da una vecchia rubrica ora chiusa di Padre Riccardo Barile O.P. Una malizia al mese

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Caterina63
00domenica 6 novembre 2016 19:09
 
Si parte dal (presunto) disagio che certe situazioni non siano del tutto corrette, poi si cerca di capire e qualche volta di concludere.
 
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OLTRE ROMA E PIÙ DI ROMA?   versione testuale
Dialogo tra il sottoscritto e un altro frate alla fine di un Capitolo generale:
 
 
 
- «La liturgia non è stata varia e non ha dato spazio ai diversi stili locali dei partecipanti».
- «Sì, è vero. Però quanto a dare voce ai diversi stili locali, il discorso mi sembra complesso, poiché ciò che in loco ha senso, esportato, rischia di diventare spettacolo».
- «Ma no, sono ricchezze di un pluralismo che dobbiamo manifestare!».
- «Però Roma, favorevole al pluralismo rituale, è contraria alle mescolanze all'interno dello stesso rito e dunque per analogia ... e poi le tradizioni vanno confrontate e non mescolate».
- «Sì, questo è il punto di vista di Roma. Noi però siamo l'Ordine della Verità e abbiamo un punto di vista più ampio!».
 
Ecco finalmente il chiaro e solenne enunciato: «Siamo più di Roma e oltre Roma»!

Atteggiamento variamente inteso e vissuto: c'è la gratitudine a Dio per averci collocato in un osservatorio così lungimirante; c'è l'impegno ad andare oltre il magistero sollecitandolo così a progredire; c'è il tenere duro con la freschezza del vangelo in quelle regioni che Roma "normalizza" con nomine di vescovi di destra e opusdeisti ecc.
Naturalmente c'è anche chi affronta le questioni cominciando dal Diritto Canonico e andando a vedere se in argomento esiste un documento di qualche congregazione romana.
Come Esaù e Giacobbe, le due tendenze si scontrano nel ventre di Rebecca loro madre.
 
Anzitutto è doveroso reagire in positivo
Al di là delle sbavature, certe frasi possono partire da un solido fondamento: lo Spirito Santo provvede la Chiesa «di diversi doni gerarchici e carismatici» (LG 4), che non coincidono. Dunque i pastori con il loro magistero non hanno l'insieme dei carismi. «Quelli che presiedono la Chiesa» devono tuttavia pronunciare un giudizio «sulla loro genuinità e sul loro esercizio ordinato», badando di «non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono» (LG 12).

Dunque può essere normale ritrovarsi dei carismi che vanno oltre la consuetudine della gerarchia e presentarli a «quelli che presiedono la Chiesa» per farli riconoscere. Capita alla nascita di un Ordine, lungo la sua storia e nell'attualità.
C'è poi una considerazione locale: in Italia la Santa Sede e la CEI hanno una presenza forte e strutturata; in altri paesi più "poveri", può capitare che ciò che si riceve dall'Ordine "sembri" più originale, abbondante e stimolante di ciò che si riceve dall'istituzione ecclesiale. Per cogliere il senso di certe affermazioni, bisogna anche porsi da questo punto di vista.
 
Però...
Però bisognerebbe sempre agire all'interno del magistero dottrinale citandone i documenti e seguendone le impostazioni con una certa consonante simpatia e cercando di coordinare il ministero con le scelte della Santa Sede e dei vescovi. Perché è solo così che ci si presenta con un biglietto da visita credibile e si riescono a far passare "alla Chiesa" i nostri carismi.

Non bisognerebbe pensare che chi cita il CIC, il CCC e il restante magistero ha il cervello castrato, trattandosi di una scelta positiva all'interno di una comune dinamica.
Non bisognerebbe separare troppo disinvoltamente l'istituzione dalla comunione, né andrebbero tollerate posizioni difformi - sulle affermazioni e non sulle opportunità - con la motivazione che stiamo camminando verso la Chiesa del futuro.
Le sparate e i non allineamenti non verranno di certo puniti: saremo però marginalizzati.
 
Il chierico Roncalli
nel ritiro per il diaconato (Roma 9-18 dicembre 1903) si proponeva: «Voglio essere come quei buoni vecchi sacerdoti bergamaschi di una volta, la cui memoria vive in benedizione e che non vedevano e non volevano vedere più in là di quanto vedeva il Papa, i vescovi, il senso comune, lo spirito della Chiesa».
Evolvendo da questo punto di partenza e arricchendolo senza sconfessarlo, Roncalli arrivò a convocare il Vaticano II. Quelli che oggi tendono ad andare oltre Roma, dove arriveranno?
 
Fra Riccardo Barile o.p.




“FRATI” O “PADRI”?   versione testuale
ovvero del tormentone di che cosa premettere al nome e cognome
 
 
Nel recente passato
(questo - e chi ne dubita? - fu un "padre", anzi un "Reverendissimo in Cristo padre fra Tale dei Tali")

i frati si firmavano rispettivamente "fra" (frati non presbiteri) e "padre" (frati presbiteri). I Maestri dell'Ordine, in certe edizioni dei libri liturgici, arrivavano a denominarsi "Reverendissimo in Cristo padre fra Tale dei Tali".
Poi di recente c'è stato il ritorno per tutti alla denominazione "fra", giustificata da motivazioni teoriche e storiche insieme: il nostro Ordine è organizzato su di una "fraternità paritaria" e questo fu il primitivo messaggio dell'Ordine e di san Domenico.
 
Oggi la conclusione è
che chi si ostina a firmarsi "padre" viene considerato renitente all'aggiornamento e la carta intestata "Padri Domenicani" è vista come la carta di un Ordine altro da quello che siamo. A fronte dell'eccesso nel (recente) passato di "PadreReverendoMolto ReverendoReverendissimo" ecc., è più che comprensibile la reazione in senso opposto, la quale, oltre che ad essere una reazione, può vantare delle sue buone ragioni.
 
Ma le cose stanno veramente così?

Frati. Sul fatto che i primi frati si denominassero "frati" non c'è bisogno di insistere. Il fondamento è l'essere tutti fratelli e non "maestri" come il solo Maestro, non "padri" come il Padre, non "guide" come il Cristo (cf Mt 23,8-11). Inoltre Gesù Cristo chiama fratelli quanti sono da lui santificati in riferimento all'unica origine dal Padre (cf Eb 2,11).

Padri. Ma le Scritture non sono tutte qui e per i presbiteri la denominazione "padre" può avere un senso che si basa sul potere "generante" della parola di Dio: «rigenerati ... per mezzo della parola di Dio viva ed eterna ... e questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato» (1px 1,22-23; cf Gc 1,18; 1Ts 2,11) e sulla paternità che acquisisce il ministro della parola/sacramento (cf 1Cor 4,14-15; Fm 10; Gal 4,19 parla di partorire). Nella riflessione ecclesiale di oggi il vescovo è il primo ministro di questo ministero della parola e per conseguenza è padre (cf LG 21.24); anzi, «secondo la bella espressione di sant'Ignazio di Antiochia, il vescovo è "typos tou Patros", è come l'immagine vivente di Dio Padre» (CCC 1549). 

I presbiteri ne partecipano il ministero e come «padri in Cristo» (LG 28) hanno cura dei fedeli. Anche in ambiente domenicano questo vocabolario fu recepito: Domenico «con il vangelo di Cristo generò molti figli» e molti frati a Bologna erano stati «generati a Cristo» dal priore Reginaldo «mediante la parola del vangelo» (Gregorio IX, Bolla di canonizzazione; Giordano di Sassonia, Libellus 61); «Figlio vi dico e vi chiamo, in quanto io vi partorisco per continue orazioni e desiderio nel cospetto di Dio, così come una madre partorisce il figlio» (Caterina da Siena, Lettera 141) (cf inoltre LCO 1 § V, che va nello stesso senso).

