iL MALE MINORE NON ESISTE E SE ESISTE PORTA AL MALE

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Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:03

  Il “male minore” porta Male (1° parte: Male minore, nuovo nome della barbarie?)




01 male


L’argomento del “male minore” è un argomento che puntualmente salta fuori quando vi sono da prendere determinate decisioni politiche o legislative. I favorevoli al “male minore” si pongono sulla linea del “cedere per non perdere”, sulla necessità di “limitare i danni”. Chi sposa questa prospettiva afferma che è doveroso scegliere un “male minore” se questo può servire a evitare un “male maggiore”.

 

INDICE:


       1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?


Male minore e “nuovi diritti” legalizzati

2) Male minore e aborto

3) Male minore e fecondazione extracorporea

4) Male minore e divorzio

5) Male minore e contraccezione artificiale


Male minore e “nuovi diritti” reclamati


6) Male minore e matrimonio gay

7) Male minore e droga libera

8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito

9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico


10) Conclusione


              Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi

 

1) “MALE MINORE”, NUOVO NOME DELLA BARBARIE?


L’argomento del “male minore” è un argomento che puntualmente salta fuori quando vi sono da prendere determinate decisioni politiche o legislative. I favorevoli al “male minore” si pongono sulla linea del “cedere per non perdere”, sulla necessità di “limitare i danni”. Chi sposa questa prospettiva afferma che è doveroso scegliere un “male minore” se questo può servire a evitare un “male maggiore”. Oppure, trovandosi di fronte a due mali, si afferma l’obbligo di scegliere il minore perché bisogna avere il coraggio di “sporcarsi le mani”, mentre non scegliere affatto è considerata una condotta da irresponsabili.


02 Hannah ArendtTra coloro che si sono espressi contro la teoria del “male minore” vi è senz’altro la scrittrice e filosofa tedesca Hannah Arendt, famosa è la sua affermazione: “Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male”.


Nel 1940 la Arendt, di origini ebraiche, è costretta a fuggire in America per sottrarsi alla persecuzione nazista. Successivamente, nei primi anni Sessanta, ha la possibilità di seguire a Gerusalemme, come inviata del settimanale New Yorker, tutte le centoventi sedute del processo a Adolf Eichmann, il criminale nazista responsabile della deportazione di milioni di ebrei. Il resoconto del processo e le considerazioni della scrittrice saranno raccolte nel libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, pubblicato nel 1963, dove, con l’argomento del “male minore”, Arendt riesce a spiegare come i “buoni cittadini” possano essere resi partecipi di politiche del male.

L’idea espressa da Arendt è quella secondo cui i Consigli ebraici, optando ogni volta per il male minore della mitigazione degli orrori nazisti, avevano inconsapevolmente contribuito alla distruzione del loro stesso popolo e, in ultima analisi, alla loro stessa rovina; mentre se si fossero organizzati, non collaborando con i tedeschi nel tentativo di moderare le loro politiche, avrebbero potuto avere più chances di sopravvivenza. In altre parole, con l’intento di salvare se stessi e altri ebrei, ebrei eminenti – definiti dalla scrittrice “aiutanti delle SS” e “strumenti degli assassini” – avevano collaborato con i nazisti delle nazioni occupate, lasciando che moltissimi di loro fossero deportati e uccisi:


“Ad Amsterdam come a Varsavia, a Berlino come a Budapest, i funzionari ebrei erano incaricati di compilare le liste delle persone da deportare e dei loro beni, di sottrarre ai deportati il denaro per pagare le spese della deportazione e dello sterminio, di tenere aggiornato l’elenco degli alloggi rimasti vuoti, di fornire forze di polizia per aiutare a catturare gli ebrei e a caricarli sui treni e, infine, ultimo gesto, di consegnare in buon ordine gli inventari dei beni della comunità per la confisca finale”


I capi ebraici erano gli unici a conoscere il segreto della destinazione finale delle deportazioni e, non informando le future vittime, anche quando ispirati dal senso di pietà, si trasformarono nei signori della vita e della morte:


“La verità vera era che sia sul piano locale sia su quello internazionale c’erano state comunità ebraiche, partiti ebraici, organizzazioni assistenziali ebraiche. Ovunque c’erano ebrei, c’erano stati capi ebraici riconosciuti e questi capi, senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra…


La pura verità, è che se il popolo ebraico fosse stato disorganizzato e senza capi ci sarebbero stati caos e miseria, ma il numero totale delle vittime difficilmente avrebbe raggiunto i 4,5-6 milioni di persone”.


Le accuse mosse da Arendt alle élites ebraiche scatenano immediate e aspre polemiche: Arendt viene definita un’antisionista priva di compassione e di obiettività, un’ebrea affetta da odio verso se stessa che confonde perversamente le vittime con i carnefici. Le autorità ebraiche, invece, vengono da più parti giustificate e difese in nome della loro scelta per il male minore. La filosofa tedesca ribatte alle critiche affermando che, se ogni resistenza vera e propria era irrealizzabile, c’era pur sempre la possibilità di “non fare niente”, e in quella circostanza “non fare niente” era proprio ciò che i capi ebraici avrebbero dovuto fare.


Il “male minore” si incontra anche nelle risposte di Eichmann durante le fasi del processo a suo carico: siamo scesi a patti con il diavolo senza vendergli l’anima; noi che figuriamo colpevoli oggi, siamo però stati i soli a restare al nostro posto per evitare che le cose andassero anche peggio, mentre coloro che non hanno fatto nulla si sono sottratti alle loro responsabilità, pensando solo a se stessi, alla salvezza delle loro anime.


Benché l’accusa israeliana cerchi di dipingere Eichmann come il mostro responsabile della morte di milioni di ebrei:


“L’assassino di un popolo”, “un nemico del genere umano… nato uomo ma vissuto come una belva nella giungla… che non merita più di essere chiamato uomo”, un uomo che “ha commesso crimini orrendi, che non hanno nulla di umano perché sono al di là della frontiera che separa l’uomo dalla bestia”, e “che agì con entusiasmo, con piena soddisfazione e con passione fino alla fine”.

Arendt, al contrario, lo descrive come “l’incarnazione dell’assoluta banalità del male”. Si vuole farne uno Iago, un Macbeth, un Riccardo III, vi si vuole vedere una profondità diabolica, perversa, demoniaca – constata polemicamente la filosofa -, invece è un uomo qualunque, un piccolo borghese, al massimo un po’ codardo, che, non diversamente da tanti altri “bravi padri di famiglia”, non guarda troppo a fondo nei compromessi che è costretto a fare per mandare avanti la propria esistenza, cogliendo in essi l’occasione per fare carriera.


03 adolf eichmann al processoCiò che la scrittrice scorge nel criminale nazista è la dicotomia tra la persona e gli atti compiuti, nel senso che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”. L’immagine che Eichmann offre di sé è, infatti, ben lontana da quella di un esaltato, di un folle, di una persona diabolica mossa dal puro piacere di compiere atti malvagi, egli appare piuttosto un uomo docile, un normale funzionario, che giustifica il ruolo cruciale avuto nell’esecuzione dell’olocausto con il fatto di aver semplicemente svolto il suo lavoro, “di avere eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra”. Una motivazione che, nel corso del dibattimento processuale, uscirà spesso dalla sua bocca:



“Si viveva in un’epoca di crimine legalizzato dallo Stato. La responsabilità era di coloro che davano gli ordini. Io sentivo che la mia adesione al nazionalismo che veniva predicato significava fare il mio dovere secondo il mio giuramento”.

“Dovevo obbedire, dovevo farlo. Un uomo può essere messo in una condizione che può portare alla follia e nella quale basta un niente, nemmeno un atto premeditato, per fargli tirare fuori una pistola”.

E quando il procuratore gli domanda: “In coscienza, si ritiene colpevole di complicità nell’assassinio di migliaia di ebrei, sì o no?”, Eichmann risponde:



“Sul piano umano, sì, perché sono colpevole di aver organizzato le deportazioni”, ma “i rimpianti sono inutili perché non servono a resuscitare i morti. I rimpianti non hanno senso… è più importante trovare i modi per impedire che ciò accada nel futuro…

Tengo a dichiarare che considero questo assassinio, lo sterminio degli ebrei, uno dei crimini più orrendi della storia dell’umanità. Dichiaro, per concludere, che già allora io stesso pensavo che questa soluzione violenta non fosse giustificata… La consideravo un atto mostruoso. Ma ero legato al mio giuramento d’obbedienza e dovevo occuparmi nel mio settore dell’organizzazione dei trasporti. Non ero sciolto dal mio giuramento. Quindi non mi sento responsabile, nel profondo di me stesso. E mi sento liberato da ogni colpa. Ero sollevato per non aver avuto nulla a che fare con lo sterminio fisico. Ero fin troppo occupato dal lavoro che mi avevano ordinato. Ero capace e svolgevo il mio lavoro dietro una scrivania. Facevo il mio dovere conformemente agli ordini. Non ho mai avuto rimproveri per non aver compiuto il mio dovere o di aver mancato in qualcosa nel fare il mio dovere. E ancora una volta, oggi, lo voglio ripetere”.


Disgraziatamente – nota Arendt – Eichmann non era un caso isolato, uomini del suo stampo si potevano incontrare in moltissimi altri burocrati, normali “padri di famiglia”, tedeschi “medi”, una massa compatta di uomini “normali” i cui atti erano però mostruosi:



“Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali.

Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.


Il problema etico più inquietante – osserva in sostanza Arendt – non è rappresentato tanto dagli ideatori della politica criminale, da chi ha commesso il male “per amore del male”, bensì dal grande numero di coloro che non erano né demoni né fanatici e che, semplicemente, non avevano le motivazioni per rifiutarsi di agire secondo quanto stabilito dalla legge. Nell’ambito della collaborazione dei tedeschi qualunque, soprattutto di quelli impegnati nel servizio civile, Arendt riesce a dimostrare come “l’argomento del male minore” sia diventato il più importante “armamentario terrorista e criminale”, e come questo sia stato usato “per abituare i funzionari e la popolazione ad accettare in generale il male in sé”, al punto tale per cui “chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male”.


04 Zygmun BaumanLa tesi della filosofa tedesca sarà ripresa dal filosofo polacco di origini ebraiche Zygmunt Bauman (“Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 1992), secondo il quale non ci vuole niente di più di questo perché si dia il male: uomini e donne qualunque che

“continuino ad assecondare il gioco della storia con i dadi truccati di una ragione che destituisce di valore ogni pretesa di senso, per accordarsi all’universalità del calcolo costi-benefici”.



05 Eyal WeizmanPiù di recente, le osservazioni di Arendt sono state richiamate e calate nell’odierno contesto politico da Eyal Weizman – un architetto israeliano che insegna all’University of London -, che nel 2009 ha pubblicato con Nottetempo un libretto intitolato proprio “Il male minore”. Weizman cerca di svelare cosa si nasconde dietro il concetto di “male minore” nell’uso politico contemporaneo, e si chiede se la cultura del male minore può giungere a giustificare la violenza, fino a farla persino proliferare:


“Nella nostra postutopica cultura politica contemporaneail termine [male minore] è così profondamente naturalizzato e invocato in una serie di contesti incredibilmente diversi tra loro – dalla morale individuale situazionale alle relazioni internazionali, passando dai tentativi di governare le economie della violenza nel contesto della ‘guerra del terrore’ a quelli degli attivisti umanitari e dei diritti umani di destreggiarsi in mezzo ai paradossi dell’assistenza – che esso sembra aver completamente preso il posto che precedentemente era riservato al termine ‘bene’”.

L’architetto israeliano porta quale esempio emblematico di questa visione, nell’ambito della cosiddetta “guerra del terrore”, il libro “Il male minore” di Michael Ignatieff, studioso di diritti umani e vicesegretario del Partito Liberale Canadese:


“Ignatieff propone che gli stati liberali stabiliscano meccanismi che regolino la violazione di alcuni diritti e consentano ai loro servizi di sicurezza di impegnarsi in forme di violenza extra-giuridica – vale a dire ‘mali minori’ – al fine di evitare o limitare potenziali ‘mali maggiori’ (Ignatieff ritiene per esempio che gli omicidi mirati rientrino ‘nel legittimo contesto del male minore’ poiché si spiegano come alternativa alla punizione collettiva).

Questi esecutori postmoderni dovrebbero dunque calcolare vari generi di misure distruttive in maniera utilitaristica, non in relazione al male che producono ma a quello che prevengono. Questo dovrebbe essere sufficiente a domandarci se il ‘male minore’ non sostituisca la ‘banalità del male’ come forma contemporanea di esecuzione”.

Una siffatta “economia della violenza” – osserva Weizman -, potrebbe originare gravi conseguenze, dato che “le questioni di violenza sono sempre imprevedibili”, ma anche pericolosi paradossi, con scenari di proliferazione della violenza invece della sua prevenzione:


“Il presunto male minore potrebbe essere più violento della violenza a cui si oppone e potrebbe non esserci fine alle sfide che derivano dall’impossibilità di calcolo”.

Inoltre, “una misura meno brutale è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabileQuando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente. […] alla fine, potrebbero essere commessi più mali minori, con il risultato di un grande male raggiunto cumulativamente”.

Optare per il “male minore” – afferma dunque Weizman – conduce all’accettazione e normalizzazione di un determinato male e, quindi alla sua reiterazione e diffusione, per questo egli arriva a suggerire che il “male minore” possa essere in realtà “il nuovo nome della nostra barbarie”.

L’architetto nota, inoltre, che proprio l’argomento del “male minore” è stato spesso usato dai regimi totalitari. Famoso è il detto di Stalin – ricordato anche da Arendt (“Le uova alzano la voce”) – secondo il quale “non puoi rompere le uova senza fare una frittata”, vale a dire: a forza di rompere le uova prima o poi si produrrà necessariamente la frittata desiderata. Con il suo slogan Stalin vuole insegnare che l’edificazione del regime della vera giustizia tra gli uomini si può realizzare solo attraverso grandi sacrifici di vite umane. “La strada verso l’utopia (intesa come risultato di bene) è lastricata di mali minori”, commenta Weizman.

La frase dell’architetto israeliano richiama alla mente il noto proverbio “Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”, che oltre a calzare a pennello con il nostro ragionamento, ci mostra anche qual è la meta finale di chi accetta di compiere il male a “fin di bene”, di scendere cioè a compromessi con il male, seppure con la buona intenzione di prevenire un male più grande: la meta finale è l’inferno, la dannazione eterna. Uno scenario ben rappresentato anche dal seguente racconto:


La tentazione


06 tentazione


C’era una volta un eremita così perfetto che aveva già un piede in Paradiso.

Viveva di quasi niente in una grotta scavata nei fianchi di una montagna verde dove raccoglieva frutti selvatici, bacche e qualche radice per il pranzo della domenica.

    • “Come posso tentarlo?”, si chiedeva continuamente il diavolo.


Lo spiava, fiutava le sue impronte, lo esaminava dalla testa ai piedi per trovare il minimo punto debole. Niente. Pestava i piedi, si arrabbiava, imprecava, finché decise di passare all’attacco diretto.

Si presentò all’eremita, che stava rammollendo un pezzo di pane raffermo nell’acqua della sorgente.


    • “Salve”, gli disse Satana. “Sai chi sono io?”.

    • “Il diavolo”, risposte tranquillamente l’eremita.

    • “Dio mi ha dato il permesso di tentarti. Vorrei che tu commettessi un peccato grave”.

    • “Parla”, disse l’eremita. “Ti ascolto”.

    • “Assassina qualcuno”.

    • “No. È fuori discussione”.

    • “Allora assali una donna”.

    • “È una cosa bestiale e disgustosa. Non lo farò mai. Vattene, diavolo. Non hai fantasia”.

    • “Almeno bevi un sorso di vino. Non è neanche un peccato. Accontentami”.

    • L’eremita sospirò: “Va bene. Un sorso non è nulla di male”.


Immediatamente gli comparve tra le mani una brocca di vino fresco e frizzante. Ne bevve un sorso. Prese fiato e ne bevve un altro.


    • “Uhm”, disse. “È gradevole”. Bevve un altro lungo sorso e disse: “È forte… È diabolico!”.


Cominciò a ridere stupidamente. Poi riprese a bere, malfermo sulle ginocchia.


Una ragazzina saliva per il sentiero.



    • “Buongiorno sant’uomo”, disse. “Ti ho portato qualche mela e del pane”.


Ululando, con gli occhi annebbiati, l’eremita afferrò la ragazzina per i capelli e la sbatté a terra. La poverina urlò con tutte le sue forze. Suo padre, che lavorava nei campi, la udì e accorse. L’eremita vedendo arrivare l’uomo afferrò una grossa pietra e lo colpì con tutte le sue forze.


Quando ritornò in sé, l’eremita vide l’uomo che giaceva ai suoi piedi in un lago di sangue.



    • “Credo sia morto”, disse Satana, con aria virtuosa. Raccolse un fiore e se lo mise in bocca.

    • L’eremita si gettò in ginocchio inorridito: “Signore Dio, che cosa ho fatto?”.

    • Il diavolo rispose: “Di tre mali hai scelto il minore. Questo ti farà passare lunghe giornate in mia compagnia”.


Fischiettando, con le mani in tasca, si avviò. Dopo qualche passo si fermò, si voltò e come chiamasse un vecchio compagno di strada, disse:



    • “Allora, eremita, vieni?”.


Non esistono mali minori…


Il racconto mostra non soltanto che la scelta del male minore non ha prevenuto alcunché ma che, anzi, proprio quella scelta, la scelta del male minore, è stata decisiva per il verificarsi del male maggiore che altrimenti non ci sarebbe stato.

Come si è arrivati a questo disastroso epilogo e alla tragica sorte che alla fine attende il protagonista della storia (la dannazione eterna)? Ci si è arrivati solo dopo il cedimento alla tentazione diabolica, non a caso il titolo del racconto non è “il male minore”, ma appunto “La tentazione”.

La scelta tra “male minore” e “male maggiore” potrebbe dunque essere solo una tentazione? La risposta non può che essere sì perché in realtà, dal punto di vista morale, il “caso perplesso” non esiste. Alla voce “Minor male” del Dizionario di Teologia Morale (Editrice Studium, 1969) del Cardinale Pietro Palazzini, si legge:


“Di due mali scegliere e perciò compiere il minore non è lecito, se si tratta di due mali morali ossia di due operazioni che sono in se stesse violazione della legge morale. La tesi è evidente. Un male non diventa bene o lecito, perché c’è un altro male più grande, che si potrebbe scegliere. Il problema morale, proposto nella domanda ‘Se è lecito o obbligatorio scegliere di due mali il minore’, suppone una cosa, che in realtà non può esistere, cioè il cosiddetto caso perplesso, nel quale l’uomo sarebbe costretto a scegliere tra due atti peccaminosi, così che se non scelga l’uno, necessariamente debba scegliere l’altro. Un tale caso moralmente è impossibile. Perché l’uomo può sempre astenersi da qualsiasi atto positivo, che importa la scelta di un mezzo. L’uomo può sempre non fare, se fare l’una o l’altra cosa sia sempre peccato; e questo non fare non è peccato in sé (p. es., non procurare l’aborto).

Se da questa omissione seguono, in virtù di circostanze, gravi danni, p. es. la morte della madre, o della madre e del bambino insieme, l’uomo non è responsabile per questi danni, perché nessuno è responsabile per le conseguenze della condotta da lui seguita quando non c’era possibilità d’agire senza peccare.

Scegliere il minor male è lecito, quando questo minor male non è in sé un male morale (peccato), ma è o un male puramente fisico o un atto od omissione in sé buona o indifferente, dal quale o dalla quale però, nel caso concreto, seguirà un effetto accidentale cattivo, meno grave però di quello che produrrebbe un altro mezzo; p. es. di due farmaci, che producono tutti e due un effetto cattivo sulla salute, ma che sono ugualmente utili per me, io devo scegliere il meno nocivo, perché ho l’obbligo di non recare nocumento alla mia salute”.


La convinzione che tra due mali si debba scegliere il minore e il fatto che in questa scelta, che si crede obbligata o quantomeno necessaria, si racchiuda invece una tentazione, è stata svelata anche da Mary McCarthy, la scrittrice amica della Arendt, la quale osserva: “Se qualcuno ti punta addosso una pistola e ti dice ‘Uccidi il tuo amico o io uccido te’, ti sta semplicemente tentando”.

Anche Weizman, al pari di Arendt, arriva alla conclusione secondo cui sia preferibile “non fare niente” piuttosto che collaborare con il male. Scrive infatti Weizman: quando nient’altro è possibile


“fare niente è l’ultima forma effettiva di resistenza, e le conseguenze pratiche del rifiuto, e perciò del caos, sono quasi sempre migliori, se abbastanza persone rifiutano […] Dobbiamo avere il coraggio di pensare oltre l’economia e i calcoli della violenza e della sofferenza, oltre l’ordine aritmetico ‘del più e del meno’ che regola lo scambio dei beni e della sofferenza umana, oltre le interminabili negoziazioni, complessità, contingenze e complicità del pragmatismo miope della ‘politica del male minore’”.


Meglio il caos piuttosto che il compromesso con il male, dicono in sostanza sia Arendt che Weizman.

Dunque, con il male non si scende a patti, nemmeno se si presenta in forma “minore”, o mascherato da atto di giustizia, o come prevenzione di un male più grande, con esso non si tratta a costo di morirne, come insegna da sempre anche il cristianesimo. Scrive San Paolo nella Lettera ai Romani:


“Non facciamo il male affinché ne venga il bene” (Rm 3,8).


“Aborrite il male e attenetevi fermamente al bene” (Rm 12,9).


“Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rm 12,21).


Parole riprese da Giovanni Paolo II nel Messaggio per la celebrazione della 28° giornata mondiale della pace:


“Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male”.


La scelta del minore dei mali, che di fatto si traduce nell’imboccare la scorciatoia del compromesso, è quindi una tentazione diabolica che non solo non previene il male maggiore, ma a esso prepara la strada e spalanca la porta. Dopodiché il male comincerà a chiedere, di volta in volta, sempre di più (pendio scivoloso) insinuandosi dall’ingresso nelle stanze vicine, e poi da queste in tutti gli altri ambienti, finché non diventerà il legittimo padrone dell’intero edificio.


07 Ernest HelloQuesta verità secondo cui, dal cedimento alla tentazione diabolica – mediante l’accettazione di scendere a patti con il male – si arrivi all’inesorabile vittoria finale del male, è stata evidenziata con sagace ironia dallo scrittore francese e apologista cristiano Ernest Hello (1828 – 1885) che, nell’opera L’homme del 1872, così scrive:



“Lo spirito del male dice: ‘Riposati. Che farai nella mischia? Altri combatteranno abbastanza. Tu che sei savio, non iscomodare le tue abitudini. Il male, continua il diavolo, è sempre esistito ed esisterà sempre nelle stesse proporzioni. I pazzi che vogliono combatterlo non guadagnano nulla e perdono il loro riposo. Tu che sei savio, dà ad ogni cosa la sua parte e non dichiarare a niente la guerra. È impossibile illuminare gli uomini. Perché dunque tentarlo? Fa pace con le opinioni che non sono tue. Non sono esse tutte ugualmente legittime?’.

Così parla il demonio; e l’uomo separato dalla verità, perché ha paura di lei, che è l’Atto puro, l’uomo, insensibilmente e a sua insaputa, si unisce all’errore […] discende a poco a poco, durante il suo sonno, in quell’indifferenza glaciale, placida e tollerante, che non s’indigna di niente, perché non ama niente, e che si crede dolce perché è morta.

E il demonio vedendo quest’uomo immobile, gli dice: ‘Tu gusti il riposo del savio’; vedendolo neutro tra la verità e l’errore, gli dice: ‘Tu li domini entrambi’; vedendolo inattivo, gli dice: ‘Tu non fai del male’; vedendolo senza risorsa, senza vita, senza reazione contro la menzogna e il male […], gli dice ‘Io t’ho ispirato una filosofia savia, una dolce tolleranza, tu hai trovato la calma nella carità’, perché il demonio pronunzia spesso le parole di tolleranza e di carità.

L’uomo vivo, l’uomo attivo che ama e che è unito all’unità, afferra il rapporto delle cose, e unisce fra loro le verità.

L’uomo morto ha perduto il senso dell’unità. Non unisce più verità fra di loro: non concilia più, per la contemplazione dell’armonia, le cose che devono esser conciliate, le cose vere, buone e belle.

Ma in cambio, compone una parodia satanica dell’unità; cerca di amare insieme il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto; non sempre si adira, almeno in apparenza, se si affermano i dogmi, ma preferisce che si neghino.

Non avendo voluto unire ciò che è unito, credere a tutta la verità, conciliare quel che è conciliabile, cerca di unire ciò che è necessariamente ed eternamente contradittorio, di credere insieme alla verità e all’errore, di conciliare il Sì e il No; non avendo voluto amare Dio tutto intiero, cerca di amare Dio e il diavolo: ma è l’ultimo che preferisce”.

“Che si direbbe d’un medico il quale, per carità, avesse riguardi verso la malattia del suo cliente? Immaginate questo tenero personaggio. Direbbe al malato: Dopo tutto, amico mio, bisogna essere caritatevole. Il cancro che vi corrode è forse in buona fede. Suvvia, siate gentile, fate con lui un po’ d’amicizia; non bisogna essere intrattabili; fate la parte del suo carattere. In questo cancro, esiste forse una bestia; essa si nutre della vostra carne e del vostro sangue, avreste il coraggio di rifiutarle quanto le occorre? La povera bestia morirebbe di fame. Del resto, io sono condotto a credere che il cancro è in buona fede e adempio presso di voi ad una missione di carità.

È il delitto del secolo decimonono quello di non odiare il male, e di fargli delle preposizioni. Non vi ha che una proposizione da fargli, è di scomparire. Ogni accomodamento concluso con lui somiglia neppure al suo trionfo parziale, ma al suo trionfo completo, perché il male non sempre domanda di scacciare il bene, domanda il permesso di coabitare con lui. Un istinto segreto lo avverte che domandando qualche cosa, domanda tutto. Appena non è più odiato, si sente adorato”.

Il presupposto secondo cui non sia lecito fare il male, nemmeno a fin di bene, nasce dal fatto che ci sono azioni che sono sempre cattive, lo sono in se stesse e perciò la loro natura “intrinsecamente cattiva” non cambia al cambiare del fine e delle circostanze, per questo motivo non è mai lecito compierle. Scrive Giovanni Paolo II nell’Enciclica Veritatis Splendor:


“Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati ‘intrinsecamente cattivi’ (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Per questo, senza minimamente negare l’influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che ‘esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto’.

Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto del dovuto rispetto della persona umana, offre un’ampia esemplificazione di tali atti: ‘Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l’intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono, e ledono grandemente l’onore del Creatore”.

“Insegnando l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi – prosegue il papa -, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra Scrittura. L’apostolo Paolo afferma in modo categorico: ‘Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio’ (1Cor 6,9-10).

Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti ‘irrimediabilmente’ cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: ‘Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) – scrive sant’Agostino -, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?’.

Per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto ‘soggettivamente’ onesto o difendibile come scelta”.


L’assunto “fare il bene, non fare il male”, non è di certo una prerogativa del cristianesimo ma una caratteristica innata dell’essere umano, ovvero della cosiddetta “legge morale naturale”. Le prime riflessioni sul “diritto naturale” risalgono allo stoicismo greco, che riconobbe l’esistenza di un “diritto di natura” che non muta nel tempo e nello spazio, un diritto che, proprio per la caratteristica di appartenere alla natura umana, vale per tutti gli uomini.

“Bisogna fare il bene ed evitare il male” è il primo e fondamentale principio del diritto naturale. Da questo discendono altri doveri, anch’essi definiti dallo stoicismo greco, i quali sono nel contempo anche diritti: dare a ciascuno il suo (concetto di giustizia), onora il padre e la madre, non ledere alcuno, non fare all’altro quello che non vuoi patire tu (regola d’oro), valido anche nella sua accezione positiva: fai all’altro ciò che vuoi sia fatto a te, bisogna rispettare i patti. Si tratta di principi base della vita sociale, di attitudini che regolano i rapporti con gli altri, di dettami universalmente validi e conosciuti, per questo motivo su di essi non è ammessa ignoranza.

Anche San Paolo, nella Lettera ai Romani, parla di legge morale naturale “scritta nel cuore” dell’uomo:

“Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono” (Rm 2,14-15).


Quindi, i pagani, pur non avendo la legge rivelata (Dieci Comandamenti) sono lo stesso in grado – grazie all’uso della coscienza e della ragione – di distinguere il bene dal male e, perciò, di agire optando per il primo ed evitando il secondo, perché si tratta di  una prerogativa connaturale all’uomo (“scritta nel cuore”). Per questo motivo, nessun uomo può appellarsi al fatto che, non credendo egli in Dio, non sia tenuto a discernere il bene dal male e perciò autorizzato ad agire come gli pare e piace. Né uno Stato democratico e civile, chiamato a realizzare il bene comune, può fare a meno di considerare quest’istanza fondamentale e i principi che ne discendono, essendo essi alla base della vita sociale e del vivere comunitario. Non c’è bisogno quindi di essere credenti per stabilire, per esempio, l’iniquità dell’omicidio: uccidere una persona è chiaramente un atto contrario al diritto naturale. Ciò rende sicuramente valido il divieto di “pena di morte”, ma altrettanto validi saranno anche il divieto di aborto e quello di eutanasia.

Male minore e “nuovi diritti” legalizzati

Ora, nonostante la cattiveria intrinseca di certe azioni, che ogni persona provvista di ragione e di una coscienza funzionante è in grado di vedere, non v’è dubbio che negli ultimi quarant’anni della nostra epoca si sia assistito a un fiorire di leggi inique – volte a garantire i cosiddetti “nuovi diritti” -, che violano innegabilmente la legge morale naturale. Il fatto è ancor più grave se si considera che queste violazioni del diritto naturale sono potute avvenire grazie al contributo decisivo dei cattolici, proprio quei cattolici che dovrebbero avere una marcia in più nell’ambito del discernimento del bene dal male, visto che loro, oltre a possedere la legge morale naturale che a tutti è data, hanno in più la legge rivelata all’uomo da Dio in persona: i Dieci Comandamenti e il Vangelo. Per questo motivo i cattolici sono doppiamente responsabili della deriva etica consumatasi nella storia recente e ancora oggi prepotentemente in corso, doppiamente responsabili per il fatto di aver violato sia il diritto naturale che i Comandamenti di Dio.

Com’è stato possibile, in Paesi culturalmente avanzati e con alti livelli di civiltà come il nostro, arrivare all’introduzione di leggi barbare in violazione di principi naturalmente riconoscibili? E soprattutto, cos’è che ha portato i politici cattolici a dare il proprio voto e assenso a questi “nuovi diritti” iniqui e immorali? Tutto questo è potuto avvenire proprio grazie all’argomento oggetto della nostra riflessione: la tentazione, l’abbaglio, la scelta del “male minore”.

Ognuno dei “nuovi diritti”, introdotti nelle ultime quattro decadi, ha alla radice questa scelta nefasta: la scelta del male a fin di bene. Una scelta in cui il “bene” viene rimpiazzato dal “male minore” e l’istanza fondamentale “bisogna fare il bene ed evitare il male” – istanza su cui si gioca tutta l’esistenza umana sulla terra e quella eterna futura, sia che si creda in Dio oppure no – diventa semplicemente “bisogna scegliere il male minore per evitare il male maggiore”. In ciascuno dei “nuovi diritti” già introdotti, così come in quelli che si stanno reclamando a gran voce, vi è alla radice questo calcolo utilitaristico dei costi/benefici che prende in esame solo il presunto male (maggiore) che si previene, e non tiene per nulla in considerazione né il bene, né il male che la scelta del “male minore” produce.

Tuttavia, quando dalla teoria si passa alla verifica dei fatti, quando cioè si vanno a controllare i risultati prodotti da queste politiche del compromesso sui princìpi fondamentali, i nodi tornano tutti quanti al pettine. Si può, infatti, notare che il “male maggiore” che si doveva prevenire non è stato affatto prevenuto e che anzi, spesso, è stata proprio la legittimazione del “male minore” a preparare la strada al verificarsi del “male maggiore”. Inoltre – grazie all’effetto “normalizzante” prodotto dalla legalizzazione e grazie all’innescarsi del meccanismo del cosiddetto “pendio scivoloso” -, si è potuta registrare sia la reiterazione ed espansione del “male minore” di partenza, che la nascita di nuovi mali a esso conseguenti. Tutto questo ha portato al risultato finale di un “trionfo completo” del male – come direbbe Ernest Hello -, o di “un grande male raggiunto cumulativamente”, se usiamo le parole di Weizman.

Esaminiamo ora, uno per uno, i “nuovi diritti” che sono stati legalizzati, concentrandoci in particolare sulla situazione italiana. Partiremo per ciascuno di essi dalla radice (“male minore”) che ne ha determinato la legalizzazione, poi ci occuperemo di valutare le conseguenze che, di fatto, ne sono discese. (segue)

 




Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:05

Il “male minore” porta Male (2° parte: aborto)

01 - 194

2) MALE MINORE e ABORTO

Anche oggi, come al tempo di Eichmann, viviamo “in un’epoca di crimine legalizzato dallo Stato”, un’epoca dove le vittime sono catalogate come “rifiuti speciali”, i forni crematori si chiamano “inceneritori ospedalieri” e sono collocati, non all’interno di campi di sterminio sporchi e inumani, ma in cliniche private e ospedali pubblici, lindi e sterilizzati…


 

INDICE:

 

1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?

Male minore e “nuovi diritti” legalizzati

2) Male minore e aborto

3) Male minore e fecondazione extracorporea

4) Male minore e divorzio

5) Male minore e contraccezione artificiale

Male minore e “nuovi diritti” reclamati

6) Male minore e matrimonio gay

7) Male minore e droga libera

8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito

9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico

10) Conclusione

Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi

2) MALE MINORE e ABORTO

Il 22 maggio 1978, con la legge n. 194 il Parlamento italiano rende legale l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Tra le motivazioni che ne giustificano la legalizzazione spicca l’intenzione di porre fine alla “piaga sociale” dell’aborto clandestino, dove si contano milioni di aborti illegali e migliaia di donne che ci lasciano la salute e la pelle. In realtà sappiamo che i numeri erano stati gonfiati a dismisura per dare l’idea che ci si trovasse di fronte a una vera e propria emergenza nazionale, a cui lo Stato aveva il dovere di porre un freno. Una donna che vuole abortire, abortirà – dicevano -, e allora tanto vale fare in modo che possa farlo in sicurezza e condizioni igieniche adeguate all’interno di una struttura sanitaria.

L’aborto libero e assistito negli ospedali (male minore)  avrebbe così permesso di prevenire il far west dell’aborto clandestino e i conseguenti pericoli per la salute e la vita delle donne (male maggiore). Le cose, tuttavia, non sono andate come previsto perché, dopo quarant’anni di applicazione della legge, l’aborto clandestino c’è ancora – anzi, nel frattempo si è pure evoluto e perfezionato – e l’aborto legale non garantisce né benessere né salute alle donne che si trovano a dover fare i conti con una gravidanza indesiderata, essendo che i problemi fisici e psichici non sono legati alla clandestinità o alla gravidanza non voluta, ma alla pratica abortiva in sé[1].

Oltre all’innegabile fallimento degli obiettivi iniziali, si sono registrate anche altre conseguenze, la più grave delle quali è senz’altro l’aumento abnorme del numero degli aborti legali. La legalizzazione ha normalizzato l’atto abortivo banalizzandone la gravità. In questo modo l’aborto – che rimaneva pur sempre un atto immorale anche quando, dopo una decisione tormentata e in casi del tutto eccezionali, si ricorreva alla “mammana” -, è diventato una pratica sempre più diffusa e utilizzata come fosse un semplice strumento di controllo delle nascite.

02 - sindrome postabortoTra le altre conseguenze rilevate, che si cerca in tutti i modi di disconoscere, vi è senz’altro la sindrome post-abortiva femminile (avvalorata peraltro da un’abbondante letteratura scientifica), ma in misura ancora maggiore vi è la sofferenza del padre del bambino abortito, una sofferenza che si ripercuote sulla mascolinità, deresponsabilizzando e svirilizzando l’uomo, provocandogli conseguenze psicologiche varie, anche gravi[2]. Il dolore di colui il quale la legge esclude da ogni decisione in merito, avendo rimesso nelle mani della donna il potere assoluto di vita e di morte sul figlio concepito, sintomo del fatto che la legge sull’Ivg assieme al figlio ha “abortito” anche il padre.

Ma non è ancora tutto. Il disprezzo per il bambino concepito, propriamente insito nella legge sull’aborto – una legge che perviene alla tutela della salute della madre mediante l’eliminazione fisica del figlio -, ha portato al consolidamento di una disumanità sempre più ferina. In Italia ciò si è verificato nell’ambito delle Ivg clandestine (continuate a essere richieste e praticate anche dopo la 194) dove regnano business e speculazione. Le forze dell’ordine hanno puntualmente portato alla luce, nel corso degli anni, numerosi casi di abusi sulle donne e di pratiche raccapriccianti su bambini nati vivi dopo aborti tardivi praticati oltre i termini di legge, bambini eliminati in modo atroce e cruento: tritati, inceneriti, affogati nei wc…

04 Giubilini03 MinervaPiù di recente abbiamo avuto modo di assistere, ancora una volta, al funzionamento del “piano inclinato”, grazie a due studiosi italiani che hanno mostrato al mondo come sia possibile, sulla base dell’impianto logico della legge 194, spingersi persino più in là dell’aborto tardivo. I ricercatori Alberto Giubilini e Francesca Minerva hanno introdotto la definizione politically correct di “aborto post nascita”, per designare la plausibilità dell’uccisione di un figlio dopo essere stato partorito, ovvero l’ammissibilità dell’infanticidio.

Vi è poi da rilevare il paradosso che si è manifestato con l’evoluzione dell’aborto da chirurgico a farmacologico, dopo l’invenzione della pillola abortiva (Ru486). Grazie alla possibilità di firmare la richiesta di dimissione volontaria dall’ospedale dopo l’assunzione dell’Ru486, la donna viene catapultata direttamente al punto di partenza, cioè fuori dalla struttura sanitaria, quella struttura che era stata esplicitamente prevista per tutelare la sua vita e salute messa in pericolo dall’aborto fai-da-te. Con l’Ru486 l’aborto viene rispedito nella solitudine e nel privato, tradendo tutte le premesse che ne avevano giustificato la socializzazione.

