DIFENDERE LA VERA FEDE

Il Papa chiede di riscoprire il vero Catechismo della Chiesa Cattolica per la nuova evangelizzazione

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    Caterina63
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    00 19/05/2012 23:46

    "Vent'anni dopo. Il Catechismo della Chiesa Cattolica per la Nuova Evangelizzazione"


    "Lectio Magistralis" del card. Mauro Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero


    ROMA, sabato, 19 maggio 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della Lectio Magistralis tenuta questa mattina a Roma dal cardinale Mauro Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero, durante il Convegno promosso da Alleanza Cattolica, Cristianità e dall’IDIS (Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale).

    ***

    Eccellenze Reverendissime,
    Illustre Reggente,
    Onorevoli Signori,
    Cari Camici,

    Sono lieto di poter intervenire a questo Convegno, nel quale, con mirabile zelo, quasi si anticipa l’Anno della Fede, introducendoci ad uno dei due Anniversari che ne hanno determinato la celebrazione: quello del ventennale del Catechismo della Chiesa Cattolica, non disgiungibile, in realtà, dal Cinquantesimo Anniversario di indizione del Concilio Ecumenico Vaticano II.

    Mi soffermerò, in questo intervento, su tre aspetti che ritengo essenziali, in ordine al tema assegnatomi: il rapporto tra Catechismo della Chiesa Cattolica e Concilio Ecumenico Vaticano II, alcuni profili della ricezione del Catechismo e, infine, la stretta connessione tra Catechismo e Nuova Evangelizzazione.

    Desidero premettere, all’intero sviluppo del tema, la lucida consapevolezza ecclesiale della "insufficienza" di un documento, qualunque sia il suo tenore, a determinare, da solo, radicali cambiamenti ed evangeliche riforme.

    I documenti sono essenziali ed aiutano ogni reale cammino di conversione e, perciò, di riforma, sostenendone le ragioni ed offrendo indicazioni, ma il motore del personale ed ecclesiale rinnovamento, sempre, in modo certo e preminente, è la santità! Sia la santità oggettiva della Chiesa, mistico Corpo di Cristo, sia la personale santità, di ciascuno dei suoi membri.

    Se così non fosse, anche la Nuova Evangelizzazione, della quale ormai si parla da oltre un decennio, ufficialmente dalla Novo Millennio ineunte, rischierebbe di divenire uno slogan demagogicamente ripetuto, senza un autentico rapporto con la realtà, con le concrete situazioni culturali, dottrinali e pastorali delle comunità cristiane e delle Chiese particolari.

    1. Catechismo della Chiesa Cattolica e Concilio Ecumenico Vaticano II

    Uno degli aspetti fondamentali, da tenere sempre presente, quando si tratta del Catechismo della Chiesa Cattolica, é il suo rapporto con il Concilio Ecumenico Vaticano II. Il Catechismo affonda le proprie radici nel Concilio, cresce e si sviluppa dal Concilio ed é un frutto maturo del Concilio.

    Ogni altra lettura non darebbe ragione di un impegno tanto fondamentale ed universale della Chiesa, nell’elaborazione di una “Summa della Fede”, quale il Catechismo è!

    Scriveva il Beato Giovanni Paolo II, nella Costituzione Apostolica Fidei depositum, dell'11 ottobre 1992: «dopo la sua conclusione, il Concilio non ha cessato di ispirare la vita della Chiesa […]. In questo spirito, il 25 gennaio 1985 ho convocato un'Assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi, in occasione del ventesimo anniversario della chiusura del Concilio. Scopo di questa assemblea era di celebrare le grazie e i frutti spirituali del Concilio Vaticano II, di approfondirne l'insegnamento per meglio aderire ad esso e di promuoverne la conoscenza e l'applicazione. In questa circostanza i Padri sinodali hanno […] espresso il desiderio che venisse composto un catechismo o compendio di tutta la dottrina cattolica […]. Questo Catechismo apporterà un contributo molto importante a quell'opera di rinnovamento dell'intera vita ecclesiale, voluta e iniziata dal Concilio Vaticano II».

    La stessa promulgazione del Testo, nella prima edizione in lingua francese nel 1992 e nell’Editio Tipica latina del 1997, viene sempre accompagnata da espliciti riferimenti al Concilio Ecumenico Vaticano II, quasi volendone richiamare la profonda spinta rinnovatrice per l’intera Chiesa.

    Dal punto di vista teologico siamo chiamati a riconoscere come la risurrezione abbia inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé. Tutto ciò avviene concretamente attraverso la vita e la testimonianza della Chiesa; anzi, la Chiesa stessa costituisce la primizia di questa trasformazione, che è opera di Dio e non nostra, e proprio in questo consiste il vero rinnovamento. La primizia del rinnovamento, della nuova umanità trasformata dalla risurrezione del Signore, è la Chiesa. Rinnovare la società, per noi, significa promuovere la diffusione della Chiesa, e rinnovare la Chiesa significa accogliere fedelmente la “novità” che essa è, per la volontà ed il dono gratuito e permanente dello Spirito, da parte di Dio.

    Non stupisce, allora, il richiamo costante al Concilio Ecumenico Vaticano II, ogni volta che si è presentato ufficialmente il Catechismo della Chiesa Cattolica, poiché questo è da accogliere come eco profonda, ed ecclesialmente mediata, di quello, e non potrebbe essere diversamente, poiché solo il Concilio ha dato alla Chiesa la forza di esprimere, in modo comunionale, la propria fede in un nuovo - nel senso di rinnovato – Catechismo.

    Tutto questo è vero, ed anche facilmente accoglibile, ad una condizione: che si voglia realmente conoscere, amare e seguire il Concilio e non la propria “idea di Concilio”; che si voglia obbedire al Vaticano II e non a ciò che non si è mai celebrato e che vivrebbe solo nel desiderio di alcuni.

    La questione della corretta ermeneutica del Concilio Ecumenico Vaticano II, nei termini in cui è stata posta dall’ormai classico discorso del Santo Padre Benedetto XVI, del 22 dicembre 2005, con la chiara scelta di campo a favore dell’ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, e con la denuncia dei gravi danni provocati dalla cosiddetta “ermeneutica della discontinuità”, investe anche la corretta interpretazione del rapporto tra Catechismo della Chiesa Cattolica e Concilio.

    Non è questa la sede per entrare in un dibattito tanto complesso e dalle voci così diverse e talora non prive di tensione.

    Pare doveroso, tuttavia, constatare come quello che si può definire il “governo del pensiero” del Santo Padre, stia lentamente, ma efficacemente, portando i suoi frutti. Sono sempre più le circostanze, le persone, gli studi e perfino le Cattedre che si occupano del Concilio Ecumenico Vaticano II e che desiderano farlo in maniera quanto più scientifica possibile e, soprattutto, libera da condizionamenti ideologici legati a circostanze culturali o sociali, in una sempre maggiore adesione alla realtà, alla storia, ai testi ed alla loro successiva ricezione, essenziale per la corretta ermeneutica.

    In realtà, già il Beato Giovanni Paolo II, del Catechismo, aveva affermato: «è un'esposizione della fede della Chiesa e della dottrina cattolica, attestate o illuminate dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione apostolica e dal Magistero della Chiesa. Io lo riconosco come uno strumento valido e legittimo al servizio della comunione ecclesiale e come una norma sicura per l'insegnamento della fede. Chiedo pertanto ai Pastori della Chiesa e ai fedeli di accogliere questo Catechismo in spirito di comunione e di usarlo assiduamente nel compiere la loro missione di annunziare la fede e di chiamare alla vita evangelica» (Cost. Ap. Fidei depositum).

    2. La ricezione del Catechismo della Chiesa Cattolica

    Ci siamo, così, introdotti nel secondo punto della presente riflessione, che intende indicare alcuni sentieri interpretativi del fenomeno della ricezione del Catechismo.

    Come detto, la ricezione del Catechismo non è disgiungibile totalmente dalla corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, ed esiste, ancor oggi, una “strana discontinuità” tra coloro che si dicono entusiasti del Concilio e, resistendo al Catechismo, vorrebbero riconoscervi un vero e proprio tradimento della dottrina conciliare. [SM=g1740730]

    Dobbiamo ammettere che, dal punto di vista numerico, pur se amplificati dalla costante opera dei mezzi di comunicazione, si tratta di esigue minoranze – più che “creative”, “ripetitive” –, molto spesso incapaci di vedere, nello sviluppo dell’unico Corpo ecclesiale, i contributi che lo Spirito offre, in tempi e modi differenti.

    Nella stragrande maggioranza dei casi, in tutte le Chiese particolari del mondo, il Catechismo è stato accolto come un dono per i pastori ed i fedeli, come – quale esso è – un sicuro riferimento per l’elaborazione dei catechismi locali (nazionali e diocesani) e come un fattore baricentrico della fede della Chiesa.

    Non dobbiamo dimenticare che, vent’anni fa, il clima non era certo quello di oggi. Nella velocità dei cambiamenti socioculturali, determinata dall’immediatezza della comunicazione, vent’anni rappresentano un tempo sufficientemente ampio per dire che il clima culturale è decisamente mutato. Ciò mostra la forza della Chiesa e il coraggio del Beato Giovanni Paolo II, nel pubblicare, nel 1992, il Catechismo della Chiesa Cattolica!

    Molto ampia è stata, in questi venti anni, anche la ricezione dello stesso Magistero pontificio, il quale, incessantemente, vi ha fatto riferimento, come ha fatto riferimento ai testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretandoli anche con lo strumento sicuro del Catechismo. Pari influsso si è avuto nei documenti magisteriali della Curia e nell’ordinario Magistero dei Pastori.

    Molta strada è, invece, ancora da percorrere nell’impostazione di un corretto rapporto tra Teologia e Catechismo della Chiesa Cattolica. Pur nella lucida consapevolezza che il compito della Teologia è quello di approfondire la conoscenza della Verità rivelata, e non semplicemente di ribadirla, appare come un’occasione mancata del lavoro teologico quella di offrire il proprio prezioso servizio all’approfondimento delle ragioni, che sostengono le affermazioni dottrinali. Probabilmente la Teologia sarebbe molto più feconda, se impegnasse le proprie energie in modo meno centrifugo e quasi, dolorosamente, marginale rispetto alle verità essenziali della nostra fede.

    L’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla vocazione ecclesiale del Teologo (24/05/1990), a firma dell’allora Prefetto Card. Joseph Ratzinger, è un illuminante richiamo al ruolo insostituibile ed ecclesiale della Teologia, e sarebbe decisamente auspicabile che, soprattutto nelle Facoltà teologiche, si iniziassero ad instituire vere e proprie Cattedre sul Catechismo della Chiesa Cattolica, la sua genesi, la sua ricezione, il suo sviluppo e, soprattutto, il suo fecondo utilizzo pastorale.

    Come ha ricordato il Santo Padre nell’Omelia per la Santa Messa Crismale della scorsa Pasqua: «Ogni nostro annuncio deve misurarsi sulla parola di Gesù Cristo: “La mia dottrina non è mia” (Gv 7,16). Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. Ma questo naturalmente non deve significare che io non sostenga questa dottrina con tutto me stesso e non sia saldamente ancorato ad essa». Soprattutto quest’ultimo passaggio, che il Papa ha ritenuto di dover chiaramente ribadire, indica quale debba essere la posizione di ciascun cristiano e, a fortiori, di ogni sacerdote, teologo e Vescovo, nei confronti della dottrina contenuta nel Catechismo della Chiesa Cattolica.

    Essere servitori della Dottrina della Chiesa ed essere totalmente immedesimati con essa è parte integrante di quella identità cristiana e sacerdotale, che è stata, in fondo, il nucleo tematico anche dell’Anno Sacerdotale celebrato nel 2009-2010.

    Il cammino di ricezione ufficiale del Catechismo della Chiesa Cattolica è, forse, più ampio del cammino di ricezione reale, soprattutto a livello di Comunità, di Famiglie Religiose, Associazioni, Movimenti, ecc. L’Anno della Fede, indetto nei noti anniversari del Concilio e del Catechismo, ha anche questo scopo: favorire un’ancora più capillare ricezione del Catechismo, quale strumento di dottrina certa e, nel contempo, di corretta ermeneutica del Concilio Ecumenico Vaticano II.

    È forse tempo di affermare, con doverosa chiarezza, che sbagliano clamorosamente coloro che affermano che «il Catechismo ha tradito il Concilio», o che «il Catechismo è stato un passo indietro rispetto al Concilio». Dietro slogan di questo tipo, si cela, in modo nemmeno troppo irriconoscibile, la perdita di comprensione non solo di ciò che il Concilio è, ma anche di ciò che l’intera Chiesa, Corpo di Cristo, è. Soprattutto, affermazioni di tal genere, giungono da ambienti che si riconoscono in quell’ermeneutica della discontinuità e della rottura, che, come detto, è stata chiaramente indicata dal Santo Padre come responsabile di gravi confusioni nel Popolo di Dio.

    Ritengo inoltre, che questi atteggiamenti siano quelli che, massimamente, offrono un pessimo servizio al Concilio: sia perché, purtroppo, favoriscono reazioni contrarie altrettanto esposte al rischio della discontinuità, sia, soprattutto, perché frenano, in modo ideologico, l’accesso pacato ai testi del Concilio, il raffronto con la perenne Tradizione e Dottrina ecclesiale, e l’accoglimento del concreto modo in cui i fondamentali testi conciliari sono stati recepiti dal Magistero successivo, già del Servo di Dio Paolo VI e, soprattutto, del Beato Giovanni Paolo II.

    Molto si è fatto, ma certamente ancora molto rimane da fare per la corretta ricezione del Catechismo della Chiesa Cattolica, e più ci impegneremo nella sua ricezione, più tale opera coinciderà, di fatto, con la nuova evangelizzazione».

    3. Il Catechismo della Chiesa Cattolica e la nuova evangelizzazione

    Nella citata Omelia per la Messa Crismale, Benedetto XVI affermava: «L’Anno della Fede, il ricordo dell’apertura del Concilio Vaticano II 50 anni fa, deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia. Lo troviamo naturalmente in modo fondamentale e primario nella Sacra Scrittura, che non leggeremo e mediteremo mai abbastanza. Ma in questo facciamo tutti l’esperienza di aver bisogno di aiuto per trasmetterla rettamente nel presente, affinché tocchi veramente il nostro cuore. Questo aiuto lo troviamo in primo luogo nella parola della Chiesa docente: i testi del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica sono strumenti essenziali che ci indicano in modo autentico ciò che la Chiesa crede a partire dalla Parola di Dio. E naturalmente ne fa parte anche tutto il tesoro dei documenti che Papa Giovanni Paolo II ci ha donato e che è ancora lontano dall’essere sfruttato fino in fondo».

    È lo stesso Papa, dunque, a riconoscere la piena continuità di Magistero tra i testi del Concilio Ecumenico Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica, invitando la Chiesa ad aprire lo scrigno, ancora troppo poco sfruttato, del tesoro ultraventennale del Beato Papa Giovanni Paolo II.

