VERSETTI 6, 1 – 7, 3 DELL’APOCALISSE - ECCE CRUCEM DOMINI FUGITE PARTES ADVERSAE...

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Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 13:13

ECCE CRUCEM DOMINI FUGITE PARTES ADVERSAE...


Il ciclo apocalittico affrescato nella cripta della Cattedrale di Anagni raffigura a un tempo l’accaduta vittoria di Cristo e la sua guerra ancora in corso contro la guerra, l’inferno e la morte.

L’inizio della costruzione della Cattedrale di Anagni nella sua forma attuale risale a san Pietro di Salerno, vescovo di Anagni dal 1062 al 1105.
La sua cripta custodisce uno dei più importanti cicli affrescati del pieno Medioevo italiano. Si tratta di oltre 50 riquadri più innumerevoli fregi appartenenti a un unico programma, opera di maestri e botteghe diversi. La bottega del cosiddetto Primo maestro, a cui risale integralmente il ciclo apocalittico e a cui forse era stata assegnata inizialmente la realizzazione dell’intero programma, è  plausibile che abbia lavorato all’epoca di Innocenzo III, in linea con la sensibilità e il magistero di quel Papa.


di Lorenzo Cappelletti


I VERSETTI 6, 1 – 7, 3 DELL’APOCALISSE

 

Quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava come con voce di tuono: «Vieni». Ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso per vincere ancora.
Quando l’Agnello aprì il secondo sigillo, udii il secondo essere vivente che gridava: «Vieni». Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada.

Quando l’Agnello aprì il terzo sigillo, udii il terzo essere vivente che gridava: «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii gridare una voce in mezzo ai quattro esseri viventi: «Una misura di grano per un danaro e tre misure d’orzo per un danaro! Olio e vino non siano sprecati».

Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra.

Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce:
«Fino a quando, Sovrano,
tu che sei santo e verace,
non farai giustizia
e non vendicherai il nostro sangue
sopra gli abitanti della terra?».

Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro.
Quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi. Il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’A­gnello,  perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?

Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti, perché non soffiassero sulla terra, né sul mare, né su alcuna pianta. Vidi poi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare:  «Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi».



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Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 13:15

 

 

 

 

 

Il catino dell’abside principale con al centro l’Agnello apocalittico circondato dai quattro viventi e dai ventiquattro vegliardi [© Paolo Galosi]

Il catino dell’abside principale con al centro l’Agnello apocalittico circondato dai quattro viventi e dai ventiquattro vegliardi [© Paolo Galosi]

Apocalittici o integrati? Di fronte a questa alternativa per nulla alternativa fra l’utopia e l’acquiescenza, l’Apocalisse da sempre pretende gettare una luce più vera sulle vicende della storia: un punto di vista incommensurabile eppure supremamente realistico, né apocalittico né integrato. Oggi di fronte ai tamburi di una guerra più grande di noi, ne sentiamo più che mai la necessità.

La parola “apocalisse”, come sa anche chi abbia una semplice infarinatura di Sacra Scrittura, significa rivelazione, una dimostrazione, uno svelarsi. «Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere», recita il primo versetto programmatico, ripreso quasi identico in chiusura (Ap 1, 1 e 22, 6). Gesù Cristo, «il testimone fedele, il primogenito dei morti e principe dei re della terra» (Ap 1, 5), dopo la sua vittoria mostra all’apostolo Giovanni, che viene «rapito in estasi» al di fuori della storia, ciò che davvero accade in essa. Come scriveva il grande esegeta Heinrich Schlier all’inizio  di un noto saggio sull’Apocalisse: «l’Apocalisse di Giovanni è l’unico libro del Nuovo Testamento che abbia per tema la storia. È perciò meditando su di essa che si è essenzialmente sviluppata la riflessione cristiana intorno alla storia». Riflessione espressa lungo i secoli non solo attraverso le parole, ma anche con immagini e colori.