Da ultimo, non si può non condividere l’opinione di quegli economisti che vedono proprio nella denatalità delle ultime quattro decadi l’origine della grave crisi economica che stiamo vivendo. Di questa contrazione demografica l’aborto è di certo responsabile, visto che grazie al suo ricorso è stata spazzata via in Italia un’intera generazione: più di 5 milioni e mezzo di figli. Una crisi caratterizzata dalla forte contrazione dei consumi, da una società sempre più vecchia e, perciò, con costi fissi sempre più elevati e la prospettiva di un sistema previdenziale e sanitario votato al collasso. Almeno finché il problema non verrà risolto dai promotori dei “diritti per tutti” con l’introduzione anche in Italia dell’eutanasia, che permetterà di eliminare anzitempo, prima della normale “scadenza” naturale, un buon numero di persone vecchie, malate e “inutili”. Appare più che mai profetica la considerazione fatta da Arendt secondo cui chi ammette il “male minore” lavora per la distruzione del suo popolo, per la sua stessa rovina.

Come non riconoscere poi – per rimanere entro le considerazioni della filosofa tedesca -, la stretta analogia che passa tra la “banalità del male” e la “banalizzazione dell’aborto”? Arendt dice che l’argomento del “male minore” ha “abituato la popolazione ad accettare il male in sé”. Lo stesso è accaduto con il “male minore” dell’aborto legale: l’uccisione deliberata di un figlio nel grembo materno è diventata un atto normale e banale, quando non addirittura un diritto sacrosanto e intoccabile della donna. Anche l’aborto legale ha messo in moto un vero e proprio “armamentario criminale”, provocando a livello mondiale un autentico genocidio, con la soppressione di più di un miliardo di innocenti mai nati. Un genocidio, tra l’altro, ancora prepotentemente in corso, ben più generalizzato e insidioso di quello consegnatoci dalla storia del Novecento. Più generalizzato, perché questo non si accanisce solo su un popolo, ma colpisce in maniera indiscriminata i bambini di ogni nazionalità; e più insidioso, perché l’orrore e i cadaveri non si vedono, né vi sono superstiti che possono testimoniare le atrocità subite ottenendo giustizia davanti a un giudice. Anche oggi, come al tempo di Eichmann, viviamo “in un’epoca di crimine legalizzato dallo Stato”, un’epoca dove le vittime sono catalogate come “rifiuti speciali”, i forni crematori si chiamano “inceneritori ospedalieri” e sono collocati, non all’interno di campi di sterminio sporchi e inumani, ma in cliniche private e ospedali pubblici, lindi e sterilizzati.

05 Kermit GosnellGrazie al “male minore” – afferma Arendt – il “nuovo tipo di criminale commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”. Sentiamo, in proposito, cosa ha dichiarato il cosiddetto “mostro di Philadelphia”, il ginecologo Kermit Gosnell, condannato all’ergastolo nel 2013 per l’uccisione tramite “decapitazione” – una  sforbiciata secca alla colonna vertebrale -, di un certo numero di bambini nati vivi dopo aborti tardivi praticati nella sua clinica:

“Non mi pento di quello che ho fatto, ero un cristiano e lo sono ancora. Il più grande peccato è il dolore di portare a termine una gravidanza indesiderata.

Come ho fatto a uccidere quei bambini? Erano vittime di una guerra più grande, perché la loro nascita e la loro sofferenza avrebbe rappresentato un danno maggiore. Non provo rimpianto per quello che ho fatto”.

E confrontiamolo con le dichiarazioni del criminale nazista Adolf Eichmann:

“Ero legato al mio giuramento d’obbedienza e dovevo occuparmi nel mio settore dell’organizzazione dei trasporti. Non ero sciolto dal mio giuramento. Quindi non mi sento responsabile, nel profondo di me stesso. E mi sento liberato da ogni colpa”.

Due persone normali: un ginecologo americano che si definisce addirittura “cristiano”, e un burocrate tedesco che si occupava di “trasporti” da dietro una scrivania. Il primo, responsabile in nome del male minore della brutale uccisione di neonati abortiti vivi, il secondo della deportazione di milioni di ebrei. Nessuno dei due si sente colpevole, né ritiene di aver agito male, entrambi si sentono in pace con la loro coscienza. Ecco cosa succede quando lo Stato legalizza il male, quando si vive “in un’epoca di crimine legalizzato dallo Stato”, succede che il male diventa banale, normale, così che le persone lo commettono come se nulla fosse, essendo diventate incapaci di riconoscerlo e perciò di opporvisi.

Il dottor Valter Tarantini è un ginecologo che pratica aborti da quando la 194 è entrata in vigore, queste sono le sue osservazioni in merito alla “banalizzazione dell’aborto”:

“Oggi l’aborto non è più l’estrema ratio. Interrompere una gravidanza è diventata una cosa normalissima. Anzi meno importante delle altre. Prima lo si faceva per combattere la morale. Il frutto che vedo oggi è che la morale non c’è più e che l’80 per cento delle mie pazienti sono recidive. Ogni paziente ha avuto in media dai tre ai sei aborti. Ma ho incontrato anche una donna che era alla quarantesima Ivg […] Perciò dico che questa legge controlla le nascite e che sbaglia chi dice che, grazie alla sua buona applicazione, gli aborti sono diminuiti. Se li contiamo in rapporto ai bambini nati si vede che non hanno fatto altro che aumentare.

Le peggiori recidive sono ricche, istruite e sanno benissimo cos’è la contraccezione, ma per loro l’aborto è un fatto così banale che è uguale a prendere la pillola, non c’è differenza. Anzi per alcune è meglio. Mi dicono: ‘Sa dottore la pillola fa male, mi fa ingrassare’…

Mi chiedo perché sia sparito tutto questo. Perché si sia perso il senso della vita. Le faccio degli esempi. Una ragazza di 25 anni è arrivata con l’amica ridacchiando a chiedere l’Ivg. Vedono il bambino nel monitor e iniziano a ridere: ‘Che carino – dicevano – guarda come si muove’. Oppure penso a una che mi disse: ‘Dottore non è che mi lascia la foto dell’ecografia come ricordo?’. Per non parlare delle domande più frequenti: ‘Dottore era maschio o femmina? Quando posso avere rapporti sessuali? Quando posso mangiare?’…

L’aborto è un affare sporco che nessuno vuole guardare più. Né i medici, né la società, né le donne che non sanno più di che si tratta…

Prima c’erano gli ideali, la vita si dava per qualcosa. Oggi non interessa più nulla se non il piacere passeggero, l’edonismo sfrenato. Mia madre invece mi ha voluto bene, si faceva il mazzo per me e anche a suon di schiaffi mi diceva cosa era bene e cosa male”.

Non il “male minore” quindi, ma “cosa è bene e cosa è male”: è questo il nocciolo della questione, anche se il “tu, non ucciderai” della legge naturale e divina, infastidisce e provoca rigetto, perché costringe a fare i conti con il proprio comportamento e le proprie responsabilità. Tuttavia, nonostante l’artificio politically correct che cela l’“uccisione” (del figlio) sotto un’asettica “interruzione” (di gravidanza), la responsabilità per le proprie scelte e azioni rimane e un giorno Qualcuno chiederà conto di quelle “interruzioni”, non alla società, non alla cultura, non alla storia, ma a persone con tanto di nome e cognome, perché “il male ha sempre un volto e un nome: il volto e il nome di uomini e donne che liberamente lo scelgono”[3].

modellino di fetoL’aborto è l’uccisione deliberata di un figlio nel grembo materno, un figlio abortito è sempre un figlio ucciso sia che si tratti di aborto clandestino che di aborto in ospedale “libero, sicuro e gratuito”. Ogni atto che tende direttamente a distruggere una vita umana è un male senza se e senza ma, un atto intrinsecamente cattivo, che viola sia il Diritto Naturale che i Comandamenti di Dio. Per questo motivo la 194 – una legge scellerata, ignobile, immorale – dev’essere abrogata, e il delitto di aborto vietato e sanzionato. Solo così si potrà uscire dalla barbarie in cui è precipitata l’umanità, salvandola dall’autodistruzione, dalla sua ineluttabile rovina.

 


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[1] Ho approfondito questi aspetti nel mio libro “La 194 ha fallito”, Fede & Cultura, maggio 2014. E in questo articolo, e in questo.

[2] Ho trattato questo argomento nel seguente articolo: “L’aborto fa male anche all’uomo, danneggiando gravemente i cinque elementi chiave dell’essenza maschile”, Libertà e Persona, 2 febbraio 2014, www.libertaepersona.org.

[3] Giovanni Paolo II nel Messaggio per la celebrazione della 28° giornata mondiale della pace.


Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:08

Il “male minore” porta Male (3° parte: fecondazione extracorporea)






01 Fivet


3) MALE MINORE e FECONDAZIONE EXTRACORPOREA


Un’altra legge iniqua nata grazie al contributo decisivo dei cattolici e dal compromesso con il male, dalla scelta cioè non del bene, ma del “male minore”, è la legge 40 sulla “Procreazione medicalmente assistita” (Pma), approvata dal Parlamento italiano il 19 febbraio 2004.




INDICE:


 


1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?


Male minore e “nuovi diritti” legalizzati


2) Male minore e aborto


3) Male minore e fecondazione extracorporea


4) Male minore e divorzio


5) Male minore e contraccezione artificiale


Male minore e “nuovi diritti” reclamati


6) Male minore e matrimonio gay


7) Male minore e droga libera


8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito


9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico


10) Conclusione


Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi


3) MALE MINORE e FECONDAZIONE EXTRACORPOREA


Un’altra legge iniqua nata grazie al contributo decisivo dei cattolici e dal compromesso con il male, dalla scelta cioè non del bene, ma del “male minore”, è la legge 40 sulla “Procreazione medicalmente assistita” (Pma), approvata dal Parlamento italiano il 19 febbraio 2004.


Legiferare sulla procreazione extracorporea – cioè la fecondazione al di fuori del corpo della donna con manipolazione dei gameti e creazione degli embrioni in laboratorio -, si era reso necessario per fermare la proliferazione del “far west della provetta”, sviluppatosi a partire dal 1978 dopo che in Inghilterra era nata Louise Brown, la prima bambina fecondata in vitro. Nel segreto di cliniche private e laboratori improvvisati si eseguivano sperimentazioni selvagge e senza regole, alimentando un business miliardario e incontrollato, che speculava sulla salute delle coppie sterili facendo leva sul loro desiderio di genitorialità.


Con l’obiettivo di fermare questi eccessi, il Parlamento italiano partorì la legge 40, una legge che, tuttavia, anziché proibire la fecondazione extracorporea tout court, la legalizzò fissandone limiti o “paletti”. Scrive Marisa Orecchia, presidente di Federvita Piemonte:



“Al tempo della discussione nelle aule del parlamento sulla fecondazione extracorporea, la linea del Piave [non fu] fissata tra fecondazione extracorporea sì/fecondazione extracorporea no, tra liceità e non liceità di applicare all’uomo tecniche che solo a livello zootecnico trovano giustificazione”, ma “tra fecondazione omologa e fecondazione eterologa, ad opera del presidente del Movimento per la vita italiano, Carlo Casini, della Fondazione Nuovo Millennio di Antonio Baggio e del Forum delle associazioni familiari, con il beneplacito di alcuni uomini di Chiesa”.



02 Mario PalmaroLa legge 40 rappresentava così il “male minore” che avrebbe permesso di sconfiggere il “far west della provetta” e tutelare le coppie sterili da abusi e sperimentazioni pericolose per la salute (“male maggiore”), venendo nel contempo incontro al loro desiderio di genitorialità con la Fivet omologa. Osserva al riguardo Mario Palmaro:



“Con un’operazione indubbiamente controversa sotto il profilo morale, gli ideatori di questa iniziativa legislativa furono un gruppo importante di studiosi e di politici cattolici, che in nome del ‘male minore’ redassero innanzitutto un Manifesto Appello, cui fece da coerente conseguenza la predisposizione di un testo legislativo basato su alcuni ‘paletti’, secondo una formula divenuta molto cara al mondo cattolico stesso. La legge 40 rappresenterebbe ‘il male minore’ e garantirebbe una serie di paletti, meritevoli tutti di essere difesi dal tentativo di scardinamento…


Una legge di compromesso, caratterizzata da una insanabile ambivalenza giuridica e culturale: da un lato, infatti, la legge 40 aveva stabilito alcuni divieti, per altro di dubbia effettività e non del tutto chiari sotto il profilo formale, divieti che la collocavano almeno sotto il profilo quantitativo tra le normative meno permissive in Europa. Dall’altro lato, però, la legge 40 sanciva in modo ufficiale e attraverso la veste autorevole del Parlamento, organo legislativo per antonomasia, la giuridicità delle tecniche di fecondazione artificiale, le inseriva all’interno di un quadro normativo che riconosceva un valore pubblico meritevole di tutela ai problemi di infertilità, e individuava nell’uso delle tecniche extracorporee una legittima soluzione a tale ‘desiderio di maternità’”.



Se da un lato la legge 40 tutelava le coppie dalla provetta selvaggia, dall’altro lato riduceva però l’uomo a merce fabbricata in laboratorio, negandogli la dignità propria che gli appartiene. Infatti, la fecondazione extracorporea, anche se omologa, non rispetta il diritto alla vita del concepito. Continua Palmaro:



“Vi è infatti una ‘uccisività intrinseca alle tecniche, che non può essere considerata involontaria e non colpevole, dato che il trasferimento plurimo di embrioni nel corpo della donna ha proprio l’obiettivo che soltanto uno sopravviva fino alla nascita, con evidente riduzione a oggetto dell’embrione. Kantianamente, diremmo che nella Fivet ogni embrione è usato come mezzo per raggiungere un fine diverso dall’embrione stesso. Consapevolmente, infatti, il tecnico di laboratorio produce e trasferisce una pluralità di embrioni per ottenere un risultato che non è la nascita di tutti gli embrioni prodotti, ma la nascita di uno solo fra essi, ben sapendo dunque che è altamente probabile e perfino auspicabile la morte degli embrioni stessi, tranne uno.


Si veda in proposito quanto affermato dalla istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Dignitas Personae, pubblicata nel 2008: ‘(…) il numero di embrioni sacrificati è altissimo. Queste perdite sono accettate dagli specialisti delle tecniche di fecondazione in vitro come prezzo da pagare per ottenere risultati positivi. (…) È vero che non tutte le perdite di embrioni nell’ambito della procreazione in vitro hanno lo stesso rapporto con la volontà dei soggetti interessati. Ma è anche vero che in molti casi l’abbandono, la distruzione o le perdite di embrioni sono previsti e voluti’”.



In sostanza, al pari dell’aborto, anche la fecondazione extracorporea (sia omologa che eterologa) appartiene agli atti intrinsecamente cattivi, gli atti cioè che non è mai lecito compiere, perché mali in se stessi. Alcuni eticisti – richiamando il fatto che anche in natura ci sono alte percentuali di aborti spontanei – sostengono la liceità morale della Fivet che non comporti la produzione di embrioni soprannumerari, e che preveda l’impianto in utero tutti gli embrioni prodotti. In effetti questi erano due dei famosi “paletti” posti a fondamento della legge 40. Questa considerazione, tuttavia, non elimina il male intrinseco della pratica, come osserva Michele Aramini, docente di Teologia e Etica sociale:



“In base a questa osservazione si considera accettabile una perdita di embrioni dovuta agli aborti spontanei, nell’ambito delle procedure di procreazione assistita. [Si applica cioè] quello che nella teologia morale è chiamato principio del volontario indiretto, che permette azioni che hanno un fine diretto lecito, pur comportando indirettamente effetti negativi, senza che questi siano il mezzo per ottenere l’effetto positivo. Si può obiettare facilmente che il principio del volontario indiretto non può essere applicato alla Fivet, perché lo spreco di embrioni e la produzione in surplus, che è l’effetto negativo, è proprio il mezzo e la condizione per ottenere l’effetto ritenuto positivo. A completamento, si può aggiungere che non è molto sensato riprodurre un fatto naturale negativo.


In verità, l’orientamento della prassi medica è quello di minimizzare il carico psicologico per la donna, attraverso la produzione di molti embrioni che servano come riserva per altri cicli di Fivet”.



03 i paletti divelti della legge 40A ogni modo, i “paletti” di legge che prevedevano la produzione massima di tre embrioni e l’obbligo di un loro unico e contemporaneo impianto, sono stati abbattuti dalla Corte costituzionale il 1 aprile 2009 (sentenza n. 151), giusto cinque anni dopo l’entrata in vigore della legge 40, cui si è automaticamente aggiunta la demolizione di un terzo paletto, quello del divieto di crioconservazione degli stessi. Infatti, con la possibilità di creare più embrioni rispetto a quelli che saranno impiantati, la Corte ha di fatto aperto alla crioconservazione di quelli in sovrannumero. Tre divieti eliminati in un colpo solo, evidentemente ciò che era stato messo a salvaguardia dei concepiti – e che secondo taluni poteva (ma non è così) giustificare la Fivet omologa -, più che essere paletti robusti e inaccessibili erano piuttosto fragilissime asticelle.


Scavalcare questi paletti è stato possibile perché nella legge 40 la tutela dell’embrione non è assoluta. È proprio la legge 40, infatti, la prima a permettere la crioconservazione “fino alla data del trasferimento, da realizzarsi appena possibile” (art. 14, comma 3): “qualora il trasferimento in utero degli embrioni non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione”. In sostanza la legge 40 contraddice se stessa: da un lato vieta la crioconservazione degli embrioni, ma dall’altro lato la ammette in determinate circostanze. Se il legislatore voleva davvero tutelare l’embrione avrebbe dovuto vietare la crioconservazione tout court o, meglio ancora, la fecondazione extracorporea tout court, visto che neanche le tecniche di Fivet omologa a causa della loro intrinseca e altissima uccisività lo tutelano.


V’è inoltre da notare che, già prima che la Corte costituzionale si pronunciasse, era lo stesso possibile aggirare l’obbligo di un unico e contemporaneo impianto e il divieto di crioconservazione, anche se mancava una causa di forza maggiore. Bastava che le coppie in trattamento inviassero una lettera di diffida al direttore sanitario dal trasferire in utero tutti gli embrioni prodotti. Emanuele Levi Setti – primario di Medicina della riproduzione all’Humanitas di Rozzano – ha osservato: “All’inizio la coppia dichiara che si farà trasferire tutti gli ovociti fertilizzati, come dice la legge. Ma nessuno, poi, vieta loro di cambiare idea, anche perché non sono sanzionabili. In questo caso scatta il congelamento”.


Le lettere di diffida avevano la loro ragion d’essere nell’articolo 13 delle linee guida emanate dal Ministero subito dopo l’entrata in vigore della legge 40, in cui si stabilisce che “il transfer non è coercibile”. Di nuovo la legge contraddice se stessa: da un lato afferma l’obbligo di un unico e contemporaneo impianto, ma dall’altro lato si precisa che questo trasferimento non può essere imposto. Guido Ragni – direttore del Centro di sterilità della Mangiagalli – ha obiettato: “Noi dobbiamo rispettare il volere della donna che non può essere obbligata a un triplice impianto. Il problema è che la legge 40 prescrive il contrario”. Il ginecologo Stefano Venturoli, uno degli autori delle linee guida, ha ammesso: “Non c’è dubbio che il regolamento attuativo sul punto in questione modifichi lo spirito della leggeAlla fine siamo stati tutti d’accordo sul fatto che nessuno può fare un atto di violenza contro la donna”.


Il 21 gennaio 2008, un anno prima della sentenza della Corte costituzionale, la legge 40 aveva subìto un’altra bocciatura dal Tar del Lazio, che aveva annullato le linee guida nella parte riguardante le Misure di Tutela dell’embrione in cui si stabiliva che ogni indagine con lo scopo di verificare lo stato di salute di quest’ultimo doveva essere di “tipo osservazionale”, un “paletto” che era stato messo per impedire il controllo premeditato sulla qualità dell’embrione e quindi la sua selezione a scopo eugenetico. Il 30 aprile 2008 era seguita la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle nuove linee guida, a opera del ministro della Salute Livia Turco, in cui venivano eliminati i commi bocciati dal Tar per cui l’analisi genetica sull’embrione veniva di fatto liberalizzata. Promotori e sostenitori della legge 40 hanno continuato a rispondere che, nonostante il pronunciamento del Tar e le nuove linee guida Turco, nulla è cambiato visto che rimane valido quanto stabilito dalla legge circa le “finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche” finalizzate “alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso”. Tuttavia, anche se lasciamo da parte il fatto che l’analisi genetica di suo, pur se fatta con finalità terapeutiche o diagnostiche, è in grado di uccidere l’embrione, di provocargli malformazioni e di compromettere l’esito della gravidanza, è certamente evidente che, dopo le bocciature della Consulta, il destino degli embrioni che si riveleranno “geneticamente difettosi” sarà inesorabilmente segnato: la loro salute e vita sarà sì preservata, ma in un limbo gelato a 196 gradi sottozero dove rimarranno con tutta probabilità sine die.


04 Corte Cost legalizza eterologaInfine, il 10 aprile 2014, con la pronuncia di incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa, la Corte costituzionale ha inflitto la mazzata più grande e sonora alla legge 40 e ai sostenitori del “male minore”[1]. Le fondamenta sulle quali è stata costruita tutta la legge si sono infine sgretolate facendo crollare il castello di contraddizioni e paletti d’argilla che vi era stato edificato sopra. Questa sconfitta bruciante è lì impietosa a confermare che con il male non si deve mai scendere a patti e che si deve solo rifiutare. Pensare che si sarebbe riusciti a contenerlo entro confini prestabiliti dopo averlo legalizzato, è stata un’enorme ingenuità, un abbaglio colossale.


Non ci resta ora che verificare se la scelta del “male minore” abbia permesso di prevenire il “male maggiore” di partenza o se, com’è accaduto con l’aborto, si sia fallito sia l’obiettivo iniziale che contribuito all’espansione di un male ancora più grande. Poiché ogni albero si riconosce dal suo frutto vediamo, in altre parole, quali frutti ha generato la legge 40, l’analisi dei quali ci darà ulteriori indicazioni sulla bontà o meno della sua natura.


02 far westAlla domanda se la legge 40 abbia permesso di fermare le sperimentazioni folli delle origini, possiamo rispondere sì, anche se il risultato si sarebbe comunque ottenuto con il divieto a praticare qualsiasi fecondazione extracorporea, omologa compresa. Nonostante ciò, il “far west” della provetta continua a verificarsi anche nei laboratori sterili e sicuri fioriti dopo la legge, camuffato sotto la veste politically correct di “errore di procedura”. Rientrano tra gli errori procedurali lo scambio di liquido seminale e la sua inoculazione in ovociti sbagliati, l’impianto di embrioni in uteri sbagliati, la distruzione accidentale di embrioni e il loro smarrimento. A causa di questi errori, una coppia italiana si è ritrovata con due gemelli mulatti, mentre una donna statunitense ha partorito un gemello bianco e uno nero. Errori che risultano lampanti quando il colore della pelle del figlio è diverso da quello dei genitori, ma che passano del tutto inosservati nella maggior parte dei casi, cioè quando l’errore non si vede perché il colore della pelle del figlio corrisponde al proprio. Chissà quante coppie ci sono che, senza saperlo, a causa di questi errori stanno crescendo un figlio non loro. Una coppia di Padova ha abortito il figlio dopo aver saputo dello scambio di liquido seminale a gravidanza già iniziata, mentre una coppia inglese del Kent ha dovuto rinunciare al proposito di dare un fratello al figlio nato cinque anni prima grazie alla Fivet, a causa dello smarrimento dei gemelli crioconservati: la clinica a cui si erano rivolti non ha escluso la possibilità di un erroneo impianto su un’altra coppia. Nel 2012, un guasto all’impianto di azoto liquido in un Centro italiano di Pma ha provocato una strage in cui sono andati distrutti 94 embrioni e 130 ovociti appartenenti a una quarantina di coppie[2].


Se dal neo far west ci spostiamo all’altro obiettivo che la legge 40 doveva realizzare – l’appagamento del desiderio di genitorialità delle coppie infertili –, ne esce un quadro assai deludente. Infatti, oltre ad avere un forte impatto sulla salute fisica e psichica della donna, la fecondazione extracorporea dà anche pochissime garanzie al cosiddetto “bambino in braccio”: il 90% dei figli “fabbricati” in provetta muore o si perde per strada, inoltre, i pochi che riescono a sopravvivere, rischiano di avere diversi e gravi problemi di salute.


La Fiv (omologa ed eterologa) ha delle percentuali di successo bassissime, per cui sono davvero poche le coppie che riescono a diventare genitori, e solo dopo anni di sacrifici e molti tentativi. Dal punto di vista dei concepiti ciò si traduce in 9 embrioni morti ogni 10 prodotti.


Riccardo Marana – direttore al Policlinico Gemelli dell’Istituto Scientifico Internazionale Paolo VI di Ricerca sulla Fertilità e Infertilità Umana (Isi) -, esaminando la Relazione ministeriale pubblicata a luglio 2014 (dati riferiti al 2012) sull’attività dei Centri italiani di fecondazione artificiale, ha osservato: “La percentuale di gravidanza cumulativa per Fivet e Icsi è pari al 22,1%, e quella di gravidanza a termine è pari al 16,5 per prelievo ovocitario. Inoltre, a fronte di 114.276 embrioni formati ne sono stati trasferiti 91.720 e sono nati 9.814 bambini. Dunque il 91% degli embrioni formati viene ‘perso’”.


Anche il professor Tommaso Scandroglio, docente di etica e bioetica e filosofia del diritto, ha commentato i dati, rilevando che solo circa il 17% delle coppie è riuscita nell’intento di avere un figlio con la fecondazione artificiale. A tal proposito Scandroglio ha notato che “il dato di insuccesso non è molto dissimile da quello del 2004-2005, primo anno in cui legalmente si praticava la fecondazione artificiale. E questo nonostante si possano produrre quanti embrioni si vogliono per ciclo e la crioconservazione del figlio non abbia più limiti grazie alla sentenza della Corte Costituzionale del 2009. Ciò a dimostrare che le aperture alla provetta a colpi di sentenza non ha prodotto i risultati sperati”.


Per quanto riguarda i nascituri – prosegue il professore -, “espresso in percentualisolo il 10% degli embrioni prodotti è nato, contro il 74% dei loro fratelli che è morto e il 16% che è attualmente crioconservato”. Questo significa che con la Fiv “solo un embrione su 10 vedrà la luce”. Per tutti questi motivi – conclude Scandroglio – “il figlio in provetta era e rimane una tecnica assai fallimentare”.


La Relazione annuale dell’anno prima – luglio 2013 (dati del 2011) – aveva messo in luce un’analoga altissima percentuale di insuccesso. Su 56.092 cicli con embrioni “freschi” si sono avute 10.959 gravidanze (il 19,5%), ma di queste solo 8.734 si sono concluse con la nascita del bambino, cioè appena il 15,6%. Questi dati eloquenti ci mostrano che, in quanto a vittime innocenti, la legge 40 riesce a fare persino peggio della 194.


06 - gemelliAlle aspiranti madri le cose non vanno meglio, visti i rischi e le gravi conseguenze sulla salute che anche la fecondazione omologa comporta, tra cui: gravidanze multiple (dal 17 al 30%), gravidanze extrauterine (2%-3,5%), parto cesareo (40-50% dei casi), parto pretermine (14% in caso di gravidanza singola, 56% in caso di gravidanza gemellare, 92% in caso di gravidanza trigemellare), parto gemellare (20-35%), parto trigemino (0,5-6%), aborti spontanei e ripetuti (dal 10% quando si ha meno di 30 anni, fino a un 60% dopo i 43 anni), sindrome da iperstimolazione ovarica, morte (soprattutto a causa della sindrome da iperstimolazione o di una gravidanza multipla), trombosi e tromboflebiti, reazioni allergiche, lesioni vascolari, lesioni viscerali (in particolare a carico di colon e stomaco), emorragie, infezioni pelviche e tubariche, tumore del tratto genitale e della mammella, stress fisico e psicologico…


Seri problemi di salute si registrano anche per quel misero 10% di figli che sopravvive all’uccisività delle tecniche, che deve fare i conti con: mortalità perinatale (13-17%), mortalità e morbilità neonatale, sottopeso alla nascita (5-10%), anomalie genetiche, malattie degenerative e malformazioni congenite.


Tutto questo ci dice che anche per quanto riguarda il secondo punto da realizzare (tutela della salute delle coppie sterili), la legalizzazione della Fiv omologa come “male minore” ha mancato sicuramente l’obiettivo.


La legalizzazione della Fiv e i successivi pronunciamenti giudiziari in accoglimento dei ricorsi presentati contro i “paletti” di legge, hanno fatto emergere quattro questioni cruciali dal punto di vista morale, questioni in cui chi ne fa le spese è sempre il più debole e indifeso. Si tratta della riduzione e selezione embrionale, della crioconservazione e sperimentazione sugli embrioni.


07 aborto selettivoLa “riduzione embrionale” è un aborto intenzionale e selettivo praticato in caso di gravidanza multipla, per “ridurre” il numero di embrioni o feti attecchiti nell’utero. La logica che si segue è anche in questo caso quella del “male minore”. Secondo questa tesi è preferibile eliminare alcuni embrioni in una fase iniziale della vita piuttosto che mettere in pericolo, a causa di una gravidanza plurigemellare, la vita della madre e di tutti i nascituri. Meglio il sacrificio di alcuni piuttosto che il pericolo di vita per tutti, del resto non avviene così anche nelle catastrofi naturali dove nonostante la buona volontà non si riesce a salvare tutte le persone coinvolte? Alcuni osservano che tanto non tutti i concepiti riusciranno a sopravvivere, sia per loro morte spontanea in utero che a seguito di nascita prematura senza speranza di vita. Tanto vale allora agire in anticipo con una “riduzione” embrionaria preventiva, salvaguardando così la salute della madre e la vita di almeno un figlio.


Ecco come si è espresso il Pontificio Consiglio per la Famiglia sulla “riduzione embrionale”:



“Poiché ogni embrione deve essere considerato e trattato come persona umana nel rispetto della sua eminente dignità (Cong. Dott. Fede, Istr. Donum Vitae, I, 1), al nascituro devono essere riconosciuti dal primo momento del concepimento i diritti umani fondamentali e, in primo luogo, il diritto alla vita, che non può quindi essere violato in alcun modo. Al di là di ogni confusione e ambiguità, si deve pertanto affermare che la ‘riduzione embrionale’ costituisce un aborto selettivo: consiste infatti nell’eliminazione diretta e volontaria di un essere umano innocente (Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, 57). Essa pertanto, sia quando è voluta come fine che quando è utilizzata come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave (ivi, 62). Trattandosi di verità accessibile alla semplice ragione, la illiceità di tale comportamento si pone come norma valida per tutti, anche per i non credenti (ivi, 101). Il divieto morale permane anche nel caso in cui la prosecuzione della gravidanza comporti un rischio per la vita o la salute della madre e degli altri fratelli gemelli. Non è lecito infatti compiere il male neppure in vista del raggiungimento di un bene. (ivi, 57).


La vita dell’uomo proviene da Dio, è sempre suo dono, partecipazione del suo soffio vitale (ivi, 39). La selezione embrionale, comportando la volontaria eliminazione di una vita umana, non può essere giustificata né in base al principio del cosiddetto male minore né in base a quello del duplice effetto: né l’uno né l’altro, infatti, trovano applicazione in questo caso…


Resta comunque certo che, se fa parte del limite umano dover talvolta assistere impotenti alla morte prematura di creature innocenti, non potrà mai essere moralmente lecito provocare la morte volontariamente”.



La “selezione embrionale”, vietata dalla legge 40, è stata anch’essa oggetto di numerosi ricorsi da parte delle coppie e relative sentenze dei Tribunali che hanno, di volta in volta, disapplicato il divieto ordinando ai Centri di Pma l’esecuzione della diagnosi preimpianto sugli embrioni. Prima è stata concessa a coppie infertili portatrici di malattie genetiche, poi – nonostante la legge 40 sia destinata unicamente alle coppie infertili – a coppie fertili portatrici di malattie sessualmente trasmissibili e infine, grazie all’ennesimo pronunciamento della Corte Costituzionale, a coppie fertili portatrici di malattie genetiche ereditarie.


08 crioconservazionePer quanto riguarda la questione degli embrioni sovrannumerari e la loro crioconservazione, dopo l’abbattimento del “paletto” per mano della Consulta (1 aprile 2009), com’era prevedibile la situazione è precipitata: in un anno il numero di embrioni crioconservati è decuplicato, passando dai 763 del 2008 ai 7.337 del 2009, e l’anno seguente è raddoppiato raggiungendo nel 2010 la cifra di 16.280 embrioni crioconservati. Ciò corrisponde a un aumento del 2000 per cento rispetto al 2008, cioè a prima che la Corte si pronunciasse. Questo scenario impressionante ne chiama subito in causa un altro: l’abbandono degli embrioni sovrannumerari crioconservati da parte delle coppie che li hanno prodotti, il quale, a sua volta, lascia aperti ulteriori gravi interrogativi: lasciarli nell’azoto liquido per sempre o darli in adozione per l’impianto alle coppie sterili? Omologare giuridicamente questo tipo di adozione all’adozione vera e propria? Eseguire esami genetici sugli embrioni per verificare prima di questo impianto il loro stato di salute? Non si stravolge così il significato della generazione umana, ovvero il diritto di ogni essere umano di nascere dalla propria madre?…


Come si vede, ogni soluzione applicata a un problema che ha alla radice un disordine morale, rimane anch’essa segnata dal medesimo disordine morale. In altre parole, una volta legittimato il “male minore” iniziale, altri “mali minori” seguiranno di conseguenza. Non è infatti un caso il fatto che le soluzioni prospettate per “salvare” dal loro infausto destino gli embrioni abbandonati sottendano sempre alla logica infausta del “male minore”. Visto che ci sono tanti embrioni congelati abbandonati (male maggiore) – dicono taluni -, facciamo almeno in modo di dare loro una possibilità di vita con l’adozione a coppie sterili (male minore). Oppure – dicono tal altri -: visto che la loro giacenza nell’azoto liquido li esporrà in ogni caso a morte certa (male maggiore), tanto vale utilizzarli subito nell’ambito della sperimentazione scientifica (male minore). Questa seconda proposta porta direttamente alla quarta grave questione che abbiamo evocato: l’utilizzo per scopi scientifici degli embrioni sovrannumerari.


Al momento il paletto della legge 40 che vieta l’utilizzo a scopo di ricerca degli embrioni in sovrannumero, malati o abbandonati è ancora in piedi. Quanto ancora resisterà non lo sappiamo, visto che a dicembre 2012 il Tribunale di Firenze ne ha sollevato la questione di legittimità costituzionale. Tuttavia, se guardiamo ai Paesi che ammettono le sperimentazioni sugli embrioni, possiamo già vedere quello con cui ci ritroveremo a fare i conti se la Corte costituzionale si pronuncerà ancora una volta con una sentenza di incostituzionalità.


Dagli esperimenti sugli embrioni “difettosi” o “non idonei all’impianto” si passerà a quelli sovrannumerari abbandonati e crioconservati, e si arriverà alla richiesta di impiegare embrioni freschi e sani, cioè prodotti in laboratorio e subito distrutti per estrarne linee di cellule staminali, certamente migliori rispetto a quelle ricavate dagli embrioni forniti dai centri per la fertilità che presentano pur sempre dei difetti, sia per il fatto di provenire da coppie infertili, sia a seguito del danneggiamento provocato dalla crioconservazione. Con quale ragionamento si giustifica la produzione di embrioni freschi da distruggere? Sempre lo stesso: il “male minore”. Come avviene con l’aborto, dove la “tutela” della salute psico-fisica della madre prevale sulla vita del concepito, qui è la salute dell’individuo affetto da una malattia incurabile che prevale sulla vita dell’embrione: l’immolazione della vita degli embrioni (male minore) è giustificata dalle cure particolari che dovrebbero servire a salvare la vita a un malato grave. Si arriverà quindi al “piccolo d’uomo” prodotto e usato come cavia da laboratorio, fabbricato per essere impiegato come una medicina o una terapia contro le malattie.


Gli abusi sui piccoli d’uomo non si fermano qui, dagli altri Paesi ci arrivano notizie di esperimenti aberranti, come la creazione dei mostruosi “embrioni chimera” composti da materiale genetico umano e animale insieme; di miscugli genetici creativi, come la creazione di embrioni con il dna di tre genitori; di tentativi di “clonazione terapeutica”; della nascita di “bambini-farmaco”; notizie sulla brevettabilità degli embrioni; sulla loro applicazione in campo tossicologico e loro etichettatura per mezzo di codici a barre, come si fa con i prodotti esposti sugli scaffali del supermercato… Una volta aperta la porta al male non esistono più limiti, questo si avvierà necessariamente al suo “trionfo completo”.


Mentre aspettiamo che questo trionfo completo del male si affacci anche in Italia, concentriamoci sulle nuove problematiche legate all’ultimo “regalo” dispensato dalla Corte costituzionale: la fecondazione eterologa. Per capire quali questioni ci siano in ballo, basta anche in questo caso dare un’occhiata ai Paesi che ci hanno preceduto.


09 eterologa smarrimento geneaologicoLa prima grave problematica che deriva dall’utilizzo di gameti estranei alla coppia, è la separazione tra genitorialità biologica e genitorialità sociale, con conseguente violazione della responsabilità del genitore biologico nei confronti del figlio che ha generato e privazione per quest’ultimo del genitore naturale. L’eterologa rafforza perciò l’irresponsabilità nella procreazione: il genitore biologico (o i genitori biologici, nel caso in cui entrambi i gameti provengano da donatori) taglia consapevolmente sin dall’inizio ogni relazione con il figlio e non assume doveri nei suoi confronti. I figli dell’eterologa devono fare i conti con crisi d’identità, senso di estraneità e confusione per il fatto di non avere risposte certe alle domande fondamentali: “chi sono?”, “da dove vengo?”, un disagio che dal punto di vista clinico prende il nome di “genealogical bewilderment” (“smarrimento genealogico”).


La separazione tra genitorialità biologica e sociale è, altresì, gravida di tensioni familiari e di coppia. Può infatti succedere che il padre non genetico percepisca il figlio come un estraneo, fino a provare nei suoi confronti una vera e propria crisi di rigetto, che può culminare anche in una richiesta di disconoscimento della paternità. Ma può anche accadere il contrario, cioè che sia il figlio a rinnegare il genitore sociale. Le tensioni possono verificarsi anche tra fratelli, se la coppia ha avuto sia figli propri che da donatore esterno. Quando queste tensioni familiari diventano acute e insanabili possono portare anche alla rottura del rapporto di coppia.


Alla fecondazione eterologa sono associati anche altri rischi, come quello che si verifichino rapporti incestuosi tra consanguinei, cioè tra fratellastri e sorellastre concepiti con il seme del medesimo donatore, che non sanno di essere imparentati tra loro. E il rischio che si diffondano malattie genetiche rare tra la popolazione, com’è accaduto, per esempio, recentemente in Danimarca, dove il donatore 7.042, affetto da neurofibromatosi di tipo 1 (una rara malattia genetica che causa tumori al sistema nervoso), ha trasmesso questa malattia ad almeno 19 bambini dei circa 99 concepiti con il suo seme, utilizzato da 14 centri diversi.