    Due aspetti possono essere posti in evidenza, a partire dalla citazione pontificia, nel rapporto tra Catechismo della Chiesa Cattolica e nuova evangelizzazione.

    Il primo lo traiamo dalle parole stesse di Benedetto XVI, che afferma: «Facciamo tutti l’esperienza di aver bisogno di aiuto per trasmetterla rettamente nel presente, affinché tocchi veramente il nostro cuore».

    L’opera di evangelizzazione, quindi, non è appena un “fare” umano, ma necessita, invincibilmente, di un aiuto soprannaturale, il quale si manifesta attraverso le cause seconde (tra esse anche il Catechismo) che rendono capaci di trasmettere rettamente la fede. Tale trasmissione deve avvenire “nel presente”, cioè nell’oggi della vita quotidiana e, in tal senso, l’evangelizzazione è sempre nuova, poiché è un perenne rinnovarsi, nel presente, dell’annuncio evangelico e, nel contempo, rinnova, “rende nuovo” colui che la accoglie.

    Inoltre il Santo Padre, quasi con un guizzo profetico, afferma che tutto ciò è necessario «affinché tocchi veramente il nostro cuore», ribadendo, sempre secondo il principio della coincidenza tra la propria vita e la verità creduta, che, proprio nell’atto evangelizzante, il cristiano vede toccato il proprio cuore e, dunque, è chiamato a rinnovarsi.

    Possiamo ragionevolmente sperare, alla luce di tutto ciò, che la nuova evangelizzazione non dovrà essere un’opera da compiere in anni futuri, con strategie umane più o meno riuscite, ma essa, al contrario, avverrà nella misura in cui l’intero Corpo ecclesiale professerà la propria fede e verrà rievangelizzato dalla propria stessa professione di fede. La nuova evangelizzazione non sarà il frutto di un’opera compiuta da pastori e fedeli, ma coinciderà con l’atto stesso dell’evangelizzare, che, nell’istante stesso in cui viene compiuto, rinnova chi lo compie ed è seme di speranza per chi lo contempla e lo accoglie.

    Per analogia – permettetemi questa digressione legata al mio servizio presso la Congregazione per il Clero –, potremmo affermare che la nuova evangelizzazione è un po’ come l’esercizio del Ministero da parte dei sacerdoti: esso non è altro rispetto alla propria persona, alla propria identità e alla propria missione, ma coincide con esse e, proprio nell’esercizio del Ministero, i sacerdoti professano la loro fede e la vedono rinnovarsi, divenendo potenza evangelizzatrice.

    Il secondo aspetto – e in questo entra chiaramente, con tutto il suo peso dottrinale, il Catechismo della Chiesa Cattolica – è rappresentato dal rapporto tra l’annuncio di Cristo, accolto come Salvatore e Redentore della propria esistenza, e l’accoglienza di quanto Egli ci ha rivelato di Se stesso, del Padre, della Chiesa e dell’uomo.

    In altri termini, non è possibile accogliere Cristo senza accogliere ciò che Egli ci ha insegnato di Dio, non è possibile la nuova evangelizzazione separata dalle verità di fede e dalla dottrina, che di esse consiste e che ad esse dona luce.

    In tal senso, la conoscenza, la diffusione e la progressiva penetrazione del Catechismo della Chiesa Cattolica nelle fibre del tessuto ecclesiale sarà già opera di nuova evangelizzazione, poiché non potrà fare a meno di irradiare la propria forza anche nella società civile, che ha bisogno di essere rievangelizzata.

    La stessa quadripartizione del Catechismo della Chiesa Cattolica: fede creduta, fede celebrata, fede vissutae fede pregata, che è fedele, riproponendola, allo schema del Catechismo Romano ad parrocos, elaborato dopo il Concilio di Trento, contiene, in nuce, quelle che potrebbero essere individuate come le quattro fondamentali direttrici della nuova evangelizzazione.

    Mi pare di poter riconoscere, nelle quattro citate declinazioni della fede, altrettanti sentieri determinanti per la nuova evangelizzazione. Rinnovare la fede creduta significa, certamente, come proposto dalle indicazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede per l’Anno della Fede, anche trovare occasioni di pubblica professione, senza dimenticare quell’approfondimento, anche culturale, che è sempre necessario e che, progressivamente, educa il pensiero, il quale, svincolatosi dalle maglie del mondo, inizia progressivamente, a “ragionare” con una mentalità di fede, traducendo, in esperienza concreta, le provvide indicazioni dell’Enciclica Fides et ratio del Beato Giovanni Paolo II.

    La fede celebrata, come indica la seconda parte del Catechismo, è un chiaro invito ad una forte riscoperta del senso del sacro, in tutte le nostre comunità, che celebrano i Sacramenti. La superficialità, e talvolta persino la banalizzazione di talune celebrazioni, hanno determinato una disaffezione al rito, che, avendo perso la propria dimensione misterica, ha perso, nel contempo, anche la propria valenza significante. È un clamoroso equivoco quello di chi crede che, riducendo la dimensione sacra e di adorazione, i riti diventino maggiormente comprensibili. Esiste un dialogo misterioso, posto in essere dallo Spirito Santo, e non certo dalle nostre celebrazioni “animate”, tra la forza dei Sacramenti celebrati, la grazia che essi donano e l’anima di ciascun fedele. Nella misura in cui le Chiese particolari e le singole comunità riscopriranno la profonda coscienza adorante della fede celebrata, la nuova evangelizzazione riceverà vigoroso impulso, poiché la fede celebrata, secondo le norme liturgiche della Chiesa, e nella continuità con la sua ininterrotta Tradizione, è quanto di più attraente ci possa essere ed è, essa stessa, evangelizzazione.

    Sappiamo bene come la verità annunciata domandi di essere accompagnata dalla forza della testimonianza. Fin dalle origini, il Cristianesimo è consistito di questa profonda unità tra la verità annunciata e l’amore vissuto. La terza parte del Catechismo, se ben compresa, è un grande sostegno ad una proposta difede vissuta, che ha, in se stessa, una grande forza evangelizzante, poiché, anche senza parlare, esercita un invincibile magistero. Non dimentichiamo che, in non pochi casi nella storia, per fare tacere la verità è stato necessario sopprimere non solo chi la proclamava, ma anche chi la viveva. Quanti martiri, nel recente passato ed anche nel presente, hanno testimoniato e testimoniano la fede! L’unità inscindibile tra fede creduta, fede celebrata e fede vissuta, sarà, allora, il principale fattore dinamico della nuova evangelizzazione. È credendo, celebrando e vivendo in maniera più autentica e fedele, che la Chiesa potrà rinnovare la propria forza evangelizzante.

    Da ultimo – e concludo – la dimensione della preghiera, proposta dal Catechismo della Chiesa Cattolica, rappresenta l’asse, la linfa vitale della nuova evangelizzazione. Nulla accadrebbe, per quanto grandi possano essere i nostri sforzi, se tutto non nascesse e non ritornasse alla preghiera: allo stare al cospetto di Dio, come singoli e come Chiesa, in ascolto attento della Sua Parola e della Sua Volontà, per la Chiesa e per il mondo.

    Solo la preghiera è autentica energia riformatrice e, ben difficilmente, chi non prega può ricevere, o piuttosto auto-attribuirsi, carismi di riforma. La misura dell’autentica riforma della Chiesa è lo spirito di orazione, così come la misura della nuova evangelizzazione sarà la preghiera, che ciascuno di noi riscoprirà nella propria esistenza, in ascolto della voce del Signore, stando spiritualmente uniti agli Apostoli con Pietro, nel Cenacolo attorno a Maria, Madre della Chiesa!

    [SM=g1740722]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 20/05/2012 00:01

    La fede che rende adulti. Il catechismo per la nuova evangelizzazione (Nicola Bux)


    Il catechismo per la nuova evangelizzazione


    La fede che rende adulti


    di Nicola Bux


    Il Papa nel corso del suo viaggio apostolico in Francia (12-15 settembre 2008) ebbe a osservare come per molti Dio sia diventato il «grande Sconosciuto».

    Un'affermazione dettata dalla preoccupazione -- che Benedetto XVI ripete con insistenza -- per il futuro della fede, la cui fiamma sembra quasi spegnersi in non poche regioni della terra. Soltanto poco più di un mese fa, in occasione del Giovedì santo, ha denunciato come si sia dinanzi a un rinnovato «analfabetismo religioso». Purtroppo, però, questo “credere a modo mio”, sembra alle volte anche incentivato da maître à penser che dall'interno della Chiesa, hanno seminato il loro verbo piuttosto che il Verbo divino. La stessa Italia sta diventando un Paese “genericamente” cristiano. Viene auspicata, dunque, una nuova evangelizzazione, grazie anche all'impulso del Pontificio Consiglio appositamente istituito dal Papa.

    Da dove cominciare? Forse proprio dalla liturgia, dal canto sacro e dai nuovi edifici di culto, purché innanzitutto commissionati a persone che coniughino fede e talento, per proporre forme che parlino di Dio.
    La fede e la sua dottrina: qui sta il punto. Una fede semplice come quella dei pastori, delle donne e degli uomini incontrati da Gesù. E non quella di chi, per esempio, afferma che la risurrezione di Gesù è solo frutto dell'elaborazione dell'esperienza dei discepoli.

    Perciò il Papa ha indetto un Anno della fede in cui riprendere in mano gli insegnamenti del Vaticano II e più popolarmente il catechismo. I libri di pastorale e quelli di sociologia religiosa, di per sé, non hanno mai convertito nessuno. Ci vuole, invece, la conoscenza di Gesù persona storica, umana e divina, che fonda la nostra fede. Nei nostri occhi sono i fatti, dice sant'Agostino, nelle mani gli scritti: e i primi sono molto più importanti di questi ultimi. Così, in controtendenza, il cristianesimo rinasce e dimostra che contro la Chiesa, divino-umana per volontà del Fondatore, le forze infernali non praevalebunt.
    Si accennava, dunque, all'analfabetismo religioso additato dal Papa e dai vescovi, e dell'esigenza di combatterlo con la dottrina cristiana, la “dottrina della fede”. Il dicastero vaticano che ha ricevuto questo titolo da Paolo VI è strumento imprescindibile per la nuova evangelizzazione. Benedetto XVI ha chiesto a tutti -- vescovi, sacerdoti e religiosi, suore e laici impegnati -- di muoversi all'unisono, oltre i programmi o piani pastorali particolari, con il Catechismo della Chiesa cattolica.

    In missione non si va in ordine sparso, ma tutti, insieme al Papa; se si vuol combattere la secolarizzazione che ha incentivato l'analfabetismo religioso, bisogna che ci misuriamo con Gesù che ha detto: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» (Giovanni, 7, 16). Per questo va diffuso il catechismo, dice Benedetto XVI: «Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori». Soprattutto però l'anima cristiana deve attingere al cuore di Cristo per toccare i cuori della gente, come hanno fatto i santi che, proprio per questo, sono tanto amati.
    Tuttavia, c'è chi sostiene che il cristianesimo non serve per salvarsi l'anima.

    Perciò, il Papa nell'omelia della messa crismale, ha usato un'espressione fuori moda: lo zelo per la salvezza delle anime. «Noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell'anima dell'uomo». Ha detto Gesù: «A che serve all'uomo guadagnare il mondo intero se poi perde l'anima?». Così, si dovrà comprendere il valore e l'importanza dei sacramenti, che dalla nascita alla morte servono a salvare le anime. I sacerdoti avranno ancora abbastanza zelo per accorrere da un moribondo al fine di dargli confessione, unzione e comunione per la salvezza dell'anima? L'anima dell'uomo sta a ricordare che non appartiene a se stesso ma a Dio. Così i preti non appartengono a se stessi ma a Gesù Cristo. C'è bisogno di dottrina della fede, fatta di conoscenza, competenza, esperienza e pazienza. C'è bisogno di un rinnovato slancio apostolico. Il dono della fede non è separato dal battesimo.

    Il Papa al clero romano, infatti, ha recentemente ricordato che, se l'atto del credere è «inizialmente e soprattutto un incontro personale» con Cristo, come ci descrivono i Vangeli, «tale fede non è solo un atto personale di fiducia, ma un atto che ha un contenuto» e «il battesimo esprime questo contenuto».
    San Cirillo di Gerusalemme ricorda che la nostra salvezza battesimale dipende dal fatto che è scaturita dalla crocifissione, sepoltura e risurrezione di Cristo, veramente avvenute nella sfera fisica: si chiama grazia, perché la riceviamo nel sacramento senza patire i dolori fisici. Per questo, ammonisce Cirillo: «Nessuno pensi che il battesimo consista solo nella remissione dei peccati e nella grazia di adozione, come era il battesimo di Giovanni che conferiva solo la remissione dei peccati. Noi invece sappiamo che il battesimo, come può liberare dai peccati e ottenere il dono dello Spirito Santo, così anche è figura ed espressione della Passione di Cristo», come proclama Paolo (Romani, 6, 3-4).

    «Noi sappiamo», dice il santo vescovo di Gerusalemme: all'incontro personale col Signore e alla sequela di lui per la salvezza, segue necessariamente la dottrina che si trasmette attraverso la Scrittura e la Tradizione della Chiesa. Tutto questo è riassunto nel catechismo. Bisogna rinnovare la catechesi e la liturgia affinché Dio sia conosciuto e amato. Ciò vuol dire una vera devozione, quella che necessita nella liturgia odierna, nella celebrazione dei sacramenti. La devozione o pietas è costituita dall'offerta di sé a Dio: cosa che si esprime con l'insieme di gesti e riti percepiti come significativi per la propria vita: partecipare alla messa, chiedere di celebrarla per le proprie intenzioni, confessarsi e fare la comunione, assistere ad altre funzioni, pregare e cantare inni, frequentare la catechesi, fare le opere di misericordia, fare visita a un luogo dove è venerata una immagine sacra o il sepolcro di un santo taumaturgo, lasciare un'offerta, accendere un cero, partecipare alla processione, portare a spalla la sacra immagine. In sostanza, sono questi segni d'invocazione, di protezione, di ringraziamento che fanno la vera devozione che manifesta la fede, che sola fa giusti davanti a Dio e ci salva.

    L'Anno della fede sarà un tempo propizio.

    Lo studio del contenuto della fede -- come sottolineano specialmente i movimenti ecclesiali -- è necessario all'interno dell'esperienza della fede, per diventare adulti nella fede, superando la fanciullezza che spinge molti ad abbandonare la Chiesa dopo la cresima, diventando così incapaci di esporre e rendere presente la filosofia della fede, di rendere ragione di essa agli altri. Essere adulti nella fede però non vuol dire dipendere dalle opinioni del mondo, emancipandosi dal magistero della Chiesa.
    Perché occuparsi ancora di questo? Perché non è soltanto un pensiero teologico, ma è diventato una pratica che ha permeato pian piano non pochi settori della vita ecclesiale.

