DIFENDERE LA VERA FEDE

Conferenze sugli scritti di Joseph Ratzinger

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    Caterina63
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    00 15/01/2018 09:19
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    Le otto antologie che seguono sono state utilizzate per una serie di catechesi sul pensiero di J. Ratzinger-Benedetto XVI che vennero tenute nella parrocchia di Santa Melania dall'allora parroco Andrea Lonardo nel 2006:




    da J. Ratzinger, La mia vita San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pp. 72-74; 89-93

    Avevo constatato che in Bonaventura (e, anzi, nei teologi del secolo XIII in generale) non c'era alcuna corrispondenza con il nostro concetto di «rivelazione», che eravamo soliti usare per definire l'insieme dei contenuti rivelati, tanto che anche nel lessico si era introdotta l'abitudine di definire la Sacra Scrittura semplicemente come la «rivelazione». Nel linguaggio medievale una tale identificazione sarebbe stata impensabile. In esso, infatti, la «rivelazione» è sempre un concetto di azione: il termine definisce l'atto con cui Dio si mostra, non il risultato oggettivizzato di questo atto. E dato che le cose stanno così, del concetto di «rivelazione» fa sempre parte anche il soggetto ricevente: dove nessuno percepisce la rivelazione, lì non è avvenuta nessuna rivelazione, dato che lì nulla è stato svelato. L'idea stessa di rivelazione implica un qualcuno che ne entri in possesso. Questi concetti, acquisiti grazie ai miei studi su Bonaventura, sono poi divenuti molto importanti per me, quando nel corso del dibattito conciliare vennero affrontati i temi della rivelazione, della Scrittura e della tradizione. Perché se le cose stanno come le ho descritte, allora la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplicemente identica a essa. Questo significa inoltre che la rivelazione è sempre più grande del solo scritto. Se ne deduce, di conseguenza, che non può esistere un mero «sola Scriptura» («solamente attraverso la Scrittura»), che alla Scrittura è legato il soggetto comprendente, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della tradizione.

    [...]

    Fin dal suo sorgere e per ragioni legate alla sua evoluzione interna, il movimento francescano si era mostrato molto sensibile alla profezia storica dell'abate calabrese Gioacchino da Fiore, morto nel 1202. Questo pio e colto monaco credeva di poter desumere dalla Sacra Scrittura che la storia si sarebbe sviluppata in tre diverse fasi: dal severo regno del Padre (Antico Testamento), attraverso il regno del Figlio (la Chiesa esistita fino a quel tempo), fino al terzo regno, quello dello Spirito, in cui finalmente si sarebbero compiute le promesse dei profeti e ci sarebbe stato il pieno dominio della libertà e dell'amore. Aveva anche creduto di trovare nella Bibbia delle basi di calcolo per la venuta della Chiesa dello Spirito. Detti calcoli sembravano indicare in Francesco d'Assisi il principio e nella comunità da lui fondata i portatori della nuova epoca. Fin dalla metà del secolo XIII si svilupparono delle interpretazioni radicali di questa idea, che alla fine portarono gli «Spirituali» fuori dall'ordine e a un conflitto aperto con il Papato. In una delle sue opere tardive, in due volumi, Henri de Lubac ha studiato la posterità spirituale di Gioacchino, che arriva fino a Hegel e ai sistemi totalitari del nostro secolo. Fino a quel momento, però, si era sempre sostenuto che Bonaventura non avesse mai citato Gioacchino; l'edizione critica delle sue opere non contiene il nome di Gioacchino. Ma questa tesi, considerata con attenzione, non poteva non risultare discutibile, dal momento che Bonaventura, come generale del suo Ordine, dovette inevitabilmente affrontare la polemica sulla relazione tra Francesco e Gioacchino; infine, Bonaventura era arrivato a far chiudere in regime di carcere conventuale il suo predecessore, Giovanni da Parma, incline alle idee gioachimite, per prevenire gli estremismi che avrebbero potuto cercare degli appoggi pretestuosi nella sua persona. Nel mio lavoro dimostravo, per la prima volta, che Bonaventura nella sua interpretazione dell'opera dei sei giorni (il racconto della creazione) si era minuziosamente confrontato con Gioacchino e, come uomo di centro, aveva cercato di accogliere quanto poteva essere utile, ma integrandolo nell'ordinamento della Chiesa.

    [...]

    Determinante per la forma concreta che assunse questo dibattito si rivelò una presunta scoperta storica che il teologo di Tubinga, J. R. Geiselmann, riteneva di aver fatto negli anni Cinquanta. Negli atti del concilio di Trento egli aveva scoperto che, nell'elaborazione del decreto sulla tradizione, in un primo tempo era stata proposta una formula secondo cui la rivelazione sarebbe «in parte nella Scrittura, in parte nella tradizione». Nel testo finale, però, l'«in parte - in parte» fu evitato e sostituito da «e»: Scrittura e tradizione ci trasmettono insieme la rivelazioneGeiselmann ne deduceva che Trento aveva voluto insegnare che non esiste alcuna divisione dei contenuti della fede tra Scrittura e tradizione, ma che, piuttosto, ambedue - Scrittura e tradizione - contengono, ciascuna per conto proprio, il tutto, siano cioè in se stesse complete. Ora, però, in quel momento non interessava la presunta o reale completezza della tradizione; quel che interessava era l'affermazione che secondo la dottrina di Trento la Scrittura conteneva l'intero deposito della fede. Si parlava della «completezza materiale» della Bibbia nelle questioni di fede.

    Questa formula, che ora girava dappertutto e che era considerata la nuova, grande scoperta, si svincolò ben presto dal suo punto di partenza, che era l'interpretazione del decreto tridentino. L'inevitabile conseguenza fu che si cominciò a ritenere che la Chiesa non potesse insegnare nulla che non fosse espressamente rintracciabile nella Sacra Scrittura, dato che quest'ultima contiene appunto in modo completo tutto ciò che riguarda la fede. E dato che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate, ciò significava che la Chiesa non poteva insegnare nulla che non reggesse alla prova del metodo storico-critico. Con ciò era ampiamente messo in ombra il principio luterano della «sola Scriptura», che era poi ciò di cui si era trattato a Trento. Infatti, questa nuova tendenza significava che nella Chiesa l'esegesi doveva diventare l'ultima istanza, ma, dato che per la stessa natura della ragione umana e della ricerca storica non può sussistere la piena unanimità tra gli esegeti di testi tanto difficili (poiché in gioco ci sono sempre delle opzioni pregiudiziali, siano esse conscie o inconscie), la conseguenza era che la fede doveva ritrarsi nell'indeterminatezza e nella continua mutabilità di ipotesi storiche o apparentemente tali: alla fine «credere» significava qualcosa come «ritenere», avere un'opinione soggetta a continue revisioni. Naturalmente il Concilio dovette opporsi a teorie così formulate, ma nell'opinione pubblica ecclesiale la parola d'ordine della «completezza materiale», con tutte le sue conseguenze, era ben più forte del testo finale del Concilio.

    Il dramma dell'epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d'ordine e dalle sue conseguenze logiche. Personalmente avevo già avuto modo di conoscere le tesi di Geiselmann nell'aprile del 1956, durante il già citato convegno dogmatico di Königstein, in cui il professore di Tubinga presentò per la prima volta la sua presunta scoperta (che, peraltro, egli non estendeva fino alle conseguenze fin qui descritte, che si sono sviluppate in questi termini solo nella «propaganda conciliare»).

    All'inizio ne fui affascinato, ma molto presto mi balzò agli occhi che il grande tema del rapporto tra Scrittura e tradizione non poteva essere risolto in maniera così semplice. In seguito ho io stesso minuziosamente studiato gli atti di Trento e ho potuto constatare che la variante redazionale, che Geiselmann considerava di importanza centrale, non era stata che un insignificante aspetto secondario nel dibattito tra i Padri conciliari, che si spinse molto più a fondo per illuminare la questione fondamentale di come la rivelazione possa tradursi in parola umana e, quindi, in parola scritta. In questo fui aiutato dalle conoscenze acquisite con i miei studi sul concetto di rivelazione di Bonaventura. Trovai che l'orientamento di fondo dei Padri di Trento nel modo di pensare la rivelazione nella sostanza era rimasto lo stesso del tardo medioevo. Proprio a partire da queste acquisizioni, che ora non posso certo sviluppare oltre, le mie obiezioni nei confronti dello schema conciliare che ci era stato sottoposto erano di tutt'altra natura rispetto alle tesi sostenute da Geiselmann e alla loro grossolana volgarizzazione nell'eccitato clima conciliare. Tuttavia vorrei almeno accennare al suo aspetto essenziale: la rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l'uomo, il Suo venirgli incontro, è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura.

    Come si è già visto a proposito dei miei lavori su Bonaventura, nel medioevo e a Trento sarebbe stato impossibile definire la Scrittura semplicemente come «la rivelazione», come invece oggi avviene nel linguaggio corrente. La Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di vivo, di più grande - perché sia tale essa deve giungere a destinazione e deve essere percepita, altrimenti essa non è divenuta «rivelazione». La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli. La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge. Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini, di unirli tra loro - per questo essa implica la Chiesa. Ma se si dà questa sporgenza della rivelazione rispetto alla Scrittura, allora l'ultima parola su di essa non può venire dall'analisi dei campioni minerali - il metodo storico-critico -, ma di essa fa parte l'organismo vitale della fede di tutti i secoli. Proprio questa sporgenza della rivelazione sulla Scrittura, che non può a sua volta essere espressa in un codice di formule, è quel che noi chiamiamo «tradizione». Nel clima generale del 1962, che si era impadronito delle tesi di Geiselmann nella forma sopra descritta, mi fu impossibile far comprendere questa mia prospettiva, che avevo acquisito dallo studio delle fonti e rispetto alla quale, del resto, già nel 1956 non ero stato capito. La mia posizione venne semplicemente annoverata nell'opposizione generale allo schema ufficiale e valutata come un'altra voce in direzione di Geiselmann.

    Per desiderio del cardinal Frings, misi allora per iscritto un piccolo schema, in cui cercavo di esprimere la mia prospettiva alla sua presenza, potei quindi leggere quel testo a un gran numero di influenti cardinali, che lo trovarono interessante, ma sul momento non vollero, né potevano esprimere alcun giudizio in proposito. Ora, quel piccolo saggio era stato scritto in gran fretta e non poteva nemmeno lontanamente competere per solidità e precisione con lo schema ufficiale, che aveva avuto origine in un lungo processo di elaborazione ed era passato attraverso molte revisioni di studiosi competenti. Era chiaro che il testo doveva essere ulteriormente elaborato e approfondito. Un simile lavoro richiedeva anche l'intervento di altre persone. Fu dunque stabilito che io redigessi insieme con Karl Rahner una seconda redazione, più approfondita.