Nata inizialmente per le coppie sterili, la fecondazione eterologa è stata presto estesa anche a single e coppie gay, che nel frattempo sono diventati i clienti preponderanti delle cliniche della fertilità e del mercato dell’utero in affitto. Dal punto di vista psicologico i bambini delle coppie gay sono doppiamente segnati, poiché non dovranno solo fare i conti con lo “smarrimento genealogico” che generalmente colpisce i figli dell’eterologa, ma anche con il fatto di crescere privati di una figura genitoriale fondamentale.


10 mercato global babyQuello della provetta eterologa è presto diventato un mercato a tutti gli effetti, caratterizzato dallo scambio di merci (ovociti e sperma scelti da cataloghi con le caratteristiche dei donatori e i corrispondenti prezzi) e servizi (affitto di uteri); dall’interazione tra domanda e offerta, e la presenza di agenzie e intermediari per agevolare le transazioni; dalla stipulazione di veri e propri contratti con tanto di sanzioni in caso di violazione delle clausole. Se tutto va bene, alla fine nasce quello che viene chiamato il “global baby” (“bambino globale”), assemblato, per fare un esempio, con seme danese e ovocita ucraino, incubato in un utero indiano e infine portato in patria dai genitori sociali inglesi con i quali vivrà e crescerà. Le combinazioni dei “global baby” sono praticamente infinite e le loro famiglie appaiono variabili e fluide: si va da uno a cinque genitori – tra biologici, sociali e surrogati – a solo due madri, solo due padri o due madri e due padri contemporaneamente, fino alle combinazioni più assurde dove il padre sociale può essere una donna che ha cambiato sesso o – nel caso in cui si sia fatto ricorso alla “procreazione collaborativa”[3] – la madre può essere allo stesso tempo anche la nonna o la sorella, il padre anche il fratello o il nonno.


Dal mercato della provetta è sortita una nuova e controversa figura “umanitaria”, quella del donatore seriale, un uomo che per “altruismo” (più verosimilmente per necessità economiche o manie di onnipotenza), diventa padre biologico di molte decine di figli e produttore di altrettanti fratellastri sparpagliati per il mondo. Tra i pochi noti, in mezzo a tanti pluripadri anonimi identificati solo da un numero, spiccano l’avvocato americano Ben Seisler, che nel 2005 era già arrivato a quota 75 figli, e l’olandese Ed Houben, attualmente padre biologico di 98 figli, di cui alcuni ottenuti con “inseminazione donogena diretta” – secondo le sue parole – ovvero rapporti sessuali veri e propri con le aspiranti madri, lesbiche comprese, perché – afferma il prodigo Houben – anche loro hanno diritto al figlio.


utero-in-affittoDal mercato della provetta sono nate anche nuove forme di sfruttamento e di schiavitù nei confronti di donne povere e bisognose che, per necessità economiche, accettano di affittare il proprio utero o di sottoporsi a pericolose stimolazioni ovariche al fine di produrre gli ovociti necessari a soddisfare la crescente domanda di mercato. Uno scenario mondiale che va dalle studentesse americane – raccontate nel documentario  “Eggsploitation” -, che hanno perso la vita o compromesso per sempre la salute a causa delle “bombe ormonali” a cui si sono sottoposte per produrre gli ovociti. Alle donne povere dell’Europa dell’est – bisognose di denaro per pagare le bollette di casa e sfamare i propri figli – che per la misera cifra di 300 dollari rischiano pericolosamente la vita sottoponendosi a stimolazioni ovariche ripetute. Alle poverissime donne indiane, vietnamite, tailandesi e nepalesi che incubano i bambini dell’Occidente sterile e capriccioso dove il figlio è diventato un nuovo e sacrosanto diritto garantito a single, coppie sterili e gay.


Dall’eterologa deriva anche il fenomeno delle mamme-nonne, di donne cioè che pur essendo già in menopausa e in là con gli anni, riescono a diventare madri partorendo un figlio o addirittura dei gemelli, grazie all’acquisto di un’ovocita “giovane” e allo sperma del marito o di un donatore. Donne dai cinquant’anni in su, e dai sessanta e oltre (61, 63, 66, 67 anni) fino al record di 70 anni detenuto da due donne indiane. I bambini che nascono rischiano di ritrovarsi presto orfani, o con genitori vecchi e bisognosi di tutto quando sono proprio loro, i figli, ancora molto giovani e per questo necessitanti dell’aiuto e del sostegno degli adulti.


Il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legge 40 e vigente fino a qualche mese fa e il divieto di utero in affitto, tuttora valido, non ha impedito a coppie italiane (etero o gay, giovani o anziane) e single, di fabbricarsi figli su misura all’estero divenendo genitori a tutti gli effetti, nonostante la violazione della legge italiana. Anche nel nostro Paese, quindi, ci sono genitori-nonni che stanno crescendo bambini fabbricati con gameti reperiti al mercato globale e destinati a rimanere presto orfani; e bimbi di coppie gay e lesbiche, usciti da uteri affittati in America, o provenienti da inseminazioni artificiali in Spagna o Danimarca, che stanno crescendo privati della figura paterna o materna. Un fenomeno ancora marginale ma che, dopo le recenti aperture della Corte costituzionale, appare destinato a espandersi.


01 i nuovi mostri della vita in provettaIn conclusione, la liceità della fecondazione extracorporea, cioè dell’estrapolazione della fecondazione dal suo luogo naturale (il corpo della donna), con manipolazione dei gameti e creazione della vita in laboratorio, ha originato situazioni mostruose e contro natura, e ha aperto scenari inquietanti che definire far west appare eufemistico. Un panorama aberrante dove l’embrione, il piccolo d’uomo, è manipolato, abusato e ucciso in quantità industriale, e i pochi figli che riescono a nascere, sopravvivendo all’uccisività intrinseca delle tecniche, si ritrovano sempre più spesso a fare i conti con radici patchwork sparpagliate per il mondo e ignote, e a crescere privati di una figura genitoriale essenziale all’interno di famiglie che si dicono “arcobaleno” ma che, di fatto, sono tutte monocolore (due uomini, due donne).


E allora, anziché fare un passo in avanti, dichiarando incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa, sarebbe stato molto più saggio farne uno indietro, dichiarando illecita la fecondazione extracorporea tout court, per gravi violazioni del Diritto naturale.


I frutti cattivi, velenosi, mortali, aberranti prodotti dalla legge 40 attestano la sua iniquità, e confermano la malvagità che si cela nella scelta del “male minore”, una scelta immorale che va denunciata forte e chiara, come fa Massimo Micaletti, avvocato specializzato in diritto europeo e bioetica:



“Bisogna denunciare forte e chiara la forma mentis di rinuncia, di compromesso, che ha abbassato – e di parecchio – l’asticella e che ha portato chi dovrebbe essere sprone etico alle recalcitranti forze politiche a divenire entusiasta o sollevato sostenitore di soluzioni omicide che eticamente insostenibili divengono per chissà quale motivo praticabili de iure condendo. Questa mentalità c’è ed è innegabile e ne è l’ennesima prova il fatto che, una volta ‘ottenuta’ la legge 40, nessuno di coloro che l’avevano sostenuta e promossa come ‘male minore’ si è più impegnato per modificarla, monitorarla, eroderla, a tutela del concepito. Ci si è limitati al più ad alzare qualche grida allorché i prevedibilissimi interventi della Corte costituzionale e di qualche magistrato ‘all’avanguardia’ hanno aperto varchi nel muro di cartapesta che il Parlamento aveva confezionato e che qualcuno, sordo a continui ed autorevolissimi richiami, aveva scambiato per un inespugnabile bastione. […] E non regge l’obiezione per cui la scelta del ‘male minore’ è obbligata e praticabile perché non esiste un clima politico e culturale favorevole ad una integrale tutela della Vita: questo clima non esisterà mai se coloro che devono promuovere la vera cultura della Vita si adagiano, si adeguano, scelgono una via mediana che è poi sempre via mediocre. Non si predica il male minore perché la cultura della Vita è debole; è piuttosto la cultura della Vita che è debole perché si predica il male minore”.



[1] Ho approfondito l’argomento degli assalti giudiziari rivolti contro la legge 40 nel seguente articolo: “Le manovre, i ricorsi e le sentenze all’attacco della legge 40: un riepilogo e alcune considerazioni”, Libertà e Persona, 10 aprile 2015.


[2] Ho approfondito l’argomento del neo far west della provetta, in Italia e nel mondo, nel seguente articolo: “I ‘nuovi mostri’ della vita in provetta”, Libertà e Persona, 10 luglio 2015.


[3] Nella “procreazione collaborativa” o Imar (Intrafamilial medically assisted reproduction), i gameti o gli uteri sono forniti dai parenti. Si tratta di un espediente a cui si ricorre per superare i tempi di attesa e gli ingenti costi economici del mercato procreativo.






Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:10

Il “male minore” porta Male (4° parte: divorzio)






01 divorzio 1


4) MALE MINORE e DIVORZIO


Prima dell’introduzione delle due leggi italiane, 194 e 40, campionesse d’iniquità, il Parlamento italiano aveva già provveduto a legalizzare il divorzio con la legge n. 898 del 1 dicembre 1970.


La strategia usata dal fronte divorzista fu la stessa che qualche anno più tardi sarà replicata per favorire l’introduzione dell’aborto: la menzogna insistentemente ripetuta. Con numeri enormemente contraffatti, le separazioni coniugali furono presentate come un’emergenza sociale che coinvolgeva almeno cinque milioni di persone! Una cifra inverosimile che comprendeva nonni e parenti dei separati fino alla quinta generazione.


Se sono così tante le persone colpite – si disse – è giusto intervenire, per permettere a questa moltitudine infelice di ritrovare la serenità perduta a causa di un matrimonio sbagliato. La legalizzazione del divorzio rappresentava così il “male minore” rispetto al “male maggiore” di un matrimonio sbagliato e alla conseguente sofferenza dei coniugi e dei loro figli.




 


INDICE:


1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?


Male minore e “nuovi diritti” legalizzati


2) Male minore e aborto


3) Male minore e fecondazione extracorporea


4) Male minore e divorzio


5) Male minore e contraccezione artificiale


Male minore e “nuovi diritti” reclamati


6) Male minore e matrimonio gay


7) Male minore e droga libera


8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito


9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico


10) Conclusione


Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi


4) MALE MINORE e DIVORZIO


Prima dell’introduzione delle due leggi italiane, 194 e 40, campionesse d’iniquità, il Parlamento italiano aveva già provveduto a legalizzare il divorzio con la legge n. 898 del 1 dicembre 1970.


La strategia usata dal fronte divorzista fu la stessa che qualche anno più tardi sarà replicata per favorire l’introduzione dell’aborto: la menzogna insistentemente ripetuta. Con numeri enormemente contraffatti, le separazioni coniugali furono presentate come un’emergenza sociale che coinvolgeva almeno cinque milioni di persone! Una cifra inverosimile che comprendeva nonni e parenti dei separati fino alla quinta generazione.


Se sono così tante le persone colpite – si disse – è giusto intervenire, per permettere a questa moltitudine infelice di ritrovare la serenità perduta a causa di un matrimonio sbagliato. La legalizzazione del divorzio rappresentava così il “male minore” rispetto al “male maggiore” di un matrimonio sbagliato e alla conseguente sofferenza dei coniugi e dei loro figli. “Meglio divorziare che far soffrire i figli”, si sente ancora oggi ripetere da chi è favorevole allo scioglimento del matrimonio, veicolando l’idea del divorzio quale rimedio contro le tensioni coniugali e le loro ricadute sulla prole.


02 conflittoPossiamo affermare oppure no, quarant’anni dopo l’introduzione del divorzio, che questi obiettivi siano stati realizzati? Ovvero: è riuscito il male minore del divorzio legale a restituire la felicità perduta alle coppie in conflitto e ai loro figli, prevenendo il male maggiore della sofferenza frutto di un’unione sbagliata? Ancora una volta la risposta è assolutamente negativa, infatti, con il divorzio legale non si è mancato solo l’obiettivo iniziale, ma grazie all’effetto normalizzante della legge, il male si è potuto propagare, sviluppare, allargare a tutti gli strati della società. Questo ha generato conseguenze economiche, culturali e sociali disastrose, portando al risultato finale di un male assai più grave ed esteso del male maggiore di partenza che si sarebbe dovuto prevenire.


Prima di proseguire nell’analisi delle conseguenze del divorzio legale, occorre precisare che esistono situazioni eccezionali relative a matrimoni tragicamente problematici, dove la convivenza per un coniuge e per i figli è effettivamente divenuta intollerabile. In tali situazioni – fortunatamente molto rare – la cessazione dell’obbligo di coabitazione sotto lo stesso tetto può, in effetti, essere un bene. Anche il Codice di Diritto Canonico riconosce in questi casi particolari la giustezza della separazione, si legge infatti al n. 1153:



“Se uno dei coniugi compromette gravemente il bene sia spirituale sia corporale dell’altro o della prole, oppure rende altrimenti troppo dura la vita in comune, dà all’altro una causa legittima per separarsi, per decreto dell’Ordinario del luogo e anche per decisione propria, se vi è pericolo nell’attesa”.



Tuttavia, la presenza di queste eccezioni non può giustificare in alcun modo la legalizzazione del divorzio. Osserva Francesco Agnoli:



“In presenza di casi in cui una parte della realtà si svolge in difformità dai principi e dalle norme è socialmente meglio lasciare che questi casi si svolgano fuori della legalità, anziché modificare la legalità per ricomprendere quei casi. L’eccezione, che pure è prevedibile, non deve determinare la regola, perché i casi ‘sfortunati’ non possono divenire la norma, neppure da un punto di vista ideale, se non si vuole indebolire l’istituto, la norma stessa.


La legalità, ciò che è riconosciuto come bene, il dover essere, infatti, hanno una funzione essenziale nella vita dell’uomo: lo influenzano, lo educano, lo spingono ad assumersi le responsabilità con una certa consapevolezza. Sapere che il matrimonio è una scelta per la vita, porta certamente a darle il giusto peso, a prepararlo con grande attenzione, a viverlo, anche nei momenti di difficoltà, con quella capacità di sacrificio e di rinuncia che possono rimuovere ogni ostacolo e rilanciare l’amore tra due persone. E poi il matrimonio non è solamente l’esperienza romantica e sentimentale di due persone: permane anche quando l’amore viene meno: ci sono infatti dei figli, verso i quali gli sposi hanno un dovere e che hanno bisogno di due genitori, di due figure complementari e diverse. La famiglia è infatti la mirabile unione di età, generi, e ruoli diversi: è qui che si imparano il rapporto generazionale, la propria identità sessuale, la solidarietà, la rinuncia, lo stare con gli altri… Per questo si può essere contrari alla legalizzazione del divorzio anche senza essere credenti, cattolici”.



Agnoli cita quindi le interessanti considerazioni contro il divorzio di Piero Ottone, direttore laico e liberale del Corriere della Sera, il quale nel 1964 scriveva:



“Il divorzio ha il vantaggio di riparare l’errore di un matrimonio sbagliato e permette di ricominciare. D’accordo. Ma presenta anche uno svantaggio che è, a mio avviso, ancora maggiore. Esso uccide, o riduce fortemente, la volontà dei coniugi di compiere ogni possibile sforzo per salvare un matrimonio pericolante. Dobbiamo ricordare innanzitutto che ogni matrimonio, prima o dopo, corre qualche serio pericolo. Uomini e donne sono troppo diversi gli uni dagli altri per andare costantemente d’accordo… Che cosa succede in questo momento pressoché inevitabile in qualsiasi unione matrimoniale, se esiste la possibilità del divorzio? Quel che succede l’ho visto in Inghilterra, in Germania, in Scandinavia. La possibilità di uscire da una stanza in cui si sta scomodi genera un potente, quasi irresistibile desiderio di uscire, senza tentare di rendere quella stanza, quanto più possibile, comoda e abitabile. E ogni indebolimento della volontà dei coniugi è gravissimo, anzi fatale, perché, nei matrimoni davvero pericolanti, solo un grande sforzo da parte di entrambi, senza indecisioni e incertezze, può salvarli. Ne consegue che l’istituto del divorzio, anche se ha il vantaggio di sanare di tanto in tanto le situazioni insostenibili, ha il gravissimo difetto di indebolire la fibra morale dei cittadini. Esso fa di loro, uomini e donne, persone che fuggono davanti alle difficoltà, e non persone che le affrontano con coraggio. Il danno si ripercuote su tutta la vita sociale.


L’indebolimento, inoltre, si ripete a ogni successivo matrimonio di chi si sia già divorziato. L’esperienza dei paesi col divorzio conferma quanto sa benissimo ogni studioso di psicologia. Le difficoltà del primo matrimonio risorgono quasi immutate nel secondo, perché la loro causa fondamentale non risiede nel partner, cioè nell’altro coniuge, bensì in noi stessi… Là dove vige il divorzio è più facile, come in Scandinavia, la gente passa di matrimonio in divorzio tutta la vita. Vi risparmio la descrizione delle conseguenze per i figli, perché furono descritte già migliaia di volte… Sono convinto che l’assenza di divorzio non può salvare tutti i matrimoni, ma ne salva molti che altrimenti finirebbero male. Lo Stato, per la salvezza della famiglia, che è un istituto di importanza ovvia, e per la felicità della maggioranza dei cittadini, fa quindi bene a mio avviso a non permettere il divorzio, anche se questo sacrifica l’esistenza di una minoranza verso i quali tutti sentiamo, si capisce, una profonda comprensione” (citato in Gabrio Lombardi, Perché il referendum sul divorzio?, Ares, 1988).



03 aumento divorziCos’è successo, dunque, dopo la legalizzazione del divorzio? È successo che le previsioni di Ottone si sono avverate.


Come abbiamo più volte osservato, quando una pratica illegale ottiene legittimazione formale, tenderà rapidamente a perdere il carattere di gravità e di eccezione che prima della legalizzazione le apparteneva, trasformandosi in una pratica normale, sempre più accettata, e perciò destinata a diffondersi. Questo è accaduto anche con il numero dei divorzi, aumentati nel corso degli anni in maniera crescente: 10.618 divorzi nel 1975, 11.844 nel 1980, 15.650 nel 1985, 27.682 nel 1990, 27.038 nel 1995, 37.573 nel 2000, 47.036 nel 2005, 54.351 nel 2008, 54.456 nel 2009. In sostanza, dal 1975 al 2009 il numero dei divorzi è quintuplicato, mentre nel frattempo – secondo i dati Istat – i matrimoni sono diminuiti sempre più, con una variazione media  annua del  -1,2%, che nel biennio 2009-2010 è arrivata al -6%. L’avvocato civilista Massimiliano Fiorin, ha osservato che in Italia ogni anno i figli coinvolti nei divorzi sono tra gli 80 e i 90mila, di cui circa la metà ha meno di unici anni al momento del crac familiare.


Ora, se la linea del male minore funzionasse ci dovrebbero essere ogni anno, stando a questi dati, almeno 100mila genitori e circa 85mila figli che scoppiano di gioia e felicità, per aver ritrovato l’auspicata serenità dopo la salutare rottura familiare. Tuttavia, se si va a guardare la realtà dei fatti, emerge uno scenario ben diverso. Si può infatti notare che, con la diffusione del divorzio nella società, sono aumentati sia la povertà delle famiglie che i costi a carico della collettività; che i conflitti di coppia invece di sedarsi si sono acuiti, sfociando non di rado in fenomeni violenti e drammatici; tutto questo continua a ripercuotersi sulla prole e ad arrecare profonda infelicità e immenso dolore a tutti i soggetti coinvolti.


04 raddoppio costiDal punto di vista economico, il primo effetto della separazione è, a parità di entrate, il raddoppio dei costi, questo perché lo stipendio destinato alle spese di una casa (mutuo, affitto, bollette…), dopo la separazione dovrà essere spalmato su due abitazioni (due mutui, due affitti, bollette doppie…). Per una famiglia appartenente al ceto medio e, ancor più, per coloro che già uniti faticano ad arrivare a fine mese, questo significa passare direttamente sotto la soglia di povertà e favorire l’aumento del disastro sociale. Secondo i dati Istat del 2009, dopo la separazione ha peggiorato la propria condizione economica il 50,9% delle donne e il 40,1% degli uomini. Inoltre, la separazione coinvolge e si ripercuote anche sulle famiglie di origine, costrette sovente a riaccogliere in casa il figlio costretto ad abbandonare l’abitazione coniugale, o a fornirgli un aiuto economico perché i soldi per vivere non bastano più.


Ora, non ci vuole molto per capire che, una situazione del genere, non solo non elimina i conflitti coniugali, ma al contrario tenderà a esasperarli, alimentando la rabbia, le rivendicazioni reciproche, le ostilità che, nei casi più bellicosi, possono portare anche al compimento di atti sconsiderati. Dai dati elaborati dall’Associazione Ex, che si occupa del monitoraggio del fenomeno degli omicidi-suicidi consumatisi all’interno del nucleo familiare e maturati nel contesto di separazioni e divorzi, emerge che dal 1994 al 2002 ci sono stati 556 episodi di morte violenta che hanno coinvolto in totale 761 individui; una violenza che ha toccato tutti gli strati sociali senza differenze culturali e di ceto economico. Nel periodo di otto anni preso in esame, la Ex ha monitorato 38.966 casi, rilevando tra le cause dei conflitti: recriminazioni economiche a vario titolo sul mantenimento (94,8% dei casi), impossibilità o intralci alla frequentazione dei minori (71,1% dei casi) e recriminazioni sulla casa coniugale (88,3%). In ben 33.822 casi, cioè nell’86% di essi, vi sono state implicazioni penali come: calunnia, ingiuria, sottrazione di minore, mancato rispetto delle ordinanze, violenza privata, violenza sessuale, ecc.; e in 22.986 casi, il soggetto si è trovato a essere sia denunciato che denunciante. L’avvocato Fiorin ha osservato che “oggi, in Italia i fatti di sangue con motivazioni connesse alla separazione e al divorzio sono probabilmente più numerosi di quelli dovuti alla criminalità organizzata”.


05 litigiIn questo panorama distruttivo, che vede le famiglie di separati farsi la guerra, impoverirsi economicamente e diventare molto più infelici di prima, si è radicata una delle più potenti lobby contemporanee, la cosiddetta “fabbrica dei divorzi”, che con le rotture coniugali ci va letteralmente “a nozze”. Si tratta di un apparato influente e vorace (avvocati, psicologi, assistenti sociali, periti, consulenti, ecc.), che campa con le rotture familiari e che, non avendo perciò alcun interesse a che i conflitti si risolvano in maniera pacifica, si muove in maniera tale da tenere accese le ostilità, spaccando ancor di più i già fragili equilibri delle coppie in crisi.


Se dopo il divorzio gli ex coniugi non stanno affatto meglio di prima, ai loro figli va pure peggio, dovendo costoro fare i conti con una molteplicità di conseguenze economiche, psicologiche e sociali, che producono effetti deleteri sia nell’immediato che in futuro. La numerosissima letteratura scientifica disponibile rivela che, dopo il divorzio, i bambini ricevono meno sostegno emotivo, assistenza economica e aiuto dai loro genitori, meno giocattoli e più punizioni corporali; e sono più soggetti a vivere in povertà e deprivazione. Il divorzio mina seriamente la stabilità psicologica di molti bambini, instabilità che può protrarsi fino all’età adulta, con una maggiore propensione a soffrire di problemi emotivi e psicologici. Molto più elevati sono anche i livelli di abbandono e abuso (fisico, psicologico, sessuale) nei loro confronti. 06 bambino triste

Conseguenze si registrano anche a livello scolastico, con un immediato calo del rendimento, problemi di adattamento, più propensione a marinare la scuola, maggiore probabilità di abbandonare la scuola secondaria e con percentuali più basse di laureati tra studenti di genitori divorziati. I figli di genitori divorziati sono anche più portati a tenere comportamenti delinquenziali, a scappare di casa, ad avere maggiori difficoltà ad andare d’accordo con gli altri, a essere coinvolti in risse e rapine, a fumare, ad abusare di alcol e sostanze stupefacenti e ad assumere farmaci; sono più propensi a pensare seriamente al suicidio e a metterlo in pratica, rispetto ai figli che vivono in famiglie unite. I giovani e gli adulti che hanno sperimentato il divorzio dei genitori hanno più probabilità di avere problemi con la salute sessuale e di diventare genitori adolescenti, meno probabilità di ottenere qualifiche e più propensione a sperimentare la disoccupazione e il sostegno al reddito, hanno più probabilità di avere redditi bassi, di essere arrestati e di andare in galera, di sviluppare problemi di salute, di formare presto delle relazioni e molto più frequentemente sotto forma di convivenza, di avere figli fuori dal matrimonio e, a propria volta, hanno più probabilità di divorziare o di sciogliere la propria relazione.

In definitiva, fatti salvi quei casi eccezionali di cui si diceva all’inizio, per i figli è infinitamente meglio avere dei genitori che litigano ma rimangono insieme, piuttosto di genitori che si lasciano, mandando tutto all’aria. Molto interessante in proposito è lo studio americano “The Case for Marriage” (L. J. Waite, M. Gallangher, Doubleday, New York, 2000) condotto su un campione di persone che consideravano infelice il proprio matrimonio, che ha confutato proprio l’equazione: divorzio uguale felicità. Lo studio ha evidenziato che, cinque anni più tardi le rilevazioni iniziali solo il 19% di chi aveva divorziato e si era risposato ha detto di essere felice, mentre ben il 64% di chi era rimasto insieme al coniuge ha dichiarato che, superato il momento di crisi, il suo matrimonio era poi diventato molto felice.

I ricercatori statunitensi Patrick F. Fagan e Aaron Churchill, che hanno raccolto i risultati di una grande quantità di ricerche pubblicate sull’argomento e autori dello studio “The effects of Divorce on Children”, hanno concluso che il divorzio ha implicazioni negative sui bambini e sulle cinque principali istituzioni della società: la famiglia, la Chiesa, la scuola, il mercato e lo Stato.

Non solo, quindi, il divorzio non permette agli ex coniugi e ai loro figli di stare meglio di prima, ma trasmette altresì i suoi effetti deleteri a livello globale, arrivando a colpire le istituzioni e la collettività… se questo è il “male minore”!

07 divorzio tardivoMa non è ancora tutto, perché la cultura divorzista si è talmente radicata nella società che in tempi recenti è arrivata sempre più a contagiare anche i matrimoni di lunga data, cioè quelle unioni che – salvo rare eccezioni – si erano sempre dimostrate immuni alla rottura coniugale, essendo saldamente costruite sul “finché morte non vi separi”. Così, dopo il divorzio dei genitori si è passati al divorzio dei nonni. Secondo i dati Istat del 7 luglio 2011 risultano “in forte aumento le separazioni con coniugi ultrasessantenni… rispetto al 1995 le separazioni sopraggiunte dal 25° anno di matrimonio in poi sono più che raddoppiate”. Scrive l’Istat che dal 2000 al 2009 le separazioni che hanno riguardato uomini ultrasessantenni sono passate da 4.247 a 8.086 (dal 5,9 al 9.4%), e quelle di donne ultrasessantenni sono passate da 2.555 a 5.213 (dal 3,6 al 6,1%).

Questa nuova tendenza non fa altro che frammentare, impoverire e rendere ancora più fragili e sole le famiglie e le persone, ma è altresì foriera della nascita di nuove problematiche, come ha evidenziato la Neodemos, un’associazione italiana indipendente che si occupa dello studio dei cambiamenti demografici. La Neodemos ipotizza che, da un lato

“l’aumento delle separazioni e dei divorzi in tarda età potrà influire sulla capacità dei coniugi di dare cura ai figli e soprattutto agli eventuali nipoti. Dall’altro lato la diffusione del fenomeno potrà minare gli equilibri che soddisfano i bisogni di cura espressi dagli anziani stessi sia nei confronti dell’ex coniuge sia nei confronti delle generazioni successive. La questione appare particolarmente rilevante in una società come la nostra, che si regge in larga parte sullo scambio di risorse materiali e simboliche all’interno della famiglia”.

La Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) osserva che “chi affronta un divorzio oltre i 50 anni rappresenta una realtà che domani potrà costituire un numero rilevante di anziani soli per scelta e non per obbligo (morte o grave malattia del coniuge)” con tutto ciò che ne consegue, a livello sociale, in termini di accoglienza e supporto dei vissuti di solitudine che solitamente accompagnano queste fasi della vita.

Dagli studi del fenomeno in Paesi come Usa e Gran Bretagna, risulta che il divorzio tardivo penalizza soprattutto le donne, che spesso hanno un minor reddito e faticano maggiormente a risollevarsi con una nuova unione, perché con l’età avanzata per loro è più difficile riuscire a trovare un nuovo compagno. Per contro, gli uomini over 60 si risposano più facilmente, ma più di frequente perdono i rapporti con i figli, specie se sono di classe sociale medio bassa, mancandogli in vecchiaia cura e affetto.

08 divorzio breveRimane da considerare l’aspetto del pendio scivoloso che, puntuale, si è innescato anche dopo la legalizzazione del divorzio. Fino al 1989, servivano cinque anni di separazione prima di chiedere il divorzio. Questo periodo di tempo era stato fissato per permettere alle coppie di riflettere, di cercare una riconciliazione, un possibile recupero del rapporto coniugale, prima di sfasciare tutto per sempre. I dati Istat del 2012 mostrano, per esempio, che il 40% delle separazioni pronunciate nel lontano 1998, al 2010 non era ancora sfociato in divorzio. Sintomo del fatto che non è così preponderante l’interesse di molti coniugi a mettere la parola “fine” in maniera ufficiale e definitiva al loro rapporto. Poi gli anni di riflessione sono stati ridotti a tre, finché anche tre sono stati giudicati eccessivi e ha iniziato a farsi strada l’idea del “divorzio breve”. Nella scorsa legislatura la proposta “breve” prevedeva un solo anno di riflessione prima del divorzio, che diventavano due in presenza di figli minorenni. Il “divorzio breve” non è passato, in compenso due legislature dopo, grazie al governo Renzi, è diventato “brevissimo”: il 22 aprile 2015 la Camera ha approvato in via definitiva il Ddl che prevede solo 6 mesi di riflessione in caso di separazione “consensuale” e 1 solo anno in caso di separazione giudiziale, indipendentemente dalla presenza o meno di figli.

Ora, non serve certo un’intelligenza superiore per capire che, dopo questo via libera, la cellula base della società e la società stessa, si avvieranno verso la frammentazione, la fragilità e la povertà con il piede premuto sul pedale dell’acceleratore. Per capire ciò a cui ora andremo incontro basta dare uno sguardo a quello che è successo in Europa dopo che gli Stati hanno emanato leggi per facilitare e velocizzare il divorzio, ottenendo come risultato un incremento incredibile delle rotture familiari. L’Istituto de Polìtica Familiar (Ipf) di Madrid, che ha realizzato un’indagine sul divorzio in Europa, ha reso noto che rispetto al 1980 – nonostante la caduta dei matrimoni (-725mila, pari al 23,4% in meno) e pur in presenza di un aumento della popolazione di oltre 42 milioni di persone -, i divorzi sono aumentati del 50%. Guida la classifica la Spagna, che nel decennio 1998-2008 ha registrato un incremento dei divorzi del 205% (erano 36.072 nel 1998, sono arrivati a 110.036 nel 2008), con un picco del 330% in più solo nel 2006, cioè un anno dopo l’introduzione del divorzio express 09 divorzio(possibilità di divorziare a partire da tre mesi dopo le nozze). L’Ipf rileva che nel 2008 i divorzi in Europa sono stati più di 1 milione (1 ogni 30 secondi) e, nel periodo 1998-2008, questi hanno coinvolto più di 14 milioni e mezzo di figli minorenni. “Queste cifre – ha detto il presidente dell’Ipf Eduardo Hertfelder – parlano di migliaia di tragedie personali, familiari e sociali davanti alle quali non è possibile restare passivi”.

In conclusione, bisogna ancora una volta prendere atto del fatto che anche la legalizzazione del divorzio, al pari di quella dell’aborto e della fecondazione artificiale, è stato un errore gravissimo e un indubbio fallimento, che non solo non ha permesso di prevenire il male maggiore di partenza – non avendo restituito né gioia né serenità ai coniugi in crisi e ai loro figli -, ma ha propagato il male in tutti gli strati sociali e nelle principali istituzioni della società, determinando a conti fatti: frammentazione, disgregazione, povertà, solitudine, precarietà, più fragilità, più sofferenza, più costi sociali… in ultima analisi, più infelicità.

Si può quindi affermare, senza esagerare, che quando una famiglia si sfascia ci rimettono tutti, meglio quindi, per il bene di tutti, la famiglia unita e stabile invece del “male minore” del divorzio. È sul bene che uno Stato saggio e lungimirante dovrebbe orientare leggi ed energie: sulla coesione della famiglia e non sulla sua sempre più rapida dissoluzione!



Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:13

Il “male minore” porta Male (5° parte: contraccezione artificiale)






01 metodi contraccettivi


5) MALE MINORE e CONTRACCEZIONE ARTIFICIALE


Un altro ambito dove predomina il “male minore” è quello della contraccezione artificiale. Imbottire le donne di ormoni per anni – nel caso dei mezzi estroprogestinici (pillole, minipillole, anelli vaginali, cerotti transdermici, impianti sottocutanei…) – o procurare loro un’infiammazione permanente all’endometrio – nel caso della spirale (IUD) -, sono considerati il “male minore” rispetto al “male maggiore” di una gravidanza indesiderata e un conseguente aborto. Il “male minore” è chiamato in causa anche nell’uso del profilattico quale strumento di prevenzione dalle malattie sessualmente trasmissibili (MST). Il “disturbo” al rapporto sessuale causato dal preservativo rappresenta il “male minore” rispetto al rischio di contrarre una malattia venerea (“male maggiore”)…




INDICE:


1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?


Male minore e “nuovi diritti” legalizzati


2) Male minore e aborto


3) Male minore e fecondazione extracorporea


4) Male minore e divorzio


5) Male minore e contraccezione artificiale


Male minore e “nuovi diritti” reclamati


6) Male minore e matrimonio gay


7) Male minore e droga libera


8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito


9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico


10) Conclusione


Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi


5) MALE MINORE e CONTRACCEZIONE ARTIFICIALE


Un altro ambito dove predomina il “male minore” è quello della contraccezione artificiale. Imbottire le donne di ormoni per anni – nel caso dei mezzi estroprogestinici (pillole, minipillole, anelli vaginali, cerotti transdermici, impianti sottocutanei…) – o procurare loro un’infiammazione permanente all’endometrio – nel caso della spirale (IUD) -, sono considerati il “male minore” rispetto al “male maggiore” di una gravidanza indesiderata e un conseguente aborto. Il “male minore” è chiamato in causa anche nell’uso del profilattico quale strumento di prevenzione dalle malattie sessualmente trasmissibili (MST). Il “disturbo” al rapporto sessuale causato dal preservativo rappresenta il “male minore” rispetto al rischio di contrarre una malattia venerea (“male maggiore”).


Proporre il bene ai giovani appare troppo faticoso, oltre che poco remunerativo per chi con questi presìdi si arricchisce, come l’industria della contraccezione. Meglio quindi ripiegare sul compromesso del “male minore”, piuttosto che educare le persone all’autocontrollo, al rispetto dell’altro, al senso di responsabilità, alla castità prematrimoniale, all’amore vero e gratuito che non brucia subito le tappe e sa aspettare. E allora, cari giovani, siate pure promiscui, divertitevi, fate tutto il sesso che volete, purché abbiate l’accortezza di prevenire gravidanze e malattie sessuali proteggendovi con gli appositi metodi contraccettivi.


Veniamo ora alla fatidica domanda: ha funzionato, almeno in questo ambito, la strategia del “male minore”? Ovvero: sono riusciti oppure no i contraccettivi artificiali a evitare gravidanze, aborti e malattie sessualmente trasmissibili? Ebbene, ancora una volta siamo costretti a ripeterci perché l’esito è sempre lo stesso: il male maggiore di partenza non è stato affatto prevenuto, anzi, si è riusciti perfino a peggiorarlo, sia con una sua più massiccia diffusione, che con la nascita di nuove gravi conseguenze. La risposta alla domanda quindi è no, non ha funzionato: la scelta del “male minore” ha mostrato ancora una volta tutta la sua natura fallimentare.


Come prima cosa si deve osservare che tutti i contraccettivi estroprogestinici (compresa la spirale di tipo ormonale) hanno molti effetti collaterali, anche gravi, sulla salute della donna, che vanno da nausea, vertigini, mal di testa, anomalie del ciclo mestruale, spotting, dolore al seno… a sbalzi d’umore, depressione, aumento di peso, ipertensione… fino a conseguenze pericolose e letali come trombosi, infarto, ictus, tumore al fegato e al seno… L’Agenzia nazionale francese del farmaco (Ansm) ha rilevato che la pillola causa ogni anno più di 2.500 incidenti legali alla formazione di grumi di sangue nelle vene, e ha reso noto che ogni anno in Francia avvengono in media 20 decessi prematuri, 14 dei quali attribuibili alle pillole di terza e quarta generazione.


02 pillola contraccettivaLe pillole di nuova generazione sono accusate di provocare embolie polmonari, trombosi gravi e decessi in misura doppia rispetto alle “vecchie” pillole. L’Association des victimes d’embolie pulmonarie stima 1.000 casi mortali annui in Francia riconducibili all’assunzione di contraccettivi orali. L’agenzia americana di farmacovigilanza (Fda), dopo aver esaminato più di 835mila donne che utilizzano il drospirenone (un progestinico sintetico contenuto nelle pillole), ha ordinato di potenziare gli avvisi di rischio di embolia. Mentre l’azienda produttrice Bayer ha comunicato di aver speso 142 milioni di dollari per cause intentate contro le pillole che produce, di cui circa la metà riguardano trombosi ed embolie polmonari. Solo negli Stati Uniti le cause legali sono arrivate a 11.900. Recentemente, il New England Journal of Medicine ha pubblicato uno studio danese – condotto su 1.600.000 donne tra i 15 e i 49 anni, monitorate per un periodo di 15 anni -, che ha scoperto come l’uso della pillola aumenti il rischio di infarto e ictus. I ricercatori hanno rilevato che, con dosi di estrogeno etinilestradiolo dai 30 ai 40 microgrammi, la probabilità di eventi cardiovascolari aumenta del 50%, un pericolo riscontrato anche nel caso di utilizzo di cerotti e anelli vaginali, per i quali il pericolo risulta pari o addirittura superiore a quello delle pillole a più alto dosaggio.


