, l'apostolato della carità e delle opere di misericordia, le amicizie sante:  tre campi nei quali profuse il meglio delle sue energie spirituali e affettive. "Assisteva i malati come una suora di carità"! Gli orfani e i poveri trovavano nel "signor Gregorio" un  padre  tenerissimo. Distinte  personalità lo avevano saggio consigliere. Era, insomma, un apostolo laico col prestigio del nome, della cultura, della bontà.

Nel periodo cruciale del 1848 Suvalov è a Roma, dove partecipa alle riunioni dei circoli liberali. La sete di libertà e l'amor di patria non lo lasciarono insensibile. Per mezzo di un giovane patriota, Emilio Dandolo, conosciuto per caso in treno, venne a contatto col padre Piantoni, rettore del collegio Longone dei Barnabiti a Milano:  una conoscenza che sarà decisiva per il suo futuro.

Nell'estate del 1855 progetta di stabilirsi sulle rive del lago di Como, sognando di ritirarsi in un piccolo Tuscolo cristiano, ma il fascino della metropoli lombarda lo attira irresistibilmente. Ogni mattina assiste alla Messa si comunicava nelle mani del padre Piantoni nella cappella del collegio Longone, dove qualche decennio prima, passarono i giovinetti Alessandro Manzoni, Federico Confalonieri, Tullio Dandolo e altre figure del risorgimento italiano.

L'8 settembre 1856 il conte Suvalov incontra un alunno diciassettenne in procinto di entrare fra i barnabiti:  era Cesare Tondini e sarebbe stato suo confratello di ideali ed erede del suo spirito. Al momento di comunicarsi ebbe una folgorazione:  "Questa sera sarò anch'io barnabita". Finita la messa si recò dal padre Piantoni:  "Mi volete nel vostro ordine?". "No, è troppo presto", fu la risposta gelida. Chiese se poteva fare con loro un corso di esercizi spirituali. Gli fu negato! Anzi il padre Piantoni gli suggerì di entrare nel clero secolare. Cercò lumi e conforti a Torino e a Chambéry. Finalmente, il 1° gennaio 1857 veniva accolto nel noviziato dei barnabiti a Monza. Qui trovò un ambiente di altissima spiritualità. Scriveva al padre Ravignan:  "Mi credo in Paradiso. I miei padri sono altrettanti santi, i novizi altrettanti angeli". Tra essi Tondini. Nel giorno della Vestizione religiosa, mutò il nome di battesimo Gregorio in quello di Agostino Maria.
 
Uomo già maturo e dalle varie esperienze, si fece piccolo e umile nell'osservanza delle regole monastiche, dell'obbedienza e della povertà, nella carità fraterna, nella gioia e nella pace interiore. In quell'ambiente di fervida pietà maturò nel suo spirito l'idea di una crociata di preghiere alla Vergine Immacolata per "il ritorno della Russia all'unità cristiana". Sarà proprio il Tondini a lavorare per tradurre in realtà l'ideale sognato dal nobile russo. Il 2 marzo 1857 don Agostino pronunciava esultante i voti religiosi e qualche giorno dopo riceveva a Milano gli ordini minori e partiva per Roma per dedicarsi agli studi di teologia.

Nello studentato dei barnabiti fu accolto con grande affetto "da padri venerandi e giovani fratelli"; fu ricevuto in udienza da Pio IX che gli parlò della Russia con tali accenti di fede da lasciarlo sbalordito e commosso; benedisse i suoi propositi e gli suggerì di offrire tre volte al giorno la vita al Crocifisso. Il Sabato santo ricevette il suddiaconato con una schiera di circa 250 ordinandi nella basilica lateranense. Tornato a Milano fu ordinato sacerdote il 19 settembre da monsignor Ramazzotti, futuro patriarca di Venezia. Impossibile descrivere i sentimenti che si agitavano nel suo cuore e che gli strapparono dalla penna pagine stupende sulla dignità sacerdotale, "la più sublime e la più alta di tutte le magistrature". Celebrò la prima Messa assistito dal padre Piantoni e servita dal Tondini.