    Uno dei più clamorosi è la dottrina sacramentaria: oggi, il sacramento non viene più sentito come proveniente dall'esterno, dall'alto, ma come la partecipazione a qualcosa che il cristiano già possiede. E visto che oggi si ama guardare a Oriente, si deve dire -- almeno per correttezza ecumenica -- che per la teologia orientale la svolta antropologica è una pista falsa imboccata dalla teologia occidentale; l'unico tema fondamentale di tutta la teologia di tutti i tempi è, e deve rimanere, l'Incarnazione del Verbo, il principio umano divino che è entrato nel mondo «per noi uomini e per la nostra salvezza». L'uomo staccato da Dio non ha possibilità di sopravvivenza. Altrimenti a furia di parlare dell'uomo, come è accaduto, non si parla più di Dio.



    (L'Osservatore Romano 16 maggio 2012)

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 26/08/2012 14:18

    Il catechismo in un mondo postcristiano


    Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede spiega perché sta lavorando ad una sintesi breve, semplice e chiara del Catechismo della Chiesa cattolica: «Per dialogare bene è necessario sapere di cosa dobbiamo parlare. È necessario conoscere la sostanza della nostra fede. Per questo un Catechismo oggi è più che mai necessario»


    di Gianni Cardinale  aprile 2003


    Il cardinale Joseph Ratzinger

    Il cardinale Joseph Ratzinger

    Il 7 marzo la Sala Stampa della Santa Sede ha reso nota una lettera con la quale Giovanni Paolo II chiede al cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, di presiedere una Commissione speciale per approntare un Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica. In pratica la Commissione, coadiuvata da un agile Comitato di redazione, dovrà stilare una sintesi essenziale e completa del corposo Catechismo della Chiesa cattolica (circa mille pagine nell’edizione italiana) pubblicato nel 1992 e diffuso in circa otto milioni di copie nel mondo.

    Per saperne qualcosa di più 30Giorni ha chiesto un’intervista al cardinale Ratzinger. Il porporato ci ha ricevuto, con la consueta affabilità, nei suoi uffici del palazzo del Sant’Uffizio.

    Eminenza, perché un Compendio del Catechismo? Il testo pubblicato nel 1992 era troppo ponderoso?
    JOSEPH RATZINGER: Il desiderio di un Catechismo breve è nato subito dopo la pubblicazione di quello grande. L’edizione del 1992 è un punto di riferimento importante per sapere cosa insegna la Chiesa, ed è per questo utile anche per i non cattolici. D’altra parte però risulta troppo voluminoso soprattutto per il semplice uso catechistico. Da qui la necessità di una sintesi – in una forma breve, semplice e chiara – di ciò che è essenziale e fondamentale della fede e della morale cattolica. Nel frattempo sono stati pubblicati diversi tentativi in questo senso. Nessuno veramente riuscito, direi. Finalmente nel Congresso internazionale celebrato in Vaticano lo scorso ottobre per i dieci anni del Catechismo è stato espresso questo desiderio al Santo Padre. E il Papa ha acconsentito.


    Eppure, come ha affermato il cardinale di Vienna Christoph Schönborn, l’idea stessa di catechismo è rifiutata molto frequentemente «per lo meno nei Paesi germanofoni e soprattutto nell’ambiente ufficiale della catechesi»…
    RATZINGER: È vero, c’è una certa avversione verso ogni tentativo di “cristallizzare” in parole una dottrina, in nome di una flessibilità, e c’è un certo antidogmatismo che è vivo in molti cuori; e, soprattutto, il movimento catechistico postconciliare ha accentuato l’aspetto antropologico della questione e ha creduto che un catechismo, essendo troppo dottrinale, sarebbe di impedimento al necessario dialogo con l’uomo di oggi. Noi siamo convinti del contrario. Per dialogare bene è necessario sapere di cosa dobbiamo parlare. È necessario conoscere la sostanza della nostra fede. Per questo un catechismo oggi è più che mai necessario.


    Anche alla luce dell’«esito catastrofico della catechesi moderna» da lei denunciato alcuni anni fa?
    RATZINGER: È un fatto. Senza voler condannare nessuno è evidente che oggi l’ignoranza religiosa è tremenda, basta parlare con le nuove generazioni… Nel post-Concilio evidentemente non si è riusciti concretamente a trasmettere i contenuti della fede cristiana.


    Nel suo intervento al Congresso lei stesso ha fatto cenno ai “mormorii” dei critici del Catechismo. Ne ha sentiti anche adesso?
    RATZINGER: Finora no, ma quando il progetto del Compendio prenderà corpo, c’è da aspettarsi che verranno…


    Quali saranno i criteri generali con cui verrà compilato il Compendio? Sarà strutturato in domande e risposte?
    RATZINGER: Stiamo ancora riflettendo; sembra che si vada verso il sistema di domanda e risposta, che è usato anche fuori dalla Chiesa cattolica, ma non oso fare il profeta anche perché il progetto andrà trasmesso a tutti i cardinali e ai presidenti delle Conferenze episcopali e dipendiamo molto anche dalle loro reazioni. Il Compendio non sarà un Compendio della fede cattolica ma il Compendio del Catechismo del 1992, cui dovrà essere fedele. Allo stesso tempo poi il Compendio dovrà avere caratteristiche di leggibilità che lo rendano veramente accessibile a molti.


    Se si ritornasse alla formula domanda-risposta si tratterebbe di un recupero della metodologia del Catechismo di san Pio X…
    RATZINGER: A dire il vero anche i catechismi dell’epoca della Riforma, sia quelli cattolici che quelli di Martin Lutero, usano questo metodo. In effetti l’uomo ha le sue domande e la fede si presenta come risposta a queste domande. Così proprio in un periodo come quello odierno, in cui il dialogo è ritenuto giustamente essenziale nell’educazione alla fede e nella relazione tra i vari gruppi umani, mi sembra naturale che il metodo dialogico domanda-risposta trovi applicazione in un libro come il Compendio.


    A proposito del Catechismo di san Pio X, che tutt’oggi continua ad avere degli estimatori: con la pubblicazione del Compendioè da ritenersi definitivamente sorpassato?
    RATZINGER: La fede come tale è sempre identica. Quindi anche il Catechismo di san Pio X conserva sempre il suo valore. Può cambiare invece il modo di trasmettere i contenuti della fede. E quindi ci si può chiedere se il Catechismo di san Pio X possa in questo senso essere considerato ancora valido oggi. Credo che il Compendio che stiamo preparando possa rispondere al meglio alle esigenze di oggi. Ma questo non esclude che ci possano essere persone o gruppi di persone che si sentano più a loro agio col Catechismo di san Pio X. Non bisogna dimenticare che quel Catechismo derivava da un testo che era stato preparato dallo stesso Papa quando era vescovo di Mantova. Si trattava di un testo frutto dell’esperienza catechistica personale di Giuseppe Sarto e che aveva le caratteristiche di semplicità di esposizione e di profondità di contenuti. Anche per questo il Catechismo di san Pio X potrà avere anche in futuro degli amici. Ma questo non rende certo superfluo il nostro lavoro…


    Torniamo al Compendio. Quando potrebbe essere pronto?
    RATZINGER: Difficile fare previsioni. Anche perché dovremo preparare un testo che poi dovremo sottoporre alla valutazione di tutti i cardinali del Sacro Collegio e di tutti i presidenti delle Conferenze episcopali; un’operazione, quest’ultima, che richiede almeno sei mesi. Comunque, se tutto va bene, il Compendio dovrebbe essere pronto in due anni.


    Una volta pubblicato dovrà essere normativo per tutti i Catechismi delle Conferenze episcopali?
    RATZINGER: Il testo sarà normativo per quel che riguarda i contenuti dottrinali, che sono quelli del Catechismo del 1992. Mentre offrirà dei suggerimenti riguardo al metodo, visto che in questo campo deve essere lasciata una grande libertà perché i contesti sociali e culturali nell’orbe cattolico sono molto diversi tra di loro. Fatti salvi i contenuti essenziali della fede, una certa flessibilità metodologica è sempre necessaria nella catechesi.


    Dovrà essere usato anche nei seminari e nelle facoltà teologiche?
    RATZINGER: Il Compendio sarà utile per la catechesi parrocchiale, di gruppi di preghiera, di movimenti ecclesiali. Per i seminari e le facoltà teologiche è importante fare riferimento al “grande” Catechismo del 1992. In questi ambienti dovrebbero già avere assimilato quello che verrà pubblicato nel Compendio…


    Il Catechismo del 1992 è stato venduto in milioni di copie. Ma è stato effettivamente utilizzato poi per la composizione di catechismi nazionali?
    RATZINGER: Negli Stati Uniti nessun catechismo e nessun libro catechistico può essere pubblicato se non è provata la concordanza col Catechismo del 1992. In alcuni Paesi asiatici, come ad esempio in India, è usato nei college come il libro di riferimento per conoscere la dottrina cattolica. In altri Paesi questo non è accaduto. Forse ilCatechismo del 1992, come succede per tanti libri, è stato più venduto che letto… Forse poteva essere più utilizzato. Credo comunque che abbia avuto una sua forza nel concretizzare il cammino dottrinale e pastorale di questo ultimo decennio.


    Questo Compendio sarà rivolto a chi ha già incontrato il fatto cristiano?
    RATZINGER: Questo Compendio, come il Catechismo del 1992, è rivolto soprattutto ai vescovi, ai sacerdoti, ai catechisti, ai maestri e agli annunciatori della fede. Dobbiamo tenere sempre presente però quello che ci dice san Paolo, e cioè che la fede non viene dalla lettura ma dall’ascolto. Nello stesso Catechismo del 1992 è spiegato poi che il cristianesimo non è una religione del libro. La fede si trasmette personalmente, non attraverso la lettura del Catechismo. Lettura che può essere utile anche ai non cristiani che desiderano informarsi su quello che crede e insegna la Chiesa cattolica.


    Nel Compendio verranno trattate anche questioni dibattute, come la pena di morte, o tristemente di attualità, come la dottrina della “guerra giusta”?
    RATZINGER: Tutti i contenuti essenziali della catechesi dovranno trovare posto nel Compendio. Compresi i temi da lei citati, che furono i più discussi nella Commissione che preparò il Catechismo del 1992. Si tratta di temi di morale cristiana di grande importanza. E nel Compendio devono trovare spazio non solo temi di morale individuale, ma anche questi temi di morale pubblica.


    Riguardo a questi due temi, pena di morte e guerra giusta, è possibile che ci siano degli sviluppi rispetto a come sono stati trattati nel 1992?
    RATZINGER: In effetti sulla questione della pena di morte tra la prima edizione del Catechismo 1992 e la sua editio typica in latino uscita nel 1997, c’è stata una evoluzione notevole. La sostanza è rimasta identica, ma la strutturazione degli argomenti si è sviluppata in senso restrittivo. Non escludo che su questi temi ci possano essere delle variazioni nel tipo di argomentazioni e che nelle proporzioni dei diversi aspetti dei problemi ci possano essere delle variazioni. Escluderei cambiamenti radicali.

    Il cardinale Ratzinger prende possesso 
del titolo della diocesi suburbicaria di Ostia, che spetta di diritto al decano del Sacro Collegio, il 16 marzo 2003

    Il cardinale Ratzinger prende possesso del titolo della diocesi suburbicaria di Ostia, che spetta di diritto al decano del Sacro Collegio, il 16 marzo 2003


    Eminenza, una domanda di attualità, in qualche modo inerente al Catechismo. La guerra angloamericana all’Iraq rientra nei canoni della “guerra giusta”?
    RATZINGER: Il Papa ha espresso con grande chiarezza il suo pensiero, non solo come pensiero individuale, ma come pensiero di un uomo di coscienza nelle funzioni più alte della Chiesa cattolica. Certo, non ha imposto questa posizione come dottrina della Chiesa, ma come appello di una coscienza illuminata dalla fede. Questo giudizio del Santo Padre è convincente anche da un punto di vista razionale: non esistevano motivi sufficienti per scatenare una guerra contro l’Iraq. Innanzitutto fin dall’inizio è stato chiaro che non era garantita la proporzionalità tra le possibili conseguenze positive e i sicuri effetti negativi del conflitto. Al contrario, sembra chiaro che le conseguenze negative saranno superiori a quanto di positivo si potrà ottenere. Senza contare poi che dovremmo cominciare a domandarci se al giorno d’oggi, con le nuove armi che permettono distruzioni che vanno ben al di là dei gruppi combattenti, sia ancora lecito ammettere l’esistenza stessa di una “guerra giusta”.


    In un suo editoriale sulla Stampa Barbara Spinelli ha elogiato la posizione contro la guerra in Iraq di Giovanni Paolo II, ispirata al «realismo cristiano»…
    RATZINGER: Quando affermavo che la posizione del Papa non è questione di dottrina della fede ma è frutto di un giudizio di una coscienza illuminata, e che ha una sua evidenza razionale, volevo dire proprio questo. Si tratta di una posizione di realismo cristiano che, senza dottrinalismi, valuta i fattori della realtà avendo presente la dignità della persona umana come valore altissimo da rispettare.


    Da ambo le parti del conflitto non sono mancate ripetute invocazioni ad Allah e a Dio…
    RATZINGER: Mi sembra triste questo linguaggio. Si tratta di un abuso del nome di Dio. Nessuna delle due parti può a ragione affermare di fare quello che sta facendo in nome di Dio. Il Santo Padre ha sottolineato tante volte che la violenza non può mai essere usata nel nome di Dio. Visto che abbiamo parlato del catechismo è bene ricordare quello che ci intima il secondo comandamento: «Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio».


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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 07/12/2012 21:00
    Cantalamessa




    Prima Predica di Avvento 2012 - P. Raniero Cantalamessa

    1. Il libro “mangiato”

    Nella predicazione alla Casa Pontificia, cerco di farmi guidare, nella scelta dei temi, dalle grazie o dalle ricorrenze speciali che la Chiesa vive in un dato momento della sua storia. Di recente abbiamo avuto l’apertura dell’anno della fede, il cinquantesimo anniversario del concilio Vaticano II e il Sinodo per l’eva...
    ngelizzazione e la trasmissione della fede cristiana. Ho pensato perciò di svolgere in Avvento una riflessione su ognuno di questi tre eventi.

    Comincio con l’anno della fede. Per non smarrirmi in un tema, la fede, che è vasto come il mare, mi concentro su un punto della lettera “Porta fidei” del Santo Padre, precisamente là dove esorta caldamente a fare del Catechismo della Chiesa Cattolica (di cui, tra l’altro, ricorre quest’anno il ventesimo anniversario di pubblicazione) lo strumento privilegiato per vivere fruttuosamente la grazia di questo anno.

    Scrive il papa nella sua lettera:

    “L’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede”[1].