In sintesi, la formula ancora oggi ispiratrice potrebbe essere il modo con cui Stefano e Paolo si rivolgevano ai loro interlocutori (giudaici): «fratelli e padri / viri fratres et patres» (At 7,2; 22,1). Il fondamento ultimo potrebbe essere l'interconnessione dei misteri cristiani, dei titoli di Cristo e delle qualifiche dei fedeli, per cui nessun elemento può essere solo quello che è escludendo il resto. Così nella Chiesa chi è padre sarà anche fratello, ma la fraternità non può oscurare che qualcuno più di altri a livello sacramentale rifletta l'immagine e realizzi la realtà di padre.
 
Come mai solo molto tardi nell'Ordine si è preso coscienza di ciò?
(questi - e chi ne dubita? - sono "frati", anzi "fratini")

Perché agli inizi il ministero della parola era legato a un mandato del Papa e il ministero sacerdotale era visto in modo riduttivo come comportante solo la celebrazione della messa senza il ministero della parola e dunque non si riusciva a vederne la connessione con il ministero episcopale e la partecipazione della paternità attraverso l'esercizio della parola e dei sacramenti che generano alla vita nuova.
Così San Tommaso in Supp. q. 36, a. 2, ad 1um - e nei luoghi paralleli - arriva ad ammettere la legittimità di un presbitero che abbia solo la scienza utile a celebrare i riti/sacramenti, senza la scienza per l'esercizio della parola.

In questo senso l'uso di "padre" non è stato un solo fatto cerimoniale o l'aver ceduto a una tentazione di clericalismo, ma la conseguenza di una acquisizione teologica circa il ministero presbiterale, che risultava un poco appannata al tempo delle origini.
 
E allora che fare?
Forse gli unici due comportamenti da non adottare sono: a) imporre una uniformità assoluta; b) lasciare che ognuno si comporti sempre e in ogni caso come vuole.

LA RAGIONE È CHE NON È SBAGLIATA UNA DELLE DUE DENOMINAZIONI, MA È SBAGLIATO SOSTENERE CHE UNA DELLE DUE È SBAGLIATA.

Ci potrebbero essere dei criteri:

Il criterio estetico: non usare "fra" con il solo cognome perché può portare a risultati grotteschi: fra Allocco, fra Bellagamba, fra Porcu, fra Rivoltella ecc.

Il criterio tradizionale da mantenere è di denominarsi "fra" negli atti ufficiali: i cataloghi; i Capitoli; i documenti dei superiori emessi nell'esercizio del loro governo ecc.

Il criterio della scelta personale: oltre agli atti ufficiali c'è lo spazio per la dimensione personale, in cui ogni frate presbitero potrebbe scegliere quale accentuazione far emergere nella propria denominazione e senza sbagliare, dal momento che sia "fra" che "padre" hanno entrambi le loro buone ragioni. Il sottoscritto ad esempio si firma "fra" o "padre" spesso tenendo conto degli interlocutori.

(Piccola parentesi, ovvero in cauda venenum: di recente Urciuoli Pietro, autore di Francesco d'Assisi. Giullare, non trovatore. EMP, Padova 2010, pp. 253, € 22,00, ha notato che i trovatori erano dotti e aristocratici, i giullari erano disprezzati e maltrattati dalle autorità civili ed ecclesiastiche e da qui il tipo di fraternitas giullaresca scelto da san Francesco e di predicazione giullaresca che caratterizzò non tutta ma una parte della predicazione francescana primitiva. Da noi nulla di tutto questo, anzi il vescovo Folco, che per primo approvò la forma di vita di san Domenico nella sua diocesi di Tolosa, era stato ... un trovatore e san Domenico si mosse sempre con disinvoltura tra i labirinti delle formalità curiali. Dunque una certa distinzione nativa ci appartierne ... dunque non siamo dei fraticelli ingenui e spensierati, ma uomini di teologia e di diritto, anche quando esprimiamo in modo comprensibile ed efficace la compassione per i fratelli).
 
Tutto questo
era stato da me formalizzato in una petizione da inviare al Capitolo generale, in un rigoroso e studiato latino e del seguente tenore:
«Perantiquam servantes consuetudinem se "fratres" nominari in capitulis generalibus provincialibusque, fratres nostri presbyteri aliis in appellationibus subisgnationibusque nomini suo praemittere possunt vel "frater" vel "pater", cum utraque appellatio pertinentem habeat significandi rationem: fraternam scilicet conversationem, presbyterale vero munus».
Poi, considerato che i Capitoli generali sono una cosa seria, ho riposto la petizione nel cassetto. Comunque, che ve ne pare? (Che ve ne pare del latino della petizione, non di "fra" o di "padre").
Riccardo Barile
(firma assolutamente laica)










Caterina63
00domenica 6 novembre 2016 22:50

 
 
 
"Dentro" e "fuori" sono di per se stessi neutri senza l'oggetto contenitore nel quale si è dentro o dal quale si è fuori e qui l'oggetto contenitore è nientemeno che... l'ordine domenicano. Le suore - da non confondersi con le monache - vi appartengono? La domanda potrebbe sembrare oziosa. In realtà non lo è, poiché incontri e iniziative comuni tra frati e suore dovrebbero basarsi sul fondamento di una comune appartenenza. Ma quale?
 
La Famiglia Domenicana è qualcosa di più

I frati sono costituiti in un "Ordine" governato dai Capitoli generali e, fuori dei Capitoli, dal Maestro. Le monache sono unite all'Ordine «con un legame anche giuridico» (LCO 143), cioè sono soggette al Maestro dell'Ordine. Lo stesso, sia pure in modo differente, si può affermare per le Fraternite dei Laici Domenicani.
L'aggiornamento delle Costituzioni che seguì al Vaticano II diede un nome esplicito a una realtà che esisteva da tempo, e cioè a una molteplicità di aggregazioni che si riferivano all'Ordine.

È la Famiglia Domenicana, la quale «risulta formata / coalescit / dai frati chierici e cooperatori, dalle monache, dalle suore, dai membri degli istituti secolari e dalle fraternità dei sacerdoti e dei laici» (LCO 1 § IX). A questo elenco bisogna aggiungere un certo numero di gruppi e associazioni ai quali l'Ordine riconosce l'appartenenza alla Famiglia Domenicana, il cui principio di unità visibile è il Maestro dell'Ordine.

Dal punto di vista giuridico le suore non appartengono all'Ordine: il loro governo è autonomo e il loro riferimento alla Santa Sede è diretto. Naturalmente le suore appartengono alla Famiglia Domenicana e le congregazioni possono essere riconosciute con un particolare atto del Maestro dell'Ordine. Se si passa ad un livello più spirituale e vitale, l'Ordine riconosce le suore come animate «dallo spirito e dallo zelo di san Domenico», le quali «in parole e opere rendono testimonianza al Vangelo e sono unite ai frati con un'intima comunione in vista dell'edificazione del popolo di Dio» (LCO 144). Per questa ragione i frati e le suore «insieme curino / instituant / la collaborazione e la pianificazione apostolica» (LCO 145).
 
Quello che ci unisce,
cioè quello che unisce i frati e le suore, è il riferimento a san Domenico, alla storia e alla vita attuale dell'Ordine.
Ciò si è realizzato con un movimento che per lo più andava dai frati alle suore attraverso istruzioni, esercizi spirituali, qualche aiuto a livello legislativo ecc. Oggi si realizza anche con un auspicabile movimento in senso opposto, cioè dalle suore ai frati, poiché da parte delle suore c'è una comunicazione del loro modo di vedere e vivere il carisma di san Domenico che arricchisce i frati stessi.

È però doverosa una parola di precisazione sul primo movimento: se così è avvenuto non è perché i frati fossero maschilisti, ma perché tali erano i rapporti nella Chiesa e nella società.
Non bisogna infine dimenticare i "molti servizi" di gestione della casa e di prestazione infermieristiche/ospedaliere che le suore resero ai frati in un passato recente e che contribuirono al sereno svolgersi della predicazione evangelica.
 