Destinato in Francia, Parigi fu campo del suo apostolato e della sua immolazione:  si prodigò instancabilmente conquistò innumerevoli anime lontane e, proprio alla vigilia della morte, terminò di scrivere la mirabile autobiografia Ma conversion et ma vocation (Paris, 1859), poi tradotta in italiano, in tedesco e in inglese. È il suo testamento spirituale, giudicato un capolavoro di apologetica da Montalembert e da molti altri autori. Con lucidità profetica Suvalov, coetaneo di Gogol e di Dostoevskj, scrisse:  "I russi hanno conservato, fra i tesori della loro fede, il culto di Maria, Lei invocano e credono nel suo immacolato concepimento. (...) Maria sarà legame che unirà le due Chiese e farà di tutti coloro che l'amano un popolo di fratelli sotto la paterna autorità del Vicario di Gesù di Cristo".

Nel fervore dell'azione lo raggiunse, non inattesa, la morte, il 2 aprile 1859. La sua salma fu subito onorata con medaglie e corone, come quella di un santo. Il suo messaggio è la stessa sua vita. Come Alioscia ne I fratelli Karamazov, il Nostro si è spogliato dei suoi beni per servire Dio:  "Non posso dare due rubli invece di dare tutto".



(©L'Osservatore Romano - 15-16 marzo 2010)
Caterina63
00lunedì 22 marzo 2010 19:49
Storie di conversione

Il sole
in un bicchiere d'acqua


Pubblichiamo un editoriale uscito su "Avvenire" del 21 marzo 2010 e scritto per "Agorà", la sezione culturale del quotidiano. Filosofo francese di origine ebraica e di nome arabo, l'autore ha raccontato il suo itinerario intellettuale e spirituale in un libro di Lorenzo Fazzini (Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione. Prefazione di Lucetta Scaraffia, Torino, Lindau, 2009, pagine 216, euro 16).
 
 

di Fabrice Hadjadj

Mi era stato chiesto di immergermi. Questo significa il battesimo, "immersione". Allora volli andare in un monastero, dove quelli che erano stati immersi non erano mai più riemersi in superficie. Un insieme di circostanze, tra cui il mio amore per Léon Bloy, mi condusse all'abbazia di Saint-Pierre a Solesmes. Mi era stato detto che là avrei potuto incontrare qualcuno che aveva conosciuto il suo figlioccio, Jacques Maritain, che fu oblato con il nome di frère Placide. Quando entrai nell'abbazia, fu uno choc improvviso. Quello che cercavo non era la tradizione, meno ancora il "progresso", ma la radicalità, qualcosa che avrebbe potuto essere sempre all'avanguardia. Ero soddisfatto nella mia ricerca. Giunse l'ora dei vespri.

Nel coro i monaci entrarono come due ali di grandi uccelli neri che si posano due a due davanti al tabernacolo prima di separarsi a destra e a sinistra, guadagnando dolcemente il loro posto. Mi sembrava di assistere ad una sorta di coreografia primordiale:  la marcia lenta, la genuflessione profonda, subito il grande segno di croce come una cifra tracciata sul proprio corpo affinché il Verbo ci raggiunga in pieno petto! E d'altra parte i petti dei monaci si gonfiavano per intonare all'unisono:  Deus, in adiutorium meum intende. Domine, ad adiuvandum me festina ("O Dio, vieni in mio aiuto. Signore, vieni presto a salvarmi").

L'ufficio divino inizia con questa ammissione impossibile da fare con le proprie forze. Il vecchio benedettino arriva a recitarla ogni giorno, sette volte al giorno, comincia ogni volta dichiarando che non sa pregare, che ciò a cui si eleva è assolutamente nuovo, improbabile ed esige il soccorso dell'Altissimo. Da lì sgorgò questo canto che chiamiamo "gregoriano". Esso si eleva, come un funambolo, sulla frontiera della parola e del silenzio. Nessuna musica più di questa rispetta il silenzio. Essa non lo rompe:  lo esplora, ne sgombra l'interno, estende il suo dominio. Essa rivela, al di là dell'assenza di rumore, il raccoglimento di una presenza.

Ma questo canto possiede altre qualità d'avanguardia che non potevano lasciare indenne l'ebreo che sono. Mediante la sua antichità essa riuniva il passato e il futuro. Tramite il suo colore, si stende al punto di intersezione dell'Occidente e dell'Oriente; con le sue parole, soprattutto quelle dei salmi, spinge il Nuovo Testamento dentro l'Antico. E grazie alla sua disciplina del soffio, convoca i corpi intorno alla parola.