    Non parlerò certo del contenuto del CCC, delle sue ripartizioni, criteri informativi; sarebbe come voler spiegare la Divina Commedia a Dante Alighieri. Piuttosto vorrei sforzarmi di mostrare come fare perché questo libro, da strumento muto, come un violino di pregio posato su un panno di velluto, si trasformi in strumento che suona e scuote i cuori. La passione secondo Matteo di Bach rimase per più di un secolo una partitura scritta, conservata in archivi musicali, finché nel 1829 Felix Mendelssohn ne allestì a Berlino una esecuzione magistrale e da quel giorno il mondo seppe che melodie e cori sublimi erano racchiusi in quelle pagine rimaste fino allora mute.

    Sono realtà diverse, è vero, ma qualcosa del genere avviene con ogni libro che parla della fede, compreso il CCC: si deve passare dalla partitura all’esecuzione, dalla pagina muta a qualcosa di vivo che fa vibrare l’anima. La visione di Ezechiele della mano tesa che porge un rotolo ci aiuta a capire cosa si richiede perché questo avvenga:
    “Io guardai, ed ecco una mano stava stesa verso di me, la quale teneva il rotolo di un libro; lo srotolò davanti a me; era scritto di dentro e di fuori, e conteneva lamentazioni, gemiti e guai. Egli mi disse: «Figlio d’uomo, mangia ciò che trovi; mangia questo rotolo, e va’ e parla alla casa d’Israele». Io aprii la bocca, ed egli mi fece mangiare quel rotolo. Mi disse: «Figlio d’uomo, nùtriti il ventre e riempiti le viscere di questo rotolo che ti do». Io lo mangiai, e in bocca mi fu dolce come del miele” (Ez 2,9-3,3).

    Il Sommo Pontefice è la mano che, in quest’anno, porge di nuovo alla Chiesa il CCC, dicendo a ogni cattolico: “Prendi questo libro, mangialo, riempitene le viscere”. Che significa mangiare un libro? Non solo studiarlo, analizzarlo, memorizzarlo, ma farlo carne della propria carne e sangue del proprio sangue, “assimilarlo”, come si fa materialmente con il cibo che mangiamo. Trasformarlo da fede studiata in fede vissuta. [SM=g1740721]

    Questo non è possibile farlo con tutta la mole del libro, e con tutte e singole le cose in esso contenute. Non è possibile farlo analiticamente, ma solo sinteticamente. Mi spiego. Bisogna cogliere il principio che informa e unifica il tutto, insomma il cuore pulsante del CCC. E cos’è questo cuore? Non è un dogma, o una verità, una dottrina o un principio etico; è una persona: Gesù Cristo! “Pagina dopo pagina –scrive il Santo Padre a proposito del CCC, nella stessa lettera apostolica – si scopre che quanto viene presentato non è una teoria, ma l’incontro con una Persona che vive nella Chiesa”.

    Se tutta la Scrittura, come afferma Gesù stesso, parla di lui (cf. Gv 5,39), se essa è gravida di Cristo e si riassume tutta quanta in lui, potrebbe essere diversamente per il CCC che, della stessa Scrittura, vuole essere una esposizione sistematica, elaborata dalla Tradizione, sotto la guida del Magistero?

    Nella Parte prima, dedicata alla fede, il CCC ricorda il grande principio di san Tommaso d’Aquino secondo cui “l’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà” (Fides non terminatur ad enunciabile sed ad rem”)[2]. Ora, qual è la realtà, la “cosa” ultima della fede? Dio, certamente! Non, però, un dio qualsiasi che ognuno si raffigura a suo gusto e piacimento, ma il Dio che si è rivelato in Cristo, che si “identifica” con lui al punto di poter dire: “Chi vede me vede il Padre” e “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).

    Quando diciamo fede “in Gesù Cristo” non stacchiamo il Nuovo dall’Antico Testamento, non facciamo iniziare la vera fede con la venuta in terra di Cristo. Se così fosse, escluderemmo dal numero dei credenti lo stesso Abramo che chiamiamo “nostro padre nella fede” (cf. Rom 4,16). Identificando il Padre suo con “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Mt 22, 32) e con il Dio “della legge e dei profeti” (Mt 22, 40), Gesù ha autenticato la fede ebraica, ne ha mostrato il carattere profetico, affermando che è di lui che essi parlavano (cf. Lc 24, 27. 44; Gv 5, 46). È questo che rende la fede ebraica diversa, agli occhi dei cristiani, da ogni altra fede e che giustifica la statuto speciale di cui gode, dopo il Concilio Vaticano II, il dialogo con gli ebrei rispetto a quello con altre religioni.


    2. Kerygma e didachè

    All’inizio della Chiesa era chiara la distinzione tra kerygma e didaché. Il kerygma, che Paolo chiama anche “il vangelo”, riguardava l’opera di Dio in Cristo Gesù, il mistero pasquale di morte e risurrezione, e consisteva in formule brevi di fede, come quella che si deduce dal discorso di Pietro il giorno di Pentecoste: “Voi l’avete crocifisso, Dio l’ha risuscitato e lo ha costituito Signore” (cf. Atti 2, 23-36), oppure: “Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Rom 10,9).

    La didaché indicava invece l’insegnamento successivo alla venuta alla fede, lo sviluppo e la formazione completa del credente. Si era convinti (Paolo soprattutto) che la fede, come tale, sbocciava solo in presenza del kerygma. Esso non era un riassunto della fede o una parte di essa, ma il seme da cui nasce tutto il resto. Anche i 4 Vangeli furono scritti dopo, precisamente per spiegare il kerygma.
    Anche il più antico nucleo del credo riguardava Cristo, di cui metteva in luce la duplice componente, umana e divina. Un esempio di esso è ritenuto il versetto della Lettera ai Romani che parla di Cristo “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti” (Rom 1,3-4). Ben presto questo nucleo primitivo, o credo cristologico, venne inglobato in un contesto più ampio, come il secondo articolo del simbolo di fede. Nascono, anche per esigenze legate al battesimo, i simboli trinitari giunti fino a noi.

    Questo processo fa parte di quello che Newman chiama “lo sviluppo della dottrina cristiana”; è un arricchimento, non un allontanamento dalla fede originaria. Sta a noi oggi –in primo luogo ai vescovi, ai predicatori, ai catechisti – far risaltare il carattere “a parte” del kerygma come momento germinativo della fede. In un’opera lirica, per riprendere l’immagine musicale, c’è il recitativo e c’è il cantato e nel cantato ci sono gli “acuti” che scuotono l’uditorio e provocano emozioni forti, a volte anche brividi. Ora sappiamo qual è l’acuto di ogni catechesi.
    La nostra situazione è tornata ad essere la stessa del tempo degli apostoli. Essi avevano davanti a sé un mondo precristiano da evangelizzare; noi abbiamo davanti a noi, almeno per certi versi e in certi ambienti, un mondo post-cristiano da rievangelizzare. Dobbiamo ritornare al loro metodo, riportare alla luce “la spada dello Spirito” che è l’annuncio, in Spirito e potenza, di Cristo morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione (cf. Rom 4,25).
    Il kerygma non è però solo l’annuncio di alcuni fatti o verità di fede ben precisi; è anche un certo clima spirituale che si può creare qualunque cosa si dica, uno sfondo sul quale tutto si colloca. Sta all’annunciatore, mediante la sua fede, permettere allo Spirito Santo di creare questa atmosfera.
    Qual è allora, ci chiediamo, il senso del CCC? Lo stesso di quello che nella chiesa apostolica era la didachè: formare la fede, darle un contenuto, mostrarne le esigenze etiche e pratiche, portare la fede a rendersi “operante nella carità” (cf. Gal 5,6). Lo mette bene in luce un paragrafo dello stesso CCC. Dopo aver ricordato il principio tomistico che “la fede non termina nelle formulazioni, ma nella realtà”, esso aggiunge:
    “Tuttavia, queste realtà noi le accostiamo con l’aiuto delle formulazioni della fede. Esse ci permettono di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla e di viverne più intensamente”[3].

    In questo appare l’importanza della terza “C” del titolo “Catechismo della Chiesa Cattolica”, cioè dell’aggettivo “cattolica”.
    La forza di alcune Chiese non cattoliche è di puntare tutto sul momento iniziale, la venuta alla fede, l’adesione al kerygma e l’accettazione di Gesù come Signore, visto come un “nascere di nuovo”, o come “seconda conversione”. Ma questo può divenire un limite se ci si ferma ad esso e tutto continua a ruotare intorno ad esso.

    Noi cattolici abbiamo da imparare qualcosa da tali chiese, ma abbiamo anche tanto da dare. Nella Chiesa cattolica tutto ciò è l’inizio, non la fine della vita cristiana. Dopo quella decisione, si apre il cammino verso la crescita e la pienezza della vita cristiana e, grazie alla sua ricchezza sacramentale, al magistero, all’esempio di tanti santi, la chiesa cattolica è in una situazione privilegiata per condurre i credenti alla perfezione della vita di fede. Scrive il papa nella citata lettera “Porta fidei”:
    “Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede”.


    3. L’unzione della fede

    Ho parlato del kerygma come dell’”acuto” della catechesi. Ma per produrre questo acuto non basta alzare il tono della voce, occorre altro. “Nessuno può dire: ‘Gesù è il Signore!’ [è questo l’acuto per eccellenza!] se non nello Spirito Santo” (1 Cor 15,3). L’evangelista Giovanni fa una applicazione del tema dell’unzione che si rivela particolarmente attuale in questo anno della fede. Scrive:
    “Quanto a voi, avete ricevuto l’unzione dal Santo e tutti avete conoscenza […]. L’unzione che avete ricevuta da lui rimane in voi, e non avete bisogno dell’insegnamento di nessuno; ma siccome la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera, e non è menzogna, rimanete in lui come essa vi ha insegnato” (1 Gv 2, 20.27).
    L’autore di questa unzione è lo Spirito Santo, come si deduce dal fatto che altrove la funzione di “insegnare ogni cosa” è attribuita al Paraclito come “Spirito di verità” (Gv 14, 26). Si tratta, come scrivono diversi Padri, di una “unzione della fede”: “L’unzione che viene dal Santo –scrive Clemente Alessandrino – si realizza nella fede”; “L’unzione è la fede in Cristo”, dice un altro scrittore della stessa scuola[4].
    Nel suo commento, Agostino rivolge, a questo proposito, una domanda all’evangelista. Perché, dice, hai scritto la tua lettera, se quelli ai quali ti rivolgevi avevano ricevuto l’unzione che insegna ogni cosa e non avevano bisogno che alcuno li istruisse? Perché questo stesso nostro parlare e istruire i fedeli? Ed ecco la sua risposta, basata sul tema del maestro interiore:
    “Il suono delle nostre parole percuote l’orecchio, ma il vero maestro sta dentro […] Io ho parlato a tutti, ma coloro dentro i quali non parla quell’unzione, quelli che lo Spirito non istruisce internamente, se ne vanno via senza avere nulla appreso […]. È dunque interiore il maestro che veramente istruisce; è Cristo, è la sua ispirazione ad istruire”[5].

    C'E' DUNQUE BISOGNO DI ISTRUZIONE DALL'ESTERNO, C'E' BISOGNO DI MAESTRI, MA LA LORO VOCE PENETRA NEL CUORE SOLO SE AD ESSA SI AGGIUNGE QUELLA INTERIORE DELLO SPIRITO. NOI SIAMO TESTIMONI DI QUESTE COSE E ANCHE LO SPIRITO SANTO CHE DIO HA DATO A QUELLI CHE UBBIDISCONO (At 5,32). CON QUESTE PAROLE PRONUNCIATE DAVANTI AL SINEDRIO, L'APOSTOLO PIETRO NON SOLO AFFERMA LA NECESSITA' DELLA TESTIMONIANZA INTERIORE DELLO SPIRITO, MA INDICA ANCHE QUAL'E' LA CONDIZIONE PER RICEVERLA: LA DISPONIBILITA' AD OBBEDIRE, A SOTTOMETTERSI ALLA PAROLA.

    È l’unzione dello Spirito che fa passare dalle enunciazioni di fede alla loro realtà. È un tema caro all’evangelista Giovanni quello del credere che è anche conoscere: “Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4,16). “Noi abbiamo conosciuto e creduto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 69). “Conoscere”, in questo caso, come in genere in tutta la Scrittura, non significa quello che significa per noi oggi e cioè avere l’idea o il concetto di una cosa. Significa sperimentare, entrare in relazione con la cosa o con la persona [6]. L’affermazione della Vergine: “Non conosco uomo”, non voleva certo dire non so cos’è un uomo…

    Fu un caso di evidente unzione della fede quello che Pascal sperimentò nella notte del 23 Novembre 1654 e che fissò con brevi frasi esclamative in uno scritto trovato dopo la morte cucito all’interno della sua giacca:
    “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo […]. Lo si trova soltanto per le vie del Vangelo. […]. Gioia, gioia. Gioia, lacrime di gioia. […] Questa è la vita eterna, che essi conoscano te, solo vero Dio e colui che hai mandato: Gesù Cristo”[7].
    L’unzione della fede avviene di solito quando, su una parola di Dio o su una affermazione di fede, cade improvvisamente l’illuminazione dello Spirito Santo, accompagnata di solito da una forte emozione. Ricordo che un anno, nella festa di Cristo Re, ascoltavo nella prima lettura della Messa la profezia di Daniele sul Figlio dell’uomo:
    “Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo; egli giunse fino al vegliardo e fu fatto avvicinare a lui; gli furono dati dominio, gloria e regno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servissero. Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto” (Dan 7,13-14).

    Il Nuovo Testamento, si sa, ha visto realizzata la profezia di Daniele in Gesù; lui stesso davanti al sinedrio la fa sua (cf. Mt 26, 64); una frase del testo è entrata perfino nel credo (“cuius regnum non erit finis”). Io conoscevo, dai miei studi, tutto questo, ma in quel momento era un’altra cosa. Era come se la scena si svolgesse lì, sotto i miei occhi. Sì, quel figlio dell’uomo che si avanzava era proprio lui, Gesù. Tutti i dubbi e le spiegazioni alternative degli studiosi, che pure conoscevo, mi sembravano, in quel momento, semplici pretesti per non credere. Sperimentavo, senza saperlo, l’unzione della fede.

    Un’altra volta (credo di aver condiviso già in passato questa esperienza che però aiuta a capire) assistevo alla Messa di Mezzanotte presieduta da Giovanni Paolo II in San Pietro. Arrivò il momento del canto della Kalenda, cioè la solenne proclamazione della nascita del Salvatore, presente nell’antico Martirologio e reintrodotta nella liturgia natalizia dopo il Vaticano II:
    “Molti secoli dalla creazione del mondo…
    Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…
    Nella centonovantacinquesima Olimpiade,
    Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…
    Nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Augusto,
    Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fatto uomo”.