    Questo secondo testo, che va ascritto molto più a Rahner che a me, fu poi fatto circolare tra i Padri e suscitò in parte delle aspre reazioni. Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner ed io, benché ci trovassimo d'accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo su due pianeti diversi. Anch'egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell'esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia - malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni - era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e dalla sua nuova versione alla luce dell'idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui, alla fin fine, la Scrittura e i Padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico: in quei giorni ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui io ero passato, e quella di Rahner, anche se dovette passare ancora qualche tempo prima che la distanza che separava le nostre strade fosse pienamente visibile all'esterno.

    Ora era chiaro che lo schema di Rahner non poteva essere accolto, ma anche il testo ufficiale andò incontro alla bocciatura con un'esigua differenza di voti. Si dovette quindi procedere al rifacimento del testo. Dopo complesse discussioni, solo nell'ultima fase dei lavori conciliari si poté arrivare all'approvazione della Costituzione sulla parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno. All'inizio si impose in pratica solo quello che era passato come la presunta novità nel modo di pensare questi argomenti da parte dei Padri. Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare.



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    da J. Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, in J. Ratzinger, La Bellezza. La Chiesa, LEV-Itaca, Roma-Castel Bolognese, pp. 44-46

    È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell'attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all'interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un'attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l'osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso. 
    Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l'amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano.








    Il testo che mettiamo a disposizione sul nostro sito ha per titolo originario Libertà e verità. E’ apparso a firma dell’allora cardinale Joseph Ratzinger su Studi Cattolici, 430, del dicembre 1996.

    Indice


    Libertà e verità

    Nella coscienza dell'umanità di oggi la libertà appare largamente come il bene più alto, al quale tutti gli altri beni sono subordinati. Nella giurisprudenza la libertà dell'arte, la libertà di espressione del pensiero hanno sempre la preminenza su ogni altro valore morale. Valori che entrino in concorrenza con la libertà, che possano indurre a limitarla, appaiono come vincoli, come "tabù", cioè come relitti di arcaici divieti e timori. L'agire politico deve legittimarsi per il fatto che favorisce la libertà. Anche la religione può continuare a essere accettabile solo nella misura in cui si presenta come forza liberatrice per le singole persone e per l'umanità nel suo insieme. Nella scala dei valori, dai quali dipendono l'uomo e la sua vita umanamente degna, la libertà appare decisamente come il vero valore fondamentale e come il diritto umano fondante

    Ci accostiamo invece piuttosto con sospetto alla nozione di verità: ci si ricorda al riguardo di tutti quei sistemi e opinioni per i quali già in passato si è preteso il concetto di verità; quante volte, in tal modo, la pretesa di verità fu un mezzo per opprimere la libertà. A ciò si aggiunge lo scetticismo, alimentato dalle scienze della natura, nei confronti di tutto quanto non sia matematicamente spiegabile o documentabile: tutto in ultimo sembra essere solo valutazione soggettiva, che non può pretendere alcun carattere vincolante comune. L'atteggiamento moderno nei confronti della verità si rivela nel modo più chiaro nella domanda di Pilato: che cos'è la verità? Chi con la sua vita e con la sua parola e azione afferma di essere al servizio della verità, deve essere preparato a venir classificato come sognatore o come fanatico. Infatti "lo sguardo sull'aldilà ci è interdetto"; queste parole di Goethe, tratte dal Faust, connotano la sensibilità di tutti noi

    Indubbiamente, davanti a una pretesa di verità che si presenti con troppa sicurezza, vi sono sufficienti motivi per chiedere con prudenza: che cos'è la verità? Ma vi sono altrettanti motivi per porre la domanda: che cos'è la libertà? Cosa intendiamo in realtà quando esaltiamo la libertà e la collochiamo sul gradino più alto della nostra scala di valori? Io credo che il contenuto collegato in generale al desiderio di libertà sia illustrato in modo preciso nelle parole con le quali, una volta, Karl Marx ha espresso il suo sogno di libertà. La condizione della futura società comunista renderà possibile "fare oggi questo, domani quello, al mattino andare a caccia, al pomeriggio pescare, a sera dedicarsi all'allevamento del bestiame, dopo la cena discutere di quanto al momento avrò voglia [...]" [K. MARX - F. ENGELS, Werke, Berlin 1961-1971, vol. 3, p. 33; citazione da K. LÖW, Warum fasziniert der Kommunismus?, Köln 1980, p. 65]. 

    Proprio in questo senso la mentalità media irriflessa intende con libertà il diritto e la possibilità di fare tutto ciò che si desidera in un determinato momento e di non dover fare quello che non si vuole. Detto altrimenti: libertà significherebbe che la propria volontà sia l'unica norma del nostro fare e che essa possa volere tutto e abbia anche la possibilità di mettere in pratica tutto ciò che è voluto. A questo punto emergono ovviamente degli interrogativi: quanto è libera in realtà la volontà? E quanto è ragionevole? E una volontà irragionevole è una volontà veramente libera? Una libertà irragionevole è davvero libertà? È veramente un bene? La definizione della libertà a partire dalle possibilità della volontà e dalle possibilità di mettere in pratica ciò che è voluto non deve dunque essere completata mediante il legame con la ragione, con la totalità dell'essere umano, affinché non si giunga alla tirannia dell'irrazionalità? E non apparterrà alla collaborazione fra ragione e volontà di cercare anche la ragione comune a tutti gli uomini e, dunque, la reciproca tollerabilità delle libertà? È evidente che nella questione della ragionevolezza della volontà e del suo legame con la ragione si nasconde implicitamente anche la questione della verità

    A tali questioni ci costringono non soltanto astratte riflessioni filosofiche, ma tutta la nostra concreta situazione sociale, in cui effettivamente l'esigenza di libertà è continua, anche se invero sempre più drammaticamente si manifestano dubbi verso tutte le forme dei movimenti di liberazione e dei sistemi di libertà finora conosciute. Non dimentichiamo che il marxismo si è presentato come una grande forza politica del nostro secolo con la pretesa di dischiudere il nuovo mondo della libertà e dell'uomo liberato. Proprio questa sua promessa di conoscere la via scientificamente assicurata verso la libertà e di saper costruire il mondo nuovo gli ha guadagnato molti degli spiriti più audaci della nostra epoca; in definitiva, il marxismo appariva come la forza per mezzo della quale la dottrina cristiana della redenzione poteva trasformarsi in una realistica prassi di liberazione; come la forza per far giungere il regno di Dio in quanto vero regno dell'uomo. Il crollo del socialismo reale negli Stati dell'Europa orientale non ha del tutto allontanato tali speranze, che qua e là persistono silenziose e sono alla ricerca di nuove forme. 

    Al crollo politico ed economico non ha corrisposto nessun reale superamento culturale, e in questo senso la questione posta dal marxismo non è ancora affatto risolta. Nondimeno, che il sistema marxista non funzionasse come era stato promesso, è evidente. Che questo presunto movimento di liberazione fosse, accanto al nazionalsocialismo, il più grande sistema di schiavitù della storia contemporanea, nessuno può in realtà più negarlo: le dimensioni della cinica distruzione dell'uomo e del mondo vengono invero spesso vergognosamente taciute, ma nessuno può più contestarle. 

    La superiorità morale del sistema liberale in politica e in economia, apparsa con tanta evidenza, non suscita tuttavia alcun entusiasmo. Troppo grande è il numero di coloro che non partecipano dei frutti di questa libertà, anzi, perdono completamente ogni libertà: la disoccupazione diviene nuovamente un fenomeno di massa; la sensazione dell'inutilità, della superfluità, angoscia le persone non meno della povertà materiale. Lo sfruttamento senza scrupoli si diffonde; la criminalità organizzata si avvale delle opportunità offerte dal mondo liberale, e in tutto si aggira il fantasma della mancanza di senso. 

    Il filosofo polacco Andrej Szizypiorski, nel corso delle Settimane universitarie di Salisburgo del 1995, ha impietosamente descritto il dilemma della libertà, presentatosi dopo la caduta del muro; merita di essere ascoltato più estesamente: "Non vi è alcun dubbio che il capitalismo abbia realizzato un grande progresso. E neppure vi è alcun dubbio che esso non abbia soddisfatto le attese. Nel capitalismo si continua a udire il grido di masse immense, il cui desiderio non è stato soddisfatto [...]. Il crollo della concezione sovietica del mondo e dell'uomo nella prassi politica e sociale è stata una liberazione dalla schiavitù per milioni di vite umane. Ma nel patrimonio del pensiero europeo, alla luce della tradizione degli ultimi due secoli, la rivoluzione anticomunista significa anche la fine delle illusioni illuministiche; la distruzione, dunque, della concezione intellettuale che stava a fondamento dello sviluppo della prima Europa. È subentrata un'epoca strana, a nessuno finora nota, quella dell'uniformizzazione dello sviluppo. E d'improvviso si è reso evidente - certo per la prima volta nella storia - che vi era solo un'unica ricetta, un'unica strada, un unico modello e un'unica maniera di configurare il futuro. E gli uomini persero la fede nel senso dei mutamenti in atto. Persero anche la speranza che il mondo fosse realmente modificabile e che valesse la pena modificare il mondo [...]. L'attuale mancanza di alternative fa tuttavia porre alla gente domande del tutto nuove. La prima domanda: e se forse l'Occidente non aveva ragione? La seconda domanda: ma se l'Occidente non aveva ragione, chi aveva allora ragione? Poiché per nessuno in Europa può esserci dubbio che il comunismo non avesse ragione, sorge la terza domanda: esiste davvero una ragione? Ma se così è, tutto il patrimonio di pensiero dell'illuminismo non ha alcun valore [...]. Forse la vaporiera dell'illuminismo, andata a riposo dopo due secoli di utile lavoro, senza guasti, si è fermata davanti ai nostri occhi e con la nostra partecipazione. E il vapore soltanto sale nell'aria. Se le cose stanno effettivamente così, le prospettive sono allora oscure" [Cito dal manoscritto reperibile presso le Settimane universitarie di Salisburgo]. 

    Sebbene si possano qui porre anche delle controdomande, il realismo e la logica degli interrogativi di fondo di Szizypiorski non devono venir accantonati; ma, al tempo stesso, la diagnosi è così inquietante che non ci si può fermare ad essa. Non aveva ragione nessuno? Forse non esiste una ragione? I fondamenti dell'illuminismo europeo, sui quali si appoggia il nostro cammino di libertà, sono falsi o almeno carenti? La domanda: "Che cos'è la libertà?" non è in fondo meno complicata della domanda: "Che cos'è la verità?". Il dilemma dell'illuminismo, nel quale ci siamo innegabilmente venuti a trovare, ci costringe a porre in modo nuovo entrambe le questioni e anche a cercare nuovamente il loro collegamento. Per andare avanti, dobbiamo dunque riflettere di nuovo sul punto di partenza del cammino moderno della libertà; la correzione di rotta, di cui abbiamo manifestamente bisogno affinché nell'oscuramento delle prospettive siano nuovamente visibili delle vie, deve ritornare ai medesimi punti di partenza e di lì ricominciare. Naturalmente, nel ristretto ambito di una conferenza posso solo cercare di gettare alcuni sprazzi di luce, accennando ai valori e ai pericoli del cammino dell'epoca moderna, per aiutare così una rinnovata riflessione.