Quello che ci differenzia

è anzitutto il riferimento stesso a san Domenico e in genere alla vita dell'Ordine, che è vissuto dalle suore con una prospettiva particolare, cioè nella prospettiva del fondatore o della fondatrice e dunque della spiritualità risalente all'epoca della fondazione. Questa prospettiva da una parte è arricchente, ma dall'altra è limitante.

Una seconda differenza è "ciò che" si fa. I frati si dedicano all'evangelizzazione e alla predicazione in forma diretta nonché alla presidenza degli atti sacramentali. Le suore si dedicano a una "diaconia", cioè al "servizio" attraverso la gestione di scuole, ospedali, case per anziani ecc., oppure sono inserite in queste attività "nel nome del Signore" e senza escludere la collaborazione pastorale.
La "diaconia" delle suore e il ministero tipico dei frati fa sì che l'organizzazione della vita e anche in un certo senso il riferimento a san Domenico non possano essere gli stessi per le une e per gli altri e dunque a questo livello gli spazi di incontro e collaborazione sono più limitati.

C'è poi una terza ed evidente differenza: i frati sono uomini e le suore sono donne! E anche qui nella storia recente c'è un via vai di atteggiamenti contrapposti. Un tempo si insisteva sulla separazione o sulla "vicinanza controllata", tanto che una casa di suore per carnevale invitava i frati studenti offrendo un rinfresco in una sala dove i frati stavano da una parte e le suore dall'altra, mentre in mezzo c'era un tavolino con il maestro dei frati studenti e la superiora seduti ognuno dalla parte dei rispettivi "sudditi": scena veramente felliniana! Oggi si insiste di più sull'incontro e la collaborazione a diversi livelli, incrementando il valore della complementarietà ma restando molto meno vigili a un pericolo che non è di natura affettiva ma più sottile, e cioè che le suore vivano da frati (lascio il problema al sovrano discernimento delle interessate) e che i frati vivano e parlino e pensino... da suore!
 
«Oh che casa!... oh che casa in confusione»!
(esclamazione sconsolata della serva Berta nel "Barbiere di Siviglia", atto II, scena VI)
(come eravamo...)

Un tempo le competenze, i ministeri, i ruoli ecc. erano tutti chiari e distinti. Oggi il rinnovamento avviato dal Vaticano II e le mutate condizioni di vita sollevano problemi ai quali non è dato di rispondere in tempi brevi e di riflesso c'è un calo vocazionale. Le inevitabili domande: «Se siamo in pochi/e, come possiamo andare avanti e come possiamo trovare aiuto? Quale è il nostro ruolo? e se lo ripensassimo? e se lo cambiassimo un poco? ecc.» costringono ad abitare in una casa un poco in confusione.

La confusione può nascere quando dalla collaborazione si passa a quella che a qualcuno può sembrare una confusione di ruoli o a un eccessivo peso dell'influsso delle suore sui frati (situazione nuova) o dei frati sulle suore (situazione passata e in fase di archiviazione).

È possibile fare un poco di ordine? Forse per ora no. Ognuno però deve provarci con dei tentativi che arricchendosi e correggendosi a vicenda, porteranno forse a una sintesi.

Vi sono però dei punti di riferimento abbastanza chiari: il comune ispirarsi a san Domenico, lo studio del dato cristiano, l'analisi del mondo odierno, alcuni aspetti della formazione permanente ecc. possono favorire la collaborazione. È già in atto la collaborazione a livello di predicazione organizzata e resta sempre aperta - nella misura delle competenze - la collaborazione scolastica non solo dei frati nelle scuole delle suore, ma delle suore nelle scuole filosofiche e teologiche dei frati. Certe iniziative nelle quali si esprime la "compassione" di san Domenico verso chi soffre (dalle sofferenze fisiche all'ingiustizia) possono costituire un terreno di collaborazione ecc.

Ma vi sono alcuni punti delicati. Uno è quello della formazione iniziale, in cui gli elementi comuni andrebbero gestiti con senso della realtà - partecipano a incontri comuni solo quelli e quelle che hanno effettivamente dei formandi/e - e con attenzione che nelle conclusioni pratiche si salvi la differenza che il Lateranense IV stabiliva tra Dio e l'uomo ma che vale anche tra... frati e suore, e cioè che tra di essi «non potest similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda» (D 806). Un altro punto delicato è che la programmazione apostolica tra frati e suore dovrebbe sempre essere rispettosa dello specifico carisma, essendo il mandato canonico della predicazione dei soli frati (così sembra, almeno secondo una certa teologia e per ora).

C'è poi un ultimo punto delicato che è all'origine spesso di un'acuta sofferenza: a fronte della situazione critica nella quale si trovano certe attività di "diaconia" un tempo fiorenti (scuole, asili, ospedali ecc. - non le case di riposo!), da parte delle suore la comprensibile tentazione è un poco di abbandonarle e di passare ad attività di evangelizzazione diretta in collaborazione con i frati. Ora, se ciò è possibile e positivo nel caso di singole attività, è invece problematico come tendenza generale poiché si va verso... un cambio di carisma! Lo sforzo risolutivo non dovrebbe essere di far qualcosa come i frati, ma di far funzionare oggi ciò che ieri è stato all'origine di molte congregazioni.

Tutto questo con il senso della realtà e della storia e cioè considerando che certi servizi, proprio perché sono molto concreti, non possono durare per dei secoli, o per lo meno non possono durare per dei secoli con la medesima estensione e con il medesimno dispiegamento di forze. Queste considerazioni tra l'altro portano a una certa serena gioia nel Signore: si diminuisce e forse ci si estingue perché la concretezza storica di un servizio è passata o cambiata e non perché siamo inosservanti/infedeli o perché preghiamo troppo poco.

Insomma, come ha confessato un guru cattolico/cristiano, un insegnamento appreso dalle sue umili origini contadine (Monferrato) raccomandava: «Mesciùma menta el robi/ Non mescoliamo le cose!» (Enzo Bianchi, Il pane di ieri. Einaudi, Torino 2008, p. 12). Ad un altro livello, «Ciascun stato o professione deve stare entro i limiti del suo abito e del suo grado»: così Umberto di Silva Candida († 1061) in relazione a Niceta Stethatos che aveva appena scritto una Vita di Simeone il nuovo teologo in cui esaltava gli "spirituali". I contesti sono diversi, ma la tendenza cattolica dell'impostare le questioni è in questa linea e forse illumina anche i rapporti tra frati e suore, senza mortificarli ma anzi promuovendo sempre di più quanto c'è di buono. Collaborare dovrebbe essere una gioia: se ci sono delle lentezze è a causa dei limiti umani, non di questi princìpi.
 
E se provassimo a decongestionare?
(... e come siamo)

«(...) studiate la storia, sforzatevi di acquisire una cultura storica, secondo le vostre possibilità di lettura e di cultura, ma studiate la storia. Essa sola permette di dare, anche al fatto attuale, la sua vera dimensione e spesso il suo senso. Essa decongestiona i problemi, inquadrandoli: è una straordinaria scuola di saggezza» (Yves Congar, Autorità e libertà nella Chiesa. Città nuova, Roma 1971, p. 23).
Valido per la storia "vera", il potere decongestionante della storia forse vale anche per la storia "ben immaginata".
E allora proviamo a immaginare. Se al tempo di san Domenico e delle prime generazioni di frati fossero esistite le suore, queste, insieme alle monache, sarebbero di certo state inserite all'interno de "l'Ordine" e in seguito si sarebbero trovate tantissime ragioni che avrebbero "dimostrato" che così era e che così "doveva essere"! Ecco decongestionati tanti problemi di oggi.