    Giunti a queste ultime parole provai una improvvisa chiarezza interiore, per cui ricordo che dicevo tra me: “È vero! È tutto vero questo che si canta! Non sono soltanto parole. L’eterno entra nel tempo. L’ultimo avvenimento della serie ha rotto la serie; ha creato un “prima” e un “dopo” irreversibili; il computo del tempo che prima avveniva in relazione a diversi avvenimenti (olimpiade tale, regno del tale), ora avviene in relazione a un unico avvenimento”: prima di lui, dopo di lui. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire: “Grazie, Santissima Trinità, e grazie anche a te, Santa Madre di Dio!”.
    L’unzione dello Spirito Santo produce anche un effetto, per così dire, “collaterale” nell’annunciatore: gli fa sperimentare la gioia di proclamare Gesù e il suo Vangelo. Trasforma l’evangelizzazione da incombenza e dovere, in un onore e un motivo di vanto. È la gioia che conosce bene il messaggero che reca a una città assediata l’annuncio che l’assedio è stato tolto, o l’araldo che nell’antichità correva avanti a portare al popolo l’annuncio di una vittoria decisiva ottenuta sul campo dal proprio esercito. La “lieta notizia”, prima ancora che chi la riceve, rende lieto chi la reca.

    La visione di Ezechiele del rotolo mangiato si è realizzata una volta nella storia in senso anche letterale e non solo metaforico. È stato quando il rotolo delle parole di Dio si è racchiuso in una sola Parola, il Verbo. Il Padre l’ha porto a Maria; Maria lo ha accolto, se ne è riempita, anche fisicamente, le viscere, e poi l’ha dato al mondo, lo ha “proferito” partorendolo. Lei è il modello di ogni evangelizzatore e di ogni catechista. Ci insegna a riempirci di Gesù per darlo agli altri. Maria ha concepito Gesù “per opera dello Spirito Santo” e così deve essere anche di ogni annunciatore.

    Il Santo Padre conclude la sua lettera di indizione dell’anno della fede con un richiamo alla Vergine: “Affidiamo, scrive, alla Madre di Dio, proclamata “beata” perché “ha creduto” (Lc 1,45), questo tempo di grazia”[8]. A lei chiediamo di ottenerci la grazia di sperimentare, in questo anno, tanti momenti di unzione della fede. “Virgo fidelis, ora pro nobis”. Vergine credente, prega per noi.

    [1] Benedetto XVI, Lett. apost. “Porta fidei”, n.11
    [2] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 1,2,ad 2; cit. in CCC, n.170.
    [3] CCC, n. 170
    [4] Clemente Al. Adumbrationes in 1 Johannis (PG 9, 737B); Homéliies paschales (SCh 36, p.40): testi citati da I. de la Potterie, L’unzione del cristiano con la fede, in Biblica 40, 1959, 12-69.
    [5] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni 3,13 (PL 35, 2004 s).
    [6] Cf. C.H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo, Brescia, Paideia1974, pp. 195 s.
    [7] B. Pascal, Memoriale, ed. Brunschvicg.
    [8] “Porta fidei”, nr. 15.


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 09/01/2013 12:24

    20 anni del Catechismo: Papa e vescovi unici interpreti del deposito della fede

    Dopo la pausa delle festività natalizie e di inizio anno, torna il ciclo di riflessioni del gesuita, padre Dariusz Kowalczyk, dedicate ai 20 anni dalla pubblicazione de Catechismo della Chiesa Cattolica. Nella nona puntata, il religioso si sofferma sull’interpretazione del deposito della fede, affidata al magistero del Papa e dei vescovi:


    La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura, che sono due modi di trasmettere la Rivelazione divina, non costituiscono delle realtà fisse ma, in quanto affidate alla comunità della Chiesa, sono realtà custodite, praticate e professate in modi sempre nuovi e allo stesso tempo fedeli all’insegnamento degli Apostoli. Tale fedeltà, per non ripetere le stesse formule senza comprendere il loro significato, esige un’interpretazione continua. Dobbiamo quindi compiere lo sforzo di esprimere il mistero della fede in un linguaggio sempre più adeguato.


    L’interpretazione della Sacra Scrittura e della Sacra Tradizione non cambia la validità dei dogmi ma – al contrario – costituisce una condizione sine qua non di una fedele traduzione del Credo in ogni epoca e in ogni generazione e cultura. Il Catechismo, al numero 85, ci ricorda che “l’ufficio di interpretare la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa”, cioè ai vescovi in comunione con il Papa. Il Magistero però non si pone al di sopra della Parola di Dio, ma invece la serve, l’ascolta, la custodisce e la espone. Si può dire che il servizio del Magistero è la realizzazione concreta della promessa di Gesù: “Lo Spirito di verità vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16,13).


    L’assistenza dello Spirito Santo non si realizza in modo democratico come se la verità rivelata potesse essere ridotta alle opinioni umane di maggioranza. Lo Spirito agisce in tutta la Chiesa, ma in momenti opportuni si esprime precisamente in quanto possibile attraverso il Magistero della Chiesa. Non cerchiamo dunque di costruirci una fede a nostro piacimento, conforme alla nostra visione, ma ricordiamoci le parole pronunciate da Cristo ai suoi Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16)



    **************

    [SM=g1740771]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 18/05/2013 09:58
    L'incontro di Papa Francesco con i movimenti ecclesiali

    Come mendicanti della fede

    di Julián Carrón

    Il 18 maggio il Papa convoca tutti i movimenti e le nuove comunità per un grande gesto di preghiera, per invocare dallo Spirito di Cristo il dono della Sua presenza che colma il nostro bisogno sconfinato. Noi siamo un movimento e vogliamo essere parte di questa Chiesa radunata da Papa Francesco.

    Cosa significa questa chiamata per ciascuno di noi? È un'occasione bellissima e preziosa per dire di nuovo che il Papa è importante per noi, perché è il punto storico che Cristo ci ha dato, sul quale il male e la confusione non prevarranno. Per questo andiamo da lui come mendicanti, per essere sostenuti e confermati nella fede. Perché il pellegrinaggio non sia un gesto formale, o semplicemente "pio" e "devoto", dobbiamo comprenderne l'implicazione esistenziale. Vedendo che la confusione domina ovunque intorno a noi, domandiamoci: perché in noi non vince la confusione?
    La ragione non è legata al fatto di essere più bravi o più intelligenti o più coerenti degli altri; non è per questo che noi non siamo confusi, ma perché ci troviamo in continuazione davanti a un Fatto irriducibile che ci libera costantemente dal disorientamento generale.

    Noi andiamo dal Papa nell'Anno della fede, e proprio questa circostanza ci dice qual è il discriminante della fede cattolica: l'esistenza di un punto storico, oggettivo, non prodotto dalla nostra immaginazione, un punto reale che ci salva dal festival delle interpretazioni, e quindi dalla confusione.
    Andare a Roma è per ciascuno di noi l'occasione per riscoprire la portata di questo Fatto irriducibile e il nostro legame con Papa Francesco. Possiamo vivere questo gesto formalisticamente, e allora incomincia a vincere in noi l'aridità, il deserto; oppure possiamo viverlo implicati nella realtà a partire da questa presenza irriducibile, e allora comincia a vincere l'interesse, la curiosità, la sorpresa; solo questo fa la differenza.

    Il Papa ci spinge costantemente a vivere la fede come testimonianza: "Non si può annunciare il Vangelo di Gesù senza la testimonianza concreta della vita". Ma ci avverte che questo è possibile solo "se riconosciamo Gesù Cristo, perché è Lui che ci ha chiamati, ci ha invitati a percorrere la sua strada, ci ha scelti. Annunciare e testimoniare è possibile solo se siamo vicini a Lui, proprio come Pietro, Giovanni e gli altri discepoli" (Omelia nella basilica di San Paolo fuori le Mura, 14 aprile 2013).



    (L'Osservatore Romano 18 maggio 2013)


    [SM=g1740758]  ricordiamo anche come Papa Francesco abbia insistito anche lui nell'ultima udienza, sull'importanza del Catechismo e dei Sacramenti....

    In quest’Anno della fede chiediamoci se concretamente abbiamo fatto qualche passo per conoscere di più Cristo e le verità della fede, leggendo e meditando la Sacra Scrittura, studiando il Catechismo, accostandosi con costanza ai Sacramenti. Ma chiediamoci contemporaneamente quali passi stiamo facendo perché la fede orienti tutta la nostra esistenza. Non si è cristiani “a tempo”, soltanto in alcuni momenti, in alcune circostanze, in alcune scelte. Non si può essere cristiani così, si è cristiani in ogni momento! Totalmente! La verità di Cristo, che lo Spirito Santo ci insegna e ci dona, interessa per sempre e totalmente la nostra vita quotidiana.

    [SM=g1740733]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 19/05/2013 16:44
    INCONTRO CON I MOVIMENTI VIGILIA DI PENTECOSTE

    Alle 17 e 30 del 18 maggio l’arrivo di Papa Francesco nella piazza.
    Non un intervento scritto, ma la risposta a braccio a quattro domande.


    Alla prima: "Come ha potuto raggiungere Lei nella Sua vita la certezza sulla fede?" Il Papa risponde:

    Ho ricevuto il primo annuncio cristiano proprio dalla mia nonna, no?, è bellissimo, quello! Il primo annuncio in casa, con la famiglia, no? E questo mi fa pensare all’amore di tante mamme e tante nonne, nella trasmissione della fede.
    Noi non troviamo la fede un po’ nell’astratto, no: sempre è una persona che predica, che ci dice chi è Gesù, ti da la fede, ti da il primo annuncio... E questa esperienza della fede è importante. Noi diciamo che dobbiamo cercare Dio, andare da Lui a chiedere perdono … ma quando noi andiamo, Lui ci aspetta, Lui è prima! …. Voi parlavate della fragilità della fede: come si fa per vincerla. Il nemico più grande che ha la fragilità, è curioso, eh?, è la paura. Ma non abbiate paura! Siamo fragili, ma lo sappiamo. Ma Lui è più forte"
    !


    Come possiamo comunicare in modo efficace la fede oggi? E’ la seconda domanda:

    "Dirò tre parole soltanto. Primo: Gesù. Chi è la cosa più importante? Gesù. Se noi andiamo avanti con l'organizzazione, con altre cose, con belle cose pure, ma senza Gesù, non andiamo, la cosa non va. La seconda parola è la preghiera. Guardare il volto di Dio, ma soprattutto, e questo è collegato con quello che ho detto prima, sentirsi guardati. La terza è la testimonianza".

    Alla domanda: “Come possiamo vivere una Chiesa povera e per i poveri? Quale contributo possiamo dare per affrontare la grave crisi di oggi? Papa Francesco risponde che vivere il Vangelo è il primo contributo che possiamo dare:

    "La Chiesa non è un movimento politico, né una struttura ben organizzata, ma, come dice Gesù, è sale della terra e luce del mondo, è chiamata a rendere presente nella società il lievito del Regno di Dio; e lo fa prima di tutto con la testimonianza dell’amore fraterno, della solidarietà, della condivisione".

      segue il testo integrale....




    PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO

    Piazza San Pietro
    Sabato, 18 maggio 2013

    [Video]

     

    Domanda 1

    “La verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana, annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”. Santo Padre, queste Sue parole ci hanno profondamente colpito: esse esprimono in maniera diretta e radicale l’esperienza che ciascuno di noi desidera vivere soprattutto nell’Anno della fede e in questo pellegrinaggio che stasera ci ha portato qui. Siamo davanti a Lei per rinnovare la nostra fede, per confermarla, per rafforzarla. Sappiamo che la fede non può essere una volta per tutte. Come diceva Benedetto XVI nella Porta fidei: “la fede non è un presupposto ovvio”. Questa affermazione non riguarda soltanto il mondo, gli altri, la tradizione da cui veniamo: questa affermazione riguarda innanzitutto ciascuno di noi. Troppe volte ci rendiamo conto di come la fede sia un germoglio di novità, un inizio di cambiamento, ma stenti poi a investire la totalità della vita. Non diventa l’origine di tutto il nostro conoscere e agire.

    Santità, come Lei ha potuto raggiungere nella Sua vita la certezza sulla fede?

    E quale strada ci indica perché ciascuno di noi possa vincere la fragilità della fede?

    Domanda 2

    Padre Santo, la mia è una esperienza di vita quotidiana come tante. Cerco di vivere la fede nell’ambiente di lavoro a contatto con gli altri come testimonianza sincera del bene ricevuto nell’incontro con il Signore. Sono, siamo “pensieri di Dio”, investiti da un Amore misterioso che ci ha dato la vita. Insegno in una scuola e questa coscienza mi dà il motivo per appassionarmi ai miei ragazzi e anche ai colleghi. Verifico spesso che molti cercano la felicità in tanti itinerari individuali in cui la vita e le sue grandi domande spesso si riducono al materialismo di chi vuole avere tutto e resta perennemente insoddisfatto o al nichilismo per cui nulla ha senso. Mi chiedo come la proposta della fede, che è quella di un incontro personale, di una comunità, di un popolo, possa raggiungere il cuore dell’uomo e della donna del nostro tempo. Siamo fatti per l’infinito -“giocate la vita per cose grandi!” ha detto Lei recentemente -, eppure tutto attorno a noi e ai nostri giovani sembra dire che bisogna accontentarsi di risposte mediocri, immediate e che l’uomo deve adattarsi al finito senza cercare altro. A volte siamo intimiditi, come i discepoli alla vigilia della Pentecoste.

    La Chiesa ci invita alla Nuova Evangelizzazione. Penso che tutti noi qui presenti sentiamo fortemente questa sfida, che è al cuore delle nostre esperienze. Per questo vorrei chiedere a Lei, Padre Santo, di aiutare me e tutti noi a capire come vivere questa sfida nel nostro tempo. Quale è per Lei la cosa più importante cui tutti noi movimenti, associazioni e comunità dobbiamo guardare per attuare il compito cui siamo chiamati? Come possiamo comunicare in modo efficace la fede oggi?

    Domanda 3

    Padre Santo, ho ascoltato con emozione le parole che ha detto all’udienza con i giornalisti dopo la Sua elezione: “Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”. Molti di noi sono impegnati in opere di carità e giustizia: siamo parte attiva di quella radicata presenza della Chiesa lì dove l’uomo soffre. Sono una impiegata, ho la mia famiglia e, come posso, mi impegno personalmente nella vicinanza e nell’aiuto ai poveri. Ma non per questo mi sento a posto. Vorrei poter dire con Madre Teresa: tutto è per Cristo. Il grande aiuto a vivere questa esperienza sono i fratelli e le sorelle della mia comunità che si impegnano per lo stesso scopo. E in questo impegno siamo sostenuti dalla fede e dalla preghiera. Il bisogno è grande. Ce lo ha ricordato Lei: “Quanti poveri ci sono ancora nel mondo e quanta sofferenza incontrano queste persone". E la crisi ha aggravato tutto. Penso alla povertà che affligge tanti Paesi e che si è affacciata anche nel mondo del benessere, alla mancanza di lavoro, ai movimenti migratori di massa, alle nuove schiavitù, all’abbandono e alla solitudine di tante famiglie, di tanti anziani e di tante persone che non hanno casa o lavoro.