    La moderna storia della libertà

    Non vi è alcun dubbio: l'epoca che chiamiamo età moderna è determinata sin dall'inizio dal tema della libertà; la ricerca di nuove libertà è certamente l'unico motivo che giustifica una tale periodizzazione. Lo scritto polemico di Lutero, Della libertà del cristiano, dà subito inizio al tema in toni forti [Al riguardo cfr per esempio E. LOHSE, Martin Luther, München 198 1, pp. 60 s.; 86 ss.]. Fu il richiamo della libertà che rese attente le persone, che mise in moto una vera valanga e fece scaturire dagli scritti di un monaco un movimento di massa che modificò radicalmente il volto del mondo medioevale. Si trattava della libertà della coscienza nei confronti dell'autorità ecclesiastica; quindi, in assoluto, della più intima libertà dell'uomo. Non gli ordinamenti della comunità salvano l'uomo, ma la sua fede totalmente personale in Cristo. Che d'improvviso tutto il sistema dell'ordinamento della Chiesa medioevale non contasse fondamentalmente più, fu avvertito come un formidabile impulso di liberazione. Gli ordinamenti, che in verità dovevano sostenere e salvare, apparvero. come un peso; essi non sono più vincolanti, cioè non hanno più alcun significato redentivo. La redenzione è liberazione, liberazione dal giogo degli ordinamenti sovraindividuali. Anche se non si dovrebbe parlare di individualismo della Riforma, tuttavia la nuova rilevanza del singolo e lo spostamento della relazione tra la coscienza del singolo e l'autorità sono tratti salienti. Questo movimento di liberazione rimase certo limitato sul piano propriamente religioso. Laddove esso, come nella guerra dei contadini e nel movimento dei battisti, divenne anche un programma politico, Lutero vi si oppose con forza. Nell'ambito politico, al contrario, con la creazione delle Chiese di Stato e territoriali il potere dell'autorità civile si accrebbe e rafforzò. Nel mondo anglosassone, poi, da questa nuova mescolanza di potere religioso e potere politico fuoriescono le Freechurches (libere Chiese), le quali diventano precorritrici di una nuova struttura della storia, che nella seconda fase dell'evo moderno, l'illuminismo, assume chiara configurazione. 

    Comune a tutto l'illuminismo è la volontà di emancipazione, anzitutto nel senso del kantiano sapere aude: osa di fare uso tu stesso della tua ragione. Si tratta del distacco della ragione del singolo dai vincoli dell'autorità, i quali devono essere tutti criticamente esaminati. Solo ciò che è ragionevolmente comprensibile deve valere. Questo programma filosofico è per sua essenza anche un programma politico: solo la ragione deve dominare, in ultimo non deve esserci altra autorità se non quella della ragione. Solo ciò che è comprensibile ha valore; ciò che non è ragionevole, cioè comprensibile, non può neppure obbligare. Questo orientamento di fondo dell'illuminismo si riscontra tuttavia in filosofie sociali e in programmi politici diversi, anzi contrapposti. A mio parere si potrebbero distinguere due grandi correnti: il filone anglosassone più orientato secondo il diritto naturale, che tende alla democrazia costituzionale come l'unico sistema realistico di libertà; a esso si contrappone l'approccio radicale di Rousseau, che in ultimo mira all'anarchia piena. Il pensiero giusnaturalistico critica il diritto positivo, le forme concrete di autorità, a partire dal criterio di misura dei diritti innati della persona, che precedono tutti gli ordinamenti giuridici, di cui sono la misura e il fondamento. 

    "L'uomo è creato libero, è libero, foss'anche nato in catene", ha detto in questo senso Friedrich von Schiller. Non è questa una frase per consolare gli schiavi con una riflessione metafisica, ma una parola di lotta, una massima d'azione. Gli ordinamenti giuridici che creano schiavitù sono ordinamenti ingiusti. A partire dalla creazione l'uomo possiede diritti, che devono essere fatti valere perché vi sia giustizia. La libertà non viene concessa all'uomo dall'esterno. Egli ha un diritto per il fatto che è stato creato libero. Da una tale riflessione si è sviluppata l'idea dei diritti dell'uomo come Magna charta del moderno movimento della libertà. 

    Se qui si parla di natura, essa non è dunque semplicemente intesa come un sistema di ritmi biologici. Piuttosto, viene detto che prima di ogni forma di ordinamento esistono dei diritti nell'uomo stesso, a partire dalla sua natura. L'idea dei diritti dell'uomo è, in questo senso, anzitutto un'idea rivoluzionaria: essa si pone contro l'assolutismo dello Stato, contro l'arbitrio della legislazione positiva. Ma è anche un'idea metafisica: nell'essere stesso si fonda una pretesa etica e giuridica. Non è cieca materialità, che si possa poi modificare secondo la mera convenienza. La natura reca in sé uno spirito, porta in se stessa ethos e dignità e costituisce così il diritto alla nostra liberazione e ne è insieme la misura. Questo, in fondo, è sostanzialmente il concetto di natura di Romani 2, ispirato alla Stoa e trasformato a partire dalla teologia della creazione che qui incontriamo: i pagani conoscono la legge "per natura" e sono così legge a se stessi (cfr Rm 2,14). 

    La specifica caratteristica illuministico-moderna di questa linea di pensiero si potrà certamente vedere nel fatto che la pretesa di un diritto della natura è, nei confronti delle forme di autorità costituite, soprattutto rivendicazione dei diritti dell'individuo nei confronti dello Stato, nei confronti delle istituzioni. Come natura dell'uomo viene prima di tutto considerato che egli ha dei diritti di fronte alla comunità, diritti che devono essere difesi davanti alla comunità: l'istituzione appare come il polo opposto alla libertà; come portatore della libertà appare l'individuo e come scopo di essa la piena emancipazione dell'individuo. 

    Da tale punto di vista questa corrente si avvicina al secondo orientamento, dall'impostazione molto più radicale: per Rousseau tutto ciò che è stato elaborato dalla ragione e dalla volontà è contro la natura, ne è la corruzione e la negazione. Il concetto di natura non è a sua volta plasmato dal concetto di diritto, che come legge di natura si troverebbe al fondamento di tutte le nostre istituzioni. Il concetto rousseauiano di natura è antimetafisico, legato al sogno della libertà totale, senza alcuna regola [Cfr D. WYSS, Zur Psychologie und Psychopathologie der Verblendung: J. J. Rousseau und M. Robespierre, die Begründer des Sozialismus, in "Jahres - und Tagungsbericht der Görres - Gesellschaft", 1992, pp. 33-45; R. SPAEMANN, Rousseau - Bürger ohne Vaterland. Von der Polis zur Natur, München 1980]. 

    Qualcosa di simile riemerge in Nietzsche, che contrappone l'ebbrezza dionisiaca all'ordine apollineo ed evoca così i contrasti originari della storia della religione: gli ordinamenti della ragione, simboleggiata da Apollo, corrompono la libera, illimitata ebbrezza della natura [Cfr P. KÖSTER, Der sterbende Gott. Nietzsches Entwurf übermenschlicher Grösse, Meisenheim 1972; R. LÖW, Nietzsche Sophist und Erzieher, Weinheim 1984]. Klages ha ripreso lo stesso motivo con l'idea dello spirito come avversario dell'anima: lo spirito non è il grande, nuovo dono, nel quale soltanto finalmente si darebbe libertà, ma il disgregatore dell'originario con la sua passionalità e la sua libertà [Cfr Th. STEINBÜCHEL, Die Philosophische Grundlegung der christlichen Sittenlehre, I 1, Düsseldorf 19473, pp. 118-132]. 

    Da un certo punto di vista questa dichiarazione di guerra allo spirito è antilluministica, e in questo senso il nazionalsocialismo poteva richiamarsi a tali orientamenti nella sua ostilità verso l'illuminismo e nel suo culto di "sangue e terra". Ma il motivo di fondo dell'illuminismo, il grido alla libertà, non solo è presente anche qui, ma è portato alla sua forma più radicale. Nei radicalismi politici del secolo passato, come di quello presente, tali tendenze rispuntano continuamente in modalità molteplici di fronte alla forma democratica addomesticata della libertà. La rivoluzione francese, iniziata con un'idea democratica costituzionale, recise rapidamente da sé questi legami e si mise sui binari di Rousseau e del concetto anarchico di libertà; proprio così essa divenne, inevitabilmente, una dittatura sanguinaria. 

    Anche il marxismo continua questa linea estrema: esso ha sempre criticato la libertà democratica come libertà apparente e promesso una libertà migliore, più radicale. Il suo fascino veniva anzi proprio dal fatto che prometteva una libertà più grande, e più audace, di quella realizzata nelle democrazie. Due aspetti del sistema marxista mi sembrano essere particolarmente importanti per la problematica della libertà nell'epoca moderna e per il problema della libertà e verità: 

    a) il marxismo muove dall'idea che la libertà è indivisibile; quindi, come tale, sussiste solo se è la libertà di tutti. La libertà è legata all'uguaglianza: perché vi sia libertà, deve anzitutto essere stabilita l'uguaglianza. Ciò significa che, al fine della piena libertà, sono necessarie rinunce di libertà. La solidarietà di coloro che combattono per la libertà di tutti precede la realizzazione delle libertà individuali. La citazione di Marx, dalla quale siamo partiti, mostra che in realtà alla fine l'idea della libertà illimitata dell'individuo è di nuovo presente, ma per il momento vige la superiorità dell'aspetto comunitario, la superiorità dell'uguaglianza sulla libertà e dunque il diritto della comunità rispetto all'individuo

    b) Collegato con quanto precede è il presupposto che la libertà del singolo dipenda dalla struttura dell'insieme e che la lotta per la libertà debba essere condotta innanzitutto non come lotta per i diritti dell'individuo, ma come lotta per una struttura del mondo diversa. Di fronte alla questione di quale aspetto questa struttura debba avere, e quali siano pertanto i mezzi razionali per la sua edificazione, al marxismo è manifestamente mancato il respiro. Infatti anche un cieco poteva vedere che nessuna delle strutture costruite rendeva reale quella libertà, a motivo della quale era richiesta la rinuncia alla libertà stessa. 