La dottoressa Angela Lanfranchi della Robert Wood Johnson Medical School del New Jersey, ha comunicato che dal 1973, l’uso della pillola ha fatto aumentare del 660% il cancro al seno non invasivo, e ha reso noto che, nel 2005, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ha classificato i contraccettivi ormonali come agenti cancerogeni del gruppo 1, al pari di amianto e radio. La dottoressa ha quindi riportato tre studi che confermano l’associazione tra pillola e cancro mammario: la Mayo Clinic ha riscontrato un aumento del 50% del rischio di cancro al seno per le donne che assumono contraccettivi orali per quattro o più anni, prima di aver portato a termine una gravidanza; il Fred Hutchinson Cancer Research Center ha rilevato che le donne che iniziano a prendere la pillola prima dei 18 anni, quadruplicano il rischio di carcinoma mammario triplo negativo; l’oncologo svedese Hakan Olsson ha constatato che, l’uso della pillola prima dei 20 anni, aumenta il rischio di cancro al seno di oltre il 1.000 per cento.


03 IUDAnche la spirale non è immune da effetti indesiderati e gravi conseguenze. L’inserimento dello IUD in utero è abbastanza fastidioso e può causare la cosiddetta “reazione vagale”, cioè un senso di mancamento fino allo svenimento, ma l’introduzione della spirale può anche provocare una perforazione o lacerazione della parete uterina (succede 1 volta su mille). Nei mesi successivi all’inserimento si possono verificare casi d’infiammazione locale, inoltre, durante il primo anno di utilizzo, al 5% delle donne capita di espellere spontaneamente la spirale dall’utero in vagina, con conseguente compromissione dell’efficacia contraccettiva. La spirale in rame può aumentare il dolore mestruale, il flusso di sangue, i crampi uterini e lo spotting tra un ciclo e l’altro, mentre lo IUD ormonale può causare la riduzione eccessiva del flusso di sangue, fino a farlo scomparire del tutto. In generale, l’uso della spirale può causare infezioni all’utero e alle tube di falloppio, che possono evolvere determinando lesioni e occlusioni tubariche e, quindi, futura difficoltà a concepire, infertilità e, addirittura, sterilità. Osserva a questo proposito il ginecologo Carlo Flamigni:



“Va segnalato che la spirale può riservare alla donna la brutta sorpresa di non riuscire ad avere alcuna gravidanza, qualora decidesse di sospenderne l’uso. La spirale è sconsigliabile alle adolescenti e alle donne che non hanno ancora partorito, mentre possono usarla le donne che hanno già avuto dei figli”



e non ne vogliano più, a quanto pare.


L’assunzione di farmaci o il sottoporsi a determinate cure si basa, solitamente, sul bilanciamento costi-benefici: prendo l’antibiotico per curarmi l’infezione, anche se so che mi causerà degli effetti collaterali (mal di stomaco, affaticamento, ecc.); accetto le conseguenze della chemioterapia perché mi consente di curare il cancro. In questi casi, infatti, trattandosi di mali fisici è lecito scegliere il male minore. Invece, con i contraccettivi artificiali, la donna viene gravata da pesanti e pericolosi effetti sulla salute, non per curare chissà quale malattia, ma per bloccare forzosamente un delicato processo naturale femminile: la fecondità. Un blocco che, peraltro, nessun contraccettivo tra quelli attualmente disponibili è in grado di garantire in maniera totale, perché l’anticoncezionale efficace al cento per cento non è ancora stato inventato.


04 fuga ovulatoriaLa contraccezione, anche quella con l’indice Pearl più basso (più l’indice è basso maggiore è l’affidabilità contraccettiva) può fallire, questo significa che possono pur sempre verificarsi delle “fughe ovulatorie” e che la donna può rimanere incinta anche se ha usato un anticoncezionale con l’indice Pearl migliore, come la pillola estroprogestinica o la spirale ormonale. In caso di fallimento e quindi di concepimento, entrano in gioco gli altri effetti che gli estroprogestinici e la spirale hanno sull’apparato riproduttivo della donna. Oltre all’effetto antiovulatorio, essi svolgono un’azione anche sull’endometrio (creando un ambiente uterino ostile all’impianto) e sulle tube di falloppio (alterandone la motilità). Ciò significa che, se c’è stato concepimento, si avrà come risultato il precocissimo aborto dell’embrione in quanto impossibilitato a impiantarsi in utero. Ma può anche succedere che si verifichi una pericolosa gravidanza tubarica, perché i movimenti delle tube, che spingono l’embrione verso l’utero, non funzionano come dovrebbero.


L’effetto abortivo aumenta se l’anticoncezionale è assunto in modo irregolare. La pillola ormonale, per esempio, mantiene la sua alta efficacia solo se è assunta ogni giorno alla stessa ora. Se un giorno ci si dimentica di prenderla, o se non è stata assorbita dall’organismo (per es. il soggetto ha vomitato dopo averla ingerita) i suoi effetti sul sistema riproduttivo si riducono. Inoltre, studi condotti sui progestinici “deposito” (iniezioni intramuscolari, anelli vaginali, impianti sottocutanei, cerotti, spirale ormonale,…) hanno rilevato che la loro azione antiovulatoria tende a ridursi nel tempo, comportando una ripresa delle ovulazioni addirittura nel 50% dei cicli, con conseguente aumento dell’abortività.


La contraccezione può fallire anche per altri motivi: il dispositivo era stato posizionato male, il cerotto si era staccato, si sono assunti antibiotici che hanno pregiudicato l’efficacia della pillola ormonale, il profilattico si è rotto… Ma la farmacologia non si è di certo rassegnata all’insuccesso, avendo predisposto – in caso di fallimento della contraccezione standard – un’apposita contraccezione “d’emergenza” sotto forma di altre pillole più potenti da inghiottire: “pillola del giorno dopo” (Levonorgestrel, LNG) efficace entro 72 ore (3 giorni) dopo un rapporto sessuale a rischio e “pillola dei 5 giorni dopo”, EllaOne, efficace fino a 120 ore (5 giorni) dopo il rapporto. In realtà, gli studi dimostrano che entrambe le pillole possono garantire il blocco o il ritardo dell’ovulazione solo in certi casi, per cui anche se assunte dopo un rapporto a rischio non vi è la certezza che il concepimento non si verifichi.


06 ella oneAnalisi eseguite sull’azione dell’LNG hanno mostrato che se la pillola del giorno dopo è assunta tra il 9° e il 15° giorno del ciclo ovarico, ha una probabilità di bloccare l’ovulazione solo del 17,7%, mentre se è assunta tra l’11° e il 19° giorno la probabilità di bloccarla arriva al massimo al 23,5%. Un altro studio condotto su 6 donne alle quali è stato somministrato l’LNG 750 in fase periovulatoria, ha rilevato che l’ovulazione si è verificata in 4 di esse. Anche EllaOne – che ha un principio attivo simile a quello della pillola abortiva Ru486 – è risultata assai fallace, essendo riuscita a bloccare l’ovulazione nel 78,6% dei casi quando è stata ingerita entro le 24 ore che precedono l’ovulazione, ma solo nell’8,3% dei casi quando è stata assunta in prossimità dell’ovulazione (Human Reproduction, Vol. 25, n. 9, pp. 2256-2263, 2010). Questo significa che, non di rado, in caso di assunzione delle pillole “di emergenza” dopo un rapporto a rischio, la gravidanza non si verifica, non perché è stata bloccata l’ovulazione, ma perché se c’è stato concepimento l’embrione è andato incontro a morte certa a causa di un ambiente uterino ostile che ne ha ostacolato l’annidamento. Entrambe le pillole, infatti, svolgono anche un effetto antinidatorio, agiscono cioè sull’endometrio rendendolo inadatto all’impianto.


Oltre ai limiti di efficacia antiovulatoria e all’effetto letale sull’embrione, entrambe le pillole “di emergenza” hanno pure pesanti ripercussioni sulla salute della donna. La “pillola del giorno dopo” è una vera e propria bomba ormonale con numerosi effetti collaterali, tra i quali: nausea, vomito, dolore addominale, cefalea, capogiri, affaticamento, dolore mammario, diarrea, sanguinamento uterino, mestruazioni abbondanti… Vi sono poi effetti indesiderati comuni, come perdite ematiche e alterazioni del ciclo mestruale: in particolare, il 15% delle donne rileva un anticipo del ciclo, il 15% un ritardo di 3-7 giorni e il 13% un ritardo superiore a 7 giorni. L’assunzione ripetuta di questa pillola, molto diffusa tra le giovanissime, è in grado di compromettere l’equilibrio endocrino, inoltre, a causa del suo effetto sulle tube di falloppio, accresce il rischio di gravidanza extrauterina di 2,5 volte.


Degli effetti simili si verificano anche con l’assunzione di EllaOne, dove il 10% delle donne manifesta mal di testa, nausea e dolori addominali. Tra gli altri effetti collaterali si registrano: disturbi dell’umore, capogiri, dolori diffusi, tensione al seno, vomito, affaticamento, mal di schiena… e alterazioni del ciclo mestruale: nel 7% delle donne le mestruazioni si sono presentate con un anticipo di oltre 7 giorni, nel 18,5% vi è stato un ritardo di più di 7 giorni e nel 4% delle donne il ritardo ha superato i 20 giorni. Anche in questo caso, l’uso ripetuto della pillola desta serie preoccupazioni poiché EllaOne, alterando la maturazione secretiva dell’endometrio, lo rende meno funzionale.


07 preservativiNon va meglio per il preservativo, così fortemente pubblicizzato quale metodo efficace contro le malattie sessualmente trasmissibili, è in realtà uno strumento assai fallace sia nel prevenire le malattie che le gravidanze. Il profilattico, infatti, si può sfilare; si può rompere; si può indebolire se usato insieme a lubrificanti a base oleosa, o se esposto a fonti di calore (conservarlo nel portafoglio, nel cruscotto della macchina, ecc.) e si degrada con l’invecchiamento. Ma anche quando viene usato correttamente, non costituisce una barriera invalicabile al passaggio dei virus, sia a causa della porosità della sua superficie, sia perché non copre tutto l’organo maschile.


Studi in microscopia elettronica delle membrane in lattice hanno scoperto che c’è una relativa permeabilità a microsfere di dimensione superiore a quella dell’HIV in 6 condom su 69 testati. In altre parole, il virus dell’Aids, essendo piccolissimo, riesce con facilità a oltrepassare la membrana del preservativo e quindi a diffondere il contagio. Una ricerca citata su Family Planning Perspective, condotta da Margaret Fishel su coppie sposate dove uno dei due partner era sieropositivo, ha rilevato che l’uso del preservativo ha prodotto l’infezione dell’altro partner, nel giro di un anno e mezzo, nel 17% dei casi. Mentre, il Centers for Disease Control and Prevention ha recentemente reso noto che negli Stati Uniti gli uomini omosessuali coprono il 61% delle nuove infezioni da HIV nonostante essi siano solo il 2% della popolazione.


Il fallimento del preservativo come mezzo di prevenzione dai contagi dalle malattie di natura sessuale è particolarmente evidente in Africa, dove la distribuzione a tappeto di condom non è affatto riuscita a invertire il segno delle epidemie più gravi. Matthew Hanley, ricercatore in Sanità Pubblica alla Emory University di Atlanta (USA), ha osservato in una relazione che nell’Africa sub-sahariana, negli ultimi dieci anni, si sarebbero potute evitare 6 milioni di infezioni se invece di promuovere l’uso del preservativo fosse stato incentivato l’approccio cattolico di fedeltà e astinenza. In Uganda, per esempio, tra il 1991 e il 2001 si è verificato un calo del 10% dei casi di Aids dopo che si è investito sui programmi di astinenza. Mentre i tassi hanno ripreso a salire quando le agenzie straniere che elargiscono i fondi hanno insistito e ottenuto che fossero di nuovo impiegati per la distribuzione dei condom.


Il dottore Marijo Zivkovic, direttore del Centro per la Famiglia di Zagabria, ha osservato che la massiccia diffusione di profilattici si basa sull’illusione che con il condom si possa fare “sesso sicuro”, mentre in realtà si stanno favorendo la frequenza e la diffusione di “rapporti a rischio infezione”. “Bisogna dire chiaramente – ha detto Zivkovic – che anche usando il condom ogni persona rischia di essere infettata dall’HIV”. La sessuologa Helen Singer-Kaplan ha scritto nel suo libro “The real truth about women and Aids che “contare sui preservativi è flirtare con la morte”. Il professore Stephen Genuis, dell’Università canadese di Alberta, ha precisato che “il preservativo non può essere considerato come la risposta definitiva al contagio sessuale perché esso assicura una protezione insufficiente contro la trasmissione di molte malattie comuni”. A San Francisco, per esempio, nonostante l’enorme disponibilità di preservativi gratuiti e ore di educazione al “sesso sicuro”, le malattie veneree invece di arrestarsi continuano a salire, come ha reso noto il San Francisco Department of Public Health: “Nel 2011 i dati preliminari sulle malattie a trasmissione sessuale segnalati mostrano gli aumenti per la clamidia, la gonorrea e la sifilide precoce”.


Perché accade tutto questo? Vale a dire: perché a una maggiore diffusione del profilattico corrispondono livelli più alti di contagio da MST? Perché il senso di sicurezza veicolato con l’uso dei contraccettivi porta le persone a incentivare l’attività sessuale e i comportamenti a rischio, i quali, uniti alla fallacia e ai limiti dei metodi stessi, danno vita a questo paradosso: lì dove la propaganda al “sesso sicuro” è più martellante e dove l’uso della contraccezione (standard e “di emergenza”) è più diffusa, si registrano sia più contagi da malattie sessualmente trasmissibili, che più gravidanze indesiderate e aborti.


E non solo, visto che le malattie sessualmente trasmissibili possono provocare anche infertilità e sterilità, lì dove aumentano i contagi da MST, aumentano anche i casi di infertilità e sterilità sia maschile che femminile. Ma infertilità e sterilità sono associate anche all’uso della spirale e dei contraccettivi ormonali. L’azione costante di irritazione della parete uterina – nel caso della spirale – e le modificazioni della flora batterica vaginale – operata dai metodi ormonali -, determinano infiammazioni e maggiore vulnerabilità all’azione di virus e batteri, per cui, lì dove è maggiore l’uso di tali metodi, vi è anche maggiore predisposizione al contagio da MST e più rischio all’infertilità e alla sterilità. Questi sono i “formidabili” risultati delle politiche del “male minore”!


08 risk compensationIl fenomeno secondo cui le persone tendono a moltiplicare i comportamenti a rischio all’innalzarsi del senso di sicurezza, è stato riscontrato in molti ambiti. Alcuni esperti lo chiamano effetto “cinture di sicurezza”, richiamandosi a quegli studi che hanno scoperto che quando gli automobilisti guidano con le cinture allacciate tendono a prendersi più rischi spingendo maggiormente sul pedale dell’acceleratore. Il termine tecnico è “risk compensation” (“compensazione del rischio”), e definisce quel fenomeno secondo cui le persone modificano il loro comportamento in base al livello di rischio che percepiscono: se il rischio percepito è elevato fanno più attenzione, se è basso si sentono più protette e agiscono con meno prudenza. Questo fenomeno si verifica anche con gli anticoncezionali. La pervicace propaganda al “sesso sicuro” inculca nelle persone l’idea che l’attività sessuale “protetta” non avrà conseguenze spiacevoli (gravidanze indesiderate, malattie sessuali), ciò abbassa la percezione del rischio incentivando comportamenti sessuali più disinvolti e minore attenzione. Tutto questo, combinato con i limiti propri dei contraccettivi, determina il paradosso che abbiamo visto, cioè l’incremento delle gravidanze indesiderate e delle malattie veneree.


Tra le malattie a trasmissione sessuale non vi è solo l’Aids, risultano infatti in aumento – soprattutto nella fascia giovanile – la Clamidia, l’herpes genitale e le infezioni di Papillomavirus (HPV). Ma si stanno anche diffondendo malattie che parevano scomparse da tempo, come la sifilide e la gonorrea. In Europa gli aumenti più vertiginosi si sono registrati proprio nei Paesi dove le politiche al “sesso sicuro” sono martellanti e la contraccezione è molto diffusa: l’88% dei casi di infezione da MST si concentra in Svezia, Norvegia, Gran Bretagna e Danimarca.


Il Papillomavirus è responsabile del cancro alla cervice uterina, il primo tumore a essere riconosciuto dall’Oms come totalmente riconducibile a un’infezione. Ma l’HPV è anche responsabile di molte altre patologie genitali ed extra-genitali, come le forme benigne ma estremamente fastidiose e difficili da trattare di condilomi anogenitali, le lesioni cervicali iniziali, la papillomatosi respiratoria ricorrente, le neoplasie del tratto anogenitale, e alcune neoplasie della testa e del collo (lingua e tonsille). L’HPV comprende oltre 100 tipi virali, ma i più “cattivi” sono essenzialmente quattro, responsabili del 75% dei carcinomi della cervice uterina, del 70% delle lesioni precancerose del collo dell’utero, del 70% dei casi di cancro della vulva e della vagina e del 90% dei condilomi genitali. Non è un caso, quindi, che questo virus costituisca un pericolo, non solo per le donne, ma anche per i gay. Alcune statistiche rivelano che il tumore all’ano colpisce 4 uomini gay su 10mila a causa dell’infezione da HPV: una frequenza pari a 20 volte quella nella popolazione generale. Inoltre, poiché l’infezione indebolisce le difese immunitarie, si apre la strada anche ad altre malattie, in particolare l’Aids.


Il biologo Manuel Pensis, referente del laboratorio di andrologia presso il centro svizzero ProCrea, inserisce l’HPV tra le malattie a trasmissione sessuale che con più frequenza causano infertilità maschile: il papillomavirus può infatti provocare astenozoospermia, cioè ridotta o assente mobilità degli spermatozoi: una causa frequente di infertilità nell’uomo.


10 malattie venereeLa clamidia e la gonorrea possono causare alla donna processi infiammatori acuti o cronici in grado i ostruire le tube e perciò forieri di sterilità transitoria o, se trascurati, permanente. La sifilide può causare sterilità, ma anche aborti, morti neonatali, prematurità e sifilide congenita nel neonato. Le infiammazioni provocate da queste tre malattie hanno effetti anche sull’uomo, dato che possono ostruire il canale che dal testicolo va alla vescicola seminale, determinando infertilità e – se non curate e cronicizzate – anche sterilità. Le infiammazioni possono compromettere la capacità riproduttiva maschile anche per il fatto di alterare le componenti biochimiche del liquido seminale.


Infertilità e sterilità nella donna sono anche provocate – come abbiamo già accennato -, dall’uso della spirale e dei contraccettivi ormonali, sia per effetto dell’azione irritante provocata dalla spirale, che a causa della modificazione della flora batterica vaginale causata dai metodi ormonali, forieri di fatti flogistici e maggiore vulnerabilità al contagio da MST. Questi metodi contraccettivi possono, inoltre, provocare infertilità e sterilità anche a seguito della loro azione di blocco dell’ovulazione. Il giorno che la donna sospenderà l’assunzione di ormoni extra perché desidera una gravidanza, corre il rischio di dover aspettare mesi, un anno, o anche di più, prima che l’apparato riproduttivo ritorni alla sua normale fertilità dopo tanto tempo di forzoso blocco chimico. Ma, ancor peggio, può succedere che questo blocco protratto negli anni comprometta gravemente la fecondità, pregiudicandole per sempre la possibilità di diventare madre.


11 gravidanza indesiderataIl paradosso che si registra con le malattie sessualmente trasmissibili si verifica anche con le gravidanze indesiderate e gli aborti: i Paesi che più sponsorizzano il “sesso sicuro”, promuovendo l’uso dei contraccettivi artificiali e incoraggiando e agevolando la contraccezione “d’emergenza”, si ritrovano ad avere più gravidanze indesiderate e tassi di abortività più alti.


Uno studio realizzato in Spagna, pubblicato sulla rivista medica Contraception, che ha preso in esame le donne spagnole in età fertile nel periodo 1997-2007, ha rilevato un aumento complessivo dell’utilizzo dei metodi contraccettivi dal 49,1% al 79,9%. In particolare, l’uso del preservativo è passato dal 21% al 38,8%, mentre l’impiego della pillola ormonale dal 14,2% al 20,3%. Ebbene, se i metodi contraccettivi funzionassero, si sarebbe dovuta verificare una diminuzione delle gravidanze indesiderate e quindi degli aborti, invece è accaduto esattamente il contrario con il tasso di abortività che è addirittura raddoppiato, passando dal 5,52 all’11,49 per mille.


Lo stesso risultato si è avuto in Svezia, nazione notoriamente all’avanguardia in termini di educazione sessuale tra i giovani e dove la pillola “del giorno dopo” si può acquistare senza ricetta già dal 2001. Ebbene, la Svezia ha un tasso di abortività ancora più elevato di quello spagnolo: 22,5 per mille. L’aumento del numero degli aborti si è verificato proprio in concomitanza all’esplosione delle vendite di pillole “del giorno dopo”, che nel periodo 2000-2007 sono raddoppiate in tutto il Paese e triplicate nella capitale Stoccolma. In quello stesso periodo il numero delle interruzioni di gravidanza è cresciuto del 20%, passando da 30.980 (dato del 2000) a 37.205 (dato del 2007). Solo nella Capitale, nel 2007, gli aborti sono stati 10.259, pari a un aumento del 6,9% rispetto solo all’anno prima.


Anche in Scozia, nonostante le forti spinte all’uso della pillola “del giorno dopo” per prevenire gravidanze indesiderate e aborti, le interruzioni di gravidanza continuano a salire, facendo registrare un aumento anche delle recidive. Secondo il rapporto del British National Health Service, nel 2007 gli aborti in Scozia sono aumentati del 4% rispetto all’anno prima, e più di 1 donna su 4 (il 26,3%) aveva già abortito almeno una volta in precedenza.


Pure la Francia, patria della contraccezione artificiale, non è immune al paradosso della contraccezione. In questo Paese il 95% delle donne sessualmente attive che non desidera una gravidanza usa la spirale o la pillola ormonale; la pillola “del giorno dopo” si può acquistare senza ricetta e le ragazzine la ricevono gratuitamente (solo nel 2010 ne sono state vendute 1 milione e 100mila confezioni); i giovani sono sottoposti a 40 ore obbligatorie all’anno di educazione sessuale. Ebbene, proprio in Francia, non diminuisce mai dal 1975 la cifra media di 227mila aborti all’anno. Nel 2007 il tasso di abortività delle ragazze tra i 15 e i 19 anni è stato del 15,6 per mille e il tasso delle malattie sessualmente trasmissibili del 3,9%.


Ma la coppa europea per il fallimento delle politiche libertarie in termini di “sesso sicuro”, spetta senz’altro alla Gran Bretagna la quale, nonostante l’immane impegno profuso su molteplici fronti, continua a conseguire un insuccesso dopo l’altro e a registrare tassi di abortività a dir poco scioccanti. Con l’obiettivo di dimezzare il numero di gravidanze tra le adolescenti, il governo inglese, a partire dal 1999, ha avviato il programma “Teenage Pregnancy Strategy”, mettendo in campo ben 300 milioni di sterline; la pillola “del giorno dopo”, propagandata come strumento efficace per ridurre gli aborti, si può acquistare senza ricetta medica (solo nel 2008 ne sono state vendute 1 milione e 428mila confezioni); sui media i giovani sono bombardati da una campagna promozionale che usa un linguaggio sessualmente esplicito e fornisce consigli su come procurarsi i contraccettivi migliori; dal 2011 anche le tredicenni possono ottenere gratis la pillola “del giorno dopo” in farmacia e senza il consenso dei genitori. Tutto questo con quali risultati? Un tasso di malattie sessualmente trasmissibili del 6,2%, un tasso di abortività tra le adolescenti in crescita costante e un aumento della ripetitività abortiva. Le adolescenti ad aver abortito nel 2010 sono state 38.269. Di queste, ben 5.300 erano alla loro seconda esperienza, 485 alla terza, 57 alla quarta, 14 alla quinta, 4 erano al loro sesto aborto e almeno 3 al settimo.


Nel 2009, il British Medical Journal ha pubblicato uno studio realizzato su un gruppo di 446 giovani a rischio, riscontrando un tasso di abortività tra le ragazze fino a 19 anni del 23 per mille. I ricercatori hanno anche scoperto che, le ragazze che avevano partecipato a un corso di educazione alla contraccezione, avevano un tasso di gravidanze 3,5 volte più alto rispetto alle coetanee che non avevano frequentato le lezioni. David Paton, esperto di bioetica e professore di Economia Industriale alla Nottingham University Business School, si è così espresso, in una conferenza a Belfast, a proposito delle politiche sul “sesso sicuro” del Governo inglese:



“Si vuole sostenere che garantire agli adolescenti un accesso riservato ai servizi di pianificazione familiare e aborto avrebbe avuto un impatto positivo sulla gravidanza adolescenziale e i tassi di aborto. Tuttavia, invece, si può dimostrare che la conseguente riduzione della percezione del rischio porta a un incremento dei comportamenti a rischio, che combinati con il fallimento contraccettivo, non fanno altro che aumentare il tasso di gravidanze adolescenziali”.



In Italia, le malattie sessualmente trasmissibili risultano in aumento nella fascia giovanile. In meno di dieci anni sono triplicati i casi di sifilide, quelli di gonorrea sono aumentati di quasi il 30% e 1 ragazza su 4 sotto i vent’anni è positiva alle clamidie. In aumento risultano anche l’herpes genitale e le infezioni di Papillomavirus. Ed è sempre nella fascia giovanile che si registra l’aumento maggiore dei casi di infertilità. Secondo le ultime ricerche svolte dalla Siams (Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità) e dalla Fondazione per Benessere in Andrologia, i giovani italiani risultano meno fertili dei quarantenni, con un rischio di infertilità per 1 maschio su 3. Nonostante questa tendenza, il tasso italiano di MST (2,7%) è ben al di sotto di quello degli Stati che promuovono con insistenza l’educazione sessuale e il “sesso sicuro”, collocandosi ai livelli più bassi della classifica europea.


Ancora nella fascia giovanile risulta in aumento in Italia l’utilizzo della pillola “del giorno dopo”, più della metà delle acquirenti ha infatti meno di vent’anni. Dal 2000 al 2007 le vendite sono aumentate del 59%, con un picco annuo di 370mila confezioni, che corrisponde a una media di mille scatole al giorno. Tuttavia, anche se prendiamo il dato italiano più alto (370mila confezioni annue) e lo confrontiamo con i dati delle altre nazioni europee, per esempio con il milione e 428mila confezioni usate in Inghilterra nel 2008, o il milione e 100mila confezioni comprate dalle francesi nel 2010, si vede che l’emergenza “pillola del giorno dopo” si trova altrove.


Nella stessa fascia d’età in cui si rileva un aumento dell’uso della pillola “del giorno dopo”, si registra puntuale anche l’aumento del tasso di abortività: nel 2010 il tasso di abortività delle minorenni (15-17 anni) è salito fino al 4,5 per mille. Tuttavia, nonostante l’aumento degli aborti tra le giovanissime, il tasso di abortività delle donne italiane in età feconda (7,8 per mille nel 2011) si situa – al pari di quello relativo alle MST – tra i più bassi d’Europa.


La situazione italiana conferma, in sostanza, il paradosso della contraccezione. In Italia la contraccezione non è così diffusa e reclamizzata come nei Paesi europei che hanno i tassi più elevati, le donne italiane che fanno uso della pillola estroprogestinica sono appena il 16%, una percentuale tra le più basse in Europa. I giovani italiani non hanno l’obbligo di frequenza a corsi di educazione sessuale e la pillola del giorno dopo si può avere solo dietro presentazione di ricetta medica. Tutto questo riesce a contenere, rispetto agli Stati che hanno politiche più liberali, il ricorso all’aborto e le infezioni per via sessuale. Ciò non toglie che non si debba lavorare, a livello politico e culturale, per fare meglio, abbandonando la logica del “male minore” e ricominciando a promuovere il bene, soprattutto nella fascia d’età che ha tutti i parametri in crescita, quella dei nostri giovani, che rischiano di compromettere la propria fertilità e genitorialità futura.


13 pillole morteIn conclusione si può osservare che gli Stati che seminano contraccettivi raccolgono malattie veneree e aborti. Le politiche del “male minore” continuano ad accumulare fallimenti: non solo la promozione della contraccezione artificiale come “male minore” non previene il “male maggiore” delle malattie sessualmente trasmissibili e degli aborti, ma è proprio la promozione della contraccezione a provocare per prima il dilagare del “male maggiore”: incremento dei contagi di natura sessuale, delle gravidanze indesiderate e degli aborti. Ed è sempre grazie alla contraccezione artificiale se gli uomini e le donne hanno anche un maggior rischio di soffrire di infertilità e sterilità, essendo queste patologie collegate sia alle infezioni di natura sessuale che all’azione svolta sull’apparato riproduttivo dai contraccettivi stessi.


Dopo averlo di nuovo accertato, dobbiamo ancora una volta ribadirlo: promuovere il “male minore” significa lavorare per l’espansione del male fino al suo trionfo completo.





Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:15

Il “male minore” porta Male (6° parte: matrimonio gay)

01 matrimonio gay

Male minore e “nuovi diritti” reclamati

Strategia vincente non si cambia. Coloro che vogliono portare a casa ulteriori “nuovi diritti” continuano, logicamente, a usare le stesse “armi” che si sono dimostrate vincenti nel conquistare i vecchi “nuovi diritti” acquisiti in passato, che abbiamo fin qui esaminato. Come vedremo nelle pagine che seguono, costoro continuano a ripetere che c’è un “far west” da debellare, continuano a cambiare la realtà cambiando semplicemente il significato delle parole e, soprattutto, continuano a predisporre la trappola del “male minore”, certi che in questo modo potranno sicuramente contare sull’aiuto dei cattolici, i quali, incapaci di imparare dagli errori passati e stregati dalla “riduzione del danno”, abboccheranno sicuramente come allocchi.

È grazie al voto e all’impegno dei cattolici se l’Italia ha potuto avere tre leggi inique come quelle su divorzio, aborto e fecondazione in vitro, non tradiranno perciò le rosee aspettative dei nemici della vita, della famiglia e del Diritto Naturale, che oggi combattono per ottenere il matrimonio gay, la droga legale, l’eutanasia e la sua appendice: il testamento biologico.

 


INDICE:

1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?

Male minore e “nuovi diritti” legalizzati

2) Male minore e aborto

3) Male minore e fecondazione extracorporea

4) Male minore e divorzio

5) Male minore e contraccezione artificiale

Male minore e “nuovi diritti” reclamati

6) Male minore e matrimonio gay

7) Male minore e droga libera

8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito

9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico

10) Conclusione

Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi

6) MALE MINORE e MATRIMONIO GAY

“Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico” ed “è intollerabile che questo Parlamento non sia riuscito a varare una legge contro l’omofobia e la transfobia”.

02 BersaniQuesta dichiarazione di Pier Luigi Bersani, ex segretario del Partito Democratico, espressa nel 2012 in un messaggio rivolto ai promotori del gay pride di Bologna, richiama una strategia che abbiamo ormai imparato a riconoscere: bisogna fare una legge per fermare il far west. Quando è stato approvato il divorzio c’erano da regolarizzare 5 milioni di persone coinvolte nelle separazioni coniugali; con l’aborto legale bisognava invece fermare la piaga dell’aborto clandestino: 2-3 milioni di aborti illegali annui e migliaia di donne che morivano a causa delle “mammane”; grazie alla legalizzazione della fecondazione extracorporea si sarebbe finalmente messo un argine alla “provetta selvaggia”. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. In questo caso le cifre che vengono sparate parlano di 5-6 milioni di omosessuali in Italia e di un numero di figli che vivono in coppie omogenitoriali che va dai 100mila (secondo Arcigay) ai 200mila (secondo Arcilesbica), ma come in passato i numeri sono falsificati e gonfiati oltremisura. Se si va a leggere il rapporto Istat relativo al censimento del 2011, si può vedere che gli italiani che si dichiarano “omosessuali o bisessuali” sono 1 milione (circa l’1% della popolazione), che le coppie omosessuali sono appena 7.513 (13.990.000 sono le coppie composte da un uomo e una donna) e i figli che vivono con loro solo 529, dei quali la maggior parte frutto di una precedente unione eterosessuale e perciò, anche dal punto di vista anagrafico, con un padre e una madre. I numeri reali ci dicono in sostanza che non c’è nessuna emergenza nazionale o ipotetico far west da fronteggiare.

03 Renzi Civil PartnerschipIl “comunista” Bersani non è riuscito a realizzare le unioni civili omosessuali, ma oggi, grazie al “cattolico” Renzi, l’obiettivo sembra che si possa finalmente concretizzare. Non c’è niente da fare, per l’introduzione delle norme inique bisogna aspettare l’arrivo dei cattolici… e del politically correct: tranquilli, non si tratta del “matrimonio gay” ma semplicemente delle “civil partnerships” all’inglese o alla tedesca.

Il Ddl sulle unioni civili in discussione alla commissione Giustizia del Senato, conferisce riconoscimento legale alle convivenze omosessuali assegnando loro gli stessi diritti che hanno marito e moglie: reversibilità della pensione, quota di legittima nella successione in caso di morte, iscrizione alle liste per l’assegnazione delle case popolari, diritto all’assistenza, assegno di alimenti in caso di cessazione del vincolo… una serie di diritti che per la maggior parte i conviventi possono già regolare in forma privata. Resta esclusa l’adozione di bambini, ma il divieto è solo formale, il Ddl prevede infatti la stepchild adoption, mediante la quale il partner omosessuale non biologico potrà adottare il figlio biologico del convivente, diventando anch’egli genitore del bambino a tutti gli effetti. Ora, poiché è indiscutibile che i figli possano nascere solo dall’unione di un uomo e una donna, i figli di un’unione civile non saranno altro che i bambini che le coppie gay si saranno fabbricati all’estero col ricorso alla fecondazione eterologa e all’utero in affitto, vietato in Italia. Per cui, se uno dei conviventi si procurasse un figlio all’estero, acquistando un ovocita che sarà fecondato con il suo seme e impiantato in un utero in affitto, il bambino che porterà in Italia sarà biologicamente suo e, dunque per legge, potrà essere adottato anche dal convivente. Lo stesso risultato si potrebbe ottenere anche nel caso in cui, invece di un figlio biologico, uno dei conviventi si procurasse un figlio adottivo in un Paese con una legge più permissiva di quella italiana. Osserva il sociologo Massimo Introvigne che – secondo quanto stabilito da una sentenza del Tribunale dei Minori di Bologna del 21 marzo 2013 – “un single che ha validamente adottato un bambino all’estero ha diritto a vedersi riconosciuta l’adozione anche in Italia”. In questo modo il partner dell’unione civile potrà adottare il figlio adottivo dell’altro partner, divenendone anche in questo caso il genitore effettivo. In entrambe le situazioni il risultato non cambia: il bambino si ritroverà con due genitori dello stesso sesso e privato di una figura genitoriale fondamentale.

Il divieto di adozione del Ddl sulle unioni civili assomiglia moltissimo ai paletti di cartone della legge 40, che formalmente introduceva il divieto di crioconservare gli embrioni, ma poi di fatto permetteva che si crioconservassero. Ma anche all’ipocrisia della legge 194, che all’art. 1 dice che lo Stato “tutela la vita umana dal suo inizio”, ma poi quella stessa vita permette di eliminarla con l’aborto.

Introvigne osserva che, anche nel caso in cui l’articolo sull’adozione dovesse essere eliminato dal Ddl, ci penserebbero poi la Corte Europea e Costituzionale a riconoscerla. La Corte Europea ha, infatti, stabilito che nessun Paese dell’UE è obbligato a introdurre istituti simili al matrimonio per le coppie omosessuali, ma se lo fa non può poi “discriminarle” rispetto alle coppie eterosessuali. Se dunque dovesse passare il Ddl sulle unioni civili senza l’articolo della stepchild adoption – scrive il sociologo italiano – “dopo pochi mesi la magistratura – italiana o europea – reintrodurrebbe le adozioni, non in base a una nuova giurisprudenza bensì a un orientamento chiaro e definito, che esiste già”.

05 aiuti solo ai gay - il giornaleV’è poi chi ha fatto notare che una discriminazione potrebbe essere riconosciuta anche nei confronti delle unioni civili eterosessuali alle quali il Ddl attribuisce di fatto meno diritti, come quello di non godere della pensione di reversibilità che invece è garantita alle coppie omosessuali. A questa obiezione il Governo ha risposto dicendo che, se le coppie eterosessuali vogliono anch’esse godere di tutti i diritti, non devono far altro che contrarre matrimonio. In realtà il vero, e più pragmatico, motivo è un altro: il premier Renzi vuole evitare l’errore che fece il governo britannico quando inaugurò il riconoscimento delle convivenze sia omo che etero, poi costretto a una repentina marcia indietro nei confronti delle coppie etero, perché le cifre astronomiche che si materializzarono rischiavano di far fallire il sistema di previdenza sociale. Ecco perché anche in Italia la civil partnership è destinata solo alle coppie omosessuali: poche migliaia di coppie gay (7.513 secondo i dati Istat) non dovrebbero costituire un pericolo per le casse dell’INPS, quasi un milione di coppie eterosessuali conviventi sì. Tuttavia, se in futuro dovesse essere riconosciuta una discriminazione di legge tra coppie conviventi gay ed eterosessuali, lo spauracchio della bancarotta del sistema previdenziale riemergerebbe in tutta la sua portata.

Oltre a questi problemi, v’è anche chi ha fatto notare l’insorgenza di possibili abusi, con la nascita di unioni civili solo per convenienza: per assicurarsi la pensione di reversibilità basterà “sposare” l’amico o l’amica titolare di pensione.

A questo punto sorge una domanda: ma se i diritti assegnati alle coppie gay dalla civil partnerschip sono già regolati dal diritto privato, perché fare una norma per introdurre la civil partnership? La risposta è evidente: per arrivare al matrimonio gay e alle adozioni! Dopo l’equiparazione sostanziale delle unioni civili alla famiglia fondata sul matrimonio, non tarderà ad arrivare anche il loro riconoscimento formale, come è successo prima in Inghilterra e poi in Irlanda. In Inghilterra le “unioni civili” sono state riconosciute nel 2005, il matrimonio gay è arrivato nel 2013. Cos’è cambiato nell’impianto della legge? Nulla, tutto era già stato scritto e previsto, è bastato solo modificare il nome da “civil partnership” in “same-sex marriage”. Quando è stata fatta quest’operazione – scrive Introvigne – la maggioranza degli inglesi se n’è accorta a stento, perché convinta che il matrimonio omosessuale ci fosse già. Infatti, se nella sostanza l’istituto dell’unione civile prevede diritti e doveri per la coppia del tutto analoghi a quelli della famiglia fondata sul matrimonio, lo si può chiamare come vuole, ma la realtà resta quella di un matrimonio. Osserva Introvigne al riguardo:

“Posso scrivere sulla bottiglia ‘champagne’ ma se dentro c’è della gazzosa non si trasforma miracolosamente in Dom Perignon… Un proverbio americano dice che se un animale cammina come un’anatra e starnazza come un’anatra tanto vale chiamarlo anatra. Con qualunque clausola cosmetica a uso degli ingenui, la legge Cirinnà [sulle unioni civili] è un’anatra che cammina come il matrimonio e dà i diritti del matrimonio, adozioni comprese”.