Tuttavia - così sembra amasse ripetere Caterina II di Russia († 1796) - con i "se" e con i "ma" non si fa la storia, la quale nella sua cruda realtà dipende da ciò che veramente è accaduto. Di certo se Gesù Cristo nascesse oggi o fosse nato trent'anni fa parlerebbe in inglese, ma nacque quando nacque e parlò (sembra) in galileo aramaico.
 
Fra Riccardo Barile o.p.




 

Caterina63
00mercoledì 26 aprile 2017 10:56
  IL DISCORSO ALLA CURIA MA SU QUALE COLLE?   versione testuale

ovvero di un discorso che il Papa ha fatto ma che noi non abbiamo ancora fatto


 

 



C'è stato il Concilio - C'è stato River Forest

"C'é stato" e non "ci fu" il Concilio Vaticano II: infatti l'uso del passato prossimo sta ad indicare che l'avvenimento, giuridicamente concluso, non è ancora concluso come definitiva attuazione e recezione, anche se molto è stato fatto.

Dopo il Concilio e quasi in parallelo, Paolo VI con il Motu proprio Ecclesiae Sanctae del 6.8.1966 richiese ad ogni istituto religioso un lavoro della durata dai due ai tre anni per realizzare, all'interno dell'Istituto, ciò che l'intera Chiesa aveva realizzato con il Concilio e cioè riandare alle fonti del proprio carisma, riesprimerlo con maggior purezza e pienezza, lasciar cadere certe determinazioni storiche desuete, ripensare il carisma alla luce dei tempi nuovi secondo le esigenze della Chiesa e del mondo, secondo la maturazione attuale dello spirito cristiano e anche secondo la maturazione dell'antropologia, poiché all'uomo del XX secolo non si potevano più prescrivere comportamenti legati ad un mondo passato.

Prima di arrivare alla conclusione si potevano anche mettere in opera delle «esperienze contrarie al diritto comune», che, se «fatte con prudenza», sarebbero state, «secondo l'opportunità, autorizzate volentieri dalla Santa Sede» (n. 6). Il tutto infine doveva essere espresso sia in termini "spirituali" sia in termini "giuridici".

L'Ordine domenicano diede corso alla disposizione di cui sopra attraverso il Capitolo generale di River Forest dal 30 agosto al 24 ottobre 1968.

River Forest (il fiume della foresta) fa venire in mente immagini bucoliche del folk americano: in realtà si trattava di un grandioso edificio dall'apparenza esterna neomedievale alle porte di Chicago, oggi dismesso.
Il Capitolo fu preparato da un ampio questionario inviato a tutti i frati, durò eccezionalmente quasi due mesi e produsse una nuova elaborazione redazionale delle Costituzioni editate e presentate dal Maestro dell'Ordine P. Aniceto Alonso Fernández in data 1.11.1968 e che restano alla base degli sviluppi sino ad oggi.
 
Poi c'è stato il discorso di Papa Ratzinger alla Curia

A poco più di sei mesi dalla sua elezione, Benedetto XVI colse l'occasione degli auguri alla Curia per un discorso che esponesse una valutazione sul Vaticano II e soprattutto sugli anni che seguirono.
È il famoso discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, di cui ancora si parla. Per ora basti un cenno allo schema di fondo, riservando più oltre alcune citazioni.


Benedetto XVI parte dalla constatazione che spesso il postconcilio è stato difficile se non deviante. Non certo a causa del Concilio, ma di un modo errato di interpretazione.

Si è data infatti una ermeneutica della rottura e un'altra della riforma o continuità, la prima che ha letto il Concilio come un elemento assolutamente nuovo e da portare avanti nella ispirazione che non sempre compare dai testi, l'altra che ha letto e attuato il Concilio a partire dai testi e in continuità con la tradizione passata. Certi atteggiamenti e linguaggi, oggi diversi rispetto alle reazioni anti illuministiche o anti ottocentesche, in realtà presentano una continuità profonda dei principi. In ogni caso il Concilio non poteva essere una costituente che vara una nuova costituzione (del cristianesimo e della Chiesa).

Nonostante voci critiche, tutto il discorso è per affermare la validità e la positività del Vaticano II.
Oltre all'illustrazione dei contenuti, il discorso conseguì un risultato metodologico di cui ancora oggi beneficiamo: lo sdoganamento della problematica della mala interpretazione e attuazione del Vaticano II.

Poiché il Papa l'ha detto, ora se ne parla con libertà e lo scorso 8 ottobre 2012 il card. Donald William Wuerl, Arcivescovo di Washington (USA), nella relazione introduttiva al Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione ha potuto parlare dell'ermeneutica della discontinuità postconciliare come di uno "tsunami". Un'affermazione così sarebbe stata impensabile senza il discorso di Benedetto XVI:
«La situazione attuale affonda le sue radici proprio negli sconvolgimenti degli anni '70 e '80 (...).

Abbiamo affrontato l'ermeneutica della discontinuità che ha permeato gran parte degli ambienti dei centri di istruzione superiore e che ha avuto anche riflessi in aberrazioni nella pratica della liturgia. Intere generazioni si sono dissociate dai sistemi di sostegno che facilitavano la trasmissione della fede. È stato come se uno tsunami di influenza secolare scardinasse tutto il paesaggio culturale» (Relatio ante discepxationem).
 
Proviamo ad analizzare River Forest e il dopo con l'ermeneutica ratzingeriana, cioè proviamo a sdoganare le valutazioni su River Forest e sul dopo
Se River Forest è per l'Ordine un po' come il Concilio, nell'Ordine non c'è stato un serio e autorevole discorso sui limiti di quanto è avvenuto dopo, come il citato discorso di Benedetto XVI. Cioè le valutazioni e le perplessità sul dopo River Forest non sono mai state sdoganate. Forse perché da noi non hanno mai avuto luogo attuazioni discutibili? Ma via, siamo seri! Questa tuttavia è una constatazione e non un addebito mosso a chi di dovere, poiché ognuno si rende ben conto che un superiore a qualsiasi livello in un ordine religioso a suo modo "democratico" non può né dire né fare ciò che il Papa dice e fa per tutta la Chiesa.
Ma a livello personale questo discorso può essere sdoganato. E allora proviamo a sdoganarlo.
 
River Forest: Un valore e un'eccellenza
«Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa» (Benedetto XVI, Alla Curia il 22.12.2005).


La stessa considerazione può applicarsi all'Ordine riguardo a River Forest.
Un frate che c'era stato - un altro tra poco si esprimerà diversamente! - scrisse che «I padri capitolari, pur provenendo da ambienti socio-culturali molto differenti e con mentalità diverse, dopo ampie e libere discussioni, si trovano concordi su ciò che meglio definisce lo spirito dell'Ordine e su quelle norme che meglio possono guidare i frati predicatori nella realizzazione della propria vocazione apostolica. Per la prima volta viene formulata anche una Costituzione fondamentale, che per sua natura è sostanzialmente immutabile. Ha infatti una connaturale e intrinseca immutabilità, in quanto le sue prescrizioni si riferiscono all'essenza, alla finalità specifica e ai valori fondamentali dell'Ordine» (Alfonso D'Amato, L'Ordine dei Frati Predicatori. Istituto Storico Domenicano, Roma 1983, p. 217).

La Costituzione fondamentale è veramente un testo ispirato, un gioiello, come lo è quella poco conosciuta delle Costituzioni delle monache.

Per queste ragioni il Maestro dell'Ordine Aniceto Alonso Fernández, presentando le Costituzioni anzitutto ne garantiva la legittimità: «Ecco le nostre leggi, o nuove o di nuova formulazione / novae vel noviter formulatae / (...) e tutte approvate dal capitolo generale». Tutti ormai, a cominciare dai postulanti, «sappiano che l'Ordine ha una sua propria caratteristica rispetto alle altre forme di vita religiosa suscitate dallo Spirito Santo». Infine sulle (nuove) Costituzioni e sulla vita del santo padre Domenico «i frati si misurino / probent seipsos fratres / per riconoscersi suoi figli».
«(...) due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti (...) c'è l'ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino» (Benedetto XVI, Alla Curia il 22.12.2005).
Per l'Ordine si può dire lo stesso: silenziosamente alcuni conventi, alcune province dopo River Forest hanno portato frutti, ma "silenziosamente" rispetto agli strumenti dell'informazione.
 