    Ma gli intellettuali sono ciechi, laddove si tratta delle creazioni del loro pensiero. Per questa ragione hanno potuto rinunciare a ogni realismo e continuare a combattere per un sistema, le cui promesse non potevano essere mantenute. Ci si aiutò con una fuga nella mitologia: la nuova struttura avrebbe creato un uomo nuovo, poiché, in realtà, solo con un uomo nuovo, con uomini totalmente diversi, le promesse avrebbero potuto trovare attuazione. Se nell'istanza della solidarietà e nell'idea dell'indivisibilità della libertà si trova la connotazione morale del marxismo, nel suo preannuncio dell'uomo nuovo si fa manifesta una menzogna che paralizza anche l'approccio morale. Verità parziali sono collegate a una menzogna, e per questo l'insieme fallisce: la menzogna sulla libertà vanifica anche gli elementi veri. La libertà senza la verità non è libertà. 

    Noi siamo oggi a questo punto. Siamo giunti di nuovo esattamente alle problematiche che Szizypiorski ha formulato così drasticamente a Salisburgo. Che cos'è la menzogna, ora lo sappiamo, almeno in relazione alle forme di marxismo finora realizzate. Ma che cos'è la verità, lo ignoriamo ancora. Sì, il timore cresce: non esiste affatto una verità? Non esistono affatto la giustizia e il diritto? Ci dobbiamo accontentare di ordinamenti sempre provvisori per garantire il minimo di moralità e di convivenza pacifica? Ma anche questi ordinamenti minimi hanno davvero successo, come mostrano i recentissimi sviluppi nei Balcani e in tante altre parti del mondo? Lo scetticismo cresce e le sue ragioni si rafforzano, e tuttavia non scompare la volontà di un mondo migliore, di un mondo della perfetta libertà. 

    La sensazione che la democrazia non sia ancora la forma giusta della libertà è abbastanza generale e si diffonde sempre più. La critica marxista della democrazia non può facilmente essere messa da parte: quanto libere sono le elezioni? Quanto è manipolata la volontà mediante la pubblicità, dunque tramite il capitale, tramite alcuni padroni dell'opinione pubblica? Non esiste forse la nuova oligarchia di coloro che determinano che cosa è moderno e progressista, che cosa deve pensare una persona illuminata? La crudeltà di questa oligarchia, la sua possibilità di condanne pubbliche, è da tempo conosciuta. Chi volesse opporsi è un nemico della libertà, perché egli impedisce la libera espressione del pensiero. E che cosa dire della formazione del consenso negli organi di rappresentanza democratica? Chi potrebbe ancora credere che il bene comune sia ivi l'elemento davvero determinante? Chi potrebbe dubitare del potere di interessi, le cui mani sporche divengono visibili sempre più di frequente? E più in generale: il sistema della maggioranza e minoranza è veramente un sistema di libertà? E associazioni di interessi di ogni tipo non stanno diventando decisamente più forti della rappresentanza propriamente politica, del Parlamento? In questo groviglio di poteri cresce in modo sempre più minaccioso il problema dell'ingovernabilità: la volontà di affermazione dei diritti dei gruppi opposti blocca la libertà dell'insieme. 

    C'è senza dubbio la tentazione di soluzioni autoritarie, la fuga davanti alla libertà non padroneggiata. Ma questo atteggiamento non è ancora determinante per lo spirito del secolo. La corrente radicale dell'illuminismo non ha perduto la sua efficacia, diviene anzi più forte. Proprio di fronte ai limiti della democrazia diventa più forte il grido verso una totale libertà. E, comunque, nella mentalità dominante "legge e ordine" hanno sempre decisamente il significato di opposizione alla libertà. Istituzione, tradizione, autorità appaiono in sé come il polo opposto alla libertà. La nota anarchica del desiderio di libertà si fa più forte, perché le forme vigenti della libertà comunitaria non soddisfanno. Le grandi promesse dell'inizio dell'epoca moderna non sono state mantenute, ma il loro fascino è inalterato. La vigente forma democratica della libertà non può più oggi essere difesa semplicemente con questa o quella riforma legislativa. La questione tocca i fondamenti stessi. Si tratta di che cosa è l'uomo e di come egli, in quanto singolo e nel suo insieme, possa vivere giustamente. 

    Come si vede, il problema politico, filosofico e religioso della libertà è diventato un tutto inscindibile; chi cerca vie per il futuro, deve tenere in considerazione l'insieme e non può accontentarsi di pragmatismi superficiali. Prima di tentare nell'ultima parte di indicare alcune linee per un cammino che sembra per me aprirsi, vorrei ancora gettare uno sguardo sulla filosofia della libertà forse più radicale del nostro secolo, quella di Jean Paul Sartre, nella quale il problema appare in tutta la sua serietà e in tutta la sua gravità. Sartre percepisce la libertà dell'uomo come la sua condanna. A differenza dell'animale, l'uomo non ha nessuna "natura". L'animale vive la sua esistenza secondo una norma in lui innata; non ha bisogno di riflettere su che cosa deve fare della sua vita. Ma l'essere uomo è indeterminato. È un problema aperto. Io stesso devo decidere che cosa voglio intendere con essere uomo, che cosa farne, come configurarlo. L'uomo non ha alcuna natura, ma è solo libertà. Deve vivere la vita da qualche parte, ma comunque essa finisce nel vuoto. Questa libertà senza un significato è l'inferno dell'uomo. Ciò che allarma in questa impostazione di pensiero è che qui la separazione di libertà e verità è portata alle estreme conseguenze: non esiste nessuna verità. La libertà non ha nessuna direzione e nessun criterio [Cfr J. PIEPER, Kreatürlichkeit und menschliche Natur. Anmerkungen zum philosophischen Ansatz von J. P. Sartre, in ID., "Über die Schwierigkeit, heute zu glauben", München 1974, pp. 304-321]. Ma questa totale assenza di verità - la totale assenza di ogni legame anche morale e metafisico, la libertà assolutamente anarchica come determinazione essenziale dell'essere umano - si svela, per colui che cerca di viverla, non come l'esaltazione suprema dell'esistenza, ma come la vanificazione della vita, come il vuoto assoluto, come la definizione della condanna. Nell'estrapolazione di un radicale concetto di libertà, che per Sartre stesso fu esperienza di vita, diviene visibile che la liberazione dalla verità non produce la pura libertà, ma la toglie. La libertà anarchica, assunta in modo radicale, non redime l'uomo, ma ne fa una creatura fallita, un essere senza senso.

       continua








    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 15/01/2018 09:24

    L'essenza della libertà

    Dopo questo tentativo di comprendere l'origine dei nostri problemi e di prendere così conoscenza del loro interno legame, è tempo di cercare delle risposte. È diventato evidente che la crisi della storia della libertà, nella quale oggi ci troviamo, è motivata da un concetto di libertà non chiarito e unilaterale

    Da una parte si è isolato il concetto di libertà falsificandolo: la libertà è un bene, ma lo è solo in unione con altri beni, con i quali costituisce una totalità inscindibile. Dall'altra si è ristretto il concetto di libertà ai diritti individuali di libertà e lo si è così privato della sua verità umana

    Vorrei chiarire il problema di questa comprensione della libertà con un esempio concreto, che al tempo stesso ci può aprire la strada a una concezione adeguata della libertà. Penso alla questione dell'aborto. Nella radicalizzazione della tendenza individualistica dell'illuminismo l'aborto appare come un diritto di libertà: la donna deve poter disporre di se stessa. Essa deve avere la libertà, sia che voglia mettere al mondo un bambino sia che voglia disfarsene. Deve poter decidere di se stessa, e nessun altro può imporle dall'esterno - così ci viene detto - una norma ultimamente vincolante. Ne va del diritto di autodeterminazione. Ma veramente la donna, nell'aborto, decide di se stessa? Non decide essa in realtà di qualcun altro, del fatto che ad altri non debba essere concessa nessuna libertà, che a lui lo spazio della libertà - la vita - debba essere tolto, perché entra in concorrenza con la mia propria libertà? E quindi è da chiedersi: che cosa è veramente questa libertà, ai cui diritti compete di eliminare subito fin dall'inizio la libertà di un altro? 

    Non si dica che la questione dell'aborto tocca uno specifico caso particolare e non serve per chiarire il problema generale della libertà. No, proprio in questo esempio è chiarita la figura fondamentale della libertà umana, la sua essenza tipicamente umana. Infatti, di che cosa si tratta? L'essere di un altro uomo è così strettamente intessuto con l'essere di questa persona, la madre, che per il momento può sussistere assolutamente solo nella correlazione corporea con la madre, in un'unità fisica con essa, che tuttavia non elimina il suo essere altro e non permette di mettere in discussione il suo essere se stesso. Certamente, questo essere se stesso è in modo radicale un essere dall'altro, mediante l'altro; viceversa, l'essere dell'altro - della madre - viene sospinto da questa correlazione verso un "essere per", che contraddice al proprio volere se stessi e viene così sperimentato come opposizione alla propria libertà. Dobbiamo ora aggiungere che il bambino, anche se viene partorito e cambia la forma esterna dell'"essere da" e dell'"essere con", nondimeno resta altrettanto dipendente, altrettanto legato a un "essere per". Certo, lo si può ora inviare in un asilo e metterlo in relazione con un altro "per", ma la figura antropologica è la stessa, rimane quella della dipendenza, che esige un "per", un'accettazione dei limiti della mia libertà, o piuttosto un vivere la mia libertà non in prospettiva di concorrenza, ma di reciproco sostegno

    Se apriamo gli occhi, vediamo che a sua volta questo non vale solo per il bambino, che piuttosto nel bambino entro il seno materno l'essenza dell'esistenza umana nel suo insieme si dà semplicemente a conoscere in modo ben visibile: vale anche per l'adulto, che può essere solo insieme con l'altro e a partire da lui, talché egli è sempre dipendente da quell' "essere per" che intendeva proprio escludere. 

    Diciamolo in modo ancora più preciso: in realtà l'uomo presuppone come del tutto ovvio l' "essere per" degli altri, così come oggi si è venuto configurando nella rete del sistema dei servizi; ma, da parte sua, desidererebbe non essere coinvolto nei vincoli di un tale "da" e "per", bensì divenire del tutto indipendente, potendo fare o non fare ciò che egli semplicemente vuole. Il desiderio di libertà radicale, che si è manifestato sempre più chiaramente nel cammino dell'illuminismo, soprattutto nella linea aperta da Rousseau, e che determina oggi largamente la coscienza comune, aspirerebbe a essere né "da" né "verso", né "di" né "per", ma del tutto libero. Ciò significa: esso considera la stessa figura reale fondamentale dell'esistenza umana come attentato alla libertà soggiacente a ogni singola vita e azione; vorrebbe essere liberato proprio dalla sua specifica essenza umana per divenire l' "uomo nuovo": nella nuova società queste condizioni che limitano l'io e questo "dover donare se stessi" potrebbero non esistere più. 

