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Dagli antichi itinerari ai pellegrinaggi penitenziali

Sette chiese per il carnevale



di Fabrizio Bisconti

Il giubileo dedicato all'apostolo delle genti riconduce l'attenzione dei cultori della storia del Cristianesimo primitivo verso gli argomenti del culto, della devozione, della memoria di Paolo, per considerarne il "momento romano" ovvero l'ultimo importante segmento della sua vita, che corrisponde alla cattività e alla fine cruenta.

Ma l'attenzione si muove anche lungo le piste dei grandi viaggi dell'uomo che, attraverso l'esperienza fulminea e sorprendente della conversione, muta il suo ruolo da persecutore a perseguitato. Dopo l'episodio traumatico accaduto sulla via di Damasco, presumibilmente nel 32, prende avvio un'attività apostolica inarrestabile, che si sviluppa attraverso tre viaggi, più un quarto, l'ultimo, che lo conduce a Roma in catene e che è convenzionalmente definito "viaggio della cattività".
 
Paolo inaugura, dunque, una prassi dell'evangelizzazione basata sul "viaggio", ovvero sul percorso della fede che disegna una fitta rete di itinerari attraverso il Mediterraneo e anche le strade, ossia le vie consolari che conducono all'Urbe e, segnatamente, i "tracciati paolini":  l'Appia, la via dell'arrivo e della memoria congiunta con Pietro, e l'Ostiense, la strada della passione e della deposizione.

Il passaggio dai grandi viaggi dell'evangelizzazione a quelli del culto e della devozione, ci fa, dunque, approdare a Roma, la città santa, sede privilegiata del pellegrinaggio dove si snodano altri itinerari della fede, ossia quei percorsi che i pellegrini di ogni tempo, dalle origini del cristianesimo al medioevo, hanno seguito, per rendere omaggio ai loca sanctorum dell'Urbe, secondo una prassi che veniva da lontano e che aveva ispirato la creazione delle carte topografiche e geografiche, che sfociano negli itinera picta e specialmente nella famosa Tabula Peutingeriana, un rotolo di pergamena che rappresenta tutto il bacino del Mediterraneo ora conservato a Vienna in una redazione medievale, ma concepito, nella versione originale, già in età costantiniana. I pellegrini cristiani che si dirigevano verso i "luoghi della memoria" della Terra Santa dovevano seguire proprio questi itinerari topografici, che si trasformavano in percorsi suggestivi della fede.

Se dalla Terra Santa torniamo a Roma, dobbiamo ricordare che alcuni precoci tipi di pellegrinaggio si consumano già nel iii secolo, se nella Memoria apostolorum, nel complesso di San Sebastiano, si leggono centinaia di graffiti tracciati dai fedeli per acclamare i principi degli apostoli e se, negli stessi anni, altri graffiti furono lasciati come memoria del loro passaggio, da altri pellegrini presso la tomba di Pietro, nella necropoli vaticana. È difficile comprendere la tipologia e le dimensioni del viaggio, che caratterizzavano quelle prime forme di pellegrinaggio ma dobbiamo immaginare che, già al tempo di Costantino, quando le tombe dei principi degli apostoli e di altri martiri romani erano state monumentalizzate e fornite di importanti santuari, il raggio d'azione del culto si fosse allargato oltre i confini dell'Urbe, fino a quando, al tempo di Papa Damaso (366-384) le tombe dei martiri furono dotate di oltre sessanta carmi epigrafici che costituiranno la base del Martirologio Geronimiano, il documento agiografico che raccoglie più di centocinquanta commemorazioni e che fu redatto intorno alla metà del v secolo, recuperando le importanti notizie provenienti dalla Depositio Martyrum e dalla Depositio episcoporum, i due preziosi documenti che enumerano, intorno agli anni Trenta del iv secolo, le feste relative ai martiri e ai vescovi di Roma.