In breve:  tutto quello che nel mondo mi è stato donato in frammenti sparsi, l'ho trovato riunito qui nell'epifania dell'unità cattolica. Ma c'è un'altra cosa che non dimentico e che si presenta come pendant del coro:  il refettorio. Pure lì vi è il silenzio, intercalato dal tintinnio delle posate sui piatti, dal leggero rumore dei bicchieri sulla tavola di legno, tutto il brusio delle cose ordinarie e che, di solito, i ristoranti d'affari o i pasti famigliari interrompono con il loro impietoso bla bla. Dietro a me, nel refettorio, come l'accompagnamento di un basso continuo, un monaco fa la lettura recto tono, ovvero di voce tanto monocorde quanto priva di personalizzazione.

Proprio lì ho conosciuto alcuni dei più bei momenti di contemplazione:  davanti ad un pezzo di pane, a piccoli piselli o una foglia di lattuga. In questo clima spirituale, grazie ad un'organizzazione scandita dalla liturgie delle ore, la caraffa e la cesta di frutta mi apparivano con lo stesso peso di mistero di un quadro di Chardin. Mi ricordo specialmente del sole che veniva a giocare con il mio bicchier d'acqua.

Questo bicchiere era lo stesso della mia infanzia, di marca Duralex. Ma lo vedevo come il segno di un'altra infanzia, quella che vede tutte le cose bagnate dalla tenerezza del Padre. Allora mi sono immerso in questo bicchier d'acqua. Due giorni dopo il mio arrivo a Solesmes, ho domandato di essere battezzato. Questo avvenne durante la Veglia pasquale, oramai 12 anni fa.


(©L'Osservatore Romano - 22-23 marzo 2010)

Caterina63
00giovedì 24 giugno 2010 01:07
Sessant'anni fa Pio XII canonizzava la piccola contadina divenuta emblema di coerenza e testimonianza

Il fascino di Maria Goretti


La sera del 24 giugno del 1950, in piazza San Pietro, "dinanzi una sterminata moltitudine" - come sottolineò allora "L'Osservatore Romano" - Pio XII proclamava santa Maria Goretti, la ragazzina che il 5 luglio del 1902, a soli 11 anni, fu uccisa nei pressi di Nettuno a seguito di un tentativo di stupro. La figura di Maria Goretti, che in punto di morte arrivò a offrire il suo martirio affinché anche il suo carnefice - Alessandro Serenelli - potesse godere del perdono di Dio, resta cara a tanti fedeli che continuano a renderle omaggio nel santuario a lei dedicato. Maria Goretti non è però solo l'icona di una fede popolare. Oggetto anche di dibattiti culturali talvolta aspri - basti ricordare, nel 1985, il libro provocatorio di Giordano Bruno Guerri dal titolo "Povera santa, povero assassino" - è diventata nel tempo il simbolo di una coerenza da custodire fino alle estreme conseguenze. Un simbolo non solo religioso:  il giovane Enrico Berlinguer, allora segretario della federazione che riuniva i giovani comunisti, arrivò a indicare ai propri militanti la piccola contadina Maria Goretti come esempio di testimonianza rigorosa. In occasione dell'anniversario, pubblichiamo il discorso che al termine della solenne canonizzazione fu pronunciato da Pio XII.

Venerabili Fratelli e diletti figli,
Per un amoroso disegno della Provvidenza divina l'esaltazione suprema di una umile figlia del popolo è stata celebrata in questo vespro luminoso con una solennità senza pari e in forma sin qui unica negli annali della Chiesa:  nella vastità e nella maestà di questo luogo di mistero, fatto tempio sacro, cui è volta il firmamento che canta le glorie dell'Altissimo; da voi così bramata, prima che da Noi disposta; con un concorso di fedeli numerosissimo, quale non videro mai eguale le altre canonizzazioni; e soprattutto quasi così imposta dall'abbagliante fulgore e dalla inebriante fragranza di questo giglio, ammantato di porpora, che or ora con intimo gaudio abbiamo ascritto all'albo dei Santi, la piccola e dolce Martire della purezza:  Maria Goretti.