    In fondo, dietro il radicale desiderio di libertà dell'evo moderno sta ben chiaramente la promessa: diventerete come Dio. Anche se Ernst Topitsch credeva di poter affermare che oggi nessun uomo ragionevole voglia più essere simile a Dio o come Dio, nondimeno a un più attento esame si deve affermare esattamente il contrario: il fine implicito di tutti i movimenti di liberazione moderni è di essere finalmente come un Dio, non dipendenti da nulla e da nessuno, non limitati nella propria libertà da alcuna libertà estranea. Se si considera una volta per tutte questo nascosto nucleo teologico della volontà radicale di libertà, allora diviene anche visibile l'errore fondamentale, che si ripercuote pure là dove tali radicalismi non sono direttamente voluti, anzi sono respinti. Essere totalmente liberi, senza la concorrenza di altre libertà, senza un "da" e un "per": si nasconde qui non un'immagine di Dio, ma di un idolo. 

    L'errore originario di tali radicalizzate volontà di libertà sta nell'idea di una divinità concepita in modo puramente egoistico. Il Dio cosi inteso non è un Dio, ma un idolo, anzi l'immagine di colui che la tradizione cristiana chiamerebbe il diavolo - l'antidio -, poiché in esso si rinviene proprio l'opposto radicale del vero Dio: il vero Dio è per sua essenza totalmente "essere per" (Padre), "essere da" (Figlio) ed "essere con" (Spirito Santo). L'essere umano, tuttavia, è immagine di Dio proprio per il fatto che il "da", il "con" e il "per" costituiscono la figura antropologica fondamentale

    Laddove si cerca di liberarsene, non ci si avvicina alla divinità, ma alla disumanizzazione, alla distruzione dell'essere attraverso la distruzione della verità. La variante giacobina dell'idea di liberazione (chiamiamo una buona volta così i radicalismi moderni) è ribellione contro lo stesso essere uomini, ribellione contro la verità, e pertanto conduce l'uomo - come Sartre acutamente ha visto - a un'esistenza di autocontraddizione che chiamiamo inferno

    In questo modo è emerso molto chiaramente che la libertà è legata a un criterio, al criterio della realtà, alla verità. Libertà di autodistruzione o di distruzione dell'altro non è libertà, ma la sua diabolica parodia. La libertà dell'uomo è libertà condivisa, libertà nell'essere insieme di libertà che si limitano reciprocamente e in tal modo si sostengono l'un l'altra: la libertà deve commisurarsi a quello che io sono, a quello che noi siamo, altrimenti si sopprime da se medesima. 

    Ma con ciò arriviamo ora a una correzione essenziale del superficiale concetto di libertà oggi largamente dominante: se la libertà dell'essere umano può consistere solo nell'ordinato essere insieme di libertà, allora ciò significa che ordine, diritto, non sono concetti opposti alla libertà, ma la sua condizione; anzi, un elemento costitutivo della libertà stessa. Il diritto non è una limitazione della libertà, ma la costituisce. L'assenza di diritto è assenza di libertà.

    Libertà & responsabilità

    Certamente con questa affermazione nasce subito anche una nuova domanda: che cosa è un diritto conforme a libertà? Come dev'essere strutturato un diritto, perché esso costituisca un diritto di libertà? Esiste infatti senz'altro un diritto apparente che costituisce un diritto da schiavi e pertanto non è un diritto, ma una forma regolamentata di ingiustizia. La nostra critica non può essere rivolta contro il diritto stesso, che appartiene all'essenza della libertà; essa deve smascherare come tale l'apparente diritto e mettersi al servizio dell'affermazione del vero diritto, di quel diritto che è secondo la verità e pertanto secondo la libertà. 

    Ma come lo si trova? È questa la grande questione, la questione finalmente posta in modo giusto della vera storia della liberazione. Procediamo anche qui, come già prima, non con astratte considerazioni filosofiche, ma cercando di avvicinarci progressivamente a una risposta a partire dalle presenti realtà della storia. Se cominciamo da una piccola comunità ben delimitata, è facilmente possibile scandagliare in una qualche misura - a partire dalle sue possibilità e limiti - quale ordine favorisca meglio la convivenza di tutti, così che dal loro essere insieme nasca una figura comune di libertà. 

    Ma nessuna piccola comunità è isolata in se medesima; essa è inclusa e nella sua specifica essenza condeterminata dalle istituzioni più grandi, alle quali appartiene. Nell'epoca degli Stati nazionali si muoveva dal presupposto che la propria nazione fosse l'unità di misura, che il suo bene comune costituisse anche il criterio giusto della libertà comune. Lo sviluppo del nostro secolo ha chiarito che questo punto di vista non è sufficiente. Agostino aveva detto al riguardo che uno Stato, il quale si riferisse solo agli interessi comuni propri e non alla giustizia in sé, alla vera giustizia, non sarebbe strutturalmente differente da una ben ordinata banda di predoni. Peculiare caratteristica di essa è infatti quella di assumere come criterio il bene della banda indipendentemente dal bene degli altri. 

    Guardando indietro all'epoca coloniale e ai danni che essa ha lasciato nel mondo, vediamo oggi che Stati molto ben organizzati e civilizzati si avvicinavano in qualche modo all'essenza della banda di predoni, poiché essi pensavano muovendo solo dal proprio bene e non dal bene in sé. Una libertà così garantita ha dunque in sé qualcosa della libertà dei predoni. Non è la vera, autentica libertà umana. Nella ricerca del criterio giusto tutta quanta l'umanità deve stare davanti agli occhi e - come vediamo sempre più chiaramente - una volta ancora non solo l'umanità di oggi, ma anche quella di domani

    Il criterio per il vero diritto, che possa definirsi autenticamente come diritto e quindi come diritto di libertà, può essere pertanto solo il bene del tutto, il bene in sé. A partire da questa intuizione Hans Jonas ha proposto il concetto di responsabilità come concetto etico centrale [H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt a.M. 1979; tr. it. Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Torino 1993]. Ciò significa che, per essere intesa correttamente, la libertà deve sempre essere pensata insieme con la responsabilità. La storia della liberazione può quindi darsi sempre e soltanto come storia di una crescente responsabilità. La crescita della libertà non può più consistere semplicemente nel sempre maggiore ampliamento dei diritti individuali, ciò che conduce all'assurdo e alla distruzione anche delle stesse libertà individuali. Crescita della libertà deve essere crescita della responsabilità. 

    Vi appartiene anche l'accettazione dei legami sempre più grandi richiesti dalle esigenze di coesistenza dell'umanità, dalla necessità di adeguarsi a quanto è essenziale dell'uomo. Se responsabilità è rispondere alla verità dell'essere uomo, possiamo allora dire: appartiene alla vera storia della liberazione la continua purificazione verso la verità. Nella purificazione del singolo e delle istituzioni per mezzo di questa verità consiste la vera storia della libertà. 
    Il principio responsabilità costituisce una cornice che ha bisogno di essere riempita di contenuti. È in questo contesto che va considerata la proposta dell'elaborazione di un ethos mondiale, per il quale si è impegnato con passione anzitutto Hans Küng. Indubbiamente ha senso, anzi, nella nostra attuale situazione è necessario cercare gli elementi di fondo delle tradizioni etiche nelle diverse religioni e culture; in questo senso una tale impresa è certamente importante e opportuna. 

    Per altro verso i limiti di un tentativo siffatto sono evidenti, e su di essi ha richiamato l'attenzione per esempio Joachim Fest in un'analisi certamente benevola, ma anche molto pessimistica, la quale si avvicina nell'orientamento allo scetticismo di Szizypiorski [J. FEST, Die schwierige Freiheit, Berlin 1993, soprattutto pp. 47-81; l'autore, riassumendo, così commenta l'"ethos mondiale" di Küng: "Quanto più si spingono avanti le concordanze non raggiungibili senza concessioni, tanto più elastiche e di conseguenza impotenti devono necessariamente divenire anche le norme etiche, fino a che il progetto non sfoci in mera convalida di quella moralità che non impegna e che non costituisce propriamente il fine, bensì il problema" (p. 80)]. A un tale minimo etico distillato dalle diverse religioni manca innanzitutto il carattere vincolante, l'autorità interna, di cui l'ethos ha bisogno. Gli manca anche l'evidenza razionale sufficiente, che secondo il parere degli autori ben potrebbe e dovrebbe sostituire l'autorità; gli manca inoltre la concretezza, che solo rende l'ethos efficace. 

    Un'idea mi sembra giusta, certamente presente in questo tentativo: la ragione deve mettersi in ascolto delle grandi tradizioni religiose, se non vuole divenire sorda, muta e cieca proprio in riferimento all'essenziale dell'esistenza umana. Non esiste nessuna grande filosofia che non viva dell'ascolto e dell'accoglienza di una tradizione religiosa. Laddove questa relazione viene interrotta, il pensiero filosofico si inaridisce e diventa un vuoto gioco di concetti [Vi insiste J. PIEPER, Schriften zum Philosophiebegriff, Opere, vol. 3 (a cura di B. WALD), Hamburg 1995, pp. 300-323 nonché pp. 15-70; in particolare, pp. 59 ss.]. 

    Proprio sul tema della responsabilità, cioè sulla questione dell'ancoraggio della libertà nella verità del bene, nella verità dell'uomo e del mondo, si rivela molto chiaramente la necessità di un simile ascolto. Infatti, per quanto sia valido nella sua impostazione il principio responsabilità, resta tuttavia la domanda: come dobbiamo individuare ciò che è buono per tutti e ciò che è buono non solo per oggi, ma anche per domani? Un duplice pericolo è qui in agguato: da una parte vi è il rischio di uno scivolamento nel consequenzialismo, che giustamente il Papa critica nella sua Enciclica sulla morale [Enc. Veritatis splendor, nn. 71-83]. L'uomo sopravvaluta altamente le sue forze quando ritiene di poter considerare tutte le conseguenze della propria azione e di poterle assumere come norma della sua libertà. Ben presto allora il presente viene sacrificato al futuro, ma nemmeno il futuro viene edificato

    Per altro verso insorge la questione: chi decide allora che cosa la nostra responsabilità impone? Laddove la verità non è più ravvisata in un intelligente appropriarsi delle grandi tradizioni della fede, essa viene sostituita dal consenso. Ma di nuovo c'è da domandarsi: il consenso di chi? Si dice allora: il consenso di coloro che sono capaci di argomentare. E poiché non può sfuggire la pretenziosità elitaria di una simile dittatura intellettuale, si dice che coloro i quali sono capaci di argomentare dovrebbero farsi garanti anche per quelli che sarebbero inidonei all'argomentazione razionale. 