River Forest: Una discontinuità e una rottura
«(la memoria del Concilio) suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile (...). Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare ermeneutica della discontinuità e della rottura; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna» (Benedetto XVI, Alla Curia il 22.12.2005).
Idem per l'Ordine dopo River Forest, anche se non per tutti e da per tutto.

Al riguardo, dopo quella di P. Alfonso D'Amato, è preziosa e complementare la testimonianza di P. Enrico Rossetti (1915-1974), presente a River Forest in qualità di perito e che documenta come lo sviamento venuto dopo era già presente negli inizi. Ad esempio:
«Si profila una netta divisione, quasi una spaccatura. Si cozzano due mentalità, due ideologie. Sui paragrafi della "Costituzione fondamentale" avviene il primo drammatico scontro» (P. Enrico Rossetti, Diario 1949-1973. A cura di V. Alce e A. Piagno. ESD, Bologna 1994, p. 100);
«Il processo di secolarizzazione, di demitizzazione, di mondanizzazione ha qui delle punte di una virulenza impressionante. La critica al Papa è aperta, amara, orgogliosa, irrispettosa. Mi sconvolge. Qualcuno dei nostri si associa. Che tristezza!» (p. 102).
In compenso «Ho lottato con forza per un bel testo riguardante il rosario. La Madonna mi ha aiutato: questo testo è "costituzionale"» (ivi, p. 101), ma sarà una vittoria di Pirro e il povero P. Rossetti, poi priore provinciale, quattro anni più tardi nel 1972 in una visita in Brasile toccherà con mano che il rosario è in disuso: «La giornata si chiude col rosario in comune (...). Da tempo non si diceva il rosario insieme, mi dicono» (p. 140).

Due anni prima si era recato a Tolosa per il centenario della nascita di san Domenico aspettando invano che P. Dominique Chenu nel suo intervento parlasse di fedeltà al Magistero (povero illuso!). Invece P. Rossetti trovò dei frati «nella sofferenza per l'indirizzo che sta prendendo l'Ordine in Francia con tutti i crismi dei superiori maggiori». E a ulteriore conferma: «L'incontro a Prouille con i provinciali delle Province del Nord Europa, presieduto dal Generale, mi lascia un senso di tristezza e di smarrimento» (p. 110).
Non si può tacere il fatto che a River Forest ci fosse anche questa atmosfera e mentalità, che poi continuò producendo discutibili realizzazioni di vita domenicana puntualmente seguite dall'aridità delle vocazioni.
 
River Forest: Alcune considerazioni

Prima considerazione
«In questo modo (il Concilio) viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono "amministratori dei misteri di Dio" (1Cor 4,1); come tali devono essere trovati "fedeli e saggi" (cf Lc 12,41-48)» (Benedetto XVI, Alla Curia il 22.12.2005).
River Forest è giuridicamente ineccepibile. Ma tutti i frati presenti avevano la convinzione di dover semplicemente "rinnovare" la legislazione dell'Ordine, oppure più di uno era almeno psicologicamente nell'atteggiamento di creare una cosa nuova e ciò interpretando le presunte vere intenzioni di san Domenico? Da quel che è venuto dopo non si può che rispondere che qualcuno veramente pensava a una nuova costituzione dell'Ordine...
 
Seconda considerazione
Come fa notare il Maestro dell'Ordine Fernández nella sua presentazione, due grandi criteri o scelte hanno pervaso trasversalmente la nuova legislazione: maggiore partecipazione dei frati e maggiore decentralizzazione o autonomia delle province. Bene. Con il senno di poi si è potuto verificare che la prima scelta è avvenuta a spese di una certa continuità di governo (sempre persone nuove negli organismi di governo) e la seconda scelta ha posto in crisi più del dovuto il tasso di uniformità, considerato che la maggior autonomia è anche dei conventi e delle case all'interno delle province.
 
Terza considerazione
La presentazione Fernández non poteva non rilevare che il rinnovamento «non avrà effetto senza un profondo rinnovamento spirituale che deve dare forma a tutte le nuove strutture; quando tale vita interiore manca o è debole, le strutture migliori non producono nessun effetto; quando invece la vita interiore è presente, questa può efficacemente supplire all'imperfezione delle strutture». Bene. Ma il clima di libertà che è seguito a River Forest per via delle maggiori autonomie locali e per una certa coscienza che ormai si era liberi dal passato dal momento che le Costituzioni erano cambiate, ha di molto ridotto quella tradizione dei mezzi della vita spirituale che un convento precedente offriva, per cui fu giocoforza che il rinnovamento avvenisse senza questo tono di vita spirituale.
 
Quarta considerazione
Più si comincia a ragionare con le categorie del citato discorso di Benedetto XVI, più si tocca con mano che frasi tipo "il Concilio ha detto / ha cambiato / ha abolito" sono in gran parte destituite di fondamento e si tocca con mano che si può veramente applicare il Concilio e "riformare" nella continuità e non secondo l'ermeneutica degli anni '70 e in parte '80 (è infatti più o meno dal 1985 che è lentamente iniziata la svolta che ha portato al discorso di Benedetto XVI alla Curia).
Analoga considerazione vale per River Forest: la costituzione fondamentale è magnifica e le leggi - anche quelle venute dopo - non dicono necessariamente e alla lettera che bisogna continuare con la mentalità degli anni '70 e '80 per cui, senza contravvenire ad alcuna legge ma anzi applicandole, si può oggi organizzare una vita che non è esattamente quella che hanno insegnato i maestri (non ufficiali ma non meno indiscussi) del dopo River Forest.
 
Quinta considerazione
P. Rossetti, divenuto priore provinciale, dal 1972 al 1973 a Bologna mise in piedi un noviziato con maestro dei novizi il cecoslovacco P. Giorgio Vesely. Il risultato più simpatico dell'esperienza fu che i novizi in oggetto furono denominati "i veselidi". Per il resto fu un disastro e proprio per la scarsa mediazione verso il nuovo. Dunque è vero che a River Forest e dopo ci fu contrapposizione, ma i tempi erano tali che i progressisti erano troppo progressisti e i tradizionalisti o "classici" spesso riproponevano il passato in proporzione eccessiva o troppo poco ripensata, o forse in una proporzione non troppo eccessiva, ma che comunque "allora" dava fastidio. Se River Forest si svolgesse adesso, forse, tenendo conto di più anni di esperienza e decantazione postconciliare, si svolgerebbe meglio - Costituzione fondamentale esclusa - e soprattutto l'applicazione sarebbe più equilibrata. Ma ahimè, è allora e con soli due o tre anni di tempo che Paolo VI aveva previsto il lavoro e la storia purtroppo non è reversibile.
 
River Forest: «Ho incontrato oggi delle anime belle, correggo un po' le precedenti espressioni»

La citazione è del Diario già più volte citato di P. Rossetti (p. 102).
Ed è una citazione che apre alla speranza. Pur non essendo positivo come P. Alfonso D'Amato, pur non dovendo essere istituzionalmente sereno come il Maestro dell'Ordine Aniceto Fernández, P. Rossetti, dopo questa apertura alla speranza, conclude il diario americano con un inaspettato: «Qui il più è fatto. Parto abbastanza soddisfatto» (p. 103). Chi lo avrebbe mai previsto?