Perché, diletti figli, siete accorsi in così sterminato numero alla sua glorificazione? Perché, ascoltando o leggendo il racconto della sua breve vita, così somigliante a una limpida narrazione evangelica per semplicità di linee, per colore di ambiente, per la stessa fulminea violenza della morte, vi siete inteneriti fino alle lacrime? Perché Maria Goretti ha conquistato così rapidamente i vostri cuori, fino a divenirne la prediletta, la beniamina?
Vi è dunque in questo mondo, apparentemente travolto e immerso nell'edonismo, non soltanto una sparuta schiera di eletti assetati di cielo e di aria pura, ma folla, ma immense moltitudini, sulle quali il soprannaturale profumo della purezza cristiana esercita un fascino irresistibile e promettente:  promettente e rassicurante.

Se è vero che nel martirio di Maria Goretti sfolgorò soprattutto la purezza, in essa e con essa trionfarono anche le altre virtù cristiane. Nella purezza era l'affermazione più elementare e significante del dominio perfetto dell'anima sulla materia; nell'eroismo supremo, che non s'improvvisa, era l'amore tenero e docile, obbediente ed attivo verso i genitori; il sacrificio nel duro lavoro quotidiano; la povertà evangelicamente contenta e sostenuta dalla fiducia nella Provvidenza celeste; la religione tenacemente abbracciata e voluta conoscere ogni dì più, fatta tesoro di vita e alimentata dalla fiamma della preghiera; il desiderio ardente di Gesù Eucaristico, ed infine, corona della carità, l'eroico perdono concesso all'uccisore:  rustica ghirlanda, ma così cara a Dio, di fiori campestri, che adornò il bianco velo della sua prima Comunione, e poco dopo il suo martirio.

Così questo sacro rito si svolge spontaneamente in un'accolta popolare per la purezza. Se alla luce di ogni martirio fa sempre amaro contrasto la macchia di una iniquità, dietro a quello di Maria Goretti sta uno scandalo, che all'inizio di questo secolo parve inaudito. A distanza di quasi cinquant'anni, tra la spesso insufficiente reazione dei buoni, la congiura del malcostume, valendosi di libri, di illustrazioni, di spettacoli, di audizioni, di mode, di spiagge, di associazioni, tenta di scalzare in seno alla società e alle famiglie, a danno principalmente della fanciullezza anche tenerissima, quelli che erano i presidi naturali della virtù.

O giovani, fanciulli e fanciulle dilettissimi, pupille degli occhi di Gesù e dei Nostri, - dite - siete voi ben risoluti a resistere fermamente, con l'aiuto della grazia divina, a qualsiasi attentato che altri ardisse di fare alla vostra purezza?

E voi, padri e madri, al cospetto di questa moltitudine, dinanzi alla immagine di questa vergine adolescente, che col suo intemerato candore ha rapito i vostri cuori, alla presenza della madre di lei, che, educatala al martirio, non ne rimpianse la morte, pur vivendo nello strazio, ed ora s'inchina commossa ad invocarla, - dite - siete voi pronti ad assumere il solenne impegno di vigilare, per quanto è da voi, sui vostri figli, sulle vostre figlie, affine di preservarli e difenderli contro tanti pericoli che li circondano, e di tenerli sempre lontani dai luoghi di addestramento alla empietà e alla perversione morale?

Ed ora, o voi tutti che Ci ascoltate, in alto i cuori! Sopra le malsane paludi e il fango del mondo si stende un cielo immenso di bellezza. È il cielo che affascinò la piccola Maria; il cielo a cui ella volle ascendere per l'unica via che ad esso conduce:  la religione, l'amore di Cristo, la eroica osservanza dei suoi comandamenti.

Salve, o soave e amabile Santa! Martire sulla terra e angelo in cielo, dalla tua gloria volgi lo sguardo su questo popolo, che ti ama, che ti venera, che ti glorifica, che ti esalta. Sulla tua fronte tu porti chiaro e fulgente il nome vittorioso di Cristo (cfr. Apocalisse, 3, 12); sul tuo volto virgineo è la forza dell'amore, la costanza della fedeltà allo Sposo divino; tu sei Sposa di sangue, per ritrarre in te l'immagine di Lui.