    Tutto questo ha ben poca capacità di suscitare fiducia. Quanto fragili siano i consensi e quanto rapidamente, in un certo clima intellettuale, gruppi partitici possano imporsi come gli unici rappresentanti autorizzati del progresso e della responsabilità è davanti agli occhi di noi tutti. Con troppa facilità si rischia qui di cacciare il diavolo con Beelzebub; con troppa facilità, invece del demonio delle passate costellazioni culturali, sette nuovi e peggiori demoni possono occupare la nostra casa.

    La verità del nostro essere uomini.

    La questione di come responsabilità e libertà siano da porre nella giusta relazione non può essere decisa semplicemente mediante un calcolo degli effetti. Dobbiamo tornare all'idea precedente, secondo cui la libertà umana è una libertà nella coesistenza delle libertà; solo così essa è autentica, cioè conforme alla reale condizione dell'uomo. Ciò significa: io non ho affatto bisogno di muovere dall'esterno per cercare elementi di correzione alla libertà del singolo; in tal caso libertà e responsabilità, libertà e verità rimarrebbero sempre contrapposte, mentre in realtà non lo sono. La realtà del singolo rettamente intesa reca in se medesima il rinvio al tutto, all'altro. Diremo pertanto: in ogni uomo esiste la verità comune dell'unica essenza umana, che la tradizione designò come "natura" dell'uomo. Muovendo dalla fede nella creazione possiamo formulare questa realtà ancora più chiaramente: esiste l'unica creatura uomo così come concepita da Dio, e il nostro compito è quello di corrispondervi. In lui libertà e spirito comunitario, ordine e orientamento al futuro costituiscono una cosa sola. 

    Responsabilità significherebbe allora: vivere l'essere come risposta, come risposta a ciò che siamo in verità. Quest'unica verità dell'uomo, nella quale il bene di tutti e la libertà sono inscindibilmente ordinati l'uno all'altra, è espressa nella tradizione biblica, fondamentalmente nel Decalogo, il quale, d'altronde, sotto molteplici aspetti coincide con le grandi tradizioni etiche delle altre religioni. 

    Il Decalogo è nel medesimo tempo autopresentazione, autorappresentazione di Dio e spiegazione dell'essere umano, manifestazione della sua verità, che diviene visibile nello specchio dell'essenza divina, poiché solo a partire da Dio l'uomo può essere compreso rettamente. Vivere il Decalogo significa vivere la propria somiglianza con Dio, rispondere alla verità del nostro essere e fare così il bene. Detto in altro modo ancora: vivere il Decalogo significa vivere la dimensione divina dell'uomo. E questo appunto è libertà: una fusione del nostro essere con l'essere divino e l'armonia che ne consegue di tutti con tutti [Cfr Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 2052-2082]. 

    Perché questa affermazione sia intesa rettamente occorre aggiungere ancora un'osservazione. Ogni grande parola umana conduce oltre ciò che nell'immediatezza viene detto coscientemente, a una più grande profondità; in quanto si dice è nascosto sempre un di più di non detto, che con il passare del tempo rende più dense di senso le parole. Se ciò vale per la parola umana, a maggior ragione vale per la parola che viene dalle profondità divine. Il Decalogo non è mai semplicemente compreso fino in fondo. Nelle situazioni di responsabilità storica che si susseguono e mutano esso si presenta in prospettive sempre diverse, si dischiudono dimensioni sempre nuove del suo significato. Si verifica quel venire introdotti nella verità tutta intera, in una verità il cui peso non potrebbe assolutamente essere portato in un solo momento della storia (cfr Gv 16, 12 s.). Per i cristiani significa quella spiegazione realizzatasi nelle parole, nella vita, nella passione e nella risurrezione di Cristol'istanza interpretativa decisiva, nella quale si dischiude una profondità prima imprevedibile. 

    Proprio perché questa è la verità delle cose, l'umano ascolto del messaggio della fede non è un'accettazione passiva di informazioni peraltro sconosciute, ma il risveglio della nostra memoria sepolta e il dischiudersi delle forze della comprensione, che attendono in noi la luce della verità. Tale comprensione è così un processo estremamente attivo, nel quale soltanto tutta la ricerca razionale dei criteri della nostra responsabilità trova davvero la sua solidità. La ricerca razionale non viene soffocata, bensì liberata dal circolo senza esito all'interno di quanto non si riesce a comprendere e ricondotta sulla via. Se il Decalogo approfondito nella comprensione razionale è la risposta alle esigenze interiori della nostra natura, allora esso non è il polo che si oppone alla nostra libertà, ma la sua forma concreta. Allora esso è il fondamento per ogni diritto di libertà e la forza veramente liberante della storia umana.

    Sintesi dei risultati

    "Forse la vaporiera dell'illuminismo, andata a riposo dopo due secoli di utile lavoro, senza guasti, si è fermata davanti ai nostri occhi e con la nostra partecipazione. E il vapore soltanto sale nell'aria": è questa la pessimistica diagnosi di Szizypiorski, incontrata all'inizio come provocazione per la riflessione. Orbene, io direi: senza guasti il lavoro di questa macchina non è stato mai; pensiamo solo alle due guerre mondiali del nostro secolo e alle dittature che abbiamo sperimentato. 

    Ma vorrei aggiungere: non abbiamo affatto bisogno di prendere congedo dalla eredità dell'illuminismo come tale e nel suo insieme, di parlare di vaporiera andata a riposo. Ciò di cui abbiamo certamente bisogno è di una correzione di percorso in tre punti essenziali, nei quali vorrei riassumere i risultati delle mie riflessioni. 

    1. Una concezione della libertà, che voglia considerare come liberazione soltanto la dissoluzione sempre più ampia delle norme e l'ampliamento continuo delle libertà individuali fino alla totale liberazione da ogni ordinamento, è falsa. La libertà, se non intende portare alla menzogna e all'autodistruzione, deve orientarsi alla verità, ossia a ciò che veramente noi siamo e corrispondere a questo nostro essere. Poiché l'uomo è un'essenza nell' "essere da", nell' "essere con" e nell' "essere per", la libertà umana può consistere solo nell'ordinata concordia delle libertà. Il diritto non è pertanto il contrario delle libertà, ma la sua condizione, ne è anzi costitutivo. La liberazione non consiste nella progressiva abolizione del diritto e delle norme, ma nella purificazione di noi stessi e nella purificazione delle norme, così che esse rendano possibile la convivenza umana delle libertà. 

    2. Dalla verità della nostra essenza consegue un ulteriore elemento: in questa nostra storia umana non vi sarà mai la situazione assolutamente ideale, né mai verrà eretto un ordinamento di libertà definitivo. L'essere umano è sempre in cammino e sempre limitato. Davanti alla manifesta ingiustizia della società socialista e a tutti i problemi dell'ordine liberale Szizypiorski aveva posto il dubbioso interrogativo: esiste effettivamente un diritto? A questo proposito dobbiamo dire: in verità, l'ordine assolutamente ideale delle cose, il diritto perfetto, non esisteranno mai [Cfr la Costituzione conciliare Gaudium et spes, n. 78: "... la pace non è stata mai stabilmente raggiunta"]. 

    Laddove è avanzata tale pretesa, non si dice la verità. La fede nel progresso non è totalmente falsa. Falso è però il mito del futuro mondo liberato, nel quale tutto sarà diverso e tutto sarà buono. Noi possiamo erigere sempre e solo ordinamenti relativi; solo relativamente essi possono avere ragione ed essere giusti. Ma dobbiamo impegnarci proprio in questo avvicinamento, il più adeguato possibile, al diritto autentico. Tutto il resto, ogni escatologia intrastorica, non libera, ma inganna e dunque asservisce. Occorre perciò smitizzare anche il fulgore mitico che si è attribuito a concetti come cambiamento e rivoluzione. Il cambiamento non è un bene in sé. Se è buono o cattivo dipende dai suoi contenuti concreti e dai punti di riferimento. L'idea che nella lotta per la libertà il compito essenziale sia il cambiamento del mondo è, ripeto, un mito. Nella storia ci saranno sempre un progredire e un retrocedere. In rapporto all'autentica natura morale dell'uomo essa non si svolge linearmente, ma con ripetizioni. Nostro compito è lottare di volta in volta nel presente per quella strutturazione relativamente migliore della convivenza umana e custodire il bene così raggiunto, vincere il male esistente e difendersi dall'assalto delle potenze distruttive. 

    3. Dobbiamo anche prendere congedo dal sogno dell'assoluta autonomia della ragione e della sua autosufficienza. La ragione umana ha bisogno del sostegno delle grandi tradizioni religiose dell'umanità. Essa certamente esaminerà in modo critico le singole tradizioni religiose. La patologia della religione è la malattia più pericolosa dello spirito umano. Essa si dà nelle religioni, ma esiste propriamente anche là dove la religione è respinta come tale e viene attribuito un ruolo assoluto a beni relativi: i sistemi ateistici dell'epoca moderna sono gli esempi più spaventosi di una passione religiosa alienata dalla sua essenza, il che significa comunque una malattia mortale dello spirito umano. Laddove Dio è negato, non si costruisce la libertà, ma le viene sottratto il suo fondamento e pertanto essa risulta stravolta ["Nessuno degli appelli che concernono l'uomo sa dire come egli possa vivere senza aldilà e senza timore dell'ultimo giorno, e tuttavia riesca di volta in volta ad agire contro i propri interessi e i propri desideri" (J. FEST, loc. cit., p. 79). Cfr anche L. KOLAKOWSKI, Falls es keinen Gott gibt, München 1982]. 

    Laddove le più pure e profonde tradizioni religiose vengono totalmente abbandonate, l'uomo si separa dalla sua verità, vive contro di essa e perde la libertà. Anche l'etica filosofica non può essere semplicemente autonoma. Essa non può rinunciare all'idea di Dio così come non può rinunciare all'idea di una verità dell'essere, che ha carattere etico [Cfr J. PIEPER, loc. cit.; v. nota 10]. Se non c'è nessuna verità dell'uomo, egli non ha neppure nessuna libertà. Solo la verità rende liberi.




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 15/01/2018 09:30
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    da un’omelia pronunciata a Monaco da J. Ratzinger nel dicembre 1979 

    Il magistero ecclesiale protegge la fede dei semplici; di coloro che non scrivono libri, che non parlano in televisione e non possono scrivere editoriali nei giornali: questo è il suo compito democratico. Esso deve dare voce a quelli che non hanno voce.

    [...]

    Non sono i dotti a determinare ciò che è vero della fede battesimale, bensì è la fede battesimale che determina ciò che c’è di valido nelle interpretazioni dotte. Non sono gli intellettuali a misurare i semplici, bensì i semplici misurano gli intellettuali. Non sono le spiegazioni intellettuali la misura della professione di fede battesimale, bensì la professione di fede battesimale, nella sua ingenua letteralità, è misura di tutta la teologia. Il battezzato, colui che sta nella fede del battesimo, non ha bisogno di essere ammaestrato. Egli ha ricevuto la verità decisiva e la porta con sé con la fede stessa.