La ragione dell'ottimismo è che anche a River Forest ha incontrato "anime belle". La frase è risolutiva e giusta, anche se a me non piace e preferirei dire: "buoni frati", "santi frati", "frati onesti" ecc. Comunque la realtà non cambia: la giusta analisi di percorsi in salita e in discesa, in fervore e in decadenza, non deve far dimenticare che sempre è possibile incontrare all'interno dell'Ordine dei buoni frati e, aggiungo, delle buone monache. Attraverso di loro si tocca con mano che Dio agisce in ogni situazione e si tocca con mano che san Domenico continua a pregare per tutti: «O spem miram quam dedisti mortis hora te flentibus, dum post mortem promisisti te profuturum fratribus: imple, pater, quod dixisti, nos tuis iuvans precibus».
 
Fra Riccardo Barile o.p.


Caterina63
00mercoledì 26 aprile 2017 11:08

  L'UNICA VERITÀ È NON CAPIRSI   versione testuale
ovvero dell'abuso di qualche difficoltà nella comunicazione
 
 

Il titolo è debitore allo schema - non al contenuto - di una frase famosa di Raoul Follereau (1903-1977): L'unica verità è amarsi (per correttezza bisogna aggiungere che per Follereau la frase era sempre unita ad un'altra: Nessuno ha diritto di essere felice da solo). C'è a volte tra gli uomini di Chiesa una sottile convergenza che si accorda sul fatto che la Chiesa non ha il linguaggio per rivolgersi all'uomo di oggi o a certi settori dell'umanità. Prenderemo in esame alcune affermazioni o contesti, nonché la frase di un noto teologo domenicano. In quale modo una simile problematica riguardi l'Ordine, lo si vedrà alla fine.
 
Paolo VI e la difficoltà di parlare agli operai


Nel bel mezzo del '68 e proprio nella notte di Natale Paolo VI andò a celebrare la Messa al Centro Siderurgico di Taranto. Era un po' (molto) imbarazzato e forse lo era già da tempo e con sincerità espresse tale imbarazzo comunicativo:
«Ma ora a voi, Lavoratori, che cosa diremo nel breve momento concesso a questo nostro rapido incontro?
Vi parliamo col cuore. Vi diremo una cosa semplicissima, ma piena di significato. Ed è questa: Noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da voi. O Noi forse non vi comprendiamo abbastanza? Sta il fatto che il discorso è per Noi abbastanza difficile. Ci sembra che tra voi e Noi non ci sia un linguaggio comune. Voi siete immersi in un mondo, che è estraneo al mondo in cui noi, uomini di Chiesa, invece viviamo. Voi pensate e lavorate in una maniera tanto diversa da quella in cui pensa ed opera la Chiesa! Vi dicevamo, salutandovi, che siamo fratelli ed amici: ma è poi vero in realtà?».
(Paolo VI, Omelia nella Messa di mezzanotte del Natale 1968 a Taranto nel Centro Siderurgico).

Queste frasi furono molto cavalcate e ancora oggi in certe occasioni lo sono. Ma in che senso Paolo VI si trovava in una difficoltà comunicativa? Chi avrà pazienza di leggere il seguito del discorso capirà come mai.
Dopo aver ricordato che nel mondo moderno lavoro e religione sono due realtà separate e opposte - opposizione assente in antico e che qui non si può analizzare -, il Papa proseguiva:
«Ma per ora vi basti il fatto che Noi, proprio come Papa della Chiesa cattolica, come misero, ma autentico rappresentante di quel Cristo, della cui Natività noi questa notte celebriamo la memoria, anzi la spirituale rinnovazione, siamo venuti qua fra voi per dirvi che questa separazione fra il vostro mondo del lavoro e quello religioso, quello cristiano, non esiste, o meglio non deve esistere. Ripeteremo ancora una volta da questo centro siderurgico, che consideriamo ora espressione tipica del lavoro moderno, portato alle sue più alte manifestazioni industriali, d'ingegno, di scienza, di tecnica, di dimensioni economiche, di finalità sociali, che il messaggio cristiano non gli è estraneo, non gli è rifiutato; anzi diremo che quanto più l'opera umana qui si afferma nelle sue dimensioni di progresso scientifico, di potenza, di forza, di organizzazione, di utilità, di meraviglia - di modernità insomma - tanto più merita e reclama che Gesù, l'operaio profeta, il maestro e l'amico dell'umanità, il Salvatore del mondo, il Verbo di Dio, che si incarna nella nostra umana natura, l'Uomo del dolore e dell'amore, il Messia misterioso e arbitro della storia, annunci qui, e di qui al mondo, il suo messaggio di rinnovazione e di speranza».

A mio parere l'incomprensione non sta nei singoli enunciati, tutti chiari, ma nella costruzione della frase, pesantissima e complessa, tanto che anche un seminarista di oggi farebbe difficoltà a seguire il discorso. Era un tipo di linguaggio non solo ecclesiale, ma congeniale a Paolo VI, però lontano dal linguaggio corrente anche in senso nobile.
Dunque si tratta solo di una questione di linguaggio e non di oggetto o di contenuti: in questo senso la Chiesa da sempre ha detto e ancor oggi dice cose comprensibilissime. Che poi non siano accettate è un altro paio di maniche.
 
Congar e i romani di periferia estranei alle cose ecclesiastiche
Lunedì 14 novembre 1960: udienza pubblica del Papa Giovanni XXIII alle ore 11 con la presenza del nostro teologo domenicano Yves Congar († 1995), il quale nel Diario esprime tutta la sua desolazione per i fasti cerimoniali, rinascimentali e barocchi della Chiesa "romana":
«Dappertutto gendarmi pontifici o guardie svizzere in alta uniforme. Il servizio è veramente impeccabile. Ma che sfarzo, che apparato! (...) Vi è uno straordinario servizio di giovani in abito cremisi, di guardie svizzere dal portamento fiero, con elmo e alabarda (...). Verso le 11 e 10 viene intonato il Credo e il papa fa il suo ingresso a piedi. È proprio un bel momento. Ma la Sistina subito dopo canta un Tu es Petrus teatrale (...). Il popolo cristiano non è presente, né di diritto né di fatto. Si può intravedere l'ecclesiologia che sta alla base di tutto questo. È l'espressione sfarzosa di un potere monarchico.
(...) Ahimè! Dopo aver dato la benedizione (...) il papa sale sul trono e si allontana in sedia; applausi privi di senso. Il papa fa un gesto che sembra dire: ahimè! Non posso farci niente...»
(Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963. Vol. I. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, p. 84).

Nel tornare a casa, forse stordito da tanto fasto, sbaglia strada e l'ambiente circostante gli suggerisce altre dolorose considerazioni sul rapporto Chiesa/mondo che non possono che essere negative per la comunicazione:
«Mentre faccio ritorno mi perdo un po' attraversando quartieri popolari e popolosi: vie molto strette senza marciapiedi, biancheria stesa alle finestre, piccole botteghe di artigiani, striscioni con l'invito a votare comunista... Dico a me stesso: ciò a cui ho appena assistito, ciò che abbiamo "fatto" in San Pietro non ha ALCUN rapporto con QUESTO mondo. Non coincide neppure per un millimetro.
Vi è un apparato di "Chiesa" che funziona per se stesso, senza alcun contatto con la gente» (ivi, p. 85).

Come risulta dalla frequentazione dei suoi scritti, Congar era ossessionato dal superamento di una immagine/spettacolo di Chiesa di tipo rinascimentale e barocco e riteneva che, superata questa immagine, ne sarebbe venuta fuori una Chiesa più comprensibile, più accettabile, più comunicativa. Era una tensione presente allora in molti teologi, sembra nello stesso J. Ratzinger.

Ma domandiamoci: come spiegare allora la popolarità di Giovanni XXIII? E se la Chiesa dovesse fare l'una e l'altra cosa? Come mai oggi una certa dimensione cerimoniale della Chiesa, compresa la liturgia, non arreca più fastidio e non è più un ostacolo comunicativo? Insomma, è proprio vero che se figure e personaggi di Chiesa si presentano con un qualche contorno cerimoniale rischiano l'estraneità?
La risposta alle domande di cui sopra può essere varia, ma il dubbio e la riflessione sono d'obbligo. Dubbio e riflessione che lasciano aperto lo spiraglio che la Chiesa non è estranea ed è in grado di comunicare anche nel suo aspetto cerimoniale, che tuttavia va sempre rivisto per evitare che sia la pura riproposizione del passato.
 