A te, potente presso l'Agnello di Dio, affidiamo questi Nostri figli e figlie qui presenti e quanti altri sono a Noi spiritualmente uniti. Essi ammirano il tuo eroismo, ma anche più vogliono essere tuoi imitatori nel fervore della fede e nella incorruttibile illibatezza dei costumi. A te i padri e le madri ricorrono, affinché tu li assista nella loro missione educativa. In te per le Nostre mani trova rifugio la fanciullezza e la gioventù tutta, affinché sia protetta da ogni contaminazione e possa incedere per il cammino della vita nella serenità e nella letizia dei puri di cuore.
 
Così sia.


(©L'Osservatore Romano - 24 giugno 2010)



Caterina63
00mercoledì 25 agosto 2010 18:30
Sui luoghi della "rivelazione" di Giovanni

Nel monastero di Patmos dove si respira l'unità


di Elisabetta Galeffi


È successo una notte di Pasqua in una delle mille chiese del monte Athos. Un coreografo inglese, in vacanza nella terra dei suoi avi, ha sentito l'impulso irrefrenabile di cambiare la sua vita:  diventare sacerdote secondo il credo nel quale il padre, originario dalla Grecia, l'aveva fatto battezzare.

Così non è tornato più a Brighton, ai suoi spettacoli e alle molte star che aveva conosciuto in giro per il mondo. Dopo la decisione di quella notte il coreografo è diventato padre Martinianos e a farlo viaggiare - perché ci sono delle costanti dell'esistenza malgrado le più rivoluzionarie decisioni - ci pensa la Chiesa ortodossa greca.

Un sacerdote speciale:  sette lingue parlate fluentemente e un gran senso delle cose del mondo. Il mondo che quest'uomo mostra, senza timidezze, di avere conosciuto intensamente. E di cui, tutto sommato, si porta ancora l'odore addosso. Dal monte Athos a Costantinopoli, a stretto contatto con il Patriarca Bartolomeo, poi per un anno e mezzo a Gerusalemme e da lì a Patmos, da dove presto partirà ancora per il monte Athos con un grande progetto da realizzare.
 
Lo incontriamo proprio a Patmos, l'isola dove l'apostolo amato da Gesù, Giovanni, fu mandato in esilio dall'imperatore Domiziano per la sua instancabile predicazione del Vangelo. Su questa piccola isola greca, persa in un mare blu cobalto e resa arida dai venti che permettono alla vegetazione di crescere solo nelle zone più riparate, San Giovanni, rinchiuso in una caverna indicata dalla tradizione locale, ebbe le visioni da lui stesso descritte, fra gli anni 90 e 95, nell'ultimo libro della Bibbia, l'Apocalisse, che in greco significa "rivelazione".

Nella grotta, dove si susseguono pellegrini e visitatori, un foro sulla roccia, ornato poi di argento, segna il luogo dove l'apostolo conobbe e vide le parole di Dio. E una croce tracciata con le sue mani è ciò che resta del trascinamento mistico che prese il sopravvento durante le sue visioni.
Il monastero di Patmos, dove padre Martinianos ci ha ricevuti, si trova sul punto più alto e impervio della Chora, l'insediamento principale e antichissimo dell'isola.

Le visioni di Giovanni e la fama che di conseguenza guadagnò l'isola, chiamata per questo "seconda Gerusalemme", l'hanno resa anche di grande interesse artistico. Ricchissima di chiese di ogni dimensione e importanza, di isolati monasteri sia femminili che maschili tutti appartenenti alla Chiesa ortodossa greca, Patmos iniziò la sua rinascita intorno all'anno 1088, quando, la prima cappella, quella di Sant'Anna, all'interno della grotta di San Giovanni, fu fatta edificare da Hosios Christodoulos, un monaco originario di Nicea. Fu lui che si occupò in seguito dell'edificazione del principale monastero dell'isola, quello dedicato a san Giovanni il Teologo, grazie alla totale libertà di costruire luoghi di culto a Patmos che gli aveva concesso l'imperatore Alessio i Commeno.
 