    [...]

    Dovrebbe essere finalmente chiaro anche che dire dell’opinione di qualcuno che essa non corrisponde alla dottrina della Chiesa cattolica non significa violare i diritti umani. Ciascuno deve avere il diritto di formarsi e di esprimere liberamente la propria opinione. La Chiesa con il Concilio Vaticano II si è dichiarata decisamente a favore di ciò e lo è ancora oggi. Ma ciò non significa che ogni opinione esterna debba essere riconosciuta come cattolica. Ciascuno deve potersi esprimere come vuole e come può davanti alla propria coscienza. La Chiesa deve poter dire ai suoi fedeli quali opinioni corrispondono alla loro fede e quali no. Questo è un suo diritto e un suo dovere, affinché il sì rimanga sì e il no no, e si preservi quella chiarezza che essa deve ai suoi fedeli e al mondo.






    Unde malum? Da dove viene il male?
    Per una riflessione teologica.

    E' il testo dal titolo Liquidazione del diavolo, ripubblicato in J.Ratzinger, Dogma e predicazione,Queriniana, Brescia, 1974, pp.189-197.

    Esse prendono avvio dalla valutazione critica di un intervento dell'esegeta H.Haag che, negli anni sessanta, si era espresso contro l'idea dell'esistenza del Maligno.
     
    Il vangelo della prima domenica di quaresima, che riferisce la tentazione di Gesù ad opera di «Satana», dà occasione di anno in anno di meditare su quella misteriosa potenza, che si nasconde dietro il nome di «Satana». Un ulteriore impulso a questo problema venne alcuni anni fa da Tubinga; nel 1969 Herbert Haag, professore di Antico Testamento, vi aveva pubblicato un libretto con il significativo titolo di La liquidazione del diavolo?.

    Questo libretto culmina nella frase: «Noi abbiamo già compreso che nel Nuovo Testamento il concetto di 'diavolo' sta semplicemente al posto del concetto di 'peccato'» (p. 52). Al papa, che aveva sottolineato la reale esistenza di Satana e si era dichiarato contrario alla sua dissoluzione in qualcosa di astratto, Haag ha di recente rimproverato di ricadere nella visione del mondo giudaica dei primi tempi; Paolo VI farebbe confusione, nella Sacra Scrittura, tra visione del mondo ed espressione della fede. Cosa si può dire di ciò? E' importante qui, anzitutto, una precisazione metodologica. Neppure Haag può negare che nel Nuovo Testamento Satana e i demoni giochino un ruolo importante.

    Non può contestare nemmeno il fatto che nel Nuovo Testamento il termine «diavolo» non rappresenta affatto un sinonimo di peccato, ma allude ad una potenza esistente; l'uomo è abbandonato ad essa e ne viene liberato per opera di Cristo, perché solo lui, nella sua qualità di «più forte» può legare l'uomo «forte» (Lc11,22; cfr. Mc. 3,27). La supposizione che si avrebbe conosciuto la possibilità di sostituire diavolo con peccato sorge in Haag per via induttiva, senza un vero e proprio fondamento; il «fondamento» si nasconde in una formulazione, che per la sua ovvietà potrebbe indurre a rinunciare ad un esame più preciso: «Nel significato delle forme di pensiero giudaiche di allora il diavolo appare nel Nuovo Testamento come l'esponente del male. Gesù e gli apostoli si muovono entro queste forme di pensiero allo stesso modo del loro ambiente» (p. 47).

    Qui si ammette — come il testo afferma indiscutibilmente — che Gesù e gli apostoli fossero convinti dell'esistenza di potenze demoniache; nello stesso tempo, però, si presuppone come del tutto evidente che essi fossero vittime «delle forme di pensiero giudaiche di allora». Da qui non è difficile derivare la conclusione seguente, che cioè «questa concezione non è più conciliabile con la nostra immagine del mondo» (p. 27). Ciò significa che il motivo per il «commiato dal diavolo» non poggia sulle affermazioni bibliche, le quali sostengono il contrario, ma sulla nostra visione del mondo, con la quale esso sarebbe «inconciliabile». In altre parole, Haag congeda il diavolo non come esegeta, come interprete della Scrittura, ma come persona del nostro tempo, che ritiene improponibile l'esistenza di un diavolo. L'autorità in forza della quale egli asserisce il suo giudizio non è, dunque, quella di interprete della Bibbia, ma la visione del mondo a lui contemporanea.

    Si potrebbe pensare di aver così eliminato il problema, perché è chiaro ormai che Haag giudica quello che è «conciliabile» con il pensiero moderno, contro il testo della Bibbia, sulla base della sua concezione. Ma la questione non è così semplice perché, in realtà, ci sono delle espressioni nella Bibbia, che non si possono reputare come testimonianza della fede, ma devono venir considerate come struttura della visione dei mondo, nella quale quell'idea particolare si esprime. Questo vale ad esempio per la visione del mondo geocentrica, che venne difesa in un primo momento, contro Copernico e Galilei, come dottrina biblica, finché si riconobbe che la Bibbia non è competente per problemi di astronomia; ciò vale per l'interrogativo sull'origine del mondo; per un certo tempo si volle vederla descritta letteralmente nel primo capitolo della Genesi, finché si ritrovò la strada per dar ragione di nuovo alla chiesa antica nell'ammettere che qui si tratta di affermazioni della potenza di Dio e del compito dell'uomo, ma non di informazioni scientifiche. Si dovrà dichiarare pure che non è affatto sempre chiaro fin dove arrivi l'affermazione di fede della Bibbia e cosa sia soltanto una strumentalizzazione del suo tema peculiare, determinata dal tempo.

    Nel medioevo l'idea della terra come centro dell'universo si era fusa così strettamente con la fede nell'incarnazione di Dio, con la speranza in un nuovo cielo e una nuova terra, che la visione del mondo eliocentrica apparve come un attacco al nucleo stesso della fede. Perché Dio infatti dovrebbe essersi fatto uomo su un pianeta privo di importanza dal punto di vista astronomico, posto in mezzo ad un gigantesco universo? La decisiva azione salvifica non era stata privata di una degna sede? Solo con una faticosa lotta si poté arrivare a capire cosa è necessario, e cosa non lo è, per credere nella «discesa» di Dio. Per questo parla a sfavore di Haag la semplicità con cui egli stabilisce ciò che è conciliabile o meno con la visione moderna del mondo; parla contro di lui la falsa pretesa di decidere in qualità di esegeta, benché egli parli come filosofo e la sua unica filosofia consista evidentemente in una irriflessiva modernità. Ma non è ancora stato deciso in senso univoco il problema se qui, forse, non ci si trovi realmente davanti solo ad un modo di vedere determinato dalla visione del mondo, il cui contenuto reale si debba separare dalla forma.

    Sorge perciò l'interrogativo: come si può chiarire ciò? Come si può evitare che vengano qui ripetuti degli scontri falsi e dannosi come la disputa con Galileo? Come si può impedire, viceversa, che la modernità venga amputata per amore della fede stessa?

    Anche questo è accaduto, da Reimarus fino ai cristiani tedeschi del Terzo Reich; nel mettere in guardia da nuovi casi Galileo, si tace in genere su questo fatto, benché gli effetti di cristianesimi così conformistici fossero probabilmente molto più catastrofici del processo a Galilei, che non fu soltanto un prodotto dell'ostinatezza ecclesiastica, ma la lotta di un'intera società, la quale doveva imparare a superare la scossa ricevuta dai principi spirituali della storia fin'allora vissuta ed a distinguere di nuovo, nel cambiamento dei tempi, tra «stelle fisse» e «pianeti», tra orientamento persistente e movimento transitorio. Non esistono criteri che si possano impiegare subito, e senza tema d'errare, in ogni caso che si presenti; il tracciare dei confini rimane un compito, che richiede anche un continuo sforzo spirituale; si potrà comprendere così una lotta per i confini della fede, finché, per un verso, rimane la disponibilità alla correzione sulla base di un sapere dimostrato e, dall'altra parte, si riconosce che una fede può venir realizzata soltanto nella fede comune con la chiesa; quello che di volta in volta viene considerato sostenibile o meno, non è soggetto alle disposizioni di decisioni private. Anche se non esiste criterio alcuno, che in tutti i singoli casi indichi automaticamente, volta per volta, dove termina la fede e dove inizia la visione del mondo, esistono tuttavia una serie di aiuti per giudicare, i quali indicano la strada da seguire nella ricerca di delucidazioni. Io ne nomino quattro.

    Un primo criterio deriva dal rapporto dei due Testamenti. La Bibbia non esiste in uniformità, ma nell'accordo tra Antico e Nuovo Testamento, che nel loro porsi di fronte e nella loro unità si commentano a vicenda. Si deve affermare anzitutto che l'Antico Testamento ha valore soltanto in unione col Nuovo, sotto i suoi segni, per mezzo della sua rapportabilità, come pure che il Nuovo Testamento dischiude il suo contenuto solo grazie al suo continuo riferirsi all'Antico. Questo dato di fatto è generalmente riconosciuto per quanto riguarda le prescrizioni legislative dell'Antico Testamento; esse non hanno valore di legge nella loro letteralità, ma valgono in quanto sono una parte della storia che porta a Cristo, che è terminata in lui. La stessa regola di base, che Paolo ha chiaramente formulato per la questione della legge, determina in generale la relazione dei Testamenti. Se nell'ultimo secolo la si avesse avuta così chiaramente davanti agli occhi come l'ebbero i padri della chiesa, si sarebbe evitata tutta la disputa sul racconto della creazione. In base ad essa, infatti, il racconto della creazione della Genesi non ha valore diretto, come testo veterotestamentario, nella sua nuda letteralità, ma in quanto viene accolto nella prospettiva del Nuovo Testamento, nell'ambito della cristologia. Se si usa questo criterio, si vede che Gv. 1,1 è l'assunzione neotestamentaria del testo della Genesi, la cui vivace descrizione viene riassunta nell'unica affermazione: in principio era il Verbo.