Ad Anagni, nella cripta della Cattedrale di questa fatidica città, in una serie di affreschi iniziati nello stesso torno di tempo in cui si cominciavano a diffondere le elucubrazioni sulla storia di Gioacchino da Fiore († 30 marzo 1202), si conserva la magnifica illustrazione di una concezione della storia che scaturisce, invece, ancora dalla tradizionale meditazione sul­l’Apo­ca­lis­se, che ha il suo paradigma nel De civitate Dei di Agostino. Fino alla rottura operata da Gioacchino con la sua tripartizione della storia in età successive, del Padre, del Figlio e dello Spirito, non si poteva neppure concepire che l’avvenimento storico di Cristo potesse essere superato nel tempo della storia da una successiva età dello Spirito apportatrice di una più grande grazia.

L’avvenimento di Gesù Cristo era concepito come l’inizio della fine del mondo. Per la riflessione di taglio agostiniano e tomistico, «Cristo non è il perno della storia con cui un mondo mutato e redento ha inizio e una storia irredenta durata fino a quel momento viene abbandonata; per esso Cristo è piuttosto il principio della fine. Egli è “redenzione” nella misura in cui con Lui la “fine” comincia a risplendere nella storia. La redenzione consiste (da un punto di vista storico) in questa fase iniziata mentre la storia, per così dire, procede “per nefas” ancora per un certo tempo, conducendo l’antico evo di questo mondo alla sua fine» (Joseph Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, p. 211).


Proprio perché vuole essere una lettura del tempo della Chiesa come tempo finale sub gratia e non l’immagine del superamento di tale tempo, il ciclo apocalittico anagnino è fatto solo di scene tratte dai primi dodici capitoli di Apocalisse, e, dei suoi successivi tre settenari (dei sigilli, delle trombe e delle coppe), sceglie di rappresentare solo quello dei sigilli, fermandosi alle soglie dell’apertura del settimo. Sceglie di fermarsi cioè alla proclamazione del giudizio, non si interessa di investigare negli aspetti più immaginifici della promulgazione e della esecuzione di esso. (Probabilmente non si erano perfezionati ancora quegli «strumenti politici e spirituali pieni di potenza e di degenerazione» [Schlier] che oggi sembrano realizzare alla lettera alcune profetiche visioni dei capitoli 13-18 di Apocalisse).

Così, in una versione pittorica piena di grazia, è rappresentata con suprema compostezza l’inesorabilità della vittoria riportata da Gesù Cristo insieme agli elementi di una lotta che, certo, si combatte ancora ma che non può far più paura. Infatti ad Anagni la guerra e la morte (Ap 6, 4-8) sbarrano gli occhi impaurite, gli astri che mutano colore (Ap 6, 12) sono due palline sottoposte al soffio pacato di un angelo, il drago dalle dieci corna (Ap 12, 3) è un draghetto sotto i piedi di un soave arcangelo, mentre tutto l’onore, la forza e la bellezza sono riservati a Colui che siede sul trono e all’Agnello e a coloro che condividono la sua vittoria e portano la corona regale dei vincitori, ai ventiquattro vegliardi, ai vergini e ai martiri allineati in bell’ordine quasi musicale.

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Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 13:16

 
L’apertura dei primi quattro sigilli raffigurata a destra del catino dell’abside principale [© Paolo Galosi]

L’apertura dei primi quattro sigilli raffigurata a destra del catino dell’abside principale [© Paolo Galosi]

Cristo è il mostrarsi di una forza vittoriosa sul mondo

Al centro di tutto il programma pittorico, nel cuore del catino absidale, in mezzo ai quattro esseri viventi e ai ventiquattro vegliardi, sta il vincitore, l’Agnello nell’atto di aprire i sette sigilli che chiudevano il libro che nessuno prima della sua vittoria era in grado di aprire. Cosa che faceva piangere Giovanni, e che fa piangere sempre di nuovo anche noi di fronte al mistero umanamente inesplicabile della storia. Ma «ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di David e aprirà il libro» (Ap 5, 5), si legge sulle pagine spalancate del libro. Non piangere più!

A destra e a sinistra dell’abside centrale, su un atipico arco trionfale e su volte e archi ad esso adiacenti, sono rappresentate le scene che corrispondono all’apertura dei singoli sigilli. A partire, a destra, dalla rappresentazione dei quattro cavalieri, che fuoriescono all’apertura dei primi quattro sigilli.