Il monastero, che dall'esterno sembra una fortezza, fu edificato sulla vetta più alta con l'idea di costruire un luogo ben difendibile dai pirati. Alla morte del monaco, nel 1093, era completata la costruzione delle possenti mura esterne della chiesa principale, il cosiddetto Catholicon, del refettorio e di alcune celle delle venti di cui dispongono oggi i monaci. Gli affreschi più antichi sono quelli che restano nel refettorio. In seguito, i lavori continuarono a più riprese:  nel xii secolo per la cappella dedicata alla santa Vergine e per quella in ricordo del fondatore, mentre nel xv secolo furono nuovamente fortificate le mura esterne. Gli affreschi più recenti sono di scuola cretese, a differenza dei primi, in uno stile bizantino più antico.
 
Le invasioni turche avevano fatto rifugiare a Patmos molte ricche famiglie di Creta, famiglie colte che costruirono tanti dei più bei palazzi della Chora e fecero arrivare sull'isola il meglio della società a loro contemporanea. Mentre l'importante biblioteca del monastero, che ha oltre nove secoli di storia, conserva manoscritti realizzati dall'xi fino al xv secolo, oltre un archivio di documenti bizantini che riguardano l'amministrazione pubblica e la storia religiosa.

Padre Martinianos racconta che i monaci che vivono stabilmente qui sono dieci e occupano metà delle celle. Non c'è però un problema di vocazioni, che la Chiesa ortodossa greca quasi non conosce, ma gli altri religiosi che occupano le restanti celle svolgono la loro missione all'esterno del monastero, tra la gente e nelle chiese dell'isola. La vita di chi opera soltanto nel monastero è scandita da ritmi regolari:  la preghiera mattutina, dalle tre di mattina fino alle sei e mezzo e quella della sera subito dopo la cena fino alle nove. Le liturgie si succedono, invece, per tutto il giorno all'interno della basilica principale, dove sono sempre presenti almeno due sacerdoti. Padre Martinianos spiega che nella liturgia non vengono letti passi tratti dall'Apocalisse, anche qui dove il libro è stato dettato da san Giovanni. Di esso non si mette certo in discussione la canonicità, ma il testo non è entrato nel lezionario bizantino.

L'isola di Patmos e i suoi monasteri fanno parte del patriarcato di Costantinopoli e sono quindi sotto la diretta giurisdizione del Patriarca Bartolomeo, a differenza della stragrande maggioranza delle isole greche, che dipendono dall'arcivescovo ortodosso di Atene. Del Patriarca, al quale padre Martinianos è stato molto vicino nei suoi quattro anni e mezzo trascorsi a Costantinopoli, il monaco non smette di parlare, quando gli viene chiesto cosa apprezza di più della sua chiesa in questo momento storico. Così espone la difficoltà della vita di ogni giorno, ma anche i grandi sforzi per trovare una felice e durevole collaborazione con la Chiesa cattolica.

Il superamento degli antichi rancori, mai completamente sopiti, che dividono le Chiese "sorelle" così vicine, richiederà ancora del tempo:  padre Martinianos lo sottolinea, certo però che si è decisamente sulla buona strada. "A livello popolare, per alcuni greci ortodossi estremisti" - spiega - "giocano ancora un ruolo importante alcuni fatti storici":  la progressiva divaricazione culturale e religiosa che di fatto vide il passaggio di molti territori prima dipendenti da Bisanzio sotto la giurisdizione romana, il terribile sacco di Costantinopoli del 1204 e altri episodi, il fallimento dell'unione sancita al concilio di Firenze del 1439.

"Ma la stragrande maggioranza dei greci che vivono ai nostri giorni non dà più tanta importanza a fatti legati alla storia e ha uno spirito piuttosto tollerante. Esistono però ancora banali incomprensioni, che tuttavia non debbono scoraggiarci nello sforzo di trovare un dialogo", dice ancora Martinianos. Sono "incomprensioni tra chi è cresciuto insieme nella stessa terra e nella stessa società, come ortodossi e cattolici in Grecia, portando con sé, quasi nel proprio dna, vecchie ruggini".

Proprio per favorire il superamento di ostacoli più che altro a livello di mentalità, padre Martinianos si prepara a inaugurare nei prossimi mesi un grande progetto:  la ristrutturazione del quartiere e della chiesa di Hagios Dimitrios, attinente al monastero Hilandari nel monte Athos, per ospitarvi un centro per l'ecumenismo, dove si possano ritrovare insieme laici e religiosi, sia ortodossi sia cattolici sia protestanti. Un luogo pensato soprattutto per studiare e restaurare l'immenso numero di antichi manoscritti, icone e affreschi conservati nelle moltissime chiese e nei monasteri che sono disseminati sul monte Athos, ma anche dove riunirsi per la preghiera.