Nel corso del IV secolo, dunque, il suburbio romano era diventato meta ambita di pellegrini anche celebri come dimostra la testimonianza del poeta iberico Prudenzio, che ci accompagna sino alla tomba del martire Ippolito, tra una folla di fedeli nel santuario della via Tiburtina (Peristephanon XI, 159-169) e se Girolamo ricorda la sua abitudine di sfidare le tenebre delle catacombe facendosi coraggio, con un gruppo di amici, alla ricerca emozionante delle tombe dei santi martiri di Roma (Ezechielem XII, 40). E anche Paolino di Nola rievoca i suoi innumerevoli e annuali pellegrinaggi nella Roma dei martiri e dei principi degli apostoli (Epistulae, 17, 2; 20, 2; 45, 1).

Questa pratica diventò sistematica nei secoli dell'alto medioevo, quando la città di Roma aveva subito profonde trasformazioni, in seguito ai saccheggi, alle carestie, alle pestilenze e all'inesorabile crollo demografico. Eppure in questo scenario preoccupante e quasi apocalittico, resiste e insiste il fenomeno del pellegrinaggio che, anzi vede i devoti giungere alle "tombe sante" dell'Urbe da tutta Europa, come si intuisce dagli itinerari che si propongono come vere e proprie guide di un "turismo religioso" ante litteram.

Il documento più antico, definito De locis sanctis martyrum quae sunt foris civitatis Romae, risale agli anni centrali del vii secolo e segue un percorso che, muovendosi dal Vaticano, in senso orario, tocca tutti i santuari del suburbio romano, fermandosi lungo le diverse vie consolari e giungendo, da ultimo, alla via Flaminia, presso il complesso di San Valentino. Poco più tarda risulta la Notitia ecclesiarum urbis Romae, contenuta in un codice di Salisburgo, ora nella Biblioteca Nazionale di Vienna. Anche questo documento, quasi sicuramente redatto, come il De Locis, da un autore romano, o, comunque, da chi conosceva molto bene la dislocazione dei monumenti e dei luoghi del suburbio romano, è estremamente dettagliato e, dopo aver toccato il santuario urbano dei santi Giovanni e Paolo al Celio, si muove per le catacombe in senso contrario rispetto al De Locis, poiché inizia dal santuario di S. Valentino sulla via Flaminia e termina con la basilica vaticana.

Estremamente simile appare il coevo Itinerarium Malmesburiense, che è ancora più dettagliato nel disegno dei percorsi da seguire per giungere alle tombe sante. Notizie importanti vengono dal catalogo conservato nella cattedrale di Monza, che contiene un'accurata Notula oleorum che elenca, appunto, gli oli raccolti dai lumi che ardevano presso i sepolcri, con i relativi pittacia (etichette di papiro) ordinati in maniera topografica. L'elenco fu redatto, con tutta probabilità, da un presbitero Giovanni per incarico della regina Teodolinda, al tempo di Gregorio Magno (590-604). Molto dettagliati appaiono, infine, i due itinerari contenuti nella silloge altomedievale di Einsiedeln.

Tutti questi documenti si rivelano utilissimi per disegnare la rete dei percorsi seguiti dai pellegrini nel suburbio romano, una rete complicata e relativa a un pellegrinaggio "stressante", nel senso che esso, ancor più di quello, pur faticoso, della Terra Santa, comporta un circuito complesso e costellato di saliscendi, di camminamenti più o meno angusti, di sentieri scomodi e diagonali, rispetto alle grandi arterie consolari. Insomma, il pellegrino, giunto a Roma, aveva qualche giorno di impegno e di fatica per attraversare la campagna romana, inclusa nell'anello delle prime tre miglia. Dopo il lungo viaggio per raggiungere l'Urbe il devoto non si fermava, ma doveva correre per strade grandi e piccole, se voleva visitare tutti i sepolcri consigliati dai calendari e dagli itinerari. Rapido risultava, invece, il gesto del culto vero e proprio, che si riduceva all'azione semplice dell'ex contactu, per mezzo di brandea e palliola, che divenivano sacre eulogie di quei viaggi della fede.