In Irlanda è accaduta una cosa analoga. Nel 2010 è stato creato il nuovo istituto giuridico delle unioni civili fra persone dello stesso sesso, in tutto uguali al matrimonio tra uomo e donna, a esclusione dell’adozione. Prima del referendum popolare del 22 maggio 2015, il Parlamento irlandese ha introdotto a tempo di record una legge che garantiva loro anche il diritto di adozione. A questo punto che cosa restava da decidere al popolo irlandese? Solo il nome, perché di fatto i diritti c’erano già tutti.

Questo è quello che succederà anche in Italia, se dovesse passare il Ddl sulle unioni civili del PD. Una volta creato l’istituto giuridico, in tutto uguale al matrimonio, le adozioni in un modo o nell’altro arriveranno e, a quel punto, non resterà altro da fare che cambiargli il nome da “unione civile” in “matrimonio”.

Dopo questa lunga, ma necessaria, premessa arriviamo all’argomento principale della nostra riflessione, ovvero il “male minore” e di come esso si concretizza nell’ambito della questione unioni civili. Ancora una volta dobbiamo, purtroppo, constatare che il compromesso del “male minore” proviene da esponenti del mondo cattolico:

“È necessario riconoscere le unioni delle persone dello stesso sesso, perché ci sono molte coppie che soffrono perché non vedono riconosciuti i loro diritti civili; quello che non si può riconoscere è che questa coppia sia un matrimonio”.

Quest’affermazione dell’arcivescovo Piero Marini, delegato pontificio per i Congressi Eucaristici, è stata rilasciata durante un’intervista al quotidiano La Naciòn il 20 aprile 2013, a margine del Congresso Eucaristico in Costa Rica. Un’affermazione che fa il paio con le parole pronunciate due mesi prima da monsignor Vincenzo Paglia, durante la sua prima uscita come presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Come ribadito anche in seguito, monsignor Paglia da un lato chiede che sia difesa l’unicità della famiglia naturale, ma dall’altro lato invoca una normativa sulle convivenze. A giugno 2015, dopo aver ricordato in un’intervista a Adnkronos che la famiglia a non dover essere “discriminata” è quella composta da “marito e moglie con i figli”, monsignor Paglia aggiungeva che “possono anche individuarsi altri modi di convivenza, applicando ad esempio in Italia l’articolo 2 della Costituzione la quale però all’articolo 29 individua con chiarezza cosa si deve intendere per famiglia”.

Ragionamenti di questo tipo si possono frequentemente incontrare anche sul quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, dove, per esempio in un editoriale del 13 aprile 2013, il professore Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, minimizzava le sconcertanti parole del presidente della Corte costituzionale, Franco Gallo, che aveva invitato il Parlamento italiano a riconoscere le unioni gay. D’Agostino aveva osservato che, in effetti, Gallo non aveva chiesto la parificazione delle unioni gay al matrimonio, ma semplicemente di garantire i diritti civili delle stesse. Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, il 14 luglio 2015 ha scritto della necessità, riaffermata più volte, “di trovare un percorso sensato – una ‘via italiana’ – che affronti il nodo [delle convivenze omosessuali] su un piano diverso da quello matrimoniale… Un piano patrimoniale (che può diventare un piano 08 Mons Nunzio Galantinodella solidarietà)”. E il segretario generale della CEI, Monsignor Nunzio Galantino, in un’intervista del 9 luglio 2015 ha ribadito la necessità da parte dello Stato di dover fare i conti con la realtà: “Dovessi io fare la legge – ha detto il Monsignore -, il Ddl Cirinnà non lo assumerei assolutamente, ma è chiaro che il governo deve fare i conti con la realtà che gli sta di fronte”. Del resto, sempre Galantino, ospite a Rai3 il 30 maggio 2015 nella trasmissione di Fabio Fazio, aveva perorato la causa del riconoscimento delle unioni omosessuali, purché non siano confuse con il matrimonio tra uomo e donna.

Il compromesso cattolico, o “via italiana”, alle unioni civili consisterebbe in sostanza nell’elaborazione di un testo che riconosca le unioni omosessuali, ma non le identifichi con il matrimonio. La posizione di questi cattolici è in altre parole questa qui: no al matrimonio tra omosessuali, ma sì al riconoscimento dei diritti civili e di forme di unioni o convivenze che non si chiamino matrimonio. In definitiva, per paura che venga legalizzato il “male maggiore” (matrimonio e adozioni gay), costoro accettano il compromesso del “male minore” (unioni civili), o, detto altrimenti, per prevenire il matrimonio e le adozioni gay (male maggiore) si dà ingenuamente il proprio assenso alle unioni civili (male minore), senza rendersi conto del fatto che l’introduzione delle unioni civili è esattamente il passaggio per arrivare al matrimonio gay e alle adozioni, come abbiamo mostrato all’inizio. L’azione del “male minore”, testata ampiamente sul campo, la conosciamo bene: porterà al sicuro verificarsi del male maggiore, farà insorgere ulteriori mali non preventivati, determinerà il trionfo completo del Male.

Ha scritto Mario Palmaro:

“Sta per essere girata una nuova puntata della telenovela cattolica dedicata al cosiddetto male minore. Da una decina d’anni, la dottrina del male minore si è impossessata come un demone di importanti fette del mondo cattolico. In base a questa strategia, i cattolici in politica – e gli organi di informazione e formazione che li spalleggiano – non devono più ‘limitarsi’ (sic) ad affermare i principi non negoziabili opponendosi alle iniziative legislative che li negano, ma devono assumere l’iniziativa legislativa promuovendo leggi che affermano quei principi solo in parte, ma che impediscono l’approvazione di leggi peggiori.[…]

Come si vede, la logica è sempre la stessa: la linea del Piave morale non è più tracciata da principi invalicabili proclamati anche con l’azione politica e giuridica. Non ci si assesta più su posizioni intransigenti, del tipo: no al divorzio, no all’aborto, no ai bambini in provetta, no all’eutanasia, no al riconoscimento dell’omosessualità come valore che genera uno status giuridico. Per carità, queste posizioni non sono apertamente negate. Semplicemente, scompaiono dal dibattito pubblico.

Il politico di riferimento, al quale i cattolici hanno appaltato i temi eticamente sensibili, su questi principi tace. E diventa molto loquace nel sostenere le soluzioni di compromesso – ovviamente lodate come punto di equilibrio alto e civile – che verranno sostenute in sede parlamentare. Dunque la linea del Piave morale per i cattolici si sposta continuamente: in un certo momento coincide con il rifiuto dei matrimoni gay; in un momento successivo, arrivate le nozze gay, coincide con il rifiuto delle adozioni per i gay; in un momento ancora successivo, giunte le adozioni, il politico cattolico sposta la trincea al punto in cui si richiede che i gay siano conviventi da almeno cinque anni, e facciano la raccolta differenziata correttamente e allevino un cucciolo di cane da almeno tre. E così via. […]

Ma almeno, uno potrebbe chiedere, questa ‘dottrina del male minore’ porta davvero dei risultati? Sì: il disastro. Quando ero bambino, mio padre mi ripeteva spesso l’apologo della diga. Per quanto grande e robusta possa essere una diga – mi diceva – se in quel cemento armato si apre un piccolo forellino, e l’acqua comincia a passarci attraverso, è solo questione di tempo, e prima o poi la diga viene giù tutta quanta. Ecco, la dottrina del male minore ignora che ogni concessione fatta pubblicamente al male e alla menzogna è un buco nella diga della verità. Prima o poi, tutto è travolto dalla logica, distruttiva, del compromesso”.

Quali conseguenze porterà con sé il compromesso delle unioni civili se saranno approvate? Un nuovo colpo all’istituto del matrimonio e alla stabilità e tenuta sociale della famiglia, già fortemente indeboliti dal divorzio breve; la legittimazione della pratica barbara dell’utero in affitto; l’attacco alla sana complementarità uomo-donna e al Diritto Naturale; la normalizzazione, non solo giuridica, dell’omosessualità, da orientamento contro natura e infecondo a normale inclinazione sessuale, e perciò alla sua propagazione nella società, soprattutto tra i giovani che “potranno essere indotti a dichiarare la loro sessualità in un momento in cui è normale avere una certa confusione di genere” (Dottor Lachlan Dunjey, australiano; e American College of Paediatricians).

10 predominio loveDal punto di vista giuridico, il matrimonio gay sancirà la legittimità delle emozioni, dell’amore, del sentimento a discapito dell’oggettività delle cose e del bene comune. Se le emozioni vengono elevate a diritti, il diritto stesso diviene arbitrio, predominio del più forte, del più influente, di chi urla di più (in questo caso la potente e onnipresente lobby gay). In questo modo tutto potrà diventare lecito se, chi vuole legalizzare le proprie voglie, ha voce, forza e potere a sufficienza. La conseguenza è l’anarchia, la morte della giustizia e del diritto in quanto tale.

Quali scivolamenti legislativi ci regalerà il matrimonio gay? Se basta l’amore per diventare titolare di diritti, nessuno potrà impedire che vengano riconosciute anche le unioni poligamiche, il poliamore (unione fra più di due persone), l’incesto, la pedofilia, l’unione tra amici (per usufruire di benefici) e – perché no? – anche la convivenza con il proprio cane o gatto. Infatti, se nella formazione del matrimonio il sentimento prende il posto della complementarità sessuale tra non consanguinei, non esiste più una base di principio per negare l’estensione del matrimonio a tutte le possibili forme di relazioni qualificate da un sentimento.

Esempi in tal senso già ci sono. In Nuova Zelanda, appena un anno dopo l’entrata in vigore del matrimonio omosessuale, il movimento Lgbt ha iniziato a reclamare proprio la legalità dell’unione poliamorosa. Sempre in Nuova Zelanda, a settembre 2013, due giovani uomini, eterosessuali dichiarati, uniti da una grande amicizia e dalla passione per il Rugby, si sono sposati unicamente per poter partecipare a un concorso – riservato solo a coppie omosessuali maschili sposate – che metteva in palio due biglietti per il Rugby World Cup 2015. A luglio 2014 il giudice australiano Garry Neilson ha affermato che presto l’incesto e la pedofilia non potranno più essere considerati tabù dalla società, esattamente come è avvenuto con le relazioni omosessuali, oggi maggiormente accettate rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta. In Germania, sempre nel 2014, il Comitato etico si è espresso a favore della depenalizzazione dell’incesto, invitando le autorità competenti a modificare la parte del codice penale che prevede sanzioni per consanguinei che hanno rapporti sessuali tra loro. E in America, dopo la legalizzazione delle nozze gay da parte della Corte suprema, il poligamo Nathan Collier del Montana e le sue due “mogli” hanno presentato domanda di licenza matrimoniale. Collier ha fatto sapere che, se gli dovesse essere negata, andrà fino in fondo facendo causa all’amministrazione comunale, perché “se si tratta di uguaglianza del matrimonio, non si può avere quello gay senza la poligamia”.

Rimane da considerare tra le conseguenze quelle che colpiscono i soggetti più deboli, i bambini cresciuti in unioni gay, per i quali sono state evidenziate gravi ripercussioni a livello fisico, psicologico e sociale, sia da una vasta e autorevole letteratura scientifica, realizzata su campioni significativi, che dalle testimonianze dei diretti interessati una volta diventati adulti.

12 Gay ParentingTanto per iniziare, i figli di coppie gay che sono stati fabbricati attingendo al mercato globale dei gameti e ricorrendo all’utero in affitto, soffrono di quel medesimo vuoto biologico difficile da colmare, che affligge tutti i figli concepiti con fecondazione eterologa. In questo caso non vi sono differenze tra coppie omosessuali ed eterosessuali: lo “smarrimento genealogico”, la crisi di identità e la confusione – dovuti al fatto di non avere risposte certe alla domande fondamentali “chi sono?”, “da dove vengo? – colpisce in egual misura i figli di entrambe le unioni. Tuttavia, dal punto di vista sessuale e psicologico, i figli di coppie omosessuali hanno dei problemi di identità in più, derivanti dal fatto di crescere anche privati di una figura genitoriale fondamentale. Spiega lo psicanalista Claudio Risè:

“In assenza del genitore del proprio sesso, sarà molto difficile per quel bambino sviluppare la propria identità psicologica corrispondente. La psiche maschile e quella femminile sono molto diverse e l’identità complessiva si forma anche a partire dalla propria identità sessuale. Nel caso di maternità surrogata, lo sviluppo psicologico, affettivo, cognitivo di una bimba con due genitori di sesso maschile sarebbe in forte difficoltà: avrebbe problemi nel riconoscersi nel proprio sesso. Lo stesso accade al piccolo maschio.

La vita umana è inscritta in due ordini: il dato naturale, biologico, e quello simbolico che il bambino ha iscritto nella propria psiche, conscia e inconscia. Entrambi presiedono allo sviluppo, alla manifestazione di una capacità progettuale, alla crescita di un’affettività equilibrata. Il padre è un individuo di genere maschile che ha scritto nel suo patrimonio genetico, antropologico, affettivo e simbolico la storia del proprio genere. Proprio perché è un maschio e non è una donna, non può avere né il sapere naturale profondo, né quello simbolico materno. I due codici simbolici, paterno e materno, sono molto diversi: la madre è colei che soddisfa i bisogni, il padre è colui che dà luogo al movimento e propone il limite: indica la direzione e stabilisce dove non si può andare. Nei paesi anglosassoni e del nordeuropa da tempo ci sono casi di coppie omosessuali con figli: studi sul campo hanno provato che la mancanza di genitori di sesso diverso è fonte di problemi, il più evidente dei quali (quando i genitori sono del sesso opposto al tuo), è la formazione della tua immagine sessuale profonda”.

Sono ormai moltissimi gli studi scientifici ad aver dimostrato che l’orientamento omosessuale dei genitori influenza significativamente quello dei figli, i quali sono più inclini a essere attratti da persone dello stesso sesso e ad avere relazioni omosessuali, rispetto ai loro coetanei provenienti da famiglie eterosessuali, ma anche a manifestare confusione e incertezza circa il proprio orientamento sessuale.

13 Mark RegnerusTra le tante ricerche scientifiche disponibili, ne riporto in questa sede solo una, quella del sociologo Mark Regnerus, dell’Università di Austin (Texas)[1]. Regnerus ha realizzato una delle migliori ricerche mai condotte in questo campo, sia per il fatto di aver preso in esame un campione molto numeroso, casuale e rappresentativo, sia per aver condotto lo studio su persone ormai adulte (18-39 anni) e indipendenti, cioè che non vivevano più nelle case dei genitori gay che li avevano cresciuti. Lo studio ha scoperto che i figli cresciuti in famiglie omosessuali sono dalle 25 alle 40 volte più svantaggiati rispetto ai coetanei cresciuti in famiglie normali. In particolare, i primi sono risultati 3 volte più soggetti alla disoccupazione (solo il 26% aveva un lavoro fisso contro il 60% della media) e 4 volte più soggetti a ricevere assistenza pubblica (sono stati supportati dai servizi sociali il 69% dei ragazzi cresciuti da omosessuali contro il 17% di quelli provenienti da famiglie etero). I figli di genitori gay si sono inoltre dimostrati più propensi al tradimento (40% contro 13%), ad avere un maggior numero di relazioni e partner sessuali, a ricorrere alla psicoterapia (19% contro 8%), e molto più soggetti a essere arrestati, a dichiararsi colpevoli di atti criminali, a fumare, a drogarsi e a pensare al suicidio (il 12% vi ha pensato di recente, contro il 5%).

Ma lo studio di Regnerus ha messo in luce anche altri aspetti più allarmanti. Il 23% dei figli cresciuti con una madre lesbica ha dichiarato di essere stato palpeggiato, contro il 2% dei giovani cresciuti in una famiglia eterosessuale. Il 31% di chi è cresciuto con una madre lesbica e il 25% di chi è cresciuto con un padre gay sono stati abusati sessualmente e costretti al sesso forzato, contro l’8% di chi è cresciuto con genitori eterosessuali. Il 25% di coloro che sono cresciuti con genitori gay ha contratto malattie sessualmente trasmissibili, contro l’8% degli altri. Infine, si è definito eterosessuale solo il 61% dei figli di madre lesbica e il 71% di quelli di padre gay, contro il 90% di chi è cresciuto con genitori eterosessuali.

E chissà cos’altro ci riserverà in futuro questo sciagurato “nuovo diritto”, visto che il “male minore” sa riservare amare sorprese, in termini di male, anche a distanza di tempo.

 

[1] Un riepilogo delle problematiche, degli studi scientifici, comprese alcune testimonianze personali, si può trovare nel seguente articolo: “L’APA continua a mentire sulle differenze”, Libertà e Persona, 6 maggio 2013.



Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:18

Il “male minore” porta Male (7° parte: droga libera)






01 droghe


7) MALE MINORE e DROGA LIBERA


Secondo le tesi degli antiproibizionisti, la droga legale avrebbe il vantaggio di prevenire, non un solo e unico “male maggiore”, ma molti, creando benefici a livello sanitario, economico, di pubblica sicurezza, di contrasto alla criminalità individuale e organizzata, di salute personale… insomma, un insieme corposo di risultati talmente positivi da far apparire l’ostinazione proibizionista ingiustificata e ottusa. Tuttavia, quando le teorie si calano nella realtà dei fatti, la fermezza proibizionista riacquista tutta la sua credibilità e attendibilità, e le tesi antiproibizioniste si rivelano, invece, per quello che sono: idee campate in aria prive di fondamento scientifico.


 




INDICE:


1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?


Male minore e “nuovi diritti” legalizzati


2) Male minore e aborto


3) Male minore e fecondazione extracorporea


4) Male minore e divorzio


5) Male minore e contraccezione artificiale


Male minore e “nuovi diritti” reclamati


6) Male minore e matrimonio gay


7) Male minore e droga libera


8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito


9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico


10) Conclusione


Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi


7) MALE MINORE e DROGA LIBERA


Tra i “nuovi diritti” da legalizzare, nella nostra società sottomessa all’anarchia dei desideri, non poteva certo mancare il sacrosanto diritto a drogarsi. La “ginnastica” dei bassi istinti (quelli dalla cintola in giù), derivante dalla promozione di ogni forma di contraccezione artificiale, non è sufficiente da sola a distrarre e addomesticare le nuove generazioni, ad ammansire la loro capacità di pensare affinché sia facilitata l’adesione al pensiero unico dominante, ad affievolire il desiderio di “lottare per un mondo migliore”, a indebolire, domare, anestetizzare la forza di volontà e l’energia degli ideali alti. Tutte le dipendenze (sesso, droga, alcool, gioco d’azzardo…) producono schiavitù, una volta divenuti schiavi di una o più dipendenze, l’intera vita sarà sottomessa alla loro soddisfazione compulsiva e tutto il resto non avrà più nessuna importanza.


La promiscuità sessuale è già stata sdoganata, l’alcool e il gioco d’azzardo sono già stati liberalizzati, è arrivata l’ora di passare a qualcosa di più forte, qualcosa che rincretinisce di più e meglio, è arrivato il tempo di legalizzare le droghe.


Secondo le tesi degli antiproibizionisti, la droga legale avrebbe il vantaggio di prevenire, non un solo e unico “male maggiore”, ma molti, creando benefici a livello sanitario, economico, di pubblica sicurezza, di contrasto alla criminalità individuale e organizzata, di salute personale… insomma, un insieme corposo di risultati talmente positivi da far apparire l’ostinazione proibizionista ingiustificata e ottusa. Tuttavia, quando le teorie si calano nella realtà dei fatti, la fermezza proibizionista riacquista tutta la sua credibilità e attendibilità, e le tesi antiproibizioniste si rivelano, invece, per quello che sono: idee campate in aria prive di fondamento scientifico.


Gli alfieri del diritto a drogarsi sanno che se proponessero la liberalizzazione delle droghe tout court non avrebbero alcuna possibilità di successo, visto il persistere di una forte disapprovazione sociale nei confronti delle cosiddette droghe “pesanti” (eroina, cocaina, anfetamine,…). Per questo motivo hanno adottato la linea di procedere un passo per volta promuovendo, tanto per iniziare, la legalizzazione delle droghe “leggere” (hashish e marijuana). A quel punto basterà ribaltare in chiave liberale l’obiezione ribadita dai contrari alla legalizzazione, secondo i quali “la distinzione tra droghe leggere e pesanti è fallace, perché tutte le droghe fanno male”, che rovesciata diverrebbe “la distinzione tra droghe leggere e pesanti è fallace, perché tutte hanno gli stessi effetti psicoattivi, se la cannabis è legale non possono non esserlo anche la cocaina e l’eroina”.


Tuttavia, visto che anche la legalizzazione delle droghe “leggere” incontra resistenze e ostacoli, costoro hanno affinato ancor più la strategia, puntando a far leva sull’uso della cannabis a “scopo terapeutico”, piuttosto che sul consumo per motivi voluttuari. Infatti, se riesce a passare l’idea che la marijuana è un presidio medico curativo, una sostanza in grado di curare gravi malattie, non solo la gente penserà che farne uso non nuocerà alla salute ma che, anzi, le farà persino bene. Ciò accrescerà il consenso da parte dell’opinione pubblica, agevolando perciò l’approvazione anche nei confronti del consumo a scopo ricreativo.


Nella relazione del 2011 del Dipartimento Politiche Antidroga (DPA), si legge:



“Sempre più spesso fonti informative non accreditate da un punto di vista scientifico propagandano le supposte e numerose proprietà terapeutiche della cannabis e dei farmaci a base di THC. Organizzazioni orientate alla legalizzazione utilizzano impropriamente spesso articoli scientifici riportanti risultati positivi di trials clinici su tali farmaci per far percepire e promuovere il concetto dell’innocuità dell’uso della cannabis e dei suoi poteri medicamentosi per curare (in realtà produrre effetti sintomatici e non eziologici) patologie molto gravi che impressionano l’immaginario collettivo quali il cancro, la sclerosi multipla, il morbo di Crohn, ecc. La US National Multiple Sclerosis Society a tal proposito ha affermato che non vi è nessuna evidenza scientifica che provi l’efficacia della marijuana sulle persone affette da Sclerosi Multipla.


Pur essendo concordi ad approfondire questi aspetti con studi scientifici, è chiara la demagogica intenzione di far percepire tale sostanza stupefacente, attraverso la pubblicizzazione ed esagerazione delle sue qualità ed applicazioni mediche, come ‘positiva, utile e salutare’ ottenendo così una diminuzione della percezione del rischio e dei danni che essa può produrre se usata anche per scopi voluttuari. Oltre a questo non si considera né tantomeno si esplicita la profonda differenza che esiste tra i farmaci a base di THC prodotti dall’industria farmaceutica e i prodotti artigianali e non controllati provenienti dalla produzione fraudolenta.


Chiaramente l’equazione ‘se il THC va bene per tante malattie allora vuol dire che fa bene alla salute e non c’è problema ad usarlo’ non può essere accettata e va contrastata. Niente in contrario a sperimentare e studiare le potenzialità mediche del THC attraverso le tradizionali e severe metodologie della ricerca ma non è accettabile fare della demagogia per sostenere la bontà della legalizzazione e dell’uso a scopo voluttuario. A conferma di ciò, basti ricordare che negli USA il Marinol, il farmaco in cui viene isolato ed utilizzato in modo sicuro il principio attivo del THC, è stato approvato come medicinale prescrivibile dalla Food and Drug Administration (FDA). La DEA [Drug Enforcement Administration] ha supportato e facilitato la ricerca sul Marinol ma fumare ‘marijuana da strada’ non ha alcun beneficio medico comprovato e non ha niente a che vedere con il farmaco Marinol” (p. 16).



Giovanni Serpelloni, medico chirurgo ed ex Capo del DPA, osserva:



“Quello che non può essere accettato dalla medicina moderna è che si possa pensare che ogni malato possa prodursi il proprio ‘farmaco’ a domicilio, senza alcun controllo sul tipo di pianta coltivata e la percentuale di principio attivo, la qualità dei prodotti destinati a uso umano e medico in particolare, la quantità di autosomministrazione che verrebbe decisa esclusivamente dal paziente. Senza contare i problemi di dipendenza […] Né è accettabile che [la cannabis] venga dipinta come una sostanza ‘positiva, utile e salutare’ anche per l’uso voluttuario e ricreativo, dimenticando i danni che produce nell’organismo umano e in particolare sul cervello degli adolescenti”.



03 Arizona marijuana card2La promozione della cannabis per fini terapeutici è, in sostanza, solo la via per arrivare alla legalizzazione delle droghe per uso voluttuario. Emblematico in tal senso è il caso dell’Arizona, che ha reso legale la coltivazione, la vendita e l’utilizzo di marijuana a fini “medici” per le persone che dichiarano determinate patologie. John Kavanagh, deputato Repubblicano, ha denunciato che “la gente è stata indotta in errore nel credere che i suoi destinatari sarebbero stati solo pazienti oncologici in chemioterapia e chi soffre di glaucoma, mentre ora questi rappresentano solo una frazione degli utenti”. Si è infatti scoperto che, dei 34mila cittadini ad aver ottenuto il permesso di fumare o coltivare marijuana subito dopo l’approvazione della legge, solo il 3,76% ne giustifica l’uso per alleviare i sintomi del cancro, e meno del 2% sono coloro che citano il glaucoma: la stragrande maggioranza (il 90%!) adduce come motivazione un generico dolore grave e cronico. Inoltre, fatto ancora più grave, un’indagine condotta dall’Arizona Criminal Justice Commission, ha scoperto che i bambini delle scuole elementari riescono a entrare in possesso di cannabis, proprio grazie ai titolari di carte di accesso alla marijuana medica, i quali prima la ottengono per fini curativi e poi la rivendono agli scolari.


04 danni cerebrali cannabisI danni della marijuana sulla salute in generale e sul cervello dei giovani in particolare, sono innumerevoli e scientificamente provati. La cannabis provoca alterazioni e danni cerebrali, invecchiamento precoce fisico e mentale, disturbi psicotici (ansia, depressione, schizofrenia, psicosi, sindrome amotivazionale, delirio, abulia, panico, allucinazioni…), fenomeni di dipendenza e astinenza (tremori, sudorazione, nausea, agitazione, disforia, aggressività, iperriflessia, irrequietezza, alterazione dell’appetito, disturbi del sonno…), patologie dell’ambiente orale (xerostomia, leucoedema, micosi da candida albicans), problemi all’apparato riproduttivo (disfunzioni sessuali, problemi di fertilità, cancro ai testicoli), problemi alle vie respiratorie (irritazioni, broncocostrizione, malattie polmonari ostruttive croniche, infezioni pneumotoraciche e respiratorie, tubercolosi, rischio doppio di sviluppare cancro ai polmoni rispetto ai fumatori di solo tabacco). Inoltre, se assunta in gravidanza anche per un breve periodo, la cannabis può influire negativamente sulla crescita e sviluppo del feto e del neonato, determinando: basso peso alla nascita, parto pretermine, ritardo nella crescita, ricovero in terapia intensiva neonatale.[1]


La supposta innocuità della cannabis è propagandata, oltre che facendo leva sui “prodigiosi” effetti terapeutici, anche con la constatazione del fatto che “nessuno è mai morto per fumare uno spinello”, nel senso che non esistono persone che siano decedute dopo un sovradosaggio della sostanza, come avviene per esempio con l’overdose da eroina. Si tratta tuttavia di una motivazione molto debole, poiché – come sostiene la stessa comunità scientifica – per dimostrare la pericolosità di una sostanza non basta prendere in considerazione la mortalità diretta, ma bisogna tener conto anche della mortalità correlata e indiretta come: incidenti stradali, lavorativi, domestici provocati dal calo di attenzione e di riflessi, fatali per se stessi e/o per i terzi coinvolti; problemi medici da uso di droghe; capacità della sostanza di alterare importanti funzioni cerebrali o danneggiare le cellule neuronali, con compromissione dello sviluppo e della maturazione cerebrale; evoluzione verso forme più gravi di dipendenza (da cocaina, eroina, ecc.).


Scrive il DPA nel documento già citato:



“Per comprendere la reale pericolosità di una sostanza va considerata la ‘mortalità droga correlata’ e i rischi incrementali aggiunti di patologie quale quelle cardiache, polmonari e vasculo-cerebrali (es. infarto miocardio, cancro del polmone, ictus, etc.) rispetto alla popolazione normale non consumatrice. Nel novero della cosiddetta tossicità, vanno anche valutate le conseguenze non mortali ma altamente invalidanti sulle funzionalità neuropsichiche in grado di alterare e far perdere capacità estremamente importanti per il futuro dell’individuo quali la memorizzazione, l’attenzione, l’apprendimento e la motivazione, funzioni cognitive fondamentali per lo sviluppo della persona e per la sua realizzazione e autonomizzazione sociale.


Altri fattori da valutare come criteri di pericolosità di una sostanza (e la cannabis ne è il classico esempio) sono anche la facile accessibilità, la grande disponibilità, il basso costo e la bassa percezione del rischio ad essa correlata da parte della popolazione vulnerabile. Tutto questo in relazione soprattutto al fatto della capacità della sostanza di far iniziare percorsi evolutivi verso forme gravi di addiction proprio per questa sua parvenza e percezione di innocuità. Queste caratteristiche fanno sì che il numero di persone che utilizzano queste droghe sia molto alto, proprio come nel caso della cannabis e dei suoi derivati.


È provato che i cervelli di persone vulnerabili, sensibilizzati in giovanissima età con cannabis, spesso evolvano con più facilità, in età più avanzate verso forme di addiction da eroina o cocaina… Non è un caso che circa il 95% delle persone in trattamento per dipendenza da eroina abbiano iniziato il loro percorso con la cannabis.


La ‘tossicità’ quindi va valutata anche con questi criteri oltre che con le evidenze derivanti dall’applicazione delle moderne tecniche di neuroimaging e spettroscopiche, in grado di cogliere danni che prima non potevano essere documentati”. (pp. 20, 21).



Lo psichiatra Giuseppe Ducci, direttore del reparto di psichiatria dell’ospedale San Filippo Neri di Roma, denuncia:



“Se magicamente si potesse cancellare la cannabis dal mondo, avremmo una diminuzione dei casi di schizofrenia del 40%. Oggi registriamo disturbi psicotici gravi sempre più precoci. Abbiamo persone di 24-25 anni che, dopo anni di abuso, hanno il cervello di un novantenne e un futuro di lungoassistiti… Insomma, definire la cannabis una droga leggere è una vera fesseria”.



L’abuso di cannabis, quindi, non causerà direttamente la morte, ma ritrovarsi a 24 anni con il cervello di un novantenne e un futuro da malato psichiatrico, non sembra una prospettiva così allettante!


06 Global Comm on Drug PolicyArriviamo ora all’argomento di questo scritto: il “male minore”. Secondo le linee guida contenute nel rapporto “War on drugs”, elaborato dalla Global Commission on Drug Policy, e consegnato alle Nazioni Unite nel giugno 2011, le politiche antidroga “devono essere improntate a criteri scientificamente dimostrati”, devono avere come obiettivo “la riduzione del danno”, e devono essere “basate sul rispetto dei diritti umani”, mettendo fine alla “marginalizzazione della gente che usa droghe” o è coinvolta nei livelli più bassi della “coltivazione, produzione e distribuzione”.


La nuova parola d’ordine della guerra alle droghe è, in parole povere, “legalizzazione”, peccato però che essa contrasti proprio con i criteri scientificamente dimostrati invocati dalla Commissione Globale per le Politiche sulle Droghe. Infatti, se esaminiamo una per una le tesi antiproibizioniste volte alla “riduzione del danno”, cioè i vari “mali maggiori” che la droga libera (male minore) dovrebbe prevenire, si scopre che sono proprio le evidenze scientifiche a demolire la validità delle tesi che dovrebbero ridurre il danno.


Vietare le sostanze stupefacenti – dicono i favorevoli alla legalizzazione – non ne scoraggia l’utilizzo, poiché il divieto li rende frutti proibiti e affascinanti. Secondo questa tesi, potersi drogare alla luce del sole e senza subire sanzioni, farà perdere alla droga la sua ritualità segreta e trasgressiva, portando a una riduzione del numero di assuntori e di conseguenza dei consumi. Ma questo ragionamento non sta né in cielo né in terra, non essendoci una sola evidenza scientifica che ne attesti la validità. La realtà e le ricerche empiriche dimostrano, infatti, che avviene esattamente il contrario. Lo abbiamo già visto molte volte e qui lo riaffermiamo: legalizzare una pratica illecita significa normalizzarla, questo determina la perdita di disapprovazione sociale nei confronti di quella pratica e, nel caso delle droghe, la perdita di percezione dei rischi per la salute, con conseguente incentivazione e incremento della pratica stessa. La legalizzazione del divorzio ha portato all’esplosione dei divorzi in tutti gli strati sociali, la legalizzazione dell’aborto ha incrementato, e non ridotto, il numero 07 incrementodegli aborti. Il tabacco e l’alcool sono le sostanze d’abuso più legalizzate al mondo, ma sono anche quelle più utilizzate, che fanno registrare più persone dipendenti e che si trovano tra le prime cause di morte tra la popolazione. Dopo la legalizzazione del gioco d’azzardo si è verificata una vera e propria espansione sociale del fenomeno, parallelamente è aumentato il numero di persone che vi perde il controllo, fino a manifestare vere e proprie forme di dipendenza. Non si capisce pertanto quale sia il fenomenale meccanismo che, con la legalizzazione delle droghe, dovrebbe portare al verificarsi dell’opposto. Dire che la guerra alla droga si combatte legalizzando le droghe è un’assurdità! È come dire che i furti si riducono legalizzando il furto, o che l’evasione fiscale si sconfigge depenalizzandola e non punendo più gli evasori.


Gli studi e le ricerche condotte al riguardo, dimostrano che la maggior parte delle persone tende a rispettare un determinato divieto, adeguando a esso il proprio comportamento, ancor più se è condiviso della collettività o dal gruppo dei pari, e se è regolato con opportune sanzioni. Scrive il DPA:



“Alcune organizzazioni che promuovono la legalizzazione sostengono che il porre divieti e formali proibizioni all’uso di sostanze sarebbe in realtà incentivante i comportamenti trasgressivi e di consumo nella maggior parte dei giovani. Anche per questo motivo si giustificherebbe la legalizzazione. Non esistono però studi né ricerche che dimostrano in termini epidemiologici e scientifici che le proposte di cambiamento comportamentale dei giovani che vengano sostenute attraverso divieti fissati per legge, proibizioni e sanzioni producano sempre comportamenti reattivi di trasgressione e non di adesione al divieto in larghi strati di popolazione giovanile…


La disapprovazione sociale dell’uso delle droghe e dell’abuso alcolico, esplicitata anche attraverso una chiara legge sanzionatoria, è di fondamentale importanza ed è in grado di condizionare positivamente la maggior parte dei giovani nel loro stile di vita e nel comportamento di assunzione. Non è vero pertanto che la maggior parte dei giovani non rispetta le ‘proibizioni’ socialmente definite, non adattando il proprio comportamento di salute a tali divieti. In realtà, tutti i divieti o gli obblighi comportamentali posti dallo Stato, anche in altri ambiti, per ridurre comportamenti a rischio per la salute quali ad esempio non guidare una moto senza casco, non fumare negli ambienti pubblici, indossare i presidi antinfortunistica sul lavoro, non passare con il semaforo rosso, ecc., hanno sempre portato la maggioranza delle persone a conformarsi all’indicazione e a rispettare i divieti, ovviamente con le debite eccezioni che costituiscono comunque una forte minoranza.


La maggior parte dei giovani, in questi casi infatti rispetta i divieti e le proibizioni e non si comprende perché dovrebbe essere diverso per il divieto dell’uso di sostanze stupefacenti. A conferma indiretta di ciò va ricordato che attualmente la percentuale che almeno una volta nell’ultimo anno ha usato droghe in Italia nella fascia di età compresa tra i 15 e i 19 anni è di 22,1%, percentuale che sarebbe destinata a salire se il restante 77,9% di individui percepisse la possibilità di utilizzare droghe liberamente e in maniera legale. Siamo infatti convinti che una percentuale maggioritaria di giovani liberi dalle droghe venga mantenuta anche grazie alla legge che sancisce senza equivoci che usare droghe è un illecito, ne vieta esplicitamente il consumo. Questo divieto viene percepito ed elaborato cognitivamente dal singolo come norma sociale, producendo la realtà epidemiologica italiana che vede fortunatamente la percentuale di consumatori come minoritaria”. (pp. 11, 12)  



Nei Paesi in cui le droghe leggere sono state depenalizzate sono aumentati i consumatori, i consumi e i problemi di salute correlati. Nei Paesi Bassi, per esempio, tra il 1984 e il 1996 è avvenuta una rapida commercializzazione e promozione della marijuana, che ha avuto l’effetto di triplicare i consumi tra i giovani adulti (p. 24). Una crescita elevata dell’uso della sostanza si è verificata anche in quegli Stati USA che negli anni Settanta hanno attuato politiche di depenalizzazione per possesso di marijuana. In Alaska, nel 1975, una sentenza della Corte Suprema ha legittimato la marijuana per uso personale; ebbene, un’indagine condotta nel 1988 dall’University of Alaska, ha scoperto che l’uso di marijuana tra i giovani di 12-17 anni era il doppio rispetto alla media nazionale (p. 10). Anche in Inghilterra, per fare un altro esempio, dopo che il governo ha declassato il grado legale della cannabis in classe C, i consumi sono aumentati. Secondo i dati della NHS National Treatment Agency, il numero di giovani che ha avuto bisogno di cure mediche, per problemi correlati all’assunzione di cannabis, in un solo anno è quasi raddoppiato, passando dai 5.000 casi del 2005 ai 9.600 del 2006, e gli adulti che hanno dovuto ricorrere a trattamenti medici sono stati 13mila. Il professore Robin Murray, del London’s Institute of Psychiatry, ha stimato che almeno 25mila schizofrenici sui 250mila presenti nel Regno Unito, avrebbero potuto evitare la malattia se non avessero fatto uso di cannabis. “La società ha seriamente sottovalutato la pericolosità della cannabis” – ha affermato il professor Neil McKeganey, del Centro Universitario di Glasgow per la ricerca sull’abuso di droghe – “nei prossimi dieci anni potremmo ritrovarci con un numero crescente di giovani in gravi difficoltà”.


Osserva il DPA:



“Una semplice ma molto efficace considerazione epidemiologica che dovrebbe far riflettere su che cosa comporta la legalizzazione di sostanze psicotrope tossiche è quella relativa all’alcol e al tabacco: il più alto numero di persone tossicodipendenti da sostanze e decedute o rese invalide al mondo si registra proprio per quelle sostanze più legalizzate, per l’appunto l’alcol e il tabacco. L’Istituto Superiore di Sanità dice che ogni giorno si fumano 15 miliardi di sigarette, secondo l’OMS il tabagismo uccide 6 milioni di persone all’anno.