    Vorrei chiederle, Padre Santo: come io e tutti noi possiamo vivere una Chiesa povera e per i poveri? In che modo l'uomo sofferente è una domanda per la nostra fede? Noi tutti, come movimenti e associazioni laicali, quale contributo concreto ed efficace possiamo dare alla Chiesa e alla società per affrontare questa grave crisi che tocca l’etica pubblica, il modello di sviluppo, la politica, insomma un nuovo modo di essere uomini e donne?

    Domanda 4

    Camminare, costruire, confessare. Questo Suo “programma” per una Chiesa-movimento, così almeno l’ho inteso sentendo una Sua omelia all’inizio del Pontificato, ci ha confortati e spronati. Confortati, perché ci siamo ritrovati in una unità profonda con gli amici della comunità cristiana e con tutta la Chiesa universale. Spronati, perché in un certo senso Lei ci ha costretto a togliere la polvere del tempo e della superficialità dalla nostra adesione a Cristo. Ma devo dire che non riesco a superare il senso di turbamento che una di queste parole mi provoca: confessare. Confessare, cioè testimoniare la fede. Pensiamo ai tanti nostri fratelli che soffrono a causa di essa, come abbiamo sentito anche poco fa. A chi la domenica mattina deve decidere se andare a Messa perché sa che andando a Messa rischia la vita. A chi si sente accerchiato e discriminato per la fede cristiana in tante, troppe parti del nostro mondo.

    Davanti a queste situazioni ci pare che il mio confessare, la nostra testimonianza sia timida e impacciata. Vorremmo fare di più, ma cosa? E come aiutare questi nostri fratelli? Come alleviare la loro sofferenza non potendo fare nulla, o ben poco, per cambiare il loro contesto politico e sociale?

    Risposte del Santo Padre Francesco

    Buonasera a tutti!

    Sono contento di incontrarvi e che tutti noi ci incontriamo in questa piazza per pregare, per essere uniti e per aspettare il dono dello Spirito. Io conoscevo le vostre domande e ci ho pensato – questo, quindi, non è senza conoscenza! Primo, la verità! Le ho qui, scritte.

    La prima - “come lei ha potuto raggiungere nella sua vita la certezza sulla fede; e quale strada ci indica perché ciascuno di noi possa vincere la fragilità della fede?” - è una domanda storica, perché riguarda la mia storia, la storia della mia vita!

    Io ho avuto la grazia di crescere in una famiglia in cui la fede si viveva in modo semplice e concreto; ma è stata soprattutto mia nonna, la mamma di mio padre, che ha segnato il mio cammino di fede. Era una donna che ci spiegava, ci parlava di Gesù, ci insegnava il Catechismo. Ricordo sempre che il Venerdì Santo ci portava, la sera, alla processione delle candele, e alla fine di questa processione arrivava il “Cristo giacente”, e la nonna ci faceva – a noi bambini – inginocchiare e ci diceva: “Guardate, è morto, ma domani risuscita”. Ho ricevuto il primo annuncio cristiano proprio da questa donna, da mia nonna! E’ bellissimo, questo! Il primo annuncio in casa, con la famiglia! E questo mi fa pensare all’amore di tante mamme e di tante nonne nella trasmissione della fede. Sono loro che trasmettono la fede. Questo avveniva anche nei primi tempi, perché san Paolo diceva a Timoteo: “Io ricordo la fede della tua mamma e della tua nonna” (cfr 2Tm 1,5). Tutte le mamme che sono qui, tutte le nonne, pensate a questo! Trasmettere la fede. Perché Dio ci mette accanto delle persone che aiutano il nostro cammino di fede. Noi non troviamo la fede nell’astratto; no! E’ sempre una persona che predica, che ci dice chi è Gesù, che ci trasmette la fede, ci dà il primo annuncio. E così è stata la prima esperienza di fede che ho avuto.

    Ma c’è un giorno per me molto importante: il 21 settembre del ‘53. Avevo quasi 17 anni. Era il “Giorno dello studente”, per noi il giorno della Primavera – da voi è il giorno dell’Autunno. Prima di andare alla festa, sono passato nella parrocchia dove andavo, ho trovato un prete, che non conoscevo,e ho sentito la necessità di confessarmi. Questa è stata per me un’esperienza di incontro: ho trovato che qualcuno mi aspettava. Ma non so cosa sia successo, non ricordo, non so proprio perché fosse quel prete là, che non conoscevo, perché avessi sentito questa voglia di confessarmi, ma la verità è che qualcuno m’aspettava. Mi stava aspettando da tempo. Dopo la Confessione ho sentito che qualcosa era cambiato. Io non ero lo stesso. Avevo sentito proprio come una voce, una chiamata: ero convinto che dovessi diventare sacerdote. Questa esperienza nella fede è importante. Noi diciamo che dobbiamo cercare Dio, andare da Lui a chiedere perdono, ma quando noi andiamo, Lui ci aspetta, Lui è prima! Noi, in spagnolo, abbiamo una parola che spiega bene questo: “Il Signore sempre ci primerea”, è primo, ci sta aspettando! E questa è proprio una grazia grande: trovare uno che ti sta aspettando. Tu vai peccatore, ma Lui ti sta aspettando per perdonarti. Questa è l’esperienza che i Profeti di Israele descrivevano dicendo che il Signore è come il fiore di mandorlo, il primo fiore della Primavera (cfr Ger 1,11-12). Prima che vengano gli altri fiori, c’è lui: lui che aspetta. Il Signore ci aspetta. E quando noi Lo cerchiamo, troviamo questa realtà: che è Lui ad aspettarci per accoglierci, per darci il suo amore. E questo ti porta nel cuore uno stupore tale che non lo credi, e così va crescendo la fede! Con l’incontro con una persona, con l’incontro con il Signore. Qualcuno dirà: “No, io preferisco studiare la fede nei libri!”. E’ importante studiarla, ma, guarda, questo solo non basta! L’importante è l’incontro con Gesù, l’incontro con Lui, e questo ti dà la fede, perché è proprio Lui che te la dà! Anche voi parlavate della fragilità della fede, come si fa per vincerla. Il nemico più grande che ha la fragilità - è curioso, eh? - è la paura. Ma non abbiate paura! Siamo fragili, e lo sappiamo. Ma Lui è più forte! Se tu vai con Lui, non c’è problema! Un bambino è fragilissimo - ne ho visti tanti, oggi -, ma era con il papà, con la mamma: è al sicuro! Con il Signore siamo sicuri. La fede cresce con il Signore, proprio dalla mano del Signore; questo ci fa crescere e ci rende forti. Ma se noi pensiamo di poterci arrangiare da soli… Pensiamo che cosa è successo a Pietro: “Signore, io mai ti rinnegherò!” (cfr Mt 26,33-35); e poi ha cantato il gallo e l’aveva rinnegato per tre volte! (cfr vv. 69-75). Pensiamo: quando noi abbiamo troppa fiducia in noi stessi, siamo più fragili, più fragili. Sempre con il Signore! E dire con il Signore significa dire con l’Eucaristia, con la Bibbia, con la preghiera… ma anche in famiglia, anche con la mamma, anche con lei, perché lei è quella che ci porta al Signore; è la madre, è quella che sa tutto. Quindi pregare anche la Madonna e chiederle che, come mamma, mi faccia forte. Questo è quello che io penso sulla fragilità, almeno è la mia esperienza. Una cosa che mi rende forte tutti i giorni è pregare il Rosario alla Madonna. Io sento una forza tanto grande perché vado da lei e mi sento forte.

    Passiamo alla seconda domanda.

    “Penso che tutti noi qui presenti sentiamo fortemente la sfida, la sfida della evangelizzazione, che è al cuore delle nostre esperienze. Per questo vorrei chiedere a Lei, Padre Santo, di aiutare me e tutti noi a capire come vivere questa sfida nel nostro tempo, qual è per lei la cosa più importante cui tutti noi movimenti, associazioni e comunità dobbiamo guardare per attuare il compito cui siamo chiamati. Come possiamo comunicare in modo efficace la fede di oggi?”.

    Dirò soltanto tre parole.

    La prima: Gesù. Chi è la cosa più importante? Gesù. Se noi andiamo avanti con l’organizzazione, con altre cose, con belle cose, ma senza Gesù, non andiamo avanti, la cosa non va. Gesù è più importante. Adesso, vorrei fare un piccolo rimprovero, ma fraternamente, tra noi. Tutti voi avete gridato nella piazza “Francesco, Francesco, Papa Francesco”. Ma, Gesù dov’era? Io avrei voluto che voi gridaste: “Gesù, Gesù è il Signore, ed è proprio in mezzo a noi!”. Da qui in avanti, niente “Francesco”, ma “Gesù”!

    La seconda parola è: la preghiera. Guardare il volto di Dio, ma soprattutto – e questo è collegato con quello che ho detto prima – sentirsi guardati. Il Signore ci guarda: ci guarda prima. La mia esperienza è ciò che sperimento davanti al sagrario [Tabernacolo] quando vado a pregare, la sera, davanti al Signore. Alcune volte mi addormento un pochettino; questo è vero, perché un po’ la stanchezza della giornata ti fa addormentare. Ma Lui mi capisce. E sento tanto conforto quando penso che Lui mi guarda. Noi pensiamo che dobbiamo pregare, parlare, parlare, parlare… No! Làsciati guardare dal Signore. Quando Lui ci guarda, ci dà forza e ci aiuta a testimoniarlo - perché la domanda era sulla testimonianza della fede, no? Primo “Gesù”, poi “preghiera” - sentiamo che Dio ci sta tenendo per mano. Sottolineo allora l’importanza di questo: lasciarsi guidare da Lui. Questo è più importante di qualsiasi calcolo. Siamo veri evangelizzatori lasciandoci guidare da Lui. Pensiamo a Pietro; forse stava facendo la siesta, dopo pranzo, e ha avuto una visione, la visione della tovaglia con tutti gli animali, e ha sentito che Gesù gli diceva qualcosa, ma lui non capiva. In quel momento, sono venuti alcuni non-ebrei a chiamarlo per andare in una casa, e ha visto come lo Spirito Santo era laggiù. Pietro si è lasciato guidare da Gesù per giungere a quella prima evangelizzazione ai gentili, che non erano ebrei: una cosa inimmaginabile in quel tempo (cfr At 10,9-33). E così, tutta la storia, tutta la storia! Lasciarsi guidare da Gesù. E’ proprio il leader; il nostro leader è Gesù.

    E terza: la testimonianza. Gesù, preghiera – la preghiera, quel lasciarsi guidare da Lui – e poi testimonianza. Ma vorrei aggiungere qualcosa. Questo lasciarsi guidare da Gesù ti porta alle sorprese di Gesù. Si può pensare che l’evangelizzazione dobbiamo programmarla a tavolino, pensando alle strategie, facendo dei piani. Ma questi sono strumenti, piccoli strumenti. L’importante è Gesù e lasciarsi guidare da Lui. Poi possiamo fare le strategie, ma questo è secondario.

    Infine, la testimonianza: la comunicazione della fede si può fare soltanto con la testimonianza, e questo è l’amore. Non con le nostre idee, ma con il Vangelo vissuto nella propria esistenza e che lo Spirito Santo fa vivere dentro di noi. E’ come una sinergia fra noi e lo Spirito Santo, e questo conduce alla testimonianza. La Chiesa la portano avanti i Santi, che sono proprio coloro che danno questa testimonianza. Come ha detto Giovanni Paolo II e anche Benedetto XVI, il mondo di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita: la coerenza di vita, proprio la coerenza di vita! Una coerenza di vita che è vivere il cristianesimo come un incontro con Gesù che mi porta agli altri e non come un fatto sociale. Socialmente siamo così, siamo cristiani, chiusi in noi. No, questo no! La testimonianza!

    La terza domanda: “Vorrei chiederle, Padre Santo, come io e tutti noi possiamo vivere una Chiesa povera e per i poveri. In che modo l’uomo sofferente è una domanda per la nostra fede? Noi tutti, come movimenti, associazioni laicali, quale contributo concreto ed efficace possiamo dare alla Chiesa e alla società per affrontare questa grave crisi che tocca l’etica pubblica” – questo è importante! – “il modello di sviluppo, la politica, insomma un nuovo modo di essere uomini e donne?”.

    Riprendo dalla testimonianza. Prima di tutto, vivere il Vangelo è il principale contributo che possiamo dare. La Chiesa non è un movimento politico, né una struttura ben organizzata: non è questo. Noi non siamo una ONG, e quando la Chiesa diventa una ONG perde il sale, non ha sapore, è soltanto una vuota organizzazione. E in questo siate furbi, perché il diavolo ci inganna, perché c’è il pericolo dell’efficientismo. Una cosa è predicare Gesù, un’altra cosa è l’efficacia, essere efficienti. No, quello è un altro valore. Il valore della Chiesa, fondamentalmente, è vivere il Vangelo e dare testimonianza della nostra fede. La Chiesa è sale della terra, è luce del mondo, è chiamata a rendere presente nella società il lievito del Regno di Dio e lo fa prima di tutto con la sua testimonianza, la testimonianza dell’amore fraterno, della solidarietà, della condivisione. Quando si sentono alcuni dire che la solidarietà non è un valore, ma è un “atteggiamento primario” che deve sparire… questo non va! Si sta pensando ad un’efficacia soltanto mondana. I momenti di crisi, come quelli che stiamo vivendo – ma tu hai detto prima che “siamo in un mondo di menzogne” –, questo momento di crisi, stiamo attenti, non consiste in una crisi soltanto economica; non è una crisi culturale. E’ una crisi dell’uomo: ciò che è in crisi è l’uomo! E ciò che può essere distrutto è l’uomo! Ma l’uomo è immagine di Dio! Per questo è una crisi profonda! In questo momento di crisi non possiamo preoccuparci soltanto di noi stessi, chiuderci nella solitudine, nello scoraggiamento, nel senso di impotenza di fronte ai problemi. Non chiudersi, per favore! Questo è un pericolo: ci chiudiamo nella parrocchia, con gli amici, nel movimento, con coloro con i quali pensiamo le stesse cose… ma sapete che cosa succede? Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala, si ammala. Pensate ad una stanza chiusa per un anno; quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno. Una Chiesa chiusa è la stessa cosa: è una Chiesa ammalata. La Chiesa deve uscire da se stessa. Dove? Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire. Gesù ci dice: “Andate per tutto il mondo! Andate! Predicate! Date testimonianza del Vangelo!” (cfr Mc 16,15). Ma che cosa succede se uno esce da se stesso? Può succedere quello che può capitare a tutti quelli che escono di casa e vanno per la strada: un incidente. Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite!  Pensate anche a quello che dice l’Apocalisse. Dice una cosa bella: che Gesù è alla porta e chiama, chiama per entrare nel nostro cuore (cfr Ap 3,20). Questo è il senso dell’Apocalisse. Ma fatevi questa domanda: quante volte Gesù è dentro e bussa alla porta per uscire, per uscire fuori, e noi non lo lasciamo uscire, per le nostre sicurezze, perché tante volte siamo chiusi in strutture caduche, che servono soltanto per farci schiavi, e non liberi figli di Dio? In questa “uscita” è importante andare all’incontro; questa parola per me è molto importante: l’incontro con gli altri. Perché? Perché la fede è un incontro con Gesù, e noi dobbiamo fare la stessa cosa che fa Gesù: incontrare gli altri. Noi viviamo una cultura dello scontro, una cultura della frammentazione, una cultura in cui quello che non mi serve lo getto via, la cultura dello scarto. Ma su questo punto, vi invito a pensare – ed è parte della crisi – agli anziani, che sono la saggezza di un popolo, ai bambini… la cultura dello scarto! Ma noi dobbiamo andare all’incontro e dobbiamo creare con la nostra fede una “cultura dell’incontro”, una cultura dell’amicizia, una cultura dove troviamo fratelli, dove possiamo parlare anche con quelli che non la pensano come noi, anche con quelli che hanno un’altra fede, che non hanno la stessa fede. Tutti hanno qualcosa in comune con noi: sono immagini di Dio, sono figli di Dio.