È difficile comprendere se ci sia un collegamento tra questi pellegrinaggi dal respiro internazionale e quelle visite invece romane, ridotte alle chiese dall'Urbe, forse già concepite da Gregorio Magno, ma recuperate da san Filippo Neri, riecheggiando, nella sostanza, il modello liturgico, pure antico, delle stationes. In questo caso il termine statio, inteso come occasione di una riunione solenne della comunità itinerante, proviene - secondo quanto testimonia, allo scadere del ii secolo, Tertulliano (De oratione, 17) - dal linguaggio militare e viene esplicitamente menzionato dal vescovo di Cartagine Cipriano in risposta a una lettera del Pontefice Cornelio (251-253) nel culmine della persecuzione di Decio (Epistulae 49, 3).
 
La solenne celebrazione, arricchita dal digiuno, divenne prassi - come si diceva - al tempo di Gregorio Magno, che istituì un'usanza, che si protrasse sino all'alto medioevo e che comportò un allargamento del rito presso diverse chiese stazionali, privilegiando le cinque basiliche patriarcali, ossia San Giovanni in Laterano, San Pietro in Vaticano, San Paolo fuori le Mura, Santa Maria Maggiore, San Lorenzo fuori le mura, a cui si aggiunsero la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, in quanto situata lungo il tragitto tra San Giovanni e San Lorenzo, e quella di San Sebastiano fuori le Mura, poiché collocata tra San Paolo e San Giovanni.
 
Il rito della visita ad septem ecclesias fu recuperato, negli anni centrali del 1500, da san Filippo Neri (1515-1595), attorno al quale si radunavano, nel celebre oratorio, situato presso San Girolamo della Carità, i più qualificati antiquari controriformisti del tempo, che molto contribuirono alla riscoperta della Roma cristiana antica. Fu questo giovane sacerdote fiorentino a collegare la pratica della visita alle sette chiese a un atteggiamento penitenziale, che faceva da contraltare alla dissolutezza del carnevale romano, suggerendo di celebrare la visita proprio il giorno del giovedì grasso.

Nonostante le critiche e un processo sofferto da san Filippo, la visita alle sette chiese continuò secondo un itinerario che si muoveva da San Paolo, dopo che, la sera prima, si era visitata San Pietro, e si inoltrava verso San Sebastiano, dove si celebrava la messa; ci si recava presso la vigna dei Mattei per un "pranzo al sacco" assai frugale, si giungeva dunque a San Giovanni in Laterano, poi a Santa Croce in Gerusalemme, a San Lorenzo, a Santa Maria Maggiore, recitando il rosario, intonando il Miserere e, infine, il Te Deum. Verso la fine del 1500, alle sette chiese furono aggiunte quella dell'Annunziatella su via di Grotta Perfetta e quella delle Tre Fontane sulla via Laurentina. Tra alti e bassi la visita delle sette chiese continuò nei secoli e non si tenne solo in occasioni di guerre, carestie e pestilenze.

Il lungo percorso, che ci ha permesso di seguire l'evoluzione significativa del viaggio dall'antichità cristiana sino ai nostri giorni, vede trasformarsi gli antichi itinerari attraverso le rotte del Mediterraneo intesi come piste dell'evangelizzazione, in veri e propri pellegrinaggi, considerati nella lunga distanza e nell'accezione devozionale e, infine, in una visita molto più limitata alle Sette Chiese romane, con un valore, che ruota attorno alla sfera della penitenza. Questi tre livelli di significato mantengono, comunque, come comune denominatore, quell'attitudine al movimento, al cammino che si traduce in una "terapia della distanza", come la definì il grande storico della tarda antichità Peter Brown, cogliendo il senso profondo del viaggio inteso come tracciato continuo del cristiano lungo l'itinerario interminabile e suggestivo della fede.



(©L'Osservatore Romano - 19 febbraio 2009)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)