La loro legalizzazione, nel tempo, ha prodotto in prima istanza un calo della percezione della loro pericolosità nella popolazione ed un aumento esponenziale dei consumatori e quindi dei dipendenti, oltre che delle conseguenze mediche più macroscopiche ad esse correlate quali per esempio il cancro del polmone o la cirrosi epatica. Basti pensare inoltre che molti Stati in questi ultimi anni, constatato l’errore e le conseguenze di queste scelte nel lungo termine, stanno andando verso un nuovo ‘proibizionismo’ per il tabacco fatto di divieti ambientali, aumenti dei prezzi, incremento dei premi assicurativi se fumatore, penalizzazioni e sanzioni varie se trasgressore del divieto di fumo, divieto di pubblicizzare le sigarette anche nei film ecc. oltre che una forte e diffusa disapprovazione sociale” (p. 17).



Ecco a cosa porta il “male minore” della legalizzazione delle droghe: più persone che si drogano soprattutto tra i giovani, più persone che vi abusano e diventano dipendenti, più problemi di salute, più richieste di assistenza al servizio sanitario, più costi sociali.


Tra gli altri “mali maggiori” che – secondo le teorie antiproibizioniste – la droga legale dovrebbe prevenire, vi sono i morti per overdose e i danni per la salute causati dagli additivi usati dagli spacciatori. Questo perché le droghe “pesanti” sarebbero somministrate – da medici, strutture sanitarie o dispensari – allo stato puro, senza l’aggiunta di quelle sostanze nocive con cui di solito gli spacciatori tagliano la droga, ma anche questa tesi fa acqua da tutte le parti, osserva infatti il DPA:



“L’assunto che ‘se le sostanze fossero pure, come quelle distribuite dallo Stato, non sarebbero nocive per la salute’ è completamente da rigettare perché smentita dai fatti: nelle analisi chimicotossicologiche condotte su cadaveri di persone decedute per overdose mai è stata riscontrata una sostanza più tossica della droga stessa…


È noto infatti che si tratta di sostanze altamente tossiche, responsabili di molti decessi che, solo nell’immaginario collettivo e nelle notizie di cronaca, vengono tipicamente attribuiti alle ‘cattive sostanze da taglio’” (p. 21).



Anzi, questa tesi bislacca introduce anche un problema a livello di “responsabilità professionale”. Infatti, visto che la droga è una sostanza altamente tossica in grado di uccidere anche se non tagliata con “cattive sostanze”, quali ricadute si avranno, a livello di responsabilità del personale sanitario, se l’assuntore muore dopo aver preso gli stupefacenti che l’incaricato gli ha prescritto?


Se si vogliono prevenire le morti per overdose e i danni sulla salute delle sostanze stupefacenti, la strada non è la legalizzazione, ma il divieto e le sanzioni, affinché sia proclamata forte e chiara la pericolosità di tutte le droghe, e la maggior parte delle persone si tenga a debita distanza da esse e dai loro effetti devastanti.


MobileAltri due “grandi mali” che, stando alle teorie antiproibizioniste, la legalizzazione delle droghe dovrebbe prevenire, sono quelli relativi all’azione della criminalità e ai costi sostenuti per contrastarla. Secondo queste congetture, un mercato legale della droga avrebbe un doppio vantaggio: da un lato la criminalità organizzata si vedrebbe sottrarre mercato e guadagni, ritrovandosi così indebolita nella sua capacità di inquinare l’economia reale e di corrompere apparati dello Stato, determinando di conseguenza una vantaggiosa riduzione dei costi sostenuti per combatterla. Dall’altro lato si assisterebbe a una riduzione dei costi del sistema di giustizia penale, perché se è lo Stato a distribuire la droga e se il farne uso non è più illegale, i tribunali non saranno più inondati di cause per violazione dei divieti e per i reati commessi dai tossicomani nel tentativo di procurarsi illecitamente le sostanze. I trasgressori e i criminali che finiranno in carcere saranno perciò molti di meno, con grande beneficio per le casse dello Stato.


In parole povere, la liceità dell’uso di droga e la sua distribuzione da parte dello Stato avrebbe effetti molto positivi sia a livello economico che di contrasto alla criminalità organizzata e individuale. Tuttavia, se rapportiamo queste teorie ai “criteri scientificamente dimostrati” – come indicato nelle linee guida della Global Commission on Drug Policy e come è giusto che sia -, scopriamo ancora una volta tutta la loro fallacia, poiché sono proprio le evidenze scientifiche che le smentiscono.


Affinché la legalizzazione delle droghe sia efficace nel sottrarre mercato e guadagni alla criminalità organizzata, le sostanze stupefacenti dovrebbero essere garantite a tutte le persone, indipendentemente dall’età e dal tipo di lavoro svolto, per evitare che i gruppi criminali continuino la loro attività illecita con chi è rimasto escluso dalla fornitura di Stato in quanto non autorizzato a riceverla. Tuttavia, è del tutto evidente, che una così piena liberalizzazione sia impossibile da mettere in pratica, si pensi per esempio ai minori, alle donne in stato interessante, a coloro che svolgono particolari mansioni, come guidare mezzi pubblici, pilotare aerei, eseguire interventi chirurgici, azioni militari, ecc. Si tratta di un gruppo cospicuo di persone nei confronti del quale l’uso di droghe dovrà rimanere tassativamente vietato, rendendoli perciò clienti appetibili per il mercato illegale, che continuerà a realizzare con loro i suoi traffici e guadagni.


Le droghe andrebbero sicuramente vietate ad adolescenti e giovani fino ai 21 anni di età, poiché è scientificamente provato che fino a quell’età le sostanze stupefacenti possono provocare danni molto gravi al cervello e alla mente, essendo ancora in atto la maturazione cerebrale con i processi di mielinizzazione, sinaptogenesi e “pruning”. La legalizzazione delle droghe renderebbe perciò meno protetti proprio i soggetti più vulnerabili e più attratti dalle sostanze, con il richiamo del mercato illecito parallelo che eserciterebbe su di loro una pressione ancora più forte per via della loro esclusione dal mercato legale.


10 legalizzazione globaleInoltre, per indebolire sul serio la criminalità organizzata, non basterebbe concederne l’uso a tutte le persone, ma bisognerebbe legalizzare tutte le droghe, “leggere” e “pesanti”, a livello globale e in contemporanea in tutti gli Stati del mondo. Solo questo potrebbe impedire alle mafie di continuare i propri traffici con gli stupefacenti rimasti illegali e nei Paesi rimasti “proibizionisti”. Solo una legalizzazione di tutte le sostanze, in tutto il mondo, per tutte le persone, potrebbe intaccare il potere della criminalità organizzata, ma si tratta di una soluzione chiaramente utopistica e irrealizzabile dal punto di vista politico, organizzativo e sanitario.


Scrive il DPA:



“Non esiste alcuno studio né evidenza scientifica solida che dimostri che la legalizzazione in un contesto sociale industriale avanzato sia in grado di ridurre efficacemente gli introiti delle organizzazioni criminali… L’eliminazione di questa fonte di reddito fraudolento ad oggi è solo un’ipotesi.


È noto infatti che tali organizzazioni criminali trafficano e commerciano in vari tipi di droghe e che, legalizzando uno solo di questi prodotti quale ad esempio la marijuana, non si produrrebbero danni commerciali tali da mettere le organizzazioni in crisi, come dimostrato da studi statunitensi in merito, in quanto compenserebbero con altri introiti derivanti da mercati di altre sostanze e comunque da mercati sicuramente più competitivi con quelli legali anche sulla stessa sostanza. Pertanto, allo stato attuale, questa resta solamente un’utopica aspettativa di soluzione ‘chirurgica’” (p. 19).



Come osserva il DPA, bisogna anche considerare la questione di una maggiore competitività delle organizzazioni criminali rispetto allo Stato, per il quale la legalizzazione delle droghe si tradurrebbe nel dover sostenere costi doppi: quelli per regolamentare il mercato legale e quelli per combattere il mercato illegale tutt’altro che scomparso:



“In ambito organizzativo, legalizzare significherebbe sostenere i costi derivanti dall’attuazione di un gigantesco sistema statale di produzione, controllo, catena di custodia e distribuzione delle sostanze. Significherebbe insomma finanziare un apparato statale strutturato a gestire la legalizzazione e lo smercio, al fine di creare un mercato ‘competitivo’ per la vendita delle sostanze (rispetto a quello delle mafie e del crimine organizzato) estremamente costoso, complesso e in realtà affatto competitivo. Anche per questi motivi, il mercato nero è una realtà non sradicabile da una semplice politica di legalizzazione (p. 14).


I costi produttivi per le organizzazioni criminali, considerati i loro bassi standard di produzione utilizzati, saranno sempre più bassi e competitivi rispetto a quelli della produzione industriale professionale che deve garantire sicurezza, qualità e stabilità del prodotto, caratteristiche che devono essere assicurate non solo per la produzione ma anche per il packaging e la distribuzione.


Legalizzare la marijuana addosserebbe ad un governo l’onere di regolamentare un nuovo mercato legale, pur continuando a pagare gli effetti collaterali negativi associati a un mercato sotterraneo i cui fornitori hanno ben pochi vantaggi economici a farlo scomparire” (p. 19).



Ecco perché la legalizzazione delle sostanze porterà a un risultato diametralmente opposto da quello prospettato dai paladini della droga libera, cioè a favorire la criminalità organizzata invece che a contrastarla, ad arricchirla invece che a impoverirla, a renderla più potente invece che più debole. Infatti, l’aumento della domanda di droga, conseguente alla sua liberalizzazione, e i suoi cospicui profitti non finirebbero per la maggior parte nelle casse dello Stato, poiché i prezzi più concorrenziali che il crimine organizzato è in grado di applicare, attrarrebbero una buona fetta di consumatori, che con acquisti al mercato sotterraneo potranno spendere molto di meno. Tutto questo porterà maggiori profitti proprio alla criminalità, che rafforzerà così il suo potere e attività illecite:



“Anche se tutte le droghe fossero legali, tasse elevate sulle droghe provocherebbero violenti cartelli della droga per battere i prezzi legali e mantenere la propria quota di mercato. Con l’aumento della domanda che deriverebbe dalla legalizzazione, questi gruppi probabilmente si rafforzerebbero e le loro attività – estorsione, traffico di esseri umani, pirateria, ecc. – continuerebbero con la stessa violenza” (p. 19).



Legalizzazione, prezzi bassi, aumento della domanda sono strettamente collegati tra loro. Vari studi hanno dimostrato che il consumo di droga, così come quello di alcool e tabacco, è molto sensibile al prezzo, soprattutto da parte dei giovani e dei consumatori occasionali: se si applicano prezzi elevati a queste tre sostanze, il numero dei fruitori giovani e occasionali rimane basso. Questo è un altro motivo per cui la legalizzazione delle droghe non può portare alla riduzione del numero degli assuntori: legalizzare significa infatti crollo dei prezzi e, di conseguenza, maggiore facilitazione al consumo. Ciò è stato evidenziato in un rapporto della RAND Corporation – un think tank conosciuto e accreditato su scala internazionale -, che dimostra come sia proprio l’illegalità a mantenere i prezzi elevati e, di conseguenza, l’inibizione all’acquisto e bassi consumi (p. 10).


Ma il mercato legale sarebbe disincentivato anche per un altro motivo: la necessaria identificazione del cliente al momento dell’acquisto della droga che incoraggerà i consumatori occasionali e, in generale, tutti coloro che vorranno farne uso mantenendo anonimato e riservatezza evitando di finire nei registri dello Stato, a rivolgersi al mercato illegale. Da questo punto di vista lo Stato parte sfavorito rispetto alla distribuzione illegale



“che vede gli spacciatori utilizzare sempre tecniche personalizzate, ‘porta a porta’, di consegna a domicilio e senza richiedere alcun dato anagrafico al cliente (p. 14).


Esisterebbe sempre infatti un mercato parallelo illegale in quanto le persone che dovrebbero fruire di sostanze legali dovrebbero comunque accedere a sistemi di distribuzione controllati e formali, con identità del cliente ‘in chiaro’ per evitare abusi, duplicazioni di somministrazione o sfruttamenti impropri, un sistema pertanto che identifica e registra chiaramente il cliente. Molte di queste persone, pur di non essere identificate e/o registrate come consumatori ‘autorizzati’ di sostanze non si recherebbero presso questi ‘dispensari’ ma continuerebbero a preferire lo spacciatore, anche se più costoso (e che comunque avrebbe calato i prezzi vista la concorrenza e la loro capacità competitiva) mantenendo così un mercato parallelo illegale” (p. 19).



Ma gli acquisti al mercato statale sarebbero scoraggiati, oltre che dallo spaccio illegale “porta a porta”, anche dal già oggi molto fiorente commercio via internet, destinato a espandersi dopo la liberalizzazione delle droghe:



“La legalizzazione delle sostanze ed in particolare della cannabis e dei suoi semi per coltivazione va valutata anche alla luce del mercato ad oggi molto presente ed in espansione in internet e non solo dello spaccio territoriale. Tale forma di offerta e distribuzione infatti sta assumendo sempre di più dimensioni ragguardevoli e sarebbe sempre più competitiva di quella statale. Questo comporta un’ulteriore problematica per l’impossibilità materiale di controllare questi flussi commerciali e di poter mantenere un’unica distribuzione legalizzata controllata.


La legalizzazione comporterebbe un fiorire di siti internet che moltiplicherebbero le loro offerte in maniera iperbolica, con una ulteriore difficoltà di controllo del mercato e dell’offerta alternativa a quella legale” (pp. 15, 16).



13 buco nell'acquaChe ne sarà alla fine della tanto propagandata “riduzione dei costi per il contrasto della criminalità” che il “male minore” della droga legale dovrebbe ingenerare? Un enorme buco nell’acqua o, sarebbe meglio dire, nelle casse dello Stato, un fardello esorbitante sul groppone dell’intera collettività. Oltre agli ingenti costi per regolamentare e controllare il mercato legale delle sostanze, lo Stato dovrà continuare a sborsare denaro per contrastare sia i mercati illegali paralleli (territoriali e via web) che la criminalità organizzata, tutt’altro che indebolita. A queste spese si dovranno aggiungere i costi sanitari per far fronte alle pesanti ripercussioni sulla salute di un numero crescente di consumatori, e quelli per la riabilitazione e il recupero del numero dei tossicodipendenti destinato ad aumentare. Vi sono poi da considerare anche i costi dovuti alla perdita di produttività e redditività, che solitamente si computano in questi casi. Infine, non è da escludere la possibilità della nascita di una class action legale contro lo Stato, per aver liberalizzato il consumo di sostanze tossiche in grado di provocare gravi danni alla salute, che potrebbe innescare meccanismi di richieste di risarcimento, con costi considerevoli a suo carico nel lungo periodo. In definitiva, con le politiche di liberalizzazione delle droghe, i costi che graverebbero sullo Stato (e perciò sull’intera collettività) invece di ridursi, subirebbero un’impennata stratosferica!


E i costi del sistema di giustizia penale? Non pare proprio che il sistema di giustizia penale si ritroverà alleggerito nei costi dopo la legalizzazione delle droghe. Osserva, infatti, il DPA:



“I sostenitori della legalizzazione affermano che i costi del proibizionismo – principalmente attraverso il sistema della giustizia penale – sono un grosso fardello sulle spalle dei contribuenti e dei governi. Ci sono certamente costi per gli attuali divieti, ma legalizzare la droga in realtà non diminuirebbe le spese del sistema di giustizia penale in quanto i problemi correlati alla produzione illegale, al traffico, allo spaccio e alle altre attività criminali, non potrebbero essere concretamente ridotti. In Olanda dove si è legalizzata la cannabis all’interno dei coffee shop, si è comunque assistito nelle aree limitrofe ad un incremento delle attività criminali in relazione con la produzione illegale e chiaramente non autorizzata, su tutto il territorio nazionale, con un conseguente aumento delle attività della giustizia penale. Inoltre, nella maggior parte dei paesi al mondo, gli arresti per abuso di alcol come nei casi di violazioni delle leggi in guida in stato di ebbrezza sono di gran lunga superiori agli arresti per droga” (p. 22).



Sono cioè nettamente superiori i reati associati alle sostanze legalizzate rispetto a quelle che non lo sono. Amsterdam, per esempio



“è una delle città più violente su scala europea… La legalizzazione della marijuana non riduce l’impatto e le attività legate al drug trafficking e della malavita. Molti sono i coffee shops che vengono accusati nel rapporto dell’Advisory Comittee on Drugs Policy olandese di interagire con il crimine organizzato, raccomandandone un maggior controllo da parte delle forze dell’ordine, un allontanamento dalle zone limitrofe a scuole ed una riduzione del loro numero. Nei Paesi Bassi, il Report presentato dall’Advisory Comittee on Drugs Policy ha evidenziato la necessità di riconsiderare la legislazione in materia di drug policies a causa degli effetti negativi correlati alla legalizzazione” (p. 24).



Precisa, inoltre, il DPA:



“Chi è attualmente carcerato per reati inerenti allo spaccio e al traffico di droga, nella maggior parte dei casi non lo è per piccole quantità o per attività svolte occasionalmente o di poco conto ma per attività e reati di una certa consistenza che più che il bisogno dettato dalla dipendenza sono stati dettati dalla volontà di procurarsi denaro per assicurarsi facilmente redditi senza essere costretti a svolgere attività normali lavorative di solito molto a più basso rendimento finanziario rispetto alle attività criminali.


Chi sostiene che legalizzare snellirebbe il sistema di giustizia penale non considera però che la legalizzazione favorirebbe l’aumento del fenomeno della criminalità e dei reati compiuti sotto gli effetti dell’uso di sostanze (come rapine, scippi, violenze): in tal caso la legalizzazione non giustificherebbe di certo l’immunità o impunità rispetto ad atti illegali agiti sotto l’influenza delle droghe che implicherebbero comunque la detenzione… Per le persone con dipendenza e quindi uno stato di malattia che li costringe a procurarsi la sostanza stupefacente e di conseguenza a volte a delinquere per questo, in Italia come in tanti altri paesi esiste sempre la valida e facilmente ottenibile alternativa dell’entrata in terapia anche per ridurre i fabbisogni giornalieri di denaro per l’acquisto delle droghe” (p. 23).



Gli antiproibizionisti accompagnano spesso le loro tesi con l’affermazione  secondo la quale la tassazione sulle sostanze stupefacenti legalizzate porterebbe molto denaro nelle casse dello Stato, con grandi benefici per tutti, ma, ancora una volta, i fatti dimostrano che si tratta di un’affermazione falsa, perché i costi enormi che complessivamente lo Stato dovrà sostenere, lo porteranno a spendere assai di più di quello che incasserà con la tassazione, esattamente come avviene con alcool e tabacco, sostanze legali e tassate:



“Negli Stati Uniti, ad esempio, le entrate delle imposte federali sull’alcol incassate nel 2007 si aggiravano intorno ai 9 miliardi di dollari; gli stati riscuotevano circa 5,5 miliardi di dollari. Se si sommano, queste cifre sono inferiori al 10% dei 185 miliardi di dollari calcolati per le spese correlate all’alcol in termini di assistenza sanitaria, giustizia penale, e di una ridotta produttività lavorativa… Quindi l’affermazione che spesso le organizzazioni pro legalizzazione fanno e cioè: ‘lo Stato recupera ampiamente i costi di fabbricazione delle sostanze che verranno commercializzate ad un prezzo notevolmente ridotto’ risulta totalmente fuori luogo ed infondata perché nel computo dei costi, oltre a quelli produttivi, andranno inseriti quelli incrementali relativi alle cure degli effetti negativi sulla salute, all’apparato di controllo che dovrà essere aumentato e quello relativo alla distribuzione gestita delle sostanze, non che alla perdita di produttività e redditività di centinaia di migliaia di persone” (p. 23).



14 vietare tutte le drogheNel report del 2008 elaborato dal Centers for Disease Control and Prevention, si legge che tra il 2000 e il 2004 il tabagismo negli USA ha causato la perdita di 193 miliardi di dollari, di cui 96 miliardi per costi medici e 97 miliardi per perdita di produttività.


Il programma di controllo del tabagismo in California è costato 1,4 miliardi di dollari nei suoi primi 15 anni, e i 3,6 milioni di pacchetti di sigarette non fumati, nello stesso periodo di tempo, hanno ridotto le entrate dello Stato di 3,1 miliardi di dollari. Tra costi e mancate entrate lo Stato ha perso 4 miliardi e mezzo in 15 anni, ben poca cosa rispetto agli 86 miliardi di costi di assistenza sanitaria diretta che il programma gli ha invece permesso di risparmiare (p. 18).


In conclusione, se c’è qualcosa in grado di combattere la criminalità, contenendone i guadagni e le attività illecite; di tenere basso il numero dei consumatori di droghe e di coloro che ne diventano dipendenti; di tenere bassa l’insorgenza di malattie correlate all’uso di sostanze e i corrispondenti costi sanitari; di limitare i costi a carico dello Stato e della collettività… la strada è una sola: vietare le droghe e sanzionare i trasgressori.


L’approccio politico della “riduzione del danno” dimostra, anche in questo caso, tutta la sua fallacia e pericolosità, poiché non solo non riduce i danni di partenza, ma dei danni di partenza – e di nuovi e ulteriori danni a essi conseguenti – ne è addirittura l’artefice. Il risultato finale è sempre lo stesso: un “male maggiore” assai più grave ed esteso di quello che le politiche della “riduzione del danno” dovrebbero prevenire.


[1] Ho approfondito i problemi di salute associati alla cannabis nel seguente articolo: “A proposito di ‘le canne non fanno male’ e ‘uso terapeutico’”, Libertà e Persona, 1 luglio 2013.



Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:20

Il “male minore” porta Male (8° parte: eutanasia e suicidio assistito)

 

01 Eutanasia

8) MALE MINORE, EUTANASIA e SUICIDIO ASSISTITO

I favorevoli all’eutanasia affermano che essa altro non è che il “male minore” rispetto alla sofferenza di chi si trovi agli ultimi stadi di una malattia incurabile, o di chi ritenga che la propria vita sia diventata un fardello intollerabile a cui porre fine. Meglio quindi una “morte dolce” anticipata (male minore), che una vita sino alla sua fine naturale tribolata e senza dignità (male maggiore).

L’obiettivo in sé benigno e lecito dell’eliminazione del dolore, causato da una malattia terminale (funzione della medicina palliativa), viene così perseguito eliminando non la sofferenza, ma il sofferente. In altre parole, si rimuove il dolore (male maggiore) eliminando anzitempo il malato e si chiama questo omicidio “male minore”.


 

INDICE:

1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?

Male minore e “nuovi diritti” legalizzati

2) Male minore e aborto

3) Male minore e fecondazione extracorporea

4) Male minore e divorzio

5) Male minore e contraccezione artificiale

Male minore e “nuovi diritti” reclamati

6) Male minore e matrimonio gay

7) Male minore e droga libera

8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito

9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico

10) Conclusione

Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi

 

8) MALE MINORE, EUTANASIA e SUICIDIO ASSISTITO

L’eutanasia fa parte della rosa dei “nuovi diritti” di cui la società dovrebbe dotarsi. La sua legalizzazione è perseguita con le solite vecchie tattiche ormai collaudate: è improntata sulla “riduzione del danno”, si fa abbondante uso di politically correct, è presentata come una prassi medica consolidata e perciò da regolarizzare con una legge al fine di prevenire gli abusi (fermare il far west eutanasico).

I favorevoli all’eutanasia affermano che essa altro non è che il “male minore” rispetto alla sofferenza di chi si trovi agli ultimi stadi di una malattia incurabile, o di chi ritenga che la propria vita sia diventata un fardello intollerabile a cui porre fine. Meglio quindi una “morte dolce” anticipata (male minore), che una vita sino alla sua fine naturale tribolata e senza dignità (male maggiore).

Alleviare il dolore di una persona con l’omicidio (eutanasia), o aiutarla a suicidarsi (suicidio assistito), diventano – secondo le migliori interpretazioni politically correct – puri e semplici atti di umanità, scaturenti da sentimenti pietosi e caritatevoli verso il prossimo sofferente. Ecco, per fare un esempio, il parere dello scrittore Renato Pierri, secondo il quale l’eutanasia “è la scelta necessaria del male minore (dal punto di vista del malato)”:

“Vi sono azioni che violano la legge morale ma non la legge civile e azioni che violano la legge civile ma non la legge morale. Tra queste ultime, a mio parere, è da annoverare l’eutanasia, qualora ovviamente risponda solo e unicamente allo scopo disinteressato di fare del bene a colui che invoca disperatamente la morte, non riuscendo ad accettare una vita (già del resto negata dal destino) da lui ritenuta insopportabile. In questo caso l’eutanasia, per quanto possa sembrare strano alle persone religiose, risponde al comandamento dell’amore per il prossimo”.

O il parere del professor Giorgio Macellari, specialista in chirurgia, per il quale l’eutanasia è “un male morale di principio”, ma di fronte ai casi particolari in cui

“la vita residua si spoglia della dignità che ad essa normalmente viene attribuito, quando il dolore e l’angoscia si fanno insostenibili, quando la sfacelo del corpo ha oltrepassato il confine della decenza e del pudore… mi sento costretto ad approvarla. Nel senso che in casi particolari il suo impiego può rappresentare un male morale minore del suo rifiuto: lo scopo primario della medicina non è soltanto lottare per la vita, ma anche evitare di far soffrire. È in quest’ottica dolorosa e angosciante che io guardo all’eutanasia: una parola che emotivamente mi ripugna, ma che razionalmente mi può richiamare un atto di carità”.

L’obiettivo in sé benigno e lecito dell’eliminazione del dolore, causato da una malattia terminale (funzione della medicina palliativa), viene così perseguito eliminando non la sofferenza, ma il sofferente. In altre parole, si rimuove il dolore (male maggiore) eliminando anzitempo il malato e si chiama questo omicidio “male minore”. Come si vede, il “male minore” è diventato l’alibi per sopprimere la vita al suo stadio iniziale e finale, nel primo caso si chiama aborto, nel secondo eutanasia, ma il risultato è sempre lo stesso: una persona viene uccisa e nessuno viene condannato per quel delitto.

Ciò che più stride in affermazioni del tipo di cui sopra, è che siano pronunciate in un tempo in cui la Medicina Palliativa è così progredita e diffusa da permettere di combattere efficacemente il dolore del malato terminale, motivo per cui, se c’è un’epoca in cui la tesi “sì all’eutanasia per non far soffrire il malato terminale” appaia assurda e infondata, quella è sicuramente l’epoca attuale. La terapia del dolore fornisce, infatti, un aiuto decisivo a chi si trova agli ultimi stadi di una malattia, migliorandone notevolmente la qualità della vita. L’esperienza delle reti di assistenza domiciliare e di molti hospice, dimostra che i malati non chiedono di essere uccisi se le loro sofferenze sono alleviate, se non sono lasciati soli e se non percepiscono di essere un peso per gli altri. Il dottore Marco Maltoni, direttore dell’Unità Cure Palliative dell’Ospedale di Forlimpopoli, citando uno studio di Kelly e collaboratori, osserva:

“La valutazione soggettiva del paziente sul significato della propria vita [è] fortemente influenzata dalle modalità di cura”. Tra i motivi di richiesta eutanasica, non figurano in maniera significativa “dolori o sintomi fisici non controllabili, dato che con il più appropriato uso di farmaci ed approcci palliativi la sintomatologia fisica è oggi controllata nella grande maggioranza dei casi”. Il desiderio di anticipare la morte è significativamente maggiore nei pazienti con “percezione di essere un peso per gli altri; bassa coesione familiare; depressione”.

Dietro l’eliminazione della sofferenza fisica attraverso la “dolce morte” del malato, si cela in verità altro, come denuncia il francese Lucien Israel, specialista in neurologia e decenni di esperienza proprio con i malati terminali:

“Altro che autodeterminazione. Per me, l’eutanasia è una richiesta che proviene dalle persone sane che vogliono disfarsi di un malato grave o in fase terminale”.

Il neurologo francese ha ricordato in più di un’occasione che in Francia vive un certo numero di olandesi anziani che si sono trasferiti lì per paura di essere sottoposti all’eutanasia se fossero rimasti nel loro Paese:

“Se questa tendenza continua […] gli anziani dovranno difendersi dai giovani. Ma non solo: dovranno anche difendersi da medici e infermieri. Forse si comporteranno come gli anziani olandesi che, oggi, vengono a cercare protezione in Francia e in Italia. Può darsi che un giorno i nostri anziani saranno costretti a cercare rifugio nel Benin”.

Eutanasia legale, quindi, per eliminare in realtà, non la sofferenza del malato, ma il malato stesso, perché la sua presenza costringe a interrogarsi sul significato dell’esistenza, a fare i conti con il degrado fisico e la fragilità umana. Eutanasia legale per eliminare il familiare che è diventato un peso, colui al quale non si vuole o non si è in grado di prestare cura. Eutanasia legale per togliere di torno colui che, con i suoi acciacchi e le sue infermità, è diventato una persona “inutile”, un “fardello insostenibile” per il sistema sanitario e la collettività.

03 abusiSe si guarda ai pochi Stati del mondo che hanno introdotto l’eutanasia e/o il suicidio assistito, si può osservare come la tanto propagandata “libera scelta” sul proprio fine vita si sia di fatto rivelata una pura illusione, con il “diritto di morire” che si è presto capovolto nel “dovere di morire”; come il “piano inclinato” abbia via via inglobato, tra gli idonei al trapasso “volontario”, categorie sempre più ampie di sofferenti; come gli abusi siano diventati così numerosi che ormai non si contano più, e la cultura della morte sia così tanto dilagata nel sentire comune, da aver portato a un aumento esponenziale, non solo del numero di sofferenti che chiede di morire, ma anche dei suicidi volontari tra chi è ancora giovane e in salute.

In Oregon, i rapporti ufficiali indicano che, in tredici anni, i suicidi assistiti annui sono più che quadruplicati. Dal 1998 al 2011 sono stati 600 circa i pazienti che vi hanno fatto ricorso, ma il loro numero potrebbe essere ben più elevato poiché, a causa dei gravi difetti presenti nella legge e dei molti limiti del sistema di rilevazione “a campione” predisposto, non si è in grado di conoscere con certezza quanti e in quali circostanze i pazienti siano morti.

Le stesse gravi lacune si sono riscontrate nello Stato di Washington dove, nonostante la legalizzazione del suicidio assistito sia recente, essendo la legge entrata in vigore solo nel 2009, il trend in crescita è già evidente: i rapporti del Dipartimento della Salute mostrano che in appena tre anni il numero ufficiale dei suicidi assistiti è già raddoppiato.

Un analogo andamento si è verificato in Olanda con le eutanasie legali: dal 2003 al 2011 le “dolci morti” ufficiali sono lievitate del 103%, passando da 1.815 nel 2003 a 3.695 nel 2011. Lo stesso si è registrato in Belgio, dove i casi di morte on demand sono quintuplicati: erano 259 nel 2002, sono arrivati a 1.432 nel 2012. E in Svizzera, dove i suicidi assistiti in quattordici anni sono cresciuti del 730%, passando dai 43 casi del 1998 ai 356 del 2012.

04 suicidiAll’impennata delle eutanasie e dei suicidi assistiti, verificatasi in tutti i Paesi che hanno legalizzato queste pratiche, è seguito l’aumento dei suicidi nella popolazione generale, come ha osservato la dottoressa Jacqueline Harvey dell’University of North Texas. Harvey ha analizzato la letteratura scientifica degli ultimi vent’anni dei Paesi che hanno introdotto le pratiche eutanasiche, in particolare di Oregon, Washington e Olanda, scoprendo che la legalizzazione del suicidio assistito porta all’aumento, non solo delle richieste legali dei suicidi assistiti, ma anche del numero dei suicidi nella popolazione generale:

“C’è la questione del contagio da suicidio. I suicidi sono quasi come una malattia infettiva. È stato statisticamente dimostrato che dopo la legalizzazione del suicidio assistito in Oregon, il tasso di suicidio degli adolescenti e i suicidi illegali della altre persone sono aumentati”.

Lo stesso è avvenuto nello Stato di Washington dove, benché sia passato solo qualche anno dalla legalizzazione del suicidio assistito, già si può osservare – ha detto Harvey – come la legalizzazione di tali pratiche sia in grado di generare quella che alcuni chiamano “cultura di morte”. Questa “cultura di morte” si è ben radicata anche in Svizzera, dove il suicidio volontario è diventato la prima causa di morte tra i giovani dai 15 ai 24 anni. Il fenomeno appare inarrestabile: ogni anno sono circa 1.400 le persone che si tolgono la vita, il doppio delle morti per incidente stradale. Secondo uno studio pubblicato nel 2005 dall’Ufficio federale della sanità pubblica, in Svizzera 1 persona su 10 si è suicidata o ha tentato almeno una volta il suicidio.

La legalizzazione delle pratiche eutanasiche – come abbiamo già accennato – ha innescato anche il meccanismo del “piano inclinato” che ha portato al progressivo allargamento dei confini legali per usufruire della morte su richiesta.

All’inizio, in Olanda, l’eutanasia era prevista solo per i casi eccezionali di malattia terminale, poi vi è stata inglobata la sofferenza psicologica, successivamente si sono aggiunti i casi di disabilità, quindi è arrivato il Protocollo di Groningen per disciplinare l’eutanasia di neonati e bambini, finché, più di recente, si è iniziato a discutere della possibilità di estendere la “dolce morte” anche alle persone sane ma stanche di vivere o, semplicemente, “sofferenti” di vecchiaia.

Un percorso analogo si è verificato anche in Belgio. Si è partiti con l’eutanasia per i malati incurabili con un’afflizione psicofisica persistente e insopportabile; poi è arrivato il via libera all’eutanasia a una signora 93enne che l’aveva chiesta perché si sentiva molto sofferente a causa degli acciacchi dovuti alla vecchiaia; quindi è stata la volta di due fratelli gemelli sordi dalla nascita, che hanno potuto ottenere l’iniezione letale a causa della grave “sofferenza psicologica” subentrata dopo aver scoperto che presto sarebbero diventati anche ciechi; finché non è arrivata anche in Belgio l’eutanasia per i minori, senza limiti di età, affetti da malattie terminali; mentre è già da un po’ che si discute di estendere il “servizio” anche ai dementi e ai malati di Alzheimer. In sostanza, si è iniziato con l’eutanasia per i casi incurabili e terminali, si è passati all’eutanasia su richiesta per malesseri fisici e psichici associati alla vecchiaia e a forme di disabilità, e si è arrivati al punto in cui l’eutanasia dovrebbe essere concessa anche a chi non la chiede.

Anche in Svizzera si è partiti con il suicidio assistito riservato ai malati terminali e poi è partita la deriva. Per capire quanto ampi siano diventati i confini per usufruire della “buona morte” elvetica basta consultare i dati di Exit DS, l’organizzazione privata di aiuto al suicidio più importante del Paese. Secondo il Rapporto del Consiglio federale del giugno 2011, nel 2009 Exit Ds ha accompagnato al suicidio 217 persone, delle quali: 93 affette da cancro, 47 da polimorbilità, 9 da malattie croniche, 5 da sclerosi laterali amiotrofica, 3 da emorragia cerebrale, 7 da sclerosi a placche, 6 da morbo di Parkinson, 2 da malattie psichiche, 17 da dolori cronici, 2 da un inizio di demenza, 9 da malattie polmonari, 9 da polineuropatie, 3 da tetraplegie, 3 da malattie agli occhi, e 8 da altre patologie.

L’avvocato americano Wesley J. Smith, rappresentante dell’International Task Force (un’organizzazione internazionale che si batte contro l’introduzione di eutanasia e suicidio assistito), ha osservato:

“La cultura della morte è vorace. Una volta che inizia a nutrirsi, non è mai sazia. Le categorie per uccidere alla fine non sono mai abbastanza”.

06 cultura mortePoi ci sono gli abusi[1], e nessun Paese tra quelli che hanno legalizzato le pratiche eutanasiche ne è immune, alla faccia di chi crede che la legalizzazione sia la strada per eliminare ogni genere di far west.

In Olanda, per esempio, il governo ha deciso di introdurre la “dolce morte” proprio con l’intenzione di portare le eutanasie illegali allo scoperto. Vari elementi facevano, infatti, pensare che questa fosse ormai una prassi medica consolidata. Negli anni Settanta i medici dei distretti avevano firmato una lettera aperta indirizzata al Ministro della Giustizia, in cui dichiaravano che l’eutanasia era comunemente praticata. Un sondaggio promosso dallo Stato negli anni Novanta, per determinare la frequenza di suicidio assistito ed eutanasia, che garantiva alla classe medica immunità e anonimato sulle risposte, aveva messo in luce che le morti procurate dai medici erano circa il 9% dei decessi annuali, di cui 2.300 eutanasie su richiesta, 400 suicidi assistiti e 1.040 (una media di circa 3 al giorno) eutanasie praticate all’insaputa o senza il consenso del paziente.

Il governo pensava che l’applicazione di criteri di valutazione uniformi in tutti i casi in cui il medico termina la vita di un paziente, nonché la necessità di soddisfare i requisiti di dovuta diligenza, avrebbero permesso di fermare le eutanasie clandestine ed evitare gli abusi sui malati, cioè che potessero essere uccisi senza il loro consenso, ma così non è stato. La classe medica olandese ha ritenuto che le modalità previste nella nuova legge fossero “troppo confuse”, con il risultato che, dopo la legalizzazione, non solo le segnalazioni dei casi di eutanasia non sono aumentate, ma sono addirittura diminuite. Dopo la legalizzazione si è verificato anche un altro fenomeno: hanno iniziato a salire, anno dopo anno in misura sempre più elevata, le morti dopo “sedazione profonda continua” (o “terminale”) e le morti dopo “alleviamento intensificato dei sintomi”.

Le linee guida emanate dalla Royal Dutch Medical Association, prevedono che la sedazione “terminale” si applichi nelle ultime due settimane di vita del paziente unitamente alla sospensione di idratazione e nutrizione. Una prassi che, tuttavia, non ha niente a che vedere con gli interventi di tipo palliativo, come osserva il neurologo Gian Luigi Gigli:

“[La sedazione terminale] mira, infatti, non a controllare il dolore, ma a far entrare il paziente in un tunnel senza via d’uscita, al termine del quale vi è inevitabilmente la morte. I farmaci sono, infatti, somministrati a dosi tali da abolire la coscienza, mentre vengono abitualmente sospese le altre terapie e sono arrestate l’idratazione e la nutrizione”.