    Andare all’incontro con tutti, senza negoziare la nostra appartenenza.


    E un altro punto è importante: con i poveri. Se usciamo da noi stessi, troviamo la povertà. Oggi – questo fa male al cuore dirlo – oggi, trovare un barbone morto di freddo non è notizia. Oggi è notizia, forse, uno scandalo. Uno scandalo: ah, quello è notizia! Oggi, pensare che tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia. Questo è grave, questo è grave! Noi non possiamo restare tranquilli! Mah… le cose sono così. Noi non possiamo diventare cristiani inamidati, quei cristiani troppo educati, che parlano di cose teologiche mentre prendono il tè, tranquilli. No! Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo, quelli che sono la carne di Cristo! Quando io vado a confessare - ancora non posso, perché per uscire a confessare… di qui non si può uscire, ma questo è un altro problema - quando io andavo a confessare nella diocesi precedente, venivano alcuni e sempre facevo questa domanda: “Ma, lei dà l’elemosina?” – “Sì, padre!”. “Ah, bene, bene”. E gliene facevo due in più: “Mi dica, quando lei dà l’elemosina, guarda negli occhi quello o quella a cui dà l’elemosina?” – “Ah, non so, non me ne sono accorto”. Seconda domanda: “E quando lei dà l’elemosina, tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?”. Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua Incarnazione. Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo. Se noi andiamo verso la carne di Cristo, incominciamo a capire qualcosa, a capire che cosa sia questa povertà, la povertà del Signore. E questo non è facile. Ma c’è un problema che non fa bene ai cristiani: lo spirito del mondo, lo spirito mondano, la mondanità spirituale. Questo ci porta ad una sufficienza, a vivere lo spirito del mondo e non quello di Gesù. La domanda che facevate voi: come si deve vivere per affrontare questa crisi che tocca l’etica pubblica, il modello di sviluppo, la politica. Siccome questa è una crisi dell’uomo, una crisi che distrugge l’uomo, è una crisi che spoglia l’uomo dell’etica. Nella vita pubblica, nella politica, se non c’è l’etica, un’etica di riferimento, tutto è possibile e tutto si può fare. E noi vediamo, quando leggiamo i giornali, come la mancanza di etica nella vita pubblica faccia tanto male all’umanità intera.

    Vorrei raccontarvi una storia. L’ho fatto già due volte questa settimana, ma lo farò una terza volta con voi. E’ la storia che racconta un midrash biblico di un Rabbino del secolo XII. Lui narra la storia della costruzione della Torre di Babele e dice che, per costruire la Torre di Babele, era necessario fare i mattoni. Che cosa significa questo? Andare, impastare il fango, portare la paglia, fare tutto… poi, al forno. E quando il mattone era fatto doveva essere portato su, per la costruzione della Torre di Babele. Un mattone era un tesoro, per tutto il lavoro che ci voleva per farlo. Quando cadeva un mattone, era una tragedia nazionale e l’operaio colpevole era punito; era tanto prezioso un mattone che se cadeva era un dramma. Ma se cadeva un operaio, non succedeva niente, era un’altra cosa. Questo succede oggi: se gli investimenti nelle banche calano un po’… tragedia… come si fa? Ma se muoiono di fame le persone, se non hanno da mangiare, se non hanno salute, non fa niente! Questa è la nostra crisi di oggi! E la testimonianza di una Chiesa povera per i poveri va contro questa mentalità.

    La quarta domanda: “Davanti a queste situazioni, mi pare che il mio confessare, la mia testimonianza sia timida e impacciata. Vorrei fare di più, ma cosa? E come aiutare questi nostri fratelli, come alleviare la loro sofferenza non potendo fare nulla o ben poco per cambiare il loro contesto politico-sociale?”.

    Per annunciare il Vangelo sono necessarie due virtù: il coraggio e la pazienza. Loro [i cristiani che soffrono] sono nella Chiesa della pazienza. Loro soffrono e ci sono più martiri oggi che nei primi secoli della Chiesa; più martiri! Fratelli e sorelle nostri. Soffrono! Loro portano la fede fino al martirio. Ma il martirio non è mai una sconfitta; il martirio è il grado più alto della testimonianza che noi dobbiamo dare. Noi siamo in cammino verso il martirio, dei piccoli martìri: rinunciare a questo, fare questo… ma siamo in cammino. E loro, poveretti, danno la vita, ma la danno – come abbiamo sentito la situazione nel Pakistan – per amore a Gesù, testimoniando Gesù. Un cristiano deve sempre avere questo atteggiamento di mitezza, di umiltà, proprio l’atteggiamento che hanno loro, confidando in Gesù, affidandosi a Gesù. Bisogna precisare che tante volte questi conflitti non hanno un’origine religiosa; spesso ci sono altre cause, di tipo sociale e politico, e purtroppo le appartenenze religiose vengono utilizzate come benzina sul fuoco. Un cristiano deve saper sempre rispondere al male con il bene, anche se spesso è difficile. Noi cerchiamo di far sentire loro, a questi fratelli e sorelle, che siamo profondamente uniti – profondamente uniti! – alla loro situazione, che noi sappiamo che sono cristiani “entrati nella pazienza”. Quando Gesù va incontro alla Passione, entra nella pazienza. Loro sono entrati nella pazienza: farlo sapere a loro, ma anche farlo sapere al Signore. Vi pongo la domanda: pregate per questi fratelli e queste sorelle? Voi pregate per loro? Nella preghiera di tutti i giorni? Io non chiederò ora che alzi la mano colui che prega: no. Non lo chiederò, adesso. Ma pensatelo bene. Nella preghiera di tutti i giorni diciamo a Gesù: “Signore, guarda questo fratello, guarda a questa sorella che soffre tanto, che soffre tanto!”. Loro fanno l’esperienza del limite, proprio del limite tra la vita e la morte. E anche per noi: questa esperienza deve portarci a promuovere la libertà religiosa per tutti, per tutti! Ogni uomo e ogni donna devono essere liberi nella propria confessione religiosa, qualsiasi essa sia. Perché? Perché quell’uomo e quella donna sono figli di Dio.

    E così, credo di avere detto qualcosa sulle vostre domande; mi scuso se sono stato troppo lungo. Grazie tante! Grazie a voi, e non dimenticate: niente di una Chiesa chiusa, ma una Chiesa che va fuori, che va alle periferie dell’esistenza. Che il Signore ci guidi laggiù. Grazie.



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 04/06/2013 15:23
    [SM=g1740722] 8 GIUGNO: VIDEO MESSAGGIO DEL PAPA AI PARTECIPANTI ALL'INIZIATIVA DIECI PIAZZE PER DIECI COMANDAMENTI

    Città del Vaticano, 4 giugno 2013 (VIS). Sabato 8 giugno prossimo, il Santo Padre invierà un video messaggio ai partecipanti all'iniziativa "Dieci piazze per dieci comandamenti", promossa dal movimento "Rinnovamento nello Spirito Santo". Quest'anno la manifestazione avrà inizio alle 20:30, in Piazza del Duomo a Milano (Italia), sul terzo comandamento "Santificare le feste". Si tratta di una serie di incontri di evangelizzazione che si svolgono nel corso dell'anno in diverse città italiane.

    È la prima volta che Papa Francesco partecipa a questo evento inaugurato l'8 settembre 2012, in Piazza del Popolo a Roma, sotto il Pontificato di Benedetto XVI, con il primo comandamento: "Io sono il Signore tuo Dio". Il secondo incontro, si è svolto contemporaneamente il 15 settembre 2012, in Piazza dei Signori a Verona, sul comandamento "Non nominare il nome di Dio invano" e in Piazza del Plebiscito a Napoli, sul comandamento: "Onora il padre e la madre". A tutte le manifestazioni hanno preso parte personalità locali, artisti, scrittori, scienziati e musicisti.

    [SM=g1740771] dall'anno precedente ricordiamo:


    [SM=g1740733] VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE IN OCCASIONE DELL’INIZIATIVA "DIECI PIAZZE PER DIECI COMANDAMENTI" PROMOSSA DAL RINNOVAMENTO NELLO SPIRITO SANTO, 09.09.2012

    Ieri sera, in Piazza del Popolo a Roma, si è aperta l’iniziativa "Dieci Piazze per Dieci Comandamenti" promossa dal Rinnovamento nello Spirito Santo, una serata di evangelizzazione e di festa che proseguirà nel corso dell’anno in altre città italiane.
    Nel corso dell’evento è stato trasmesso su schermi giganti un Videomessaggio del Santo Padre Benedetto XVI il cui testo riportiamo di seguito:

    MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

    in audio e video
    it.gloria.tv/?media=330466



    Cari fratelli e sorelle!

    Sono lieto di porgere un cordiale saluto a tutti voi che partecipate nelle piazze di varie città italiane a questa catechesi sui Dieci Comandamenti e aderite all’iniziativa «Quando l’Amore dà senso alla tua vita…». In particolare saluto e ringrazio gli aderenti al Movimento ecclesiale Rinnovamento nello Spirito Santo, che hanno organizzato questa lodevole iniziativa, con il sostegno del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e della Conferenza Episcopale Italiana.

    Il Decalogo ci riporta al Monte Sinai, quando Dio entra in modo particolare nella storia del popolo ebreo, e tramite questo popolo nella storia dell’intera umanità, donando le «Dieci Parole» che esprimono la sua volontà e che sono una sorta di «codice etico» per costruire una società in cui il rapporto di alleanza con il Dio Santo e Giusto illumini e guidi i rapporti tra le persone. E Gesù viene a dare compimento a queste parole, innalzandole e riassumendole nel duplice comandamento dell’amore: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente… Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr Mt 22,37-40).

    Ma domandiamoci: che senso hanno queste Dieci Parole per noi, nell’attuale contesto culturale, in cui secolarismo e relativismo rischiano di diventare i criteri di ogni scelta e in questa nostra società che sembra vivere come se Dio non esistesse?
    Noi rispondiamo che Dio ci ha donato i Comandamenti per educarci alla vera libertà e all’amore autentico, così che possiamo essere davvero felici. Essi sono un segno dell’amore di Dio Padre, del suo desiderio di insegnarci il retto discernimento del bene dal male, del vero dal falso, del giusto dall’ingiusto. Essi sono comprensibili da tutti e proprio perché fissano i valori fondamentali in norme e regole concrete, nel metterli in pratica l’uomo può percorrere il cammino della vera libertà, che lo rende saldo nella via che conduce alla vita e alla felicità.

    Al contrario, quando nella sua esistenza l’uomo ignora i Comandamenti, non solo si aliena da Dio e abbandona l’alleanza con Lui, ma si allontana anche dalla vita e dalla felicità duratura. L’uomo lasciato a se stesso, indifferente verso Dio, fiero della propria autonomia assoluta, finisce per seguire gli idoli dell’egoismo, del potere, del dominio, inquinando i rapporti con se stesso e con gli altri e percorrendo sentieri non di vita, ma di morte. Le tristi esperienze della storia, soprattutto del secolo scorso, rimangono un monito per tutta l’umanità.

    «Quando l’Amore dà senso alla tua vita…». Gesù porta a pienezza la via dei Comandamenti con la sua Croce e Risurrezione; porta al superamento radicale dell’egoismo, del peccato e della morte, con il dono di Se stesso per amore. Solo l’accoglienza dell’amore infinito di Dio, l’avere fiducia in Lui, il seguire la strada che Egli ha tracciato, dona senso profondo alla vita e apre a un futuro di speranza.

    Cari amici, auguro che questa iniziativa susciti un rinnovato impegno nel testimoniare che la via dell’amore tracciata dai Comandamenti e perfezionata da Cristo è l’unica capace di rendere la nostra vita, quella degli altri, quella delle nostre comunità più piena, più buona e più felice. La Vergine Maria accompagni questo cammino, mentre imparto la mia Benedizione.


    it.gloria.tv/?media=167143



    [SM=g1740717]


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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 10/06/2013 14:50

    VIDEO-MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
    AI PARTECIPANTI ALL'INIZIATIVA
    "DIECI PIAZZE PER DIECI COMANDAMENTI"

    Sabato , 8 giugno 2013

     

    Buonasera a tutti!

    Sono contento di unirmi a voi che partecipate, nelle principali Piazze d'Italia, a questa rilettura dei Dieci Comandamenti. Un progetto denominato “Quando l'Amore dà senso alla Tua vita...”, sull'arte di vivere attraverso i Dieci Comandamenti dati da Dio non solo a Mosè, ma anche a noi, agli uomini e alle donne di ogni tempo.
    Grazie ai responsabili del Rinnovamento nello Spirito Santo - sono bravi questi del Rinnovamento nello Spirito Santo, complimenti! - che hanno organizzato questa lodevole iniziativa in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e con la Conferenza Episcopale Italiana. Grazie a tutti coloro che con generosità contribuiscono alla realizzazione di questo speciale progetto nell'Anno della fede.
    Chiediamoci allora: Che senso hanno per noi queste Dieci Parole? Che cosa dicono al nostro tempo agitato e confuso che sembra voler fare a meno di Dio?


    1. I Dieci Comandamenti sono un dono di Dio. La parola “comandamento” non è di moda; all’uomo d’oggi richiama qualcosa di negativo, la volontà di qualcuno che impone limiti, che mette ostacoli alla vita. E purtroppo la storia, anche recente, è segnata da tirannie, da ideologie, da logiche che hanno imposto e oppresso, che non hanno cercato il bene dell’uomo, bensì il potere, il successo, il profitto. Ma i Dieci Comandamenti vengono da un Dio che ci ha creati per amore, da un Dio che ha stretto un’alleanza con l’umanità, un Dio che vuole solo il bene dell’uomo. Diamo fiducia a Dio! Fidiamoci di Lui! I Dieci Comandamenti ci indicano una strada da percorrere, e costituiscono anche una sorta di “codice etico” per la costruzione di società giuste, a misura dell’uomo. Quante diseguaglianze nel mondo! Quanta fame di cibo e di verità! Quante povertà morali e materiali derivano dal rifiuto di Dio e dal mettere al suo posto tanti idoli! Lasciamoci guidare da queste Dieci Parole che illuminano e orientano chi cerca pace, giustizia e dignità.