Il "pianeta giovani"
L'espressione ancora oggi compare in vario modo in iniziative che si rivolgono ai giovani a livello di sport, cultura, divertimento e, naturalmente, pastorale.
L'espressione lascia intendere che i giovani sono di un "altro" pianeta, dunque "alieni" e comunicativamente refrattari a tutta la pastorale corrente o quasi. È un altro modo spesso ricorrente per dire che "la Chiesa non sa parlare a..." in questo caso ai giovani.
Che ci sia una difficoltà comunicativa generazionale è un fenomeno umano e dunque tocca anche la vita e la pastorale della Chiesa e dunque va seriamente affrontato. Ma va affrontato nella prospettiva di far entrare i giovani nella normalità della vita ecclesiale e nelle formule acquisite della dottrina catechetica e non di creare un "pianeta parallelo". È interessante che i libri liturgici parlino di Messa con i fanciulli e non di Messa dei fanciulli e una simile considerazione dovrebbe riguardare l'approccio pastorale al "pianeta giovani".
In ogni caso molti settori del "pianeta giovani" sembrano sempre più accettare e gustare la dottrina giusta della Chiesa, la liturgia ben celebrata, l'impegno sociale tenendo conto delle direttive del Magistero. Dunque la Chiesa, restando com'è e senza stravolgersi, sa comunicare con i giovani.
 
La comunicazione "forte" della Chiesa
Quelle di cui sopra erano considerazioni "datate". Ora invece, nel pieno dell'attualità, ecco il commento di un giornalista dopo la recente GMG di Madrid:
«Due milioni di persone per Benedetto XVI a Madrid, con Zapatero - ex grande speranza, ora stella cadente del laicismo internazionale - accusato di "andare a Canossa" dal Papa antirelativista. Il giorno dopo, il presidente della Repubblica - e storico dirigente comunista - Giorgio Napolitano che inaugura il meeting di Comunione e Liberazione, non esattamente l'ala sinistra della cristianità. Il giorno prima, il festoso passaggio di consegne davanti a settemila giovani tra Dionigi Tettamanzi e Angelo Scola, l'arcivescovo che ha segnato la storia della curia ambrosiana e il successore che si accinge a farlo.
È impossibile non notare i segni della centralità della Chiesa e del mondo cattolico in generale. E colpisce ancora di più il modo in cui la Chiesa ha conseguito questo risultato. Non venendo incontro al mondo, ma facendo sì che il mondo le andasse incontro. Senza cedere a compromessi, anzi rivendicando l'integrità della dottrina. Usando i mezzi più avanzati (...), ma senza attenuare il proprio messaggio tradizionale, a cominciare appunto dal rifiuto del relativismo»
(Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 22 agosto 2011, pp. 1.36).

Ci sarebbero centinaia di distinzioni da fare, ma limitiamoci a due:

a) in realtà la Chiesa deve "andare incontro al mondo" per cogliere ciò che lo Spirito vi opera e per annunciare Gesù Cristo;

b) il successo mediatico molto dipende da un diverso conteso, dal momento che anche Pio XII aveva un annuncio "forte" ma non godeva della popolarità degli attuali pontefici.

Tuttavia la forza del testo sta nell'analisi della comunicazione: il messaggio preciso e identitario è quello che a lungo andare paga e produce aggregazione vera. Il che ovviamente non è contro né l'ecumenismo, né il dialogo interreligioso, né il dialogo culturale, né la collaborazione operativa in diversi campi.
 
L'aquila e il gallo e la comunicazione che si affloscia

Torniamo indietro nel tempo. Silvano del Monte Athos († 1938) scrisse che un'aquila, conscia di tutto ciò che vedeva, ebbe compassione del gallo ristretto alla vista dell'aia e del pollaio, per cui pensò di andargli a raccontare com'era vario e bello il mondo visto dall'alto, anche se, «vedendo il gallo passeggiare con orgoglio e con gaiezza in mezzo alle galline, pensò: "Dunque egli è soddisfatto della sua sorte. Ma malgrado ciò gli parlerò egualmente di quello che conosco".
E l'aquila parlò al gallo della bellezza e grandezza del mondo. All'inizio il gallo ascoltò con attenzione pur non comprendendo nulla. Ma l'aquila si rattristava sempre più notando che il gallo non capiva niente, e provava difficoltà a parlare con il gallo; e il gallo da parte sua si annoiava non capendo nulla di ciò che diceva l'aquila, e provava difficoltà nell'ascoltarla. Ma ognuno era contento della sua situazione.
Questo è ciò che succede quando un uomo colto parla con un ignorante, o ancor meglio è il caso di quando un uomo spirituale parla con un uomo non spirituale.
Lo spirituale è simile all'aquila, il non spirituale al gallo. Lo spirito dello spirituale si istruisce giorno e notte nella legge del Signore e si innalza a Dio con la preghiera; mentre lo spirito non spirituale è legato alla terra e tormentato dai pensieri. Lo spirito del primo gioisce della pace che viene dall'alto, l'anima del secondo resta vuota e straziata. Lo spirituale vola come un'aquila nelle altezze e la sua anima percepisce la presenza di Dio e vede il mondo intero anche se prega nell'oscurità della notte; mentre il non spirituale gioisce della vanità e delle ricchezze, oppure cerca piaceri carnali.
E quando uno spirituale e un non spirituale si incontrano, entrambi si annoiano, e il loro rapporto è difficile».

(Silvano del Monte Athos in Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos La vita, la dottrina, gli scritti. Gribaudi, Torino 1978, pp. 431-432).

Ecco, questa è la vera incomunicabilità.

E tuttavia, prendendo un po' le parti del gallo, bisogna aggiungere che non sempre l'aquila sa parlare bene e con entusiasmo di quello che ha visto, per cui il gallo è un po' scusato se si annoia. Il tutto è riespresso da una battuta - la riporto per tradizione orale - attribuita al card. Giacomo Biffi in una conferenza. Alla solita domanda/obiezione che la Chiesa non sa parlare all'uomo di oggi e che bisognerebbe ripensare il linguaggio ecc., il cardinale rispose: «Guardi, non è questione di linguaggio, è questione di temperatura» (cioè di fervor in Spiritu di chi parla). Per cui, care aquile, prendete provvedimenti!
 
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Dov'è la malizia? Ma come! I Domenicani non sono predicatori? E allora come si fa a predicare se si pensa che il linguaggio della Chiesa non è comprensibile o per lo meno non è simpatico?
In realtà la malizia di questo mese è "incompiuta" - come la Sinfonia n. 8 in Si^m di Franz Schubert -, in quanto a questo disagio comunicativo si associano certe espressioni sulla predicazione oggi ricorrenti inter nos, le quali, se oltrepassano un certo limite, fanno arrivare la predicazione alla frutta, per cui tale, se il Signore vorrà, sarà il titolo della prossima malizia conclusiva del discorso: "Quando la predicazione è alla frutta".
Fra Riccardo Barile o.p.




QUANDO LA PREDICAZIONE È ALLA FRUTTA   versione testuale
ovvero quando nella notte nera tutte le vacche sono nere
 
 

La frase che in una notte nera tutte le vacche sono nere è di Georg Wilhelm Friedrich Hegel († 1831) - Fenomenologia dello spirito - ed è in riferimento polemico al concetto di assoluto di Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling († 1854), che secondo Hegel sarebbe talmente identificante da annullare ogni diversità.