Cavalieri ben poco apocalittici, nel senso che non fungono da simbolo di quattro forze equivalenti e sovrane di distruzione. Quasi che lo svelamento finale coincida con una finale distruzione, quasi che il fine sia la fine. No. A differenza di quello che continua a dire una critica timorosa finanche di osservare la realtà, tanto ha paura di perdersi perdendo i suoi preconcetti, si tratta in realtà, secondo l’interpretazione tradizionale basata sul coordinamento dei versetti Ap 6, 1-2 con Ap 19, 11-16, della lotta instaurata dal primo cavaliere contro gli altri tre. Il primo dei quattro cavalieri (che monta un cavallo bianco, è coronato e dotato di un arco, secondo la lettera di Ap 6, 2) è anche rivestito di un mantello, rosso del suo stesso sangue, ed è circondato dall’aureola della gloria divina, secondo la lettera di Ap 19, 13: è il Verbo di Dio, il Re dei Re, il Signore dei Signori che, secondo quel che recita la Vulgata (Ap 6, 2), exivit vincens ut vinceret, è uscito vittorioso per vincere quel che resta da vincere. Cristo ha vinto, è Cristo che vince ancora. «Da dove uscì se non dal sigillo aperto?», scriveva Ambrogio Autperto, l’abate del grande monastero carolingio di San Vincenzo al Volturno, la cui cripta racchiude un altro stupendo ciclo affrescato altomedievale ispirato al suo commento sull’Apocalisse. Il cavallo bianco infatti sembra quasi uscire dal­l’abside principale, dove l’Agnello apre i sigilli, e sta per scoccare una freccia in direzione del secondo cavaliere che fuggendo si volta atterrito.


Per il primo cavaliere si tratta di dare corso a una inesorabile vittoria. Il cavallo è al passo, nessuna concitazione nel tendere l’arco, fermezza, ma nessuna aggressività nello sguardo. Al secondo cavaliere non rimane che galoppare via. Non è la guerra ad atterrire, è essa che appare atterrita e deve fuggire roteando a difesa lo spadone con le due mani. Ma lo spadone, per quanto mastodontico, non difende, e infatti gli era stato concesso per l’offesa, per «togliere la pace dalla terra in modo che gli uomini si scannino gli uni con gli altri» (Ap 6, 4). Come difendersi ora contro una freccia?  

Nel taglio basso dello stesso riquadro anche la morte ha lo stesso sguardo atterrito della guerra. Cavalca via al galoppo su un cavallo di colore terreo inseguita dal demonio nudo e alato, che cavalca lo scuro inferno reggendo una grande bilancia che pesa senza pietà. Come la guerra è inseguita e cerca di fuggire davanti al Re vittorioso, così la morte è inseguita e tenta di sfuggire all’inferno, alla seconda morte. Chi ha programmato il ciclo spiega diligentemente, con un verso trascritto al di sotto del riquadro, che si tratta di due coppie di cavalieri: Has per picturas bis binas disce figuras (a due a due comprendi le figure rappresentate in queste pitture). Ma il parallelo è parziale: anche l’inferno e la morte sono a loro volta inseguiti dal primo cavaliere: il loro destino è quello di finire nello stagno di fuoco (Ap 20, 14).

All’opposto, dunque, di un panorama di distruzione e di paura che tutto travolge (con cui comunemente si designa la concezione apocalittica del pieno Medioevo e che invece coincide semmai col successivo prevalere della lettura millenaristica e gnosticheggiante mutuata da Gioacchino), qui siamo di fronte alla rappresentazione di una forza vittoriosa sul mondo che, vincendo ancora, protegge anzitutto la pace.  
Questo tema prosegue e si precisa nella volta che sovrasta la rappresentazione dei quattro cavalieri. Qui quattro angeli, posti ai quattro lati di un riquadro punteggiato da spore, atterrano quattro figure cornute e alate. Non si tratta della allegorica lotta del bene e del male, come tante volte la critica ha ripetuto credendo realtà i fantasmi della sua precomprensione manichea, ma della salvaguardia dai venti di distruzione delle condizioni che permettono la vita su questa terra, secondo la lettera di Ap 7, 1.