La scelta di sospendere i sostegni vitali, continua Gigli, deve rimanere separata dalla decisione di sedare, e deve essere presa solo se idratazione e nutrizione non sono assimilate o sono dannose per il paziente:

“È chiaro infatti che la sospensione di idratazione e nutrizione comporta inevitabilmente la morte nell’arco di un paio di settimane. Il requisito olandese di ‘terminabilità’ a due settimane costituisce quindi una sorta di profezia che si autorealizza”. Non stupisce pertanto che “in dieci anni la percentuale di olandesi che muoiono a seguito di sedazione continua profonda è passata dal 5,6% del 2001 al 12,3% del 2011. Il tutto senza possibilità di una seconda opinione, come è previsto per l’eutanasia, e spesso senza il consenso del paziente, trattandosi di una ‘normale pratica medica’. Che si tratti invece di eutanasia mascherata lo dimostra il fatto che i maggiori centri europei di cure palliative riferiscono di percentuali di malati sedati che in genere non superano il 5 o il 10 per cento del totale dei pazienti seguiti”.

In pratica, in Olanda, otto anni dopo l’introduzione dell’eutanasia, il numero dei decessi dopo “sedazione terminale” è raddoppiato, interessando nel 2010 ben 16.700 pazienti. E, nello stesso periodo, sono aumentati anche i pazienti morti dopo “alleviamento intensificato dei sintomi”, che sono passati dal 20,1% al 36,4% delle morti totali. In questi secondi casi, osserva Gigli:

“La morte è preceduta da somministrazione di oppiacei e psicofarmaci, invece che da miorilassanti e barbiturici, come avviene per l’eutanasia riconosciuta e per il suicidio assistito. È significativo che in oltre la metà dei casi di ‘morte dopo alleviamento intensificato dei sintomi’, la decisione sia stata presa senza consultare né il paziente né i suoi familiari…

Se gli oppiacei, ad esempio, sono spesso necessari per il controllo del dolore, della sensazione di fame d’aria e della tosse, essi debbono essere mantenuti al minimo necessario, preferendo, per ottenere l’effetto sedativo, ricorrere alle benzodiazepine che a differenza degli oppiacei non accelerano il decesso…

Il forte aumento dei pazienti ‘morti dopo alleviamento intensificato dei sintomi’ e, soprattutto, il raddoppio di quelli morti durante sedazione continua profonda appaiono molto sospetti e non giustificati da reali modificazioni della scena clinica. In altri termini, vi è il sospetto che la percentuale dei casi di eutanasia resti bassa solo perché i medici non chiamano eutanasia la morte affrettata con gli oppiacei e gli psicofarmaci, nella metà dei casi senza neanche discuterne con il paziente e i familiari”.

Come si vede, quindi, anche dopo la legalizzazione dell’eutanasia gli abusi permangono: i medici olandesi continuano a fare come vogliono, i malati continuano a essere uccisi senza essere consultati e i loro familiari continuano a essere tenuti all’oscuro su tale decisione. Per aggirare la “confusa” legge emanata dallo Stato, i dottori non fanno altro che applicare due “normali procedure mediche”, contraddistinte da un lessico politically correct e rassicurante, ma che nei fatti sortiscono lo stesso effetto dell’eutanasia: la morte certa del malato. Non stupisce, allora, se gli olandesi anziani se la diano a gambe emigrando nei Paesi vicini, dove il ricovero in ospedale non li esponga al rischio di ritrovarsi morti stecchiti nel giro di due settimane, dopo essere stati “terminati” anzitempo e contro la propria volontà, con un normalissimo “alleviamento intensificato dei sintomi” o una semplicissima “sedazione continua profonda”.

Anche in Belgio vi sono casi di malati eutanasizzati senza il loro assenso. Uno studio pubblicato nel 2010 sul Canadian Medical Association Journal, ha rilevato che un terzo delle eutanasie (66 su 208) praticate nelle Fiandre tra giugno e novembre 2007 è avvenuto senza il consenso dei pazienti. I medici hanno motivato il fatto di non averlo chiesto perché il paziente era in stato comatoso (70,1%), o affetto da demenza (21,1%), o perché in precedenza aveva già espresso verbalmente la volontà di morire (40,4%), circostanza, quest’ultima, che non può tuttavia considerarsi come valido consenso. Un altro studio, pubblicato sempre nel 2010 sulla medesima rivista scientifica, ha scoperto che un quinto circa di tutte le infermiere belghe aveva praticato l’eutanasia, in palese violazione delle disposizioni di legge, secondo le quali spetta solo al medico di eseguirla; inoltre, tra costoro, ben 120 l’avevano messa in pratica senza che vi fosse il consenso espresso del paziente. Il 5 ottobre 2010, uno studio sul British Medical Journal ha messo in luce anche la violazione dell’obbligo di comunicazione delle eutanasie realizzate, si è infatti visto che, di tutte le “dolci morti” praticate nelle Fiandre, solo il 52,8% era stato notificato alla Commissione Federale di Controllo e Valutazione.

08 human organ transplantMa in Belgio si stanno affacciando scenari ancor più inquietanti dopo che, in un congresso sulla donazione e trapianto di organi, organizzato dall’Accademia Reale di Medicina, i professori Dirk Ysebaert, Dirk Van Raemdonck e Michel Meurisse, hanno suggerito la definizione di linee guida per il prelievo di organi dalle persone morte per eutanasia, in modo da fronteggiare la penuria di organi per il trapianto. L’idea è partita dopo che si è constatato che il 20% dei pazienti belgi ad aver scelto ufficialmente l’eutanasia nel 2008 soffriva di disturbi neuromuscolari, una condizione che rende queste persone ottimi donatori vista l’“alta” qualità dei loro organi. Questa proposta a dir poco agghiacciante ha già superato in Belgio la mera ipotesi teorica, visto che in letteratura scientifica sono già stati menzionati almeno quattro casi di pazienti belgi che hanno subìto l’espianto degli organi dopo la morte per eutanasia. L’avvocato Wesley J. Smith aveva lanciato l’allarme già nel 2010, denunciando il caso di una donna belga affetta da sindrome “locked-in” alla quale sono stati asportati fegato e reni dieci minuti dopo la morte indotta, avvenuta in presenza del marito e certificata da tre medici diversi. Smith ha commentato:

“È un terreno molto pericoloso… quello di avvalorare l’idea che sia meglio essere morti che handicappati e che dei pazienti viventi possano, in sostanza, essere considerati una risorsa naturale da uccidere e sfruttare.

Il prelievo di organi da chi è stato sottoposto a eutanasia, introduce la prospettiva assolutamente realistica per cui persone disperate a causa di una malattia terminale o di una grave disabilità (o, forse, semplicemente disperate) potrebbero aggrapparsi all’idea di essere uccise per consentire il prelievo dei loro organi, come un modo per dare un senso alla loro esistenza”.

In Svizzera i suicidi assistiti sono attuati da diverse organizzazioni private, ma anche in questo Paese, come negli altri che hanno legalizzato queste pratiche, la poca trasparenza e le carenze nell’azione di controllo suscitano non poche perplessità. Da più parti, nel corso degli anni, si è invocata la necessità di regole più chiare e notizie dettagliate circa i suicidi assistiti messi in atto, dei quali non si sa pressoché nulla. Nel 2006 la Commissione nazionale d’etica ha chiesto che le organizzazioni private siano meglio sorvegliate dallo Stato per fare in modo che siano rispettate delle precise esigenze etiche e i pazienti siano protetti dagli abusi. In caso di illecito, infatti, sono proprio le disposizioni di legge a non consentire di agire in maniera adeguata dal punto di vista giuridico.

La Dignitas, per esempio, una delle organizzazioni elvetiche che offre il “servizio” anche agli stranieri, ha suscitato più volte scandalo a causa della sua condotta discutibile, ma non risulta che sia mai andata incontro a una condanna per questo. Nel 2008 ha suscitato molte polemiche la notizia di due casi di pazienti tedeschi assistiti al suicidio all’interno delle loro auto nei pressi di un bosco. Prima di questo episodio, altri pazienti erano stati assistiti clandestinamente in un albergo di Winterthur. Nello stesso anno Dignitas ha dovuto fare i conti con l’indignazione del procuratore generale, che ha invocato la necessità di norme di legge più chiare, dopo che i responsabili hanno consegnano in procura i filmati di alcuni suicidi assistiti praticati con il gas elio. Nel 2010 è arrivato un nuovo scandalo, quando i sommozzatori hanno ripescato dal lago di Zurigo 35 urne funerarie, private della placca di identificazione, ma riconducibili all’organizzazione privata. Qualche anno prima, alcuni dipendenti della clinica erano stati colti in flagrante proprio mentre versavano le ceneri dei pazienti cremati nel lago. Un’ex impiegata della clinica ha dichiarato:

“Il fondatore di Dignitas mi ha sempre detto che si sarebbero dissolte nell’acqua, che erano urne di argilla. La ragione di questo comportamento è economica: perché è molto costoso inviare queste urne all’estero e lui voleva risparmiare”.

Nel 2007, il tribunale penale di Basilea ha condannato Peter Baumann, della Verein Suizidhilfe, un’altra organizzazione privata di aiuto al suicidio, a tre anni di carcere di cui due con la condizionale, per aver aiutato a morire tre malati psichici parzialmente incapaci di discernimento. Una pena assai lieve, se si considerano anche i metodi barbari usati dal dottore per mandare a morte i pazienti: dopo la somministrazione di tranquillanti, Baumann li ha soffocati infilando loro un sacco intorno alla testa.

10 pentobarbitalIl Rapporto del Consiglio federale di giugno 2011 ha indicato vari abusi associati ai suicidi assistiti, come: aiuto al suicidio di persone incapaci di discernimento o in buona salute, fornitura senza prescrizione della sostanza (pentobarbitale sodico) usata per i suicidi, stoccaggio illegale di questa sostanza, attività destinate a trarre profitto dai suicidi assistiti.

Irregolarità e abusi si registrano puntuali anche in America. La legge dell’Oregon prevede che i pazienti depressi o malati di mente possano ricorrere al suicidio assistito solo se non hanno il “giudizio alterato”, tuttavia dai rapporti ufficiali è emerso che solo il 5% dei pazienti è stato sottoposto a valutazione psicologica prima di ricevere la prescrizione per suicidarsi. Poco si sa delle complicazioni che, non di rado, si verificano durante l’assunzione dei farmaci mortali (panico, terrore, comportamenti aggressivi, vomito, spasmi, convulsioni, rantoli, molte ore di straziante agonia prima che arrivi la morte, ecc.) perché la legge dispone che il medico che fa la prescrizione letale non sia tenuto a essere presente quando il paziente l’assume. Il sesto rapporto annuale ha rilevato la presenza di un medico in meno del 30% dei decessi segnalati, ciò significa che quello che accade durante i suicidi assistiti rimane perlopiù sconosciuto e che la maggior parte dei suicidi “assistiti” sono in realtà ben poco assistiti. Queste e molte altre irregolarità sono state riepilogate in una relazione consegnata al Public Health Department da parte dei medici della Physicians for Compassionate Care Education Foundation, i quali alla fine concludono:

“Il velo di segretezza che circonda il suicidio assistito è più pesante che mai. Ogni anno che passa, gli oregoniani sanno sempre meno di ciò che realmente accade nello Stato con i suicidi assistiti”.

La stessa sorte beffarda colpisce i malati dello Stato di Washington. Eileen Geller, presidente della “True Compassion Advocates” ha messo in discussione la precisione del rapporto del Dipartimento della Salute, poiché risulta che vi sono persone di cui non si sa nulla dopo aver ricevuto la prescrizione dei farmaci per uccidersi:

“I dati pubblicati nel rapporto del 2010 sono così scarsi e inattendibili che anche alcuni di coloro che sono d’accordo con questa linea politica hanno delle riserve circa la capacità del Dipartimento della Salute di stabilire se la legge opera in piena sicurezza e ‘volontarietà’ come i suoi fautori hanno assicurato.

Gli elettori di Washington pensavano che avrebbero ottenuto una legge che garantisse loro la scelta. Quello che hanno ricevuto è qualcosa di completamente diverso: una legge che in alcuni casi è diventata una ricetta per l’abuso nei confronti degli anziani e uno strumento di coercizione finanziaria”.

La legge di Washington sul suicidio assistito riesce a essere persino peggiore di quella oregoniana, visto che si spinge fino a costringere i medici a mentire sulla causa di morte dei loro pazienti. Essa dispone infatti che, quando un paziente muore dopo aver assunto i farmaci letali prescrittigli, il medico riporti come causa di morte la malattia terminale di base. Brian Wicks, presidente della “Washington State Medical Association”, ha osservato:

“Se il medico prescrive un’overdose letale, quando quel medico compila il certificato di morte, è tenuto – effettivamente tenuto – a indicare la malattia di base (per esempio cancro ai polmoni) come causa di morte, anche quando il dottore sa bene che il paziente è morto per suicidio a seguito dell’overdose da lui prescritta. Per quanto ne sappia non c’è nessun’altra situazione in medicina in cui il certificato di morte sia deliberatamente falsificato, e in cui questa falsificazione sia obbligatoria per legge”.

Ecco con che cosa ci ritroveremo a fare i conti in Italia, se gli apostoli del “male minore” dovessero riuscire a far legalizzare l’eutanasia: aumento esponenziale del numero delle morti on demand, aumento dei suicidi nella popolazione generale, affermazione della “cultura di morte”, irregolarità, abusi e il far west che continua indisturbato.

12 Adolf Eichmann11 Wim DistelmanDal Belgio ci è giunta la notizia che Wim Distelmans – il “dottor morte” che si occupa di “iniezioni letali” nella sua clinica di Bruxelles – ha organizzato un viaggio-studio ad Auschwitz rivolto ai professionisti della medicina coinvolti nell’eutanasia. Distelmans ha dichiarato di aver scelto il noto campo di sterminio perché lo considera un “luogo di ispirazione” in cui “poter riflettere su questi temi in modo da poter prendere in considerazione e chiarire le confusioni” intorno all’eutanasia. Molti l’hanno bollata come un’iniziativa di cattivo gusto. In realtà, più che una pessima iniziativa, essa sembra piuttosto il sintomo del fatto che, come al tempo delle deportazioni di Eichmann, stiamo ancora vivendo “in un’epoca di crimine legalizzato dallo Stato”.

 

[1] Ho trattato più dettagliatamente questo aspetto nell’articolo: “Rischi e abusi nei Paesi che hanno legalizzato l’eutanasia e/o il suicidio assistito”, Libertà e Persona, 29 settembre 2013.


Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:23

Il “male minore” porta Male (9° parte: eutanasia passiva e testamento biologico)

01 battito mano

9) MALE MINORE, EUTANASIA PASSIVA e TESTAMENTO BIOLOGICO

Ciò che si trova alla base dell’esigenza di avere una legge ad hoc, proveniente soprattutto da esponenti di area cattolica, è ancora una volta il “male minore”: la legalizzazione del testamento biologico consentirebbe di contrastare le derive eutanasiche poste in atto dalle “sentenze creative” e il “far west” dei registri comunali dei biotestamenti, proliferati in tutta Italia grazie alle iniziative dei Radicali.

In realtà, il disegno di legge italiano sulle Dat presenta gli stessi difetti che sono stati rilevati nei Paesi che hanno già introdotto il biotestamento, e ha tutte le caratteristiche per far ritenere che, anziché fermare le sentenze creative eutanasiche, sarà proprio esso, se verrà approvato, a porre le basi in Italia per la “buona morte” legalizzata.


INDICE:

1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?

Male minore e “nuovi diritti” legalizzati

2) Male minore e aborto

3) Male minore e fecondazione extracorporea

4) Male minore e divorzio

5) Male minore e contraccezione artificiale

Male minore e “nuovi diritti” reclamati

6) Male minore e matrimonio gay

7) Male minore e droga libera

8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito

9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico

10) Conclusione

Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi

 

9) MALE MINORE, EUTANASIA PASSIVA e TESTAMENTO BIOLOGICO

Il Testamento Biologico è un documento nel quale una persona capace manifesta la propria volontà circa i trattamenti medici ai quali desidera oppure no essere sottoposta nel caso in cui, a seguito di una malattia o di un trauma, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso informato. Secondo i suoi promotori, la sottoscrizione di un testamento biologico dovrebbe servire a proteggersi dall’accanimento terapeutico, in realtà le norme che garantiscono la tutela da accanimento (e abbandono) terapeutico esistono già: nella Costituzione, nel Codice Civile e Penale, nel Codice Deontologico e nella Convenzione di Oviedo. La sospensione delle terapie è, infatti, consentita in tutti quei casi in cui il loro prolungamento si trasformi in un trattamento medico (terapie di rianimazione, somministrazione di farmaci, operazioni chirurgiche…) gravemente sproporzionato e privo di efficacia clinica rispetto alla reale situazione del malato prossimo alla fine, che gli procuri una continuazione precaria e penosa della vita in modo forzato e macchinoso.

02 Eu Soc of America living willOra, se le tutele contro l’accanimento terapeutico esistono già, perché fare una legge che introduca la possibilità di sottoscrivere un documento per proteggersi da tale accanimento? Per rispondere a questa domanda è sufficiente risalire alle origini del biotestamento, cioè a chi l’ha ideato e perché. Il “Living Will” (“Testamento Biologico”) viene progettato nel 1967 dall’“Euthanasia Society of America” con l’obiettivo di dare una spinta alla discussione sull’eutanasia poiché, da quando nel 1938 l’organizzazione era stata fondata, non era ancora riuscita a raggiungere alcun risultato importante in vista della legalizzazione delle pratiche eutanasiche. Successivamente, grazie all’ingresso del linguaggio politically correct, il “living will” muterà la sua denominazione in “advance directives” (“direttive anticipate”), ma nella sostanza sempre della stessa cosa si tratta.

In altre parole, viste le grandi difficoltà incontrate tra la popolazione nel trovare consensi verso l’eutanasia, i paladini americani della morte autodeterminata misero a punto un nuovo piano, impostato sulla necessità di “camminare prima di poter correre”. Il testamento biologico nasce nell’ambito di questa nuova strategia quale strumento per eradicare le resistenze, facendo accettare alle persone, intanto le forme passive di eutanasia e, poi, in seguito l’eutanasia vera e propria. Le forme passive di eutanasia si differenziano da quelle attive per il fatto di lasciare morire il malato, o tramite la rinuncia all’attivazione delle cure, o mediante l’interruzione dei sostegni che lo tengono in vita (acqua, cibo, aria). Emblematica al riguardo è la seguente affermazione fatta dalla filosofa australiana Helga Kuhse, durante la conferenza mondiale delle società eutanasiche del 1984:

“Se riusciamo a far accettare alla gente la rimozione di ogni trattamento e assistenza, specialmente del cibo e dei liquidi, ci si accorgerà di come sia doloroso questo modo di morire e quindi, nel migliore interesse del paziente, accetteranno l’iniezione letale”.

03 Stop nutrizioneIn sostanza, così come la legalizzazione delle droghe leggere a scopo terapeutico è il passaggio per arrivare alla legalizzazione di tutte le droghe, il testamento biologico è diventato lo strumento per spuntare la legalizzazione dell’eutanasia. Con lo slogan di “no all’accanimento terapeutico” e l’invocazione del “diritto di autodeterminare” il proprio fine-vita, si instilla nelle persone la necessità di tutelare anzitempo la fine della propria vita dallo “strapotere” dei medici, mediante la sottoscrizione di un testamento biologico che dovrà, perciò, essere legalizzato dallo Stato. Esso servirà, in realtà, per arrivare alla legalizzazione dell’eutanasia attiva, dopo il passaggio intermedio del riconoscimento delle forme di eutanasia passiva. Come rivela Kuhse, questo obiettivo si deve raggiungere puntando sulla rimozione del cibo e dei liquidi, poiché morire di fame e di sete è estremamente doloroso perciò, per il bene del malato, apparirà di gran lunga preferibile una veloce e “indolore” iniezione letale.

Arrivati a questo punto, però, i paladini della “dolce morte” hanno ancora un ostacolo da superare, il fatto che idratazione e nutrizione non rientrano nel campo degli interventi sproporzionati, dal momento che non sono terapie mediche ma sostegni vitali, e perciò passibili di rimozione solo nel caso in cui il malato non sia in grado di assimilarli o gli arrechino danno. Come fare, allora, per legittimare sempre l’interruzione anche di cibo e liquidi? Niente di più facile, basta cambiare la realtà modificando il significato delle parole: con un agile equilibrismo linguistico i sostegni vitali sono trasformati in mere cure mediche, dopodiché anch’essi potranno essere inseriti nel testamento biologico tra i trattamenti sanitari che si intende rifiutare e sarà, altresì, possibile chiedere la loro sospensione appellandosi al dovere di evitare l’accanimento terapeutico. Osserva al riguardo Giovanni battista Guizzetti, responsabile dell’Unità Operativa Stati vegetativi del Centro Don Orione di Bergamo:

“Il tentativo di equiparare l’alimentazione ed idratazione ad una terapia ha come unico scopo quello di poterla giudicare sproporzionata ed eventualmente inefficace per aprire la strada alla sua sospensione. Vale la pena ricordare una riflessione di Keith Andrews: ‘È curioso che l’unico motivo per cui la sonda dell’alimentazione sia considerata “trattamento” è perché possa essere rimossa. La gran parte del dibattito riguarda la questione che la sonda sia un trattamento inutile. Io dico che la sonda è un trattamento estremamente efficace in quanto realizza il compito che noi ci aspettiamo che compia. Ciò che in realtà si pone è l’inutilità della vita del paziente – di qui il bisogno di trovare una strada per porre la fine a quella vita… Il desiderio della medicina di non sembrare apertamente a favore dell’eutanasia ha prodotto un ragionamento tortuoso per dimostrare che non siamo responsabili di quella morte’”.

Il dottor Marco Maltoni scrive:

“Esiste una posizione, apparentemente più sfumata e ‘subdola’, che considera eutanasica solo una accelerazione della morte dovuta ad un atto attivo, e non eutanasiche le interruzioni di supporto vitale”. Tale posizione si declina nel “tentativo in atto di ‘allargare’ sempre più la definizione di ‘accanimento terapeutico’ (più le azioni sono considerate ‘accanimento’, più sono legittimamente e doverosamente da sospendere), e [nel] ‘restringere’ sempre più la definizione di ‘eutanasia’ solo a quella attiva effettuata su richiesta di un adulto consenziente…

L’attribuire ad atti di supporto vitale il carattere di ‘terapia’ giustifica la doverosità (nel caso siano giudicate ‘sproporzionate’) o comunque la legittimità (nel caso in cui siano considerate ‘proporzionate’) del loro rifiuto, senza che ciò sia chiamato eutanasia. È evidente, invece, che anche le azioni omissive, non solo quelle commissive, possono, in certi casi, configurarsi come eutanasiche, in base all’intenzione, alla procedura, e al risultato che prevedono; per cui, checché venga oggi proposto, non tutte le ‘omissioni’ sono innocenti.

Nella letteratura scientifica (e, in quanto tale, ‘oggettiva’) è in atto, come lo è stato per altri eventi, una revisione ‘terminologica’ che descrive atti violenti con parole sempre più neutre e rassicuranti per l’opinione pubblica: dal ‘Physician Assisted Suicide’ (PAS) (Suicidio Assistito dal Medico) si è passati alla ‘Physician Assisted Death’ (PAD) (Morte Assistita dal Medico). Il principio della ‘china scivolosa’, però, fa prevedere che anche in questa visione, a parole non eutanasica, ma nei fatti criptoeutanasica, del Testamento Biologico, la cruda realtà emergerebbe ben presto. In primo luogo, la morte per fame e sete può rappresentare un’opportunità da non perdere per una società con risorse limitate e con età media troppo elevata: ‘il rifiuto della nutrizione può diventare, nel lungo termine, il solo modo efficace per assicurarsi che un largo numero di pazienti biologicamente resistenti venga effettivamente a morte. Considerato il crescente serbatoio di anziani resi disabili dall’età, cronicamente ammalati, fisicamente emarginati, la disidratazione potrebbe diventare a ragione il non trattamento di elezione’. Secondariamente, la morte per fame e per sete è talmente tremenda, che ben presto, in una visione utilitaristica, viene ritenuto più pietoso un intervento attivo, rapido, e indolore”.

Negli Stati che hanno introdotto il testamento biologico, il terreno è stato preparato dalle cosiddette “sentenze creative”. Negli USA, i principi contenuti nella sentenza del famoso “caso Quinlan” costituiscono la base per la regolamentazione, nel 1976 in California, del primo testamento biologico (“Natural Death Act”). Subito dopo, altri Stati ne seguono le orme: Illinois, Louisiana, Tennessee, Texas, Virginia, ecc. L’introduzione del testamento biologico a livello federale è anch’esso preparato da una “sentenza creativa”, il noto “caso Cruzan”, che nel 1991 porta all’approvazione del “Patient Self-Determination Act”. La legge federale USA stabilisce che una persona in grado di intendere e di volere gode della libertà, protetta costituzionalmente, di non acconsentire a cure mediche non desiderate e di formulare dichiarazioni anticipate di volontà. Rientrano tra le cure passibili di rifiuto anche i sostegni vitali di nutrizione e idratazione. Impone a tutti i centri ospedalieri finanziati da fondi federali di chiedere ai pazienti, al momento del ricovero, se dispongono di “direttive anticipate”, che andranno incluse nella cartella clinica. In caso negativo, dispone che i pazienti siano informati del loro diritto di sottoscrivere tale documento, ricevendone il dovuto orientamento. Il testamento biologico prevede anche la possibilità di nominare un rappresentante, che dovrà prendere le decisioni circa l’assistenza e le cure nel caso in cui la persona si trovi nell’incapacità di esprimere la propria volontà.

Dopo la legge è partito puntuale il “piano inclinato”. In principio l’interruzione dei sostegni vitali era autorizzata solo nei confronti di chi ne aveva fatto esplicita richiesta nella propria direttiva anticipata, ma se la richiesta mancava prevaleva il favor vitae, si presumeva cioè che il paziente avesse interesse a restare in vita. Poi, in assenza di una decisione, si è permessa la ricostruzione della volontà “presunta” del paziente (“caso Cruzan”, in Italia una cosa analoga è avvenuta con il “caso Englaro”). Quindi è arrivato il “miglior interesse del paziente”, cioè: in mancanza di una volontà esplicita, o nell’impossibilità di ricostruire la volontà presunta, la sospensione dei sostegni vitali può essere autorizzata se il rappresentante legale o il giudice lo ritengano opportuno “nel miglior interesse del paziente”. Nell’“interesse del paziente” si possono quindi sospendere i sostegni vitali anche in mancanza di volontà esplicita o presunta, e persino contro il volere dei familiari, come è successo a febbraio 2011, nel Maryland, a Rachel Nyirahabiyambere, sottoposta a interruzione forzata dei sostegni vitali su ordine del magistrato, perché i familiari non potevano pagare le sue cure. Da ultimo è arrivata la proposta della dottoressa Catherine Constable, della New York University, che sulla rivista Bioethics di marzo 2012 ha sostenuto che nutrizione e idratazione “artificiali” dovrebbero essere sospese a tutti i pazienti in stato vegetativo permanente, salvo evidenza della volontà di essere tenuti in vita. In questo modo l’onere della prova viene ribaltato: chi non vuole morire deve averlo lasciato detto con chiarezza.

Man yanking electrical cord

In altre parole, il principio del favor vitae viene rovesciato nel suo contrario: anziché presumere che il paziente voglia vivere, salvo dimostrazione del contrario, si presume che voglia morire, salvo dimostrazione del contrario. Per la Constable, la presunzione a favore del mantenimento della nutrizione e idratazione non sarebbe nell’interesse del paziente e causerebbe inutili costi per la società.

In conclusione, l’introduzione del testamento biologico in America non ha affatto fermato gli abusi: se lo sottoscrivi stai pur certo che, alla prima occasione, rispetteranno la tue volontà e ti lasceranno morire; se non lo sottoscrivi, nel tuo “migliore interesse”, ti lasceranno morire lo stesso.

L’“Illinois Right to Life Committee” (“Comitato per il Diritto alla Vita dell’Illinois”), ha osservato che il testamento biologico può elidere le disposizioni dei pazienti e dei propri cari sulla propria salute e fine-vita. Bill Beckman, direttore esecutivo del Comitato, scrive:

“Sapevamo che la spinta verso il testamento biologico dopo il caso Terri Schiavo sarebbe stata pericolosa per le persone che avrebbero abboccato. Recentemente alcuni casi che stanno venendo alla luce confermano i nostri timori circa i pericoli di tali documenti. Un testamento biologico non ha nulla a che fare con la vita, ma ha tutto a che fare con la morte…

Un caso avvenuto in Florida può dimostrare il serio rischio che il testamento biologico e la teoria delle cure inutili hanno sui pazienti. Alla fine del 2004, Hanford Pinette è stato ricoverato con urgenza in un ospedale di Orlando, in Florida, a causa di un’insufficienza cardiaca congestizia. Ed è stato posto sotto ventilazione meccanica e dialisi. I medici hanno comunicato alla moglie Alice che la sua condizione era ‘senza prospettive di miglioramento’. Quindi le hanno detto che avevano intenzione di ‘attenersi al suo testamento biologico’ con la rimozione dei dispositivi di ventilazione e dialisi. La signora Pinette si è opposta perché il marito era vigile e lucido, non vi era alcuna prognosi che stabilisse che la sua morte fosse imminente, parlava (sporadicamente, ma era in grado di farlo) e rispondeva ai comandi e al contatto fisico. Stava lottando per vivere. Secondo la signora Pinette, Hanford Pinette non aveva chiaramente intenzione di morire. L’ospedale si è allora rivolto al tribunale per ottenere l’autorizzazione a rimuovere i dispositivi di ventilazione e dialisi, scavalcando le obiezioni del delegato (sua moglie Alice) incaricato dall’uomo ad ‘attuare il suo testamento biologico’. Vinsero, e quei trattamenti medici indispensabili gli furono tolti. Dopo due ore di lotta per l’aria, Hanford Pinette – un uomo non malato terminale, cosciente e vigile – si è arreso ed è stato dichiarato morto. L’applicazione a favore della morte del suo testamento biologico, da parte dell’ospedale, ha prevaricato persino la disposizione chiaramente indicata secondo cui sarebbe stata la moglie a prendere le decisioni mediche nei suoi riguardi”.

L’“Illinois Right to Life Committee” esorta quindi le persone a non sottoscrivere alcun testamento biologico e, per una maggior sicurezza, visti i rischi che si corrono anche in sua mancanza, a proteggersi con la sottoscrizione del “Patient Self-Protection Document” (“Documento di Autodifesa del paziente”) che hanno predisposto:

“Se non hai firmato un Testamento Biologico, non farlo! Se hai già un testamento biologico, strappa tutte le copie in tuo possesso e quelle dei componenti della tua famiglia. Quindi contatta tutte le agenzie mediche che potrebbero averne fatto una copia e avvisali che il documento non è più valido. Poi firma solo una versione a favore della vita [come] il Patient Self-Protection Document”.

E quando un paziente verrà ricoverato in una qualsiasi struttura sanitaria finanziata da fondi federali e gli verrà chiesto se ha firmato una direttiva anticipata, non dovrà far altro che presentare il Patient Self-Protection Document che “è chiaro ed efficace per rispondere a questa esigenza”. Nella sezione del documento “Istruzioni per le mie cure mediche”, si legge:

“Poiché la vita umana è intrinsecamente buona e non meramente strumentale ad altri beni, nulla deve essere fatto che possa causare direttamente la mia morte, e niente deve essere omesso se questa omissione dovesse essere la causa diretta e primaria della mia morte. L’eutanasia, sia per omissione che per commissione, non è permessa. Istruisco il mio rappresentante e il mio medico ad assistermi nella conclusione dei giorni della mia vita fino alla morte naturale… Desidero che mi siano forniti cibo e liquidi per via orale, venosa, tramite sondino, o altri mezzi nella misura pienamente necessaria per preservare la mia vita e prevenire la morte per disidratazione e/o fame, a meno che la morte non sia davvero imminente a seguito di una malattia mortale di base, o a meno che io non sia in grado di assimilare cibo e liquidi. Nel caso in cui io sia stato diagnosticato come malato terminale, il sollievo dal dolore e l’assistenza di base, inclusi in particolar modo cibo e liquidi come già osservato, dovrebbero essere forniti, così come l’assistenza sanitaria ordinaria e le cure mediche adeguate alla mia condizione. Anche se può essere necessario l’alleviamento del dolore, esso non dovrebbe mai essere diretto a causare la morte tramite soppressione della respirazione o sedazione terminale. Queste istruzioni sono vincolanti, non solo per il rappresentante nominato, ma per tutto il personale sanitario o istituto che prenda una decisione circa le mie cure e/o trattamenti”.

06 living will mortePare, insomma, che in America la proposta “rovesciata” della dottoressa Constable sia già una realtà: dopo l’introduzione del testamento biologico, il cittadino americano che non vuole correre il rischio – secondo il suo “migliore interesse” – di essere lasciato morire anzitempo, si trova costretto a compilare un contro-biotestamento. Alla fine il living will ha manifestato la sua vera natura di strumento di morte, come i suoi ideatori (Euthanasia Society of America) avevano concepito.

Se dagli USA ci spostiamo in Europa, nei Paesi che hanno introdotto il testamento biologico, vediamo che i pazienti non se la passano meglio. Invece di autodeterminare il fine-vita, anche nel Vecchio Continente il biotestamento espone ad abusi e al rischio di una condanna a morte anticipata.

In Francia, al pari dell’America, è il clamore suscitato da diversi casi giudiziari controversi, ad aprire la discussione sulla necessità di regolamentare il testamento biologico e l’“eutanasia passiva”. Nel 2003 il presidente Jacques Chirac istituisce una commissione ad hoc per discutere la questione, che due anni dopo (22 aprile 2005) porterà all’introduzione della “legge Leonetti” sui “diritti del malato e alla fine della vita”. Tra i vari aspetti che la legge Leonetti disciplina vi è l’istituto del testamento biologico. Benché la legge vieti fermamente il “far morire”, cioè il procurare attivamente la morte (eutanasia attiva), introduce tuttavia il concetto ambiguo di “lasciar morire”, con la motivazione di proteggere il paziente dall’accanimento terapeutico.

È riuscito il legislatore francese a mettere ordine nelle questioni del fine-vita e a tutelare i pazienti dagli abusi? Sulla base delle osservazioni rese nel 2008 a Le Monde dalla dottoressa Véronique Fournier – direttrice del Centro d’etica clinica dell’ospedale Cochin di Parigi -, sembra proprio di no. Il centro di Cochin è una struttura unica in Francia, che illumina operatori sanitari e pazienti in caso di dilemma medico. Da quando la legge Leonetti è entrata in vigore, il centro si è confrontato con almeno sei situazioni estreme in cui si è discussa l’ipotesi di arrestare alimentazione e idratazione in risposta a una richiesta di morte anticipata. Osserva Fournier:

“Se la legge ha esplicitamente negato le pratiche eutanasichetali pratiche possono comunque aver luogo sotto la sua copertura”: l’arresto di alimentazione e idratazione può, infatti, essere deciso con l’intenzione di “far morire” piuttosto che “lasciar morire”. Pertanto, “se applicata in modo improprio, questa pratica [“lasciar morire”] è potenzialmente fonte di derive etiche”.

Con il divieto di accanimento terapeutico – scrive Le Monde -, la legge Leonetti ha messo i medici al riparo da azioni penali quando decidono di interrompere i trattamenti, anche se questo significa la morte dei loro pazienti. Nella quasi totalità dei casi la decisione è stata facilitata quando le famiglie e gli operatori sanitari erano d’accordo sul fatto di fermare ogni escalation medica. Si tratta di persone che non sono in fin di vita, ma che dipendono, quale unico trattamento, dall’alimentazione artificiale tramite sonda, come nel caso del giovane Hervé Pierra, che versava in uno stato di coma neurovegetativo. Ha impiegato sei giorni a morire dopo la sospensione dell’alimentazione, in condizioni estremamente difficili. I pazienti, infatti, non reagiscono tutti allo stesso modo all’arresto della sonda e ai sedativi: al quinto e sesto giorno della sua agonia, Pierra era scosso da convulsioni così violente da farlo sobbalzare dal letto.

I responsabili del centro d’etica di Cochin – continua Le Monde – hanno constatato che molte équipes mediche si rifiutano di applicare questa forma di “lasciar morire”. Inoltre, quando gli operatori sanitari accettano di interrompere i sostegni vitali, le cattive pratiche non sono rare, a causa della mancanza di conoscenze. “Alcuni si lanciano senza preoccuparsi minimamente di sapere come fare perché ciò avvenga nel modo più dignitoso e umano possibile”, afferma Fournier. Le équipes mediche sono spesso disarmate, devono adattarsi a reazioni, a volte impressionanti, che non avevano immaginato.

 

  continua.............

 

Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:25

Il “male minore” porta Male (9° parte: eutanasia passiva e testamento biologico)



Molti limiti presenta anche la legge spagnola n. 41 del 14 novembre 2002, con la quale il governo ha regolato, fra i numerosi aspetti, anche il “consenso informato” e le direttive anticipate, qui chiamate “istruzioni previe”. Eva Maria Martin Azcano – professoressa di Diritto Civile all’Università Rey Juan Carlos di Madrid – osserva che con l’approvazione di questa legge “non sembra che gli obiettivi siano stati raggiunti”:

“Il consenso informato non si è modificato a tal punto da poter affermare che a seguito della sua regolazione e adozione il rapporto medico-paziente sia migliorato in modo sostanziale. Il consenso informato è, invece, diventato uno strumento medico difensivo e un elemento di litigio giudiziario nel rapporto medico-paziente. Il medico riconosce la necessità di richiedere il consenso al paziente solo per evitare strategicamente denuncie e responsabilità professionali…

Inoltre, adempiere le direttive anticipate solleva gravi problemi ai professionisti della salute di fronte alla difficoltà di interpretazione della chiara volontà del paziente”.

09 advance directivesLa direttiva anticipata, infatti, può diventare obsoleta, visto che “la scienza medica, le tecniche di cura e i trattamenti sanitari sono in continua evoluzione”. Può pertanto accadere che i trattamenti sanitari da applicare nella situazione concreta siano diversi da quelli a suo tempo autorizzati dal paziente, ormai superati. A questo proposito – fa notare Azcano – ciò che “risulta inammissibile è la richiesta del paziente di somministrargli uno specifico trattamento quando la persona idonea per decidere le opzioni possibili è il medico”. Ma può anche accadere che il paziente “cambi la sua volontà alla luce della nuova circostanza”. Le istruzioni previe prevedono anche che si possa “rifiutare un trattamento che allunghi artificialmente la vita”, per cui se il Codice Penale spagnolo condanna espressamente l’eutanasia attiva, “di fatto non condanna l’eutanasia passiva”.