Al di là delle polemiche di questi filosofi - ossessione, bersaglio e croce dei teologi cattolici venuti un po' dopo di loro -, la frase assume spesso un senso generico per indicare un discorso nel quale si tende ad annullare le differenze, producendo errori talvolta, inattività più volte, confusione sempre.
Qualcosa del genere capita con il troppo ripetere certe frasi o insistere su di esse al riguardo della predicazione, con la conseguenza che tutto diventa predicazione e a questo punto non si sa più che cosa sia la predicazione. Anzi, non si sa più che cosa fare. E così la predicazione arriva alla frutta.
 
La verità è a metà strada
Il discorso è complicato, poiché si tratta di frasi - e di atteggiamenti interiori e pratici - che hanno indubbiamente del vero che va accolto. Il guaio è quando frasi e azioni conseguenti vengono assolutizzate.
Quali sono tali frasi o impostazioni? Sono tante e, tra le tante, eccone qualcuna.

Il riferimento al XIII secolo.
Per i Frati Predicatori è importante perché è il tempo della nascita e della primitiva espansione, ma soprattutto è il tempo in cui l'Ordine - in verità insieme ad altri - risolse nella Chiesa la "crisi" della predicazione. Guardare a queste origini dà speranza, ma a patto di rendersi lucidamente conto che la situazione pastorale ed ecclesiale al riguardo è praticamente capovolta: oggi non c'è più la crisi della predicazione come al secolo XIII - quasi tutti i ministri, per grazia di Dio, predicano -, per cui il nostro ruolo va ripensato; oggi la predicazione cultuale, cioè all'interno delle celebrazioni liturgiche, è largamente maggioritaria rispetto al secolo XIII e dunque modi, programmi, interventi ecc. sono da rivedere. Non sempre si ha il coraggio di intraprendere questa analisi e ci si consola di frasi fatte.

La liturgia è predicazione.
Il primato della liturgia non è in discussione. Si tratta solo di vedere se basta la liturgia senza una predicazione aggiunta. Intendiamoci: in contesti limite di una persecuzione o di una chiesa ridotta al silenzio, la liturgia ha mantenuto in vita la comunità cristiana. Ma è questa la condizione normale presupposta dalla frase del titolo? Certo, la frase in parte è vera. Infatti, benché la liturgia sia «principalmente culto della maestà divina, contiene tuttavia anche una ricca istruzione per il popolo fedele» (SC 33).
Resta però vero che «la liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa» e prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia «è necessario che siano chiamati alla fede e alla conversione», appunto con la predicazione, la quale poi, in forma più estesa della liturgia, continua in tutto il corso della vita cristiana (SC 9). Dunque celebrare la liturgia non basta: ci vogliono altre forme di ministero della parola. Che senso ha partecipare alla liturgia e non conoscere il Catechismo della Chiesa Cattolica? Ed è proprio perché la liturgia ha da essere quel culmine che deve essere, che chi celebra la liturgia dovrà anche darsi da fare per spiegare altrove il catechismo.

La vita comune è predicazione.
Certo la vita comune offre una testimonianza positiva e, inversamente, la mancanza di unità in Cristo indebolisce il messaggio, tant'è vero che la divisione dei cristiani è un ostacolo alla corsa della Parola nel mondo. Ma la vita comune non è una parola esplicita e vivere insieme non è di per sé essere predicatori, altrimenti i Certosini sarebbero anch'essi "ordine dei predicatori" (per cui, sia concesso, quelle domenicane non sono "Monache predicatrici", ma "Monache dell'Ordine dei Predicatori"). A parte l'equivoco che la vita comune è testimonianza cristiana non perché stiamo insieme tra di noi ma perché stiamo insieme a Gesù Cristo, resta l'indicazione del Signore Gesù quando "costituì" i Dodici: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Dunque il "mandarli a predicare" non è incluso totalmente nello "stare con lui", anche se questa prima esperienza è fondamentale e genera la predicazione: non da sola, però, ma in forza dell'invio!

Dare la parola agli altri è predicazione.
Quanti profeti dell'AT e quanti apostoli del NT hanno dato la parola ai poveri e ai piccoli di fronte ai potenti di questo mondo! Ma hanno dato tale parola all'interno della loro attività di proferire la parola. L'atteggiamento non è stato: "Adesso noi stiamo zitti, parlate voi!".

Il silenzio è predicazione.
Come non ricordare l'esigenza di ascoltare in silenzio Dio che parla, prima di parlare noi di Dio? E ad un altro livello, come non ricordare i tre amici di Giobbe venuti per consolarlo, ma poi rimasti in silenzio accanto a lui «per sette giorni e sette notti» (Gb 2,13) prima di iniziare il dialogo? Oggi qualcuno insiste sul silenzio a fronte di situazioni che non si comprendono o sono troppo dolorose per far cadere su di esse una parola. Un qualche silenzio è anche esigito dai tempi dell'acquisizione di una cultura all'interno della quale annunciare il vangelo (ascoltare il mondo). Ma sembra chiaro - non per tutti lo è - che questo silenzio non può dirsi predicazione, ma semmai preparazione alla predicazione.
 
Anche l'equivoco è a metà strada
Il termine "predicare/predicazione/predica" deriva dal verbo latino praedicare, «composto dalla preposizione prae "davanti" e da dic-are, derivato da dic-ere "dire" mediante una "a" che aggiunge valore intensivo o durativo» (Remo Bracchi, voce Etimologie in Dizionario di Omiletica, LDC - Velar 1988, p. 114). Dunque la predicazione non solo è una parola esplicita, ma di una certa intensità in se stessa e nel predicatore (cattolicamente è anche un ministero che esige un "mandato").
L'atteggiamento primario del predicatore dovrebbe essere, più o meno: «Dopo aver riflettuto, parlerò ancora, sono pieno come la luna nel plenilunio» (Sir 50,6), «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16), «Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo"» (Mc 1,14-15).

Ciò di fronte alle culture comporta non solo lo starle ad ascoltare, ma il coraggio di annunciare qualcosa di nuovo che può presentarsi apparentemente estraneo alle culture stesse; di fronte agli uditori comporta addirittura richiederne la conversione, se è vero che la predicazione del NT «non ha nulla a che vedere con una teoria che si è liberi di ammettere; essa esige dall'uditorio un impegno, perché, secondo il loro senso biblico, parola e verità hanno valore di vita. Ogni predicazione che non termina in un appello alla penitenza corre il rischio di cessare di essere vangelo per diventare conferenza» (Audusseau - Léon-Dufour in Dizionario di Teologia biblica, Marietti, Torino 1965, 858-859).

Tutto ciò non sussiste allo stato puro e al 100%: va armonizzato con la celebrazione della liturgia all'interno della comunità cristiana, con l'ascolto non solo di Dio ma della cultura in cui ci si trova (anche questo è un ascolto di Dio, sebbene in diverso modo), con il dare la parola agli altri ecc. Insomma, va vissuto con il tipico stile cattolico che nulla scarta e tutto compone e armonizza gerarchicizzando.

Ma appunto qui c'è il "crinale": quale è la giusta gerarchia? È ovviamente la giusta proporzione. E quale è la giusta proporzione? Si è predicatori e c'è predicazione - anche se si svolge un'attività più sedentaria di studio - quando le frasi riportate sopra stanno al di sotto del 50% nella presentazione della nostra vita, nelle attività e negli "affetti". 
Se passano il 50% allora l'intensità dell'etimologia del termine "predicazione" e dei suoi fondamenti biblici è snervata e ciò avviene quando prendono il sopravvento attenzioni tipo: ascoltiamo il mondo, diamo la parola agli altri, stiamo in silenzio perché non comprendiamo o non siamo sufficientemente aggiornati, soprattutto affiniamo la testimonianza comunitaria approfondendo come si fa ad essere amici ecc. Altro che "valore intensivo o durativo" aggiunto al semplice "dire"!

Quando questi fattori - peraltro giusti e perseguibili - prevalgono, la predicazione è alla frutta. Che se poi superano l'85%, allora è al caffè.
 
 
 
Fra Riccardo Barile o.p.






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