    2. I Dieci Comandamenti indicano una strada di libertà, che trova pienezza nella legge dello Spirito scritta non su tavole di pietra, ma nel cuore (cfr 2Cor 3,3): sono scritti qui i Dieci Comandamenti! E’ fondamentale ricordare quando Dio dà al popolo di Israele, per mezzo di Mosè, i Dieci Comandamenti. Al Mar Rosso il popolo aveva sperimentato la grande liberazione; aveva toccato con mano la potenza e la fedeltà di Dio, del Dio che rende liberi. Ora Dio stesso, sul Monte Sinai, indica al suo popolo e a tutti noi il percorso per rimanere liberi, un percorso che è inciso nel cuore dell’uomo, come una Legge morale universale (cfr Es 20,1-17; Dt 5,1-22).
    Non dobbiamo vedere i Dieci Comandamenti come limitazioni alla libertà, no, non è questo, ma dobbiamo vederli come indicazioni per la libertà. Non sono limitazioni, ma indicazioni per la libertà! Essi ci insegnano ad evitare la schiavitù a cui ci riducono i tanti idoli che noi stessi ci costruiamo - l’abbiamo sperimentato tante volte nella storia e lo sperimentiamo anche oggi -; essi ci insegnano ad aprirci ad una dimensione più ampia di quella materiale, a vivere il rispetto per le persone, vincendo l’avidità di potere, di possesso, di denaro, ad essere onesti e sinceri nei nostri rapporti, a custodire l’intera creazione e a nutrire il nostro pianeta di ideali alti, nobili, spirituali. Seguire i Dieci Comandamenti significa essere fedeli a noi stessi, alla nostra natura più autentica e camminare verso la libertà autentica che Cristo ha insegnato nelle Beatitudini (cfr Mt 5,3-12.17; Lc 6,20-23).


    3. I Dieci Comandamenti sono una legge di amore. Mosè è salito sul monte per ricevere da Dio le tavole della Legge. Gesù compie il percorso opposto: il Figlio di Dio si abbassa, scende nella nostra umanità per indicarci il senso profondo di queste Dieci Parole: Ama il Signore con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e il prossimo come te stesso (cfr Lc 10,27). Questo è il senso più profondo dei Dieci Comandamenti: il comandamento di Gesù che porta in se tutti i comandamenti, il Comandamento dell’Amore. Per questo io dico che i Dieci Comandamenti sono Comandamenti d’Amore. Qui sta il cuore dei Dieci Comandamenti: l’Amore che viene da Dio e che dà senso alla vita, amore che ci fa vivere non da schiavi, ma da veri figli, amore che anima tutte le relazioni: con Dio, con noi stessi - spesso lo dimentichiamo - e con gli altri.
    La vera libertà non è seguire il nostro egoismo, le nostre cieche passioni, ma è quella di amare, di scegliere ciò che è bene in ogni situazione. I Dieci Comandamenti non sono un inno al “no”, sono sul “sì”. Un “sì” a Dio, il “sì” all’Amore, e poiché io dico di “sì” all’Amore, dico “no” al non Amore, ma il “no” è una conseguenza di quel “sì” che viene da Dio e ci fa amare.


    Riscopriamo e viviamo le Dieci Parole di Dio! Diciamo “sì” a queste “dieci vie d'amore” perfezionate da Cristo, per difendere l’uomo e guidarlo alla vera libertà! La Vergine Maria ci accompagni in questo cammino. Di cuore imparto la mia Benedizione su di voi, sui vostri cari, sulle vostre città. Grazie a tutti!


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 02/11/2013 19:13


    Mandato a catechisti, evangelizzatori
     
    ed educatori alla fede
     
    (Chiesa parrocchiale del Sacro Cuore di Mestre - venerdì 11 ottobre 2013)
     
     
    Istruzione del Patriarca mons. Francesco Moraglia
     
     
     
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    Diciamo insieme “Sia lodato Gesù Cristo” e lo diciamo perché stiamo vivendo un momento importante, un momento in cui Lui ci chiama, ci chiede di rimanere un po’ di tempo con Lui e poi ci “manda”. E’ un mandato che ci libera dal pensiero di dover portare noi stessi. Noi portiamo Lui.
     
    Abbiamo ascoltato la lettura tratta dal libro degli Atti degli Apostoli che ne costituisce il vero inizio: la discesa dello Spirito Santo che cambia gli apostoli e i discepoli, li rende docili, saggi, sapienti e forti di fronte alle difficoltà dell’evangelizzazione. Sappiamo che percorrere la rotta dell’evangelizzazione vuol dire mettere in conto un mare anche tempestoso. E quando il mare aumenta di forza, proprio allora si vede la fede dei discepoli. Maestro, gli dicono, non ti preoccupi? Stiamo affondando e tu dormi! E Lui risponde semplicemente: “Dov’è la vostra fede?” (cfr. Lc 8, 22-25).
     
    La parola di Gesù, il primo evangelizzatore che è sempre in noi che ci accompagna e non ci lascia mai soli, si serve anche delle nostre debolezze e delle nostre fragilità: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12, 10), perché, allora, si manifesta un Altro. Il Mandato dice la realtà della Chiesa che si fonda sul battesimo, il battesimo-confermazione. È la nostra ricchezza: Lui in noi, noi in Lui.
     
    Ringrazio soprattutto i sacerdoti, i nostri cari sacerdoti. Sono grato a loro perché, come vescovo, io non avrei significato se non ci fossero loro. Dicevo proprio a loro qualche giorno fa, nella basilica di San Marco, che reciprocamente ci apparteniamo in forza del nostro comune sacerdozio ministeriale. Voi non potreste essere sacerdoti se non ci fosse il vescovo a cui avete promesso - non a Lui ma al Signore - la vostra docilità e disponibilità, nella libertà. Se non ci fosse il vescovo non ci sarebbero i presbiteri che, proprio nel loro essere sacerdotale, sono estensione del sacerdozio del vescovo. Ma, se non ci fossero i presbiteri, che cosa potrebbe fare il vescovo? Tutti, quindi, dobbiamo amare i nostri sacerdoti e dobbiamo dirlo a loro con lo sguardo, il sorriso e la vicinanza.
     
    Grazie anche a voi, carissimi catechisti/e, evangelizzatori, missionari/e d’essere qui presenti, perché il vostro battesimo-confermazione è la nostra ricchezza: non andate, infatti, ad esibire le vostre conoscenze e non andate a mostrare la vostra erudizione. Andate semplicemente a dire che Gesù ha dato senso alla vostra vita.
    Ringrazio padre Gelindo delle sue gentili parole, dell’accoglienza che la comunità dei frati ci riserva sempre, nella semplicità francescana, e speriamo che questo spirito entri sempre di più nella nostra Chiesa. E ringrazio don Valter per le sue parole che ci hanno richiamato all’amore di Dio.
     
    Aggiungo a quanto già detto un particolare, se volete una precisazione: l’amore di Dio è un amore sempre ragionevole e ricco di senso. Non separiamo mai la prima lettera di Giovanni - “Dio è amore“ (cfr. 1 Gv cap. 4) - dal prologo del suo Vangelo (cfr. Gv 1, 1-18): in principio era il Logos, il senso, la verità, la ragione, la sapienza. In principio era il Verbo, il Verbo era Dio, il Verbo era presso Dio, il Verbo era rivolto verso Dio, il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi.
     
    Il nostro Dio ci ama e ci conduce. E lo fa con tutti! Ci conduce per le strade di una sapienza, e di una verità che talvolta, subito, noi nemmeno immaginiamo. Ci aiuta il profeta Isaia: “Le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55, 8), le mie strade non sono le vostre strade. Dio ci conduce verso un amore esigente, un amore ricco di verità. Quante volte, nel non dire la verità, finiamo per dare una parvenza di aiuto, una solidarietà fragile. Il Vangelo ci dice che Dio ci ama e ci conduce verso la verità, quella verità che - secondo il Vangelo di Giovanni - ci fa liberi (cfr. Gv 8, 32).
     
    Andate ad annunciare tutto questo nelle parrocchie, nelle associazioni, nei gruppi, nei movimenti, ai ragazzi dell’iniziazione cristiana, ai gruppi di ascolto. In modo diverso mi rivolgo anche agli insegnanti di religione cattolica che, nella loro docenza, presentano le realtà culturali che nascono dal Vangelo e cioè un Dio che ci ama, ci conduce verso la verità e ci fa liberi.
     
    La cultura cristiana non è solo la cultura delle grandi biblioteche; la facoltà di Teologia appartiene all’università fin dall’origine dell’università. La cultura cristiana non è solo la verità del sapere e non è neanche (e solo) la bellezza dell’arte cristiana: le nostre cattedrali, la nostra stupenda S. Marco, i mosaici, le pitture, le sculture, le sinfonie… Tutto nasce dal Vangelo creduto e vissuto!
     
    Ma cultura cristiana sono anche gli ospedali, che nascono dal cuore di persone credenti; i primi ospedali, i primi brefotrofi, i primi luoghi d’accoglienza nascono da cuori e menti cristiane. Dobbiamo, allora, riscoprire l’umile fierezza della nostra fede, senza complessi d’inferiorità! Siamo fragili e siamo peccatori, ma portiamo - nel vaso di creta che siamo, che ciascuno di noi è - il Signore Gesù, Colui che ama nella Verità.
     
    Il Vangelo vi è consegnato oggi, a cinquant’anni da quel grande evento che è stato il Concilio Ecumenico Vaticano II, nato dal cuore del Patriarca Roncalli diventato vescovo di Roma, Papa della Chiesa universale. Raccomando a voi catechisti ed evangelizzatori quanto ho già scritto nella prima lettera all’inizio dell’Anno della Fede: leggete i grandi documenti del Concilio, studiate almeno le costituzioni - la Divina Rivelazione, la Chiesa, la Liturgia, la Chiesa nel mondo contemporaneo - e il Catechismo della Chiesa Cattolica che è il frutto del Concilio Ecumenico Vaticano II.
     
    L’Anno della Fede ci ha aperto di più e meglio a quella realtà, la fede, che deve essere illuminante nel vostro servizio di evangelizzatori, di catechisti, di insegnanti di religione cattolica, di animatori dei gruppi, delle associazioni e dei movimenti: “io credo”, “noi crediamo”. Il nostro credere è sempre personale, mai individuale; il nostro credere è sempre un credere con gli altri: “io credo”, “noi crediamo”. E allora, anche quando siamo soli, portiamo in noi la comunione ecclesiale che si radica in una fede personale donata da Gesù Cristo.
     
    Gesù Cristo sia il centro della vostra giornata e, allora, vi chiedo di far vostro uno stile: non iniziate mai la giornata senza il tempo della preghiera. Certo, Dio è eterno e il tempo ha significato solo per noi; Lui, infatti, è in un istante presente, secondo tutte le perfezioni, e non può essere arricchito o depauperato da nulla. Lui è l’Eterno; noi, invece, siamo nel tempo e per noi il tempo ha un significato! Pensate al significato - in Israele - dell’offerta delle primizie, i primi frutti che segnano l’inizio di quello che verrà dopo.
     
    E’ importante il tempo della preghiera; è importante iniziare e chiudere la giornata nel nome del Signore, perché tutto il resto rimane unito da quell’atto che noi chiamiamo preghiera. Vi ricordo il salmo 139: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri… La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta” (Sal 139, 1-2.4).
     
    Ed ecco la seconda cosa che vi domando: abbiate un rapporto concreto e reale con Lui, sarà una “riserva” di fronte alle cose ingiuste che potranno dire di voi evangelizzatori. Molte volte le parole dette in libertà feriscono e vengono ripetute da altri e, magari, vengono presentate come critica costruttiva… E invece sono solo parole in libertà, talvolta non benevole. Vi capiterà anche di incontrare situazioni del genere; allora quello che conta è il rapporto con Lui: Lui mi conosce, Lui sa, con Lui posso confidarmi anche se intorno a me non c’è benevolenza.
     
    Mettete in conto la gioia dell’evangelizzare, una gioia particolarissima che si misura anche con la fatica dell’evangelizzare. Auguro a tutti di provare questa situazione dell’anima; è una grande gioia che rimane, permane e cresce anche nella fatica: è la croce del Signore. E la croce ci parla già della Pasqua.
     
    Guardiamo alla nostra Chiesa e lasciatemi ritornare a quanto detto all’inizio alle comunità parrocchiali, alle unità pastorali (là dove ci sono), ai nostri sacerdoti: la comunità sia costruita e strutturata sempre a partire da Gesù, guardando a Lui che ha dato la sua vita per noi.
     
    Costruiamo delle comunità reali, guardiamo e riscopriamo la parrocchia con occhi nuovi, i nostri patronati, il Vangelo della famiglia, la catechesi per gli adulti, la ricchezza della dottrina sociale della Chiesa, quello sguardo più acuto che, come credenti, noi possiamo portare sulla realtà leggendola attraverso una ragione che fa i conti - fino in fondo - con se stessa, a partire dallo sguardo di fede, dove la ragione rimane ragione e la fede è fede. E dove la fede stimola la ragione ad essere veramente se stessa e ad andare oltre le ferite. Non riusciremo mai ad organizzare una buona vita sociale se non riusciremo a comprendere che l’uomo non è fatto solo di cultura e non è fatto solo di ragione ma è fatto anche di ferite e di fragilità che solo Lui, il Signore, può sanare.
     
    Riscopriamo - ma voi lo avete già fatto, perché siete qui stasera - la gioia di trasmettere la fede e di educare alle cose di Dio. Che cosa c’è di più difficile e di più gratificante - in una società che è fatta di consumo, di materia - che indicare ai nostri giovani l’Invisibile e insieme a loro, ad ogni uomo e donna, l’Ineffabile, quel Dio che ci ama e da senso alla nostra vita?
     
                Grazie del vostro impegno e grazie per quello che farete. Il Signore Gesù vi benedica e vi accompagni in ogni giorno di quest’anno in cui, ricevendo il Mandato, non portate voi stessi ma il “noi crediamo” della Chiesa, là dove il nome del Signore Gesù non risuona più o non è mai risuonato ma chiede di risuonare attraverso la vostra testimonianza e la vostra gioia di evangelizzatori.
     
     


    [1] Questo testo riporta la trascrizione dell’intervento pronunciato dal Patriarca in occasione dell’edizione 2013 del Mandato e mantiene volutamente il carattere colloquiale e il tono del “parlato” che lo ha contraddistinto.
     





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)