Queste e molte altre problematiche (“scarsa qualità del testo scritto che implica seri problemi di interpretazione”“mancanza di dettagli quando si regolarizzano certi aspetti, vedi le diverse ipotesi sulla scelta di rifiutare determinati trattamenti medici”; ecc.) presenti nella legge spagnola, ottengono il risultato di peggiorare il rapporto medico/paziente e rendono più complesse e confuse le questioni di salute e di fine-vita. Allora, forse, non è un caso se la Azcano rileva che “dai dati forniti dalle Comunità Autonome emerge che il numero di documenti concessi e registrati presso i rispettivi registri autonomi è inferiore all’1% della popolazione”. Insomma, il popolo spagnolo non ha mostrato il benché minimo interesse verso le nuove “opportunità” offerte dalla legge sulle “Istruzioni previe”, non ha avvertito l’esigenza di autodeterminare per iscritto i problemi di salute futuri, né il proprio fine-vita. Ciò porta a concludere che, in Spagna come altrove, la “buona morte” legale sia una questione che infiamma solo le lobby politiche e ideologiche.

Il 1 settembre 2009, il Bundestag tedesco (Parlamento Federale) modifica la legge che regolamenta la figura dell’amministratore di sostegno, riconoscendo l’istituto del testamento biologico scritto vincolante, oppure un succedaneo di esso costituito dall’individuazione delle “volontà presunte” del paziente, ricostruite sulla base di “indizi concreti”. Rientrano tra le cure passibili di rifiuto anche i sostegni vitali (idratazione e alimentazione) dai quali dipende la sopravvivenza del paziente. Tuttavia, appena nove mesi dopo le modifiche di legge, si assiste a un significativo passo avanti rispetto a quanto giuridicamente previsto, quando Wolfagang Putz – avvocato esperto in diritto sanitario – viene assolto dalla Corte di Cassazione.

La vicenda che vede coinvolto Putz risale al 2007, quando consiglia alla figlia di Erika Küllmer – una 71enne in stato vegetativo dall’ottobre 2002 a causa di un’emorragia cerebrale – di reciderle con le forbici il sondino dell’alimentazione. Ottemperando al volere della madre che – secondo quanto riferito dalla figlia – aveva in passato espresso verbalmente la volontà di non essere mantenuta in vita artificialmente, le taglia la sonda, ma nella casa di riposo dove la donna è ricoverata se ne accorgono, le inseriscono un nuovo sondino e avvisano la polizia. Due settimane dopo la donna muore per un arresto cardiocircolatorio. La figlia e l’avvocato sono accusati di omicidio colposo, ma nell’aprile 2009 la prima viene assolta, mentre Putz è condannato a nove mesi di libertà vigilata e al pagamento di 20mila euro. Finché, il 25 giugno 2010, non arriva anche per lui la sentenza di proscioglimento della Cassazione, con la motivazione secondo la quale “l’interruzione del mantenimento in vita, operata in conformità alla volontà espressa dal paziente, non è punibile” e “l’accanimento terapeutico non può essere esercitato nemmeno su pazienti che non abbiano firmato il testamento biologico”. Ecco cosa succede quando i sostegni vitali sono equiparati alle “cure mediche”: basta invocare l’accanimento terapeutico per giustificare la loro interruzione, indipendentemente dal fatto che via sia oppure no un testamento biologico validamente sottoscritto.

La “sospensione” dei sostegni vitali alla signora Küllmer è stata considerata lecita nonostante mancassero sia il testamento biologico scritto, che un suo succedaneo basato su “indizi concreti”, come espressamente previsto dalla legge. Si è semplicemente deciso di dare credito alle dichiarazioni di un parente stretto, come avvenuto in Italia con Eluana Englaro, ma con una differenza sostanziale tra i due Paesi: la Germania, al contrario dell’Italia, la legge sul biotestamento ce l’ha, e nonostante ciò i casi “Eluana” si verificano lo stesso.

11 Mental Capacity ActLa pericolosità del testamento biologico si profila anche oltremanica. Il 7 aprile 2005 l’Inghilterra introduce il testamento biologico (“Mental Capacity Act”), con il quale una persona maggiorenne può indicare i trattamenti medici che intende rifiutare, sostegni vitali inclusi. I medici sono tenuti per legge a rispettare le direttive espresse dai pazienti, se non lo fanno rischiano di essere radiati o, addirittura, incriminati. Grazie a quest’ultima prospettiva una donna inglese di 26 anni ha potuto “portare a termine” il proprio tentativo di suicidio. Nel settembre 2007, Kerrie Wooltorton, affetta da sindrome depressiva, tenta il suicidio con una sostanza nociva, ma arrivata viva in ospedale muore il giorno seguente, a causa della non attivazione delle azioni di soccorso da parte dei medici, per il timore di essere denunciati se non avessero rispettato il testamento biologico che la donna aveva compilato prima di ingerire il veleno. I suoi familiari hanno protestato, dicendo che i medici avevano il dovere di salvarla. Altri hanno osservato che la sua storia di malattia mentale faceva sorgere dubbi circa la sua capacità di rifiutare le cure. E c’è chi ha fatto notare che il testamento biologico era stato introdotto per i malati terminali, non per le persone che intendevano suicidarsi. Ma i medici hanno ribadito la loro posizione: il non rispetto delle volontà della donna avrebbe significato “infrangere la legge” e rischiare la radiazione dall’Ordine. La questione della non attivazione di cure salvavita in presenza di direttive anticipate, è stata sollevata molte volte negli Stati che hanno introdotto il biotestamento, e rimane tuttora controversa e di non facile risoluzione.

Anche in Italia è grazie alle sentenze creative se a un certo punto la politica subisce un’accelerazione verso la disciplina del testamento biologico. A luglio 2007 viene prosciolto il medico che aveva rimosso la ventilazione meccanica a Piergiorgio Welby, mentre il 9 febbraio 2009 muore Eluana Englaro, dopo l’interruzione dell’idratazione e della nutrizione che la tenevano in vita. Il via libera a rimuovere i sostegni vitali era arrivato il 25 giugno 2008, dalla Corte d’Appello di Milano, alla fine di un lungo e tortuoso percorso giudiziario.

L’eutanasia passiva di Eluana, avvenuta per sentenza, fa sentire forte la percezione di trovarsi di fronte a un pericoloso vuoto normativo, cui fa seguito la necessità di colmare quel vuoto. Il 26 marzo 2009, in sessione straordinaria, il Senato licenzia il progetto di legge “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”.

12 registri comunaliCiò che si trova alla base dell’esigenza di avere una legge ad hoc, proveniente soprattutto da esponenti di area cattolica, è ancora una volta il “male minore”: la legalizzazione del testamento biologico consentirebbe di contrastare le derive eutanasiche poste in atto dalle “sentenze creative” e il “far west” dei registri comunali dei biotestamenti, proliferati in tutta Italia grazie alle iniziative dei Radicali. Il tentativo di forzare la legge – afferma Eugenia Roccella:

“È evidente e si fa sempre più spavaldo. Quello che vogliono i radicali è creare una situazione di fatto capace, attraverso mille scappatoie e mille canali alternativi, di condizionare le decisioni del Parlamento”. Il quale, per questo motivo, “deve arrivare al più presto ad approvare finalmente la norma sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento capace di metterci al riparo dal far west dei registri comunali e dal proliferare delle singole dichiarazioni”.

Il deputato cattolico Enzo Carra, intervistato dal Corriere della Sera, dichiara:

“Io avrei preferito non votare alcuna legge ma una volta deciso che la legge doveva esserci non potevo che approvarla… Questa legge è frutto di un cambiamento improvviso del dibattito su questo tema avvenuto dopo la sentenza Englaro. Sarebbe stato meglio nessuna legge”.

Il testo è stato votato “perché si è trattato del male minore. Dopo il caso Englaro c’è stata una psicosi collettiva che ha portato all’esigenza immediata di mettersi al riparo, di mettere in sicurezza questo valore fondamentale. Soprattutto sulla questione dell’idratazione e dell’alimentazione, i veri punti sui quali c’è stato contrasto. La deriva eutanasica andava scongiurata”.

A marzo 2001, il quotidiano della Cei pubblica in prima pagina un “Appello al Parlamento” di dodici intellettuali cattolici in cui lo si sollecita a porre

“per legge limiti e vincoli precisi a quella giurisprudenza ‘creativa’ che sta introducendo surrettiziamente nel nostro Paese arbitrarie derive eutanasiche. Rilevanti e gravi decisioni giudiziarie hanno infatti reso possibile interrompere la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, a persone non più in grado di esprimere il proprio consenso, e hanno ridotto il consenso informato alla ricostruzione ex post delle volontà di una persona, dedotte persino dai suoi ‘stili di vita’, ignorando la necessità di una volontà attuale basata su un’informazione medica adeguata”.

I dodici auspicavano, quindi, l’approvazione in “tempi rapidi” del disegno di legge sulle Dat – definito come “una proposta ragionevole, condivisibile, realmente liberale e oggi non più rinviabile” – per evitare che non diventi “sempre più difficile drenare una giurisprudenza orientata a riconoscere il ‘diritto’ a una morte medicalmente assistita, in altre parole all’eutanasia trasformata in atto medico”.

In realtà, il disegno di legge italiano sulle Dat presenta gli stessi difetti che sono stati rilevati nei Paesi che hanno già introdotto il biotestamento, e ha tutte le caratteristiche per far ritenere che, anziché fermare le sentenze creative eutanasiche, sarà proprio esso, se verrà approvato, a porre le basi in Italia per la “buona morte” legalizzata.

Osserva il professore Guido Vignelli:

“Qual è la ragion d’essere del ‘testamento biologico’ e dove conduce la sua logica? Esso si basa sulla seguente premessa: l’individuo deve diventare pienamente padrone della propria vita; egli ha diritto di decidere se tale vita ha una ‘qualità’ sufficientemente alta da valer la pena di mantenerla, o se è tanto bassa da richiedere di sopprimerla; se quindi l’adeguata ‘qualità vitale’ viene a mancare, egli ha diritto di suicidarsi preferendo la morte ad una vita compromessa nelle sue relazioni, soddisfazioni, piaceri.

Ma tale premessa è appunto quella stessa che giustifica l’eutanasia; la logica del ‘testamento biologico’ è quindi chiaramente eutanasica e conduce per coerenza al ‘suicidio assistito’. Se il centro del problema non è più salvare la vita umana ma tutelare una decisione soggettiva, o al massimo bilanciare la volontà del medico con quella del paziente, allora l’unico criterio decisionale diventa puramente soggettivo e lo scopo puramente utilitaristico. Una volta che la vita umana diventa un bene disponibile e mercanteggiabile nell’ambito del sistema sanitario, il confine con l’eutanasia diventa talmente labile dall’essere facilmente superabile.

Insomma, promuovere il ‘testamento biologico’ comporta promuovere una mentalità che conduce per coerenza all’eutanasia; legalizzarlo, non solo non impedirà ma anzi la faciliterà l’autorizzazione dell’eutanasia, preparandole la strada nell’opinione pubblica e nella pratica sanitaria. Accettare oggi il ‘testamento biologico’ è la premessa per dover domani accettare anche quella sua logica conseguenza che è l’eutanasia ‘libera, assistita e gratuita’”.

Dietro la promozione del testamento biologico si nasconde la solita trappola del “male minore”. Scrive Vignelli:

“Il ‘testamento biologico’ è insomma inammissibile. Ma i fautori del ‘cedere per non perdere’ non se la sentono di condannarlo; essi sostengono che bisogna accettarlo, almeno in una sua forma moderata, come alternativa all’eutanasia; secondo loro, questo sarebbe l’unico modo per arginare oggi la spinta propagandistica che reclama il ‘suicidio assistito’, evitando così di doversi domani piegare alle pressioni di chi, non avendo ottenuto il minimo, reclamerà il massimo”.

Ma così facendo si finisce per cadere nel tranello teso dai nemici della vita:

“La strategia avanzata dallo stesso Veronesi ce lo conferma. Egli da tempo propaganda tenacemente l’eutanasia; ma accorgendosi che la gente non è ancora disposta ad accettarla, ha ripiegato sul promuovere il ‘testamento biologico’, nella speranza che la gente, quando si sarà abituata a decidere sulle proprie terapie terminali, vorrà decidere anche sulla propria morte.

Nel frattempo, Veronesi incoraggia esperti, politici e giornalisti a parlare di eutanasia, affinché i moderati si spaventino e, nella illusione di evitarla, accettino il ‘testamento biologico’. Egli sa bene che la rivoluzione biologica può vincere solo se procede per gradi, se attua una strategia progressiva, chiedendo oggi quel poco che gli permetterà domani di ottenere molto e, dopodomani, tutto.

Si accorgeranno gli italiani della trappola? Sfuggiranno a quel rovinoso sofisma, secondo cui oggi bisogna concedere il minimo per domani evitare il massimo? Riusciranno a spezzare quella malefica spirale che, facendo accettare oggi il ‘male minore’, prepara a subire domani quello maggiore?”.

La convinzione di molti cattolici secondo cui, dopo le sentenze creative, ci si trovi nella condizione di dover per forza scegliere il “male minore” (biotestamento/Dat) per prevenire il “male maggiore” (eutanasia), è solo un abbaglio poiché questa materia è già ampiamente presidiata dall’ordinamento giuridico italiano. Scrive il Comitato Verità e Vita:

“Nonostante alcune apparenze e alcuni espedienti linguistici, l’approvazione della cosiddetta ‘legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento’ costituirebbe un ulteriore passo nella direzione della cultura della morte, e aprirebbe la strada all’eutanasia legalizzata.

La legge sul fine vita è un successo. Ma è un successo per coloro che in questi anni si sono impegnati nella costruzione di casi mediatici – su tutti la vicenda di Eluana Englaro, fatta morire di fame e di sete – allo scopo di ‘costringere’ il Parlamento a legiferare in una materia già ampiamente presidiata dall’ordinamento giuridico, mediante il principio costituzionale di indisponibilità del diritto alla vita.

Oggi, in Italia non è lecito togliere la vita anche a chi ne faccia richiesta (omicidio del consenziente); non è lecito togliere la vita a chi non abbia potuto o voluto chiederlo (omicidio volontario); non è lecito aiutare qualcuno a uccidersi (istigazione al suicidio). Di più: il legislatore – ben consapevole che rendere efficace la volontà di farsi uccidere spalanca la porta ad uccisioni che prescindono da qualunque manifestazione di volontà – ha comunque reso del tutto inefficaci le richieste di morte provenienti da soggetti incapaci o in stato di deficienza psichica o minacciati, ingannati o suggestionati.

Come aggirare, allora, questo solido ostacolo alla discriminazione nei confronti delle categorie di uomini in stato di debolezza? La soluzione è una, anche se ha molti nomi: testamento biologico, dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT), living will. L’idea è semplice: approvare una qualunque legge che, pur dichiarando nei suoi preamboli il divieto di ogni eutanasia, preveda l’efficacia giuridica di volontà espresse in precedenza. In questo modo viene svuotato dall’interno il divieto di suicidio assistito, così da permettere che certi malati non siano curati e nemmeno nutriti e idratati.

Così – senza nemmeno usare le parole ‘omicidio’ o ‘suicidio’ – diventerà possibile procurare la morte di pazienti che si trovano in determinate condizioni. La fittizia autodeterminazione porta automaticamente in sé la sostanza di ciò che si vuole ottenere: l’eutanasia dei malati. Anche in assenza della loro volontà”.

Un aspetto che emerge anche quando ci si cala all’interno dei singoli articoli del Ddl. Per esempio, al punto 2 dell’art. 6 inerente alla figura del “fiduciario”, si trova scritto:

“Il fiduciario, se nominato, è l’unico soggetto legalmente autorizzato ad interagire con il medico e si impegna ad agire nell’esclusivo e migliore interesse del paziente, operando sempre e solo secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal soggetto nella dichiarazione anticipata”.

13 miglior interesseOra, come abbiamo precedentemente notato, il “miglior interesse del paziente” è un termine generico “letale” che spunta fuori ogni qualvolta si vuole che un paziente muoia. Nel Maryland, la rimozione del sondino a Rachel Nyirahabiyambere è avvenuta nel “suo interesse” su decisione del legale rappresentante nominato dal giudice, contro la volontà di tutti i suoi familiari. In Inghilterra una cosa analoga è accaduta a Anthony Bland, in stato vegetativo da quattro anni, morto a seguito della sospensione di alimentazione e idratazione, dopo che l’Alta Corte ha stabilito che lo stato vegetativo persistente non rientra nel “miglior interesse” del paziente giacché non gli arreca “alcun beneficio”. Sempre in Inghilterra, all’ospedale per bambini “Alder Hey”, i neonati con anomalie congenite e poche speranze di vita vengono fatti morire di fame e di sete, secondo il protocollo “Liverpool Pathway for the Dying Child”, in accordo con i loro genitori, dopo che i medici hanno comunicato loro che si tratta di una soluzione adeguata nel “miglior interesse” dei piccoli, visto che la loro sopravvivenza è “inutile”. In Belgio, il 17% dei medici ad aver praticato eutanasie senza il consenso dei pazienti, ha dichiarato di averlo fatto perché si trattava del “miglior interesse del paziente”. Insomma, ogni volta che si sente invocare il “miglior interesse” dopo c’è sempre qualcuno che muore.

Per questo motivo, Gian Luigi Gigli manifesta la necessità “di interrogarsi sui poteri del ‘fiduciario’” contenuti nel disegno di legge italiano, in particolare sul fatto

“importantissimo che nel testo sulle Dat sia mantenuto fermo il concetto che l’azione del legale rappresentante deve avere ‘come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita dell’incapace’, invece che il suo ‘miglior interesse’”. Infatti, se questa clausola non dovesse passare, “potremmo presto accorgerci che, invece del ‘migliore interesse’ (definito da altri), rischiano di entrare nel processo decisionale valutazioni che nulla hanno a che fare con la clinica, e ancor meno con il rispetto della vita”.

Vi è poi da dire che il Ddl non prevede alcun divieto di sospensione della respirazione artificiale – che è sostegno vitale al pari di nutrizione e idratazione – alle persone disabili in stato di incoscienza. O il fatto che il testo prevede la possibilità per il dichiarante di “rinunciare a ogni forma di trattamento terapeutico” ritenuto “di carattere sproporzionato”, una “rinuncia” che potrà spianare la strada alla non attivazione di terapie salvavita da parte del personale medico, com’è accaduto in Florida a Hanford Pinette, o in Inghilterra a Kerrie Wooltorton. Anche il disegno di legge italiano conduce alla burocratizzazione del rapporto medico-paziente, con tutte le conseguenze che ne derivano, come quelle verificatesi in Spagna in dieci anni di applicazione della legge, evidenziate dalla professoressa Azcano.

Questi e ad altri aspetti negativi – scrive il Comitato Verità e Vita – portano a concludere che:

“Il testo approvato alla Camera fallisce proprio nel suo obiettivo originario: mai più l’uccisione di un’altra Eluana Englaro. Con una normativa così complessa ed equivoca, i Tribunali si riempiranno di cause dirette a forzare i limiti della norma o a sostenere interpretazioni in senso eutanasico.

L’Italia non ha bisogno di questa legge: auspichiamo che venga respinta, consapevoli che – a prescindere dalle intenzioni di chi la sostiene e da alcune dichiarazioni di principio condivisibili – essa introduce l’eutanasia legale nel nostro Paese.

Il testo proclama di ‘riconoscere e tutelare la vita umana quale diritto inviolabile e indisponibile’ (articolo 1 comma 1 lettera a), ma vi è in questo un’inquietante analogia con il legislatore della legge 194, che affermava di ‘tutelare la vita dal suo inizio’, e poi rendeva lecito l’aborto a richiesta.

Non esiste nessun male minore da evitare: per impedire il ripetersi di altri casi come quello di Eluana Englaro basterebbe una legge che vietasse l’interruzione di alimentazione e idratazione artificiale ai soggetti incoscienti, che siano in grado di riceverla con beneficio.

Solo mantenendo integro il divieto di omicidio del consenziente e di suicidio assistito, e valorizzando l’arte e la professionalità dei nostri medici, potremo davvero rispettare la vita e la dignità di ogni uomo”.

Più chiaro di così!





Caterina63
00martedì 10 gennaio 2017 20:27

Il “male minore” porta Male (10° parte: conclusione)






08 di 2 mali scegli il minore


10) CONCLUSIONE


Oltre quarant’anni di politiche del “male minore” hanno fatto sentire in Italia (e nel mondo) tutti i perniciosi effetti che abbiamo esaminato.


La stabilità e il futuro di una società si fondano sulla stabilità della sua cellula fondamentale: la famiglia. Se la famiglia è instabile questo si ripercuote sull’intera società. L’introduzione del divorzio ha minato l’instabilità della famiglia producendo conseguenze culturali, sociali ed economiche disastrose, inoltre, cosa altrettanto grave, il divorzio ha tolto al matrimonio tra uomo e donna tutta la sua importanza sociale, trasformandolo in un fatto puramente privato, in un mero contratto che le parti possono sciogliere quando vogliono. L’indebolimento della famiglia ha condotto al crollo della natalità che, a sua volta, è stata ulteriormente frenata dal diffondersi della mentalità contraccettiva e dall’aborto legale, libero e gratuito. Divorzio, contraccezione e aborto sono strettamente collegati tra loro e si influenzano a vicenda.




INDICE:


1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?


Male minore e “nuovi diritti” legalizzati


2) Male minore e aborto


3) Male minore e fecondazione extracorporea


4) Male minore e divorzio


5) Male minore e contraccezione artificiale


Male minore e “nuovi diritti” reclamati


6) Male minore e matrimonio gay


7) Male minore e droga libera


8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito


9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico


10) Conclusione


Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi


 


10) CONCLUSIONE


Oltre quarant’anni di politiche del “male minore” hanno fatto sentire in Italia (e nel mondo) tutti i perniciosi effetti che abbiamo esaminato.


Non pochi analisti ritengono che la grave crisi economica che stiamo vivendo sia il frutto maturo della deriva morale iniziata quarant’anni fa con l’introduzione del divorzio (1 dicembre 1970); proseguita tre mesi dopo con la semina del primo germe di mentalità contraccettiva, quando la Corte costituzionale ha abrogato l’art. 553 del codice penale che vietava la produzione, il commercio e la pubblicità degli anticoncezionali (10 marzo 1971); portata avanti dalla legge sull’aborto (22 maggio 1978) e poi dalla legge sulla fecondazione extracorporea (19 febbraio 2004).


Se viene meno la specificità e la centralità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna si compromette inevitabilmente la tenuta sociale ed economica dello Stato. Scrive il giornalista Riccardo Cascioli:



“La crisi economica che stiamo attraversando ha una causa strutturale che tutti fanno a gara per occultare: l’inverno demografico, ovvero la forte denatalità. E guarda caso, questo inverno comincia proprio con l’introduzione del divorzio. A metà degli anni ’60 in Italia c’era stato il baby boom (nascevano 2,7 figli per donna) e ancora nel 1970 il tasso di fecondità sfiorava i 2,5 figli per donna. Da qui però comincia la discesa, dapprima lieve poi un vero e proprio crollo dopo il referendum. Al punto che già all’inizio degli anni ’90 l’Italia aveva raggiunto i livelli minimi di fecondità, a 1,2 figli per donna.


Coincidenza? Non proprio. Non ci vogliono certo gli specialisti per capire che la fecondità è aiutata dalla stabilità familiare. I figli nascono in genere all’interno di un progetto che è per la vita. Se ci si unisce con la prospettiva di qualche anno o ‘finché dura l’amore’ è ovvio che si sarà meno propensi a mettere al mondo dei figli, che poi – se si divorzia – sono tutte beghe legali. E infatti i numeri sono lì impietosi a farsi beffe di tutte le ideologie e i discorsi sulla modernità. Sancita la legittimità del divorzio, teorizzata la precarietà del rapporto, ratificata dal voto popolare, ecco il crollo demografico.


Non solo: se va in crisi quella che la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo definisce la ‘cellula fondamentale della società’ e la nostra Costituzione ‘società naturale’, inevitabilmente tutta la società tenderà a una maggiore conflittualità e lacerazione. È come il nostro corpo: se ci sono alcune cellule tumorali in giro, non si ammala solo un unico organo ma tutto il corpo ne soffre e alla fine muore. Così è per la società: come si può pensare di superare la conflittualità sociale o sentire l’appartenenza a un popolo se per legge si è deciso di rendere conflittuale e instabile la famiglia, sua cellula fondamentale?”.



L’economista Ettore Gotti Tedeschi osserva:



“L’origine di questa crisi economica non risiede nell’uso sbagliato di strumenti finanziari da parte di banchieri o politici o finanzieri. Questa crisi trova origine nel fatto che abbiamo negato la vita, non abbiamo fatto figli, e oltre a non farli, li abbiamo anche uccisi e quindi abbiamo ridotto la crescita della popolazione al di sotto dei ritmi naturali, penalizzando gravemente la crescita economica, lo sviluppo, il benessere…


Cosa provoca un sistema economico che non fa figli? […] Le ‘non nascite’ provocano una forma di congelamento del numero della popolazione e conseguentemente l’aumento dei costi fissi di una struttura economica […]: ci sono meno giovani che accedono al mondo del lavoro e della produttività e più persone che escono dal mondo del lavoro per anzianità. Questo provoca da un lato una minor produttività, un rallentamento del ciclo dello sviluppo sociale, quindi meno coppie si sposano, meno coppie fanno figli e dall’altro aumentano i costi fissi. Perché le persone che invecchiano hanno un costo maggiore come pensioni e come sanità. […] La crescita zero provoca l’impossibilità di ridurre le tasse perché aumentano i costi fissi: nel 1975 il peso fiscale in Italia era il 25% del prodotto interno lordo, oggi è il 45%. Il fenomeno delle culle vuote non solo rallenta completamente la crescita ma fa crollare il tasso di accumulazione del risparmio, perché la famiglia singola, la famiglia con un solo figlio tende a non risparmiare, perde motivazioni e non vede grandi prospettive”.



02 famigliaLa stabilità e il futuro di una società si fondano, quindi, sulla stabilità della sua cellula fondamentale: la famiglia. Se la famiglia è instabile questo si ripercuote sull’intera società. L’introduzione del divorzio ha minato l’instabilità della famiglia producendo conseguenze culturali, sociali ed economiche disastrose, inoltre, cosa altrettanto grave, il divorzio ha tolto al matrimonio tra uomo e donna tutta la sua importanza sociale, trasformandolo in un fatto puramente privato, in un mero contratto che le parti possono sciogliere quando vogliono. L’indebolimento della famiglia ha condotto al crollo della natalità che, a sua volta, è stata ulteriormente frenata dal diffondersi della mentalità contraccettiva e dall’aborto legale, libero e gratuito. Divorzio, contraccezione e aborto sono strettamente collegati tra loro e si influenzano a vicenda. Scrive Francesco Agnoli:



“Nella società degli anticoncezionali, magari persino nelle scuole, non aumentano solo le gravidanze premature; non aumentano solo, spesso, gli aborti, come ‘rimedio’ all’errore; non aumenta solo l’incapacità di guardare ai figli come ad un dono e non come ad un impiccio; non aumentano solo, come accade oggi, la sterilità femminile, dovuta anche alla precocità dei rapporti, e l’impotenza, maschile, ovvia conseguenza di un eccesso di sesso, ma crescono anche i tradimenti, le separazioni, i divorzi: l’infelicità, insomma.


Negli ultimi trent’anni, in parallelo alla crescita di modelli affettivi deresponsabilizzati, separazioni e divorzi nel nostro paese sono quasi quadruplicati. Uno dei motivi è senz’altro la distruzione di quel periodo fondamentale di conoscenza tra un maschio e una femmina che è il fidanzamento: periodo in cui due persone si conoscono, non dal punto di vista fisico, sessuale, carnale, ma spirituale. Perché solo quando si saranno veramente conosciuti, apprezzati, compresi, ad un livello profondo, la loro unione carnale sarà vera, sentita, viva, e non un uso, momentaneo ed effimero, del corpo altrui, per piacere proprio. Quando invece l’unione carnale, cosiddetta ‘sicura’, diventa solo un gioco, si finisce per prendere abbagli colossali.


Si arriva a credere che quella persona che soddisfa, in un dato momento, il nostro desiderio fisico, sia poi capace di essere anche il compagno o la compagna di una vita. E ci si sposa avendo conosciuto corpi, non persone, con il rischio di accorgersene quando è troppo tardi”.



La questione di fondo è sempre quella, bisogna promuovere il bene, non il “male minore”. Scrive Agnoli:



“Bisogna offrire ai giovani modelli positivi; bisogna indicare non un presunto ‘male minore’, ma il bene. Non diciamo ai nostri bambini piccoli: ‘Mi raccomando, se butti per terra le carte, per piacere, buttane poche’; e neppure: ‘Se proprio vuoi picchiare tuo fratellino, non in faccia, ma sul sederino, per favore’. Perché se lo facessimo, sapremmo molto bene che il figlio butterà per terra le carte, prima piccole, poi grandi; che continuerà a picchiare il fratellino, prima piano, poi magari più forte… Insomma: educare significa far capire chiaramente che esiste una distinzione tra bene e male, tra giusto e sbagliato. Che occorre sempre tendere al bene, perché è esso che ci realizza, anche se costa fatica e richiede impegno”.



Ma la contraccezione influenza anche altre tendenze. Quando il sesso si trasforma in un gioco, e l’altro, il partner, diventa un oggetto di consumo destinato a soddisfare la propria libido, ogni forma di sessualità diverrà equivalente se idonea a realizzare questo scopo. Ecco perché la cultura contraccettiva non favorisce solamente aborti, tradimenti, separazioni e divorzi, ma anche il sesso a pagamento, le perversioni, le sperimentazioni sessuali, l’omosessualità. Quest’ultima è, a propria volta, favorita dall’aborto stesso. Per l’uomo, la mancanza di controllo su una decisione cruciale com’è quella dell’uccisione del proprio figlio non nato, genera spesso diffidenza e risentimento nei confronti delle donne.

Per questo, dopo l’aborto del proprio figlio, alcuni uomini sperimentano l’omosessualità, che permette loro di soddisfare il piacere sessuale evitando nuove situazioni di gravidanze indesiderate, nell’ambito delle quali 03 no responsabilitàla legge e la società non garantiscono loro alcuna voce in capitolo. Per la donna che ha abortito, una relazione con un partner dello stesso sesso scongiura ogni futura gravidanza indesiderata e mette al riparo da nuovi traumi e ricorsi all’aborto.

Contraccezione, aborto e divorzio hanno alla base una radice comune: il rifiuto delle proprie responsabilità. Scrive Cascioli:

“Il matrimonio ‘riparatore’ – che nell’Italia di 50-60 anni fa era ancora un obbligo sociale per chi causava la gravidanza della propria fidanzata – pur con tutti i suoi limiti svolgeva però anche una funzione educativa, perché richiamava alla responsabilità personale: si può sbagliare, ma alle proprie responsabilità non si sfugge. La mentalità contraccettiva cancella proprio questa responsabilità e non a caso quello che continua a essere spacciato per uno strumento di emancipazione della donna è in effetti causa di una sua maggiore solitudine e sofferenza. Perché è soprattutto l’uomo che in questi casi può facilmente fuggire le proprie responsabilità”.

Ecco che allora fa il suo ingresso l’aborto, con il quale anche la donna “rifiuta quella responsabilità che già il suo partner non ha più da tempo”. E infine il divorzio: “La responsabilità che si fugge prima di sposarsi, diventa un peso insopportabile dopo il matrimonio”.

04 forbici taglianoContraccezione, aborto e divorzio hanno un’altra caratteristica che li lega: sono tutti atti divisivi, cioè atti che creano separazione, divisione, lacerazione. Con la contraccezione vi è separazione tra atto unitivo e procreativo; nell’aborto vi è la separazione violenta e mortale del figlio dalla propria madre; con il divorzio si realizza la definitiva separazione tra i coniugi, foriera di profonde lacerazioni anche nella prole.

In questo sconquasso comunemente accettato e trasformatosi in routine, non può che fiorire un’altra separazione: la fecondazione in vitro omologa. Nella fecondazione extracorporea la procreazione non dipende più dall’atto sessuale dei coniugi, atto sessuale e atto procreativo sono totalmente separati. La fecondazione eterologa è il logico passo successivo: qui la separazione diviene anche genetica. Vi è nell’eterologa la stessa logica di fondo del divorzio: se dal punto di vista giuridico il divorzio mi permette di scomporre e ricomporre la famiglia con chi mi pare e piace, non vedo perché ciò non dovrebbe essere consentito anche dal punto di vista biologico. La fecondazione eterologa è, perciò, figlia della mentalità divorzista: il divorzio ha separato la famiglia giuridica, l’eterologa la famiglia biologica. Al pari di contraccezione, aborto e divorzio, anche l’eterologa – oltre ad avere un carattere divisivo –  comporta violazione dell’etica della responsabilità: il genitore biologico (il donatore/la donatrice del gamete) taglia consapevolmente sin dall’inizio ogni relazione con il figlio che ha generato e non assume doveri nei suoi confronti.

Ed è ancora la mentalità divorzista che soggiace anche alla rivendicazione del matrimonio gay. Una volta che, grazie al divorzio, il matrimonio tra uomo e donna ha perso il suo carattere sociale fondamentale, divenendo un contratto privato come tanti, perché lo Stato dovrebbe impedirmi di stipulare quel contratto con una persona del mio stesso sesso, se ci amiamo? Sono molti, come si vede, i “figli” del divorzio.

E per finire, l’eutanasia, che altro non è che l’altra faccia dell’aborto; con questo si eliminano i figli non voluti, con l’altra i malati ritenuti un peso; l’uno colpisce la vita nascente, l’altra la vita al tramonto. L’eutanasia separa: separa dai giorni tra la malattia e la morte, separa letalmente il malato dai sani; e declina le responsabilità: la 05 soli e frammentatiresponsabilità di prendersi cura del malato, di alleviare la sua sofferenza fisica e psichica. È certo poi che l’eutanasia attecchirà con più facilità in una società fatta di famiglie divise, frammentate, instabili, unipersonali, impoverite, deboli, ignorate dallo Stato quando non, addirittura, da esso penalizzate.

Come si vede, le questioni che abbiamo esaminato sono tutte collegate tra loro, e non sbagliano coloro che vedono nella legalizzazione del divorzio l’inizio di tutto, nell’attacco alla cellula fondamentale della società, alla famiglia quale “società naturale fondata sul matrimonio”, l’inizio della deriva etica e la grave crisi economica con cui oggi ci troviamo a dover fare i conti.

In questa società in declino, sempre più povera economicamente e moralmente, anarchica, caotica, disumana, senza pietà, dove vivere è diventato un inferno da quando il Bene si chiama “male minore”, c’è bisogno di uomini e donne con lo sguardo aperto sulla realtà, che ripugnino il compromesso e promuovano le virtù e il bene tutto intero. Le sorti dell’Italia (dell’Europa, dell’Occidente) non si risolleveranno se non si riparte da dove il declino è iniziato, se non si riparte dall’unità e solidità della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna; dalla promozione della cultura della vita e del senso di responsabilità; dal ripristino dell’ordine naturale delle cose.

Nessun partito politico, nessun governo, che non tenga conto di questa realtà, potrà 06 radici nichilistemai essere in grado di combattere la crisi e restaurare ricchezza e benessere. Non lo faranno di certo i politici cattolici pavidi e confusi, proni al compromesso con il vecchio copione stantio e funesto del “male minore”. Né vi riuscirà il movimento pentastellato del comico urlatore “tutti-a-casa!”, o il partito del boy scout rampante “ottanta-euro-in-busta-paga”, destinati entrambi a deludere i numerosi elettori che li hanno designati a novelli salvatori del Paese, essendo che affondano entrambi le loro radici nella medesima cultura nichilista, proprio quella cultura negatrice di ogni principio che sta portando le famiglie italiane alla rovina e il Paese Italia alla bancarotta. Una cultura arrogante e totalitaria, che vuole indottrinare i nostri figli all’indifferenza sessuale a partire dagli anni dell’asilo, e mandare in galera (legge Scalfarotto) chi difende la famiglia naturale fondata sul matrimonio tra uomo e donna. Una cultura insulsa, che vuole giovani generazioni docili e rimbambite dalla droga libera di Stato, e risponde al loro anelito di “amore vero” propugnando preservativi e pillole per il sesso libero e “palestrato”. Una cultura mortifera, che ha permesso l’eliminazione di milioni di bambini non nati e brama l’eliminazione della malattia tramite la “dolce morte” del malato. Una cultura disgregante, che dopo aver abbattuto la cellula base della società, legifera per far sì che il suo sconquasso definitivo avvenga nel più breve tempo possibile. Una cultura umiliante, che non paga di aver disgregato la famiglia naturale feconda, e di aver reso irrilevante l’atto unitivo sessuale uomo/donna con la procreazione in provetta, ora vuole pure mortificare la famiglia equiparandola alle unioni gay, contro natura e sterili.

Può la cultura responsabile di tutto questo, salvarci da tutto questo? No, non può. Sarebbe come illudersi di curare gli alcolizzati somministrando loro alcolici o pensare di combattere l’obesità mangiando tutti i giorni dolci e alimenti grassi.

Certo, l’impresa non è facile, non si cambia dalla sera alla mattina una cultura ormai così profondamente radicata nel sentire comune, e in politica la questione del consenso purtroppo non aiuta. Tuttavia è anche vero che, se non si comincia mai perché il clima politico-culturale è sfavorevole, il clima politico-culturale non cambierà mai e rimarrà sfavorevole per sempre.

A young woman walking on the sand.

Allora, forse, quello che serve in questo particolare momento storico, è trovare persone disposte a iniziare il cammino, disposte a preparare la strada per chi verrà dopo di loro, persone coraggiose che non temano la persecuzione e la derisione, disposte a contrastare senza compromessi il pensiero unico dominante, politici liberi dalla schiavitù del consenso immediato, disposti a impegnarsi e a lavorare per un successo che forse non vedranno mai, perché appannaggio di chi raccoglierà il testimone dopo di loro.

Le grandi dittature ideologiche del Novecento sembravano invincibili, ma sono crollate; la caduta del comunismo era una cosa inimmaginabile, eppure è avvenuta; la tratta degli schiavi è andata avanti per duecento anni, poi la schiavitù è stata abolita. Cos’è che ha causato la fine di tutto ciò? Il fatto che non siano mai mancate persone che ne denunciassero con forza e chiarezza l’iniquità e la disumanità. Nel discorso ai partecipanti al convegno “Il diritto alla vita e l’Europa” del 18 dicembre 1987, Giovanni Paolo II disse:

“Non vi spaventi la difficoltà del compito. Non vi freni la constatazione di essere minoranza. La storia dell’Europa dimostra che non di rado i grandi salti qualitativi della sua cultura sono stati propiziati dalla testimonianza, spesso pagata col sacrificio personale, di solitari. La forza è nella verità stessa e non nel numero”.

La forza è nella verità. Verità è fedeltà alla realtà delle cose; è distinguere l’autentico dal falso; discernere il bene dal male, scegliere il primo e rifuggire il secondo. Scegliere il “male minore” significa abbandonare la strada della verità e imboccare la scorciatoia del compromesso e della menzogna, significa votarsi a sconfitta sicura e preparare la strada al trionfo totale del Male.

 

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