(©L'Osservatore Romano - 25 agosto 2010)
Caterina63
00giovedì 7 ottobre 2010 19:34

Alessandra di Rudinì Carlotti, da amante di D'Annunzio a sposa di Gesù Cristo


Alcuni pensano che per divenire frate o suora sia necessario aver custodito intatto il giglio della purezza sin dalla fanciullezza. In realtà anche coloro che hanno conosciuto il peccato possono entrare in convento, purché siano sinceramente pentiti e risoluti a tutto pur di non peccare più.

Sentite la storia di una delle amanti di Gabriele D'Annunzio. Alessandra di Rudinì nacque a Napoli nel 1876. Suo padre era marchese e celebre politico (fu anche Ministro degli Interni e Capo del Governo). Da bambina ebbe un'infanzia “vivace”, e a causa della sua incontenibile indisciplinatezza venne “cacciata” dal collegio. Viveva in un'ambiente razionalista e la sua fede si indebolì molto; pensava che il cristianesimo fosse un fenomeno puramente politico-sociale.

Poi, leggendo un pessimo libro di Renan, la sua fede crollò a terra. Era considerata una ragazza molto bella e vari giovanotti altolocati le fecero proposte di matrimonio. Tra i suoi spasimanti vi era anche il Marchese Marcello Carlotti, col quale accettò di sposarsi, e dal quale ebbe due figli. Ma dopo pochi anni di matrimonio, rimase vedova.

Aveva solo 24 anni, ed essendo ricca e bella, non sarebbe stato difficile per lei trovare un nuovo marito. Nel 1903 conobbe Gabriele D'Annunzio, famoso sia come poeta che come forsennato conquistatore di donne. Prima le conquistava, poi le abbandonava e passava a corteggiare qualche altra sventurata. D'Annunzio corteggiò anche Alessandra, la quale inizialmente lo respinse, ma alla fine capitolò, e andò a convivere “more uxorio” (cioè come se fossero coniugi) nella lussuosa villa del poeta. Ciò era (e lo è ancora oggi) un grave peccato contrario al sesto comandamento che proibisce di commettere fornicazione (rapporti sessuali fuori dal matrimonio). Ma la Madonna, essendo una madre affettuosa, vegliava su di lei, e il buon Dio le inviò un salutare castigo. Il Signore è amore infinito, e quando ci invia qualche croce, lo fa per il nostro bene, ossia per trarne un bene maggiore.

Così, Alessandra si ammalò gravemente, e rischiò di morire senza ricevere gli ultimi sacramenti. Quando guarì, D'Annunzio la lasciò. Dopo la malattia, la giovane marchesa di Rudinì Carlotti non era più bella come prima, e poi il poeta si era già innamorato di un'altra donna.

Ecco come è fragile l'amore mondano e come svanisce velocemente! Alessandra pianse amaramente il suo amore perduto, ma ben presto si accorse che quell'amore era solo vanità: “vanitas vanitatum et omnia vanitas”, dice la Sacra Scrittura. Dopo un lungo periodo di ricerca, si sentì attrarre da un Uomo speciale, il migliore di tutti gli uomini, Colui che non tradisce mai: Gesù Cristo, il Re del Cielo. Dopo essersi consigliata col suo direttore spirituale, e aver preso contatti con le suore, entrò in un monastero di clausura francese, dove le venne imposto il nome religioso di suor Maria di Gesù, e visse in maniera esemplare la sua vocazione. I peccatori scellerati che si convertono sinceramente a Dio, in genere diventano zelantissimi seguaci del Vangelo.

E così, suor Maria di Gesù venne eletta priora del suo monastero, ed ella si dimostrò un'ottima superiora, e fondò altri monasteri in Francia. Morì in concetto di santità nel gennaio del 1931, felice di aver abbandonato il mondo traditore e di essersi donata a Gesù buono. Gabriele D'Annunzio non poté riempire di gioia e di pace il cuore di Alessandra, il quale era stato creato per amare Dio e solo in Lui riuscì a trovare la felicità. “Inquietum est cor nostrum”, il nostro cuore è inquieto sin tanto che non riposa in Dio.

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