Come la pace, così la realtà naturale è preservata dal Re vittorioso e misericordioso: Tu, victor Rex, mise­rere. Quale distanza fra la lettera di Apocalisse e le allucinate elucubrazioni che pretende assegnarle chi ha in testa fantasmi e l’odio nel cuore: «Vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra e trattenevano i quattro venti perché non soffiassero sulla terra né sul mare né su alcuna pianta. Vidi poi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli a cui era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: “Non devastate né la terra né il mare né le piante finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi”» (Ap 7, 1-2). In effetti un altro angelo, quasi salendo dalla spalla dell’arco sottostante, indica un cartiglio contenente quelle parole e regge una croce astile da cui pendono l’alpha e l’omega.


Quest’ultimo è solo l’attributo iconografico identificativo dell’angelo? Un puro dettaglio? No, quella croce sottile (che «è il segno della Trinità che tutti riceviamo nel battesimo», scriveva san Bruno vescovo di Segni a commento di questo versetto di Apocalisse), è la ragione ultima di tutto quel che è rappresentato. Lo scopo della guerra che il Re vittorioso muove alla guerra, come anche dell’ordine perentorio di sospendere ogni distruzione dato dall’angelo col sigillo (che poi non è che un altro modo di dire di nuovo “Cristo risorto”, come affermano Beda, Ambrogio Autperto e tanti altri), è permettere, grazie al battesimo, che una sublime discendenza, numerosa come le stelle, secondo la promessa, goda di una felicità celeste, incommensurabile: promissa posteritas caelesti felicitate sublimis scrive Agostino (De civitate Dei  XVI, 23).

Più volte (almeno tre) ritorna nella cripta anagnina il sigillo battesimale in forma di monogramma del nome di Cristo, eppure nessun critico lo ha mai ritenuto degno di nota. Quasi che la promessa fatta ad Abramo di essere padre di molti popoli, di una discendenza grande quanto le stelle del cielo (neanche questa promessa, d’altra parte, è mai stata riconosciuta dalla critica  nella volta VIII di Anagni, facendo saltare tutto il «meccanismo» del cristianesimo, direbbe Péguy), abbia compimento in qualcosa d’altro che non sia il battesimo; come a Gerusalemme Gesù bisbigliò quella notte a Nicodemo e come Pietro ripeté ad alta voce dopo la morte e la resurrezione del Signore: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore» (At 2, 38s).

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Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 13:18


La raffigurazione dell’apertura del quinto sigillo: Gesù Cristo dona le stole della gloria alle anime dei martiri [© Paolo Galosi]

La raffigurazione dell’apertura del quinto sigillo: Gesù Cristo dona le stole della gloria alle anime dei martiri [© Paolo Galosi]

Un tempo breve

Simmetricamente rispetto a questo complesso di scene, sull’altra parte dell’arco trionfale che incornicia l’abside principale, viene rappresentata l’apertura del quinto e del sesto sigillo.
Il tempo è dato ancora, non solo perché siano segnati col sigillo battesimale quanti ne chiamerà il Signore, ma anche perché sia completato il numero di coloro che devono essere uccisi propter Verbum Dei et propter testimonium quod habebant.

Infatti, alle anime di coloro che furono immolati, che hanno cioè ricevuto il battesimo di sangue nel martirio, e che gridano che giustizia finalmente sia fatta, viene detto «di pazientare ancora un poco [tempus modicum] finché sia completato il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro» (Ap 6, 11). Perché possano pazientare, Colui che siede sul trono le riveste intanto di stole di gloria rese candide nel sangue dell’Agnello. Ricevutele, potranno attendere nella pace che altri vengano a completare il numero dei martiri, affrettando così il riscatto definitivo.   
 

Il tempo del­l’attesa è comunque breve, è comunque un tempus modicum il tempo della storia: «Il Signore non ritarda il compimento della sua promessa [...]. Questo breve intervallo di tempo a noi sembra lungo perché dura ancora; allorché sarà finito, ci accorgeremo quanto sia stato breve» (sant’Agostino, Commento al vangelo di Giovanni CI, 6). Il tempo ormai si è fatto breve dopo la vittoria di Cristo. Infatti, all’apertura del sesto sigillo, il sole e la luna sulla fronte dell’arco di sinistra cambiano colore e un angelo si accinge a soffiare un vento che precipita le stelle dal cielo come fa la bufera con i fichi dalla pianta; e un altro angelo reca l’incensiere d’oro attraverso cui, come sale il profumo delle preghiere dei santi, scenderà di lì a poco sulla terra il fuoco dell’ira di Colui che siede sul trono e dell’Agnello.

Se la brevità del tempo esercita la pazienza di coloro che aspettano giustizia, suscita invece nel drago una «rabbiosa volontà di potenza che nasce dall’ansia del tempo che gli sfugge», scriveva Schlier nel saggio citato. Accanto al drago dell’absidiola di destra, un tempo era anche ad Anagni, come nello stupendo affresco della controfacciata della chiesa di Civate sul Monte Pedale non lontano da Lecco, una raffigurazione ora perduta dell’Ascensione del Signore, cioè di quello che l’Apocalisse chiama «il rapimento del figlio verso Dio e il suo trono» (cfr. Ap 12, 5).  È infatti «con l’Ascensione di Gesù Cristo al cielo», continua Schlier, «che il drago, figura ideale di ciò che è satanico, dell’assoluta potenza dell’egoismo, vien gettato a terra».

Precipitato ormai sulla terra in forza dell’Ascensione del Signore, il drago «si avventa contro la donna» (Ap 12, 13), che però gli sfugge su ali d’aquila (la ritroviamo infatti col figlio e vicino a Giovanni nell’absidiola di sinistra). Allora il drago va «a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e hanno la testimonianza di Gesù» (Ap 12, 17). In effetti il drago, ad Anagni, viene a trovarsi dalla parte di 18 santi martiri, cioè di coloro che conservano la testimonianza di Gesù, essendo, come ripetono tutti i Padri e gli scrittori medievali, 18 il valore numerico delle iniziali IE del nome Iesus (di cui il numero della bestia è una pacchiana contraffazione: 666). Anche a Civate 18 sono i santi martiri affrescati nell’interno del cupolino del ciborio: «Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro» (Ap 7, 15).

Ma non sono solo i martiri a morire cioè a svelare in modo reale, come scrive Schlier, «l’anacronismo di un mondo che ancora adesso pretende di affermare sé stesso» e, con la loro morte, «a rendere accessibile, anche ai loro nemici, il futuro dischiuso da Cristo». Anche i vergini muoiono, obbedendo. A loro è dedicata tutta la zona dell’absidiola di sinistra attorno a Maria, Vergine dei vergini. Te nimis implorant virgo iubilant et adorant. Dum tibi subduntur natum moriendo secuntur. Questi versi, che riecheggiano l’inno ambrosiano “Iesu corona virginum”, corrono nell’absidiola di sinistra sulla fascia che divide la Madonna col bambino (attorniata da due sante vergini e dai due Giovanni, in alto), dalla storia di verginità e martirio di Secondina, in basso. «Quanto ti implorano, quanto ti lodano e ti venerano, o Vergine. Mentre a te si sottomettono, morendo seguono il tuo Figlio».

Che poi è quanto desidera e vive qualunque povero peccatore né vergine né martire che, partecipe del vittorioso amore di Cristo, ha guardato per secoli pentito e devoto i volti della cripta di Anagni. «Quando penso che un uomo, un giovane, un individuo, non può sposare una donna se non per amore di Cristo – mi pare di aver già detto questa frase: se non per l’amore di Cristo –, quando si dice questo, si sente tutta l’immensità – immensità vuol dire non commensurabile –, l’incommensurabilità di un punto di vista, che è il punto di vista, ma anche il punto di rinascita, di nascita della rinascita» (Luigi Giussani).


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