    Tutto il resto viene così rimandato nel mondo delle immagini. Ciò che rimane è la provenienza della creazione dalla parola, la quale si rispecchia nell'Antico Testamento in molte parole. Che senso ha questo criterio per le nostre questioni? Chi lo usa va incontro ad un risultato sconcertante. Mentre noi nel problema della creazione e nella questione della legge trovavamo, nel porre il Nuovo Testamento di fronte all'Antico, la tendenza alla concentrazione, al riassunto in un semplice punto centrale, qui appare esattamente il contrario, la tendenza cioè all'espansione; la presentazione di potenze demoniache appare nell'Antico Testamento soltanto gradualmente; nella vita di Gesù invece possiede un peso incredibile, che rimane immutato in Paolo e si mantiene fino agli ultimi scritti del Nuovo Testamento, nelle lettere della prigionia e nel vangelo di Giovanni. Questo processo di intensificazione, di estrema cristallizzazione del demoniaco — che avviene nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento, proprio in contrapposizione alla figura di Gesù — e la persistenza del tema nell'intera testimonianza neotestamentaria possiedono una notevole forza espressiva. A partire da qui si potrà dire che nella storia iniziale della fede veterotestamentaria l'affermazione di potenze demoniache doveva rimanere in disparte, perché si doveva far accettare, in primo luogo, contro ogni dualità, la fede nel Dio uno ed unico.

    In un ambiente saturo di dei, che osservava incerto i cambiamenti tra dei buoni e cattivi, il richiamo a Satana avrebbe tolto la sua chiarezza alla decisiva professione religiosa. Solo quando la tesi dell'unico Dio, con tutte le sue conseguenze, era divenuta possesso imperturbabile di Israele, fu possibile allargare lo sguardo a delle potenze che superavano la dimensione dell'uomo, senza poter mettere in discussione Dio, nella sua unicità. Questo processo storico rimane importante in quanto anche oggi dà un parere vincolante sull'ordine gerarchico della conoscenza di fede. Al primissimo posto sta l'essere Dio di Dio, la sua unicità. La fede cristiana va verso Dio e, a partire da lui, vede il mondo; il cristiano, come dice Gregorio di Nissa a proposito del libro di Qohelet (2,14), ha i suoi occhi nella testa, cioè in alto, non in basso. Egli sa che colui che teme Dio non deve temere niente e nessuno e il timore di Dio è fede, qualcosa di molto diverso da un timore servile, da una paura dei demoni. Ma esso è anche qualcosa di molto diverso da un coraggio millantatore, che non vuol vedere la serietà della realtà. E' proprio del vero coraggio non nascondersi le dimensioni del pericolo, ma essere in grado di percepire la realtà nel suo insieme. E ciò chiarifica anche il fenomeno dell'intensificazione: quanto più l'uomo sta dalla parte di Dio, tanto più egli diventa realistico; quanto più chiari si mostrano i confini della realtà, tanto più chiara diventa anche la contrapposizione a ciò che è santo: le belle maschere del demonio non ingannano più colui che le osserva partendo da Dio. Questo porta già ad un secondo criterio. Si deve indagare di volta in volta in quale rapporto sta un'asserzione con la realizzazione interiore della fede e della vita del credente.

    Delle affermazioni che rimangono soltanto modi di vedere teoretici, ma non entrano nel vero e proprio svolgersi dell'esistenza, in via normale non potranno venir annoverate tra ciò che è essenzialmente cristiano. Viceversa ciò che non si presenta come un puro modo di vedere teoretico, ma sta nello spazio dell'esperienza di fede, appare nella vita di fede come dato dell'esperienza, ha una posizione del tutto diversa. L'idea del sorgere e del tramontare del sole, della posizione centrale della terra, poteva essere quindi un modo di vedere naturale e variamente interpretabile della fede, non apparteneva alle sue specifiche esperienze. La mistica, con la sua via dell'unione, portava piuttosto alla relativizzazione di tutti gli schemi di visione del mondo. In questa questione mi sembra di straordinaria importanza il fatto che la lotta con la potenza dei demoni appartiene allo specifico cammino religioso di Gesù stesso. La Bibbia è a conoscenza delle sue tentazioni (Lc. 22,28), non soltanto di quelle che vengono esplicitamente descritte; essa va così avanti da poter affermare che Gesù è venuto nel mondo per distruggere le opere del diavolo (1Gv 3,8). Questa formula compendia ciò che Gesù stesso dice — nella serie di detti sull'uomo più forte e sull'uomo forte — della potenza dei demoni, il cui regno egli, nella forza dello Spirito Santo, porta alla rovina (Mc. 3,20-30). Sorprende che egli, che non voleva lasciarsi trasformare in uomo del miracolo, ritenesse la lotta contro i demoni la parte centrale del suo incarico (vedi ad esempio Mc 1,35-39) e che, di conseguenza, i pieni poteri su di essi costituiscano il nucleo del potere, che egli conferisce ai suoi discepoli: essi vengono mandati «a predicare col potere di cacciare i demoni» (Mc. 3,14s).

    La lotta spirituale contro le potenze che rendono schiavi, l'esorcismo su un mondo abbacinato da demoni è una componente inseparabile dell'iter spirituale di Gesù e sta al centro sia della sua particolare missione che di quella dei suoi discepoli. La figura di Gesù, la sua fisionomia spirituale non cambia se il sole gira attorno alla terra oppure se la terra si muove attorno aI sole, se il mondo si è formato per evoluzione oppure no, ma viene decisamente cambiata, se si esclude da essa la lotta con la sperimentata potenza del regno dei demoni. A questo secondo criterio è strettamente collegato il terzo. Una Bibbia senza chiesa sarebbe soltanto una raccolta letteraria. Perciò quando, al di là della necessaria ricerca scientifica di ciò che è strettamente storico, la Bibbia viene esaminata come libro della fede, quando viene cercata la distinzione tra fede e non fede, deve venir in ballo questa unità di Bibbia e chiesa. Come già dicemmo, la fede può venir realizzata soltanto nel credere insieme con tutti; essa svanisce dove viene superata dalla volontà del singolo individuo. Come ulteriore criterio è necessario quindi ricercare in che misura le affermazioni sono state accolte nella fede della chiesa. Ma la fede della chiesa non è un qualcosa del tutto univoco e circoscrivibile, altrimenti la questione sarebbe semplice.

    Si deve dunque discernere con più esattezza ed adoperarsi per scoprire in quale misura qualcosa è entrato a far parte della vera ed interiore realizzazione della fede, nella forma di base della preghiera e della vita stessa, al di là delle deviazioni della tradizione. Così, ad esempio, la disputa sulla filiazione divina di Gesù, sulla divinità dello Spirito Santo, sulla unità e trinità di Dio, è stata portata avanti a motivo delle conseguenze per la liturgia battesimale, per la liturgia eucaristica e quindi per il significato della conversione cristiana, quale si presenta nel battesimo. Basilio, ad esempio, che portò a conclusione l'ultima disputa sulla divinità dello Spirito Santo, ha discusso questo problema con molta rigorosità, partendo dall'intima pretesa del battesimo e della sua forma liturgica. Lui sostenne che il battesimo non è un trastullo liturgico, ma la solenne forma ecclesiale della decisione esistenziale, supposta dall'essere cristiano. Si deve poter prenderla alla lettera, soprattutto nel suo avvenimento centrale. Essa specifica cosa avviene nel divenire cristiani e cosa non avviene. Ma, per ritornare alla nostra questione, l'esorcismo e la rinuncia a Satana fanno parte dell'avvenimento centrale del battesimo; quest'ultima, assieme alla promessa a Gesù Cristo, costituisce l'essenziale porta d'ingresso al sacramento. Il battesimo introduce così l'uomo nel modello di esistenza di Gesù Cristo, nella sua lotta e nella sua libertà. Viene a contatto con la sua esperienza spirituale e la trasferisce in colui, che inizia ad imitare Cristo.

    Quando l'uomo cammina nella luce di Gesù Cristo il demonio viene trasportato dall'altra parte e diventa così superabile. Ritorna con pieno valore l'affermazione che se si volesse annullare la realtà della potenza demoniaca, si cambierebbe il battesimo e con esso la realizzazione della vita cristiana. Nella ricerca sulla chiesa, d'altronde, si dovrebbe includere l'esperienza dei santi, di coloro che credono in forma esemplare; parlo della loro esperienza, non di tutte le loro idee. Questa esperienza corrisponde all'esperienza di Gesù; con quanta maggior forza diventa visibile e potente ciò che è santo, tanto meno il demonio può nascondersi. Per questo si potrebbe dire senz'altro che lo scomparire dei demoni, il presunto divenire innocuo del mondo vanno di pari passo con lo scomparire di ciò che è santo. Infine, come ultimo criterio, deve venir ricordato il problema della «visione del mondo», della conciliabilità con una conoscenza scientifica. La fede diventerà di continuo la critica di ciò che di volta in volta ha valore di certezza in quanto moderno e nuovo; però essa non può contraddire una conoscenza scientifica garantita, anche se questa deve stabilire dei segni negativi così notevoli.

    Si sarebbe curiosi di sapere in base a quali ragioni Haag decide «che questa concezione non è più conciliabile col nostro mondo». E' evidente che essa si oppone al gusto medio della gente; è altrettanto palese che essa non trova nessun appoggio in un mondo considerato funzionalisticamente. Ma in un puro funzionalismo non c'è posto neppure per Dio né per l'uomo come uomo, ma soltanto per l'uomo come funzione; qui dunque crolla molto di più della sola idea del «diavolo». Rimane difficile cercar di sapere in nome di quale filosofia Haag esprima il suo verdetto; secondo le apparenze egli parte da uno schema personalistico fortemente semplificato. Ma le forme del personalismo più approfondite hanno riconosciuto senz'altro che con le sole categorie di io e tu non è possibile spiegare l'intera realtà; proprio il «rapporto» che unisce l'un l'altro i due poli è una realtà caratteristica ed autonoma. Alcuni suggerimenti tratti dal pensiero asiatico fanno oggi risaltare ancor di più questa coesione. Una malattia psichica, così dicono ad esempio, non è un semplice modo di sentirsi dell'io, ma si basa proprio su una perturbazione del «rapporto»; dal momento che il rapporto non è in ordine, è spezzato, sviato, rovesciato, anche l'io stesso è fuori fase. Il rapporto è una forza decisiva del destino della quale il nostro io non può affatto disporre completamente. Il ritenere questo è un razionalismo di una sincerità quasi fantastica. Qui il pensiero moderno mette a disposizione, mi sembra, una categoria che ci può aiutare a comprendere di nuovo e con più esattezza la potenza dei demoni, la cui esistenza è di certo indipendente da tali categorie. Essi sono una potenza del «rapporto», col quale l'uomo è confrontato ad ogni pié sospinto, senza che egli lo possa arrestare.

    Paolo intende esattamente questo quando parla dei «signori di questo mondo tenebroso»; quando dice che la nostra lotta è diretta contro di essi, contro le potenze celesti del male, non contro la carne e il sangue (Ef 6,12).Essa si dirige contro quel «rapporto» saldamente stabilito, che lega gli uomini l'uno all'altro e nello stesso tempo li separa uno dall'altro, che usa loro violenza mentre fa da preludio alla loro libertà. Qui si chiarifica una particolarità tutta specifica del demoniaco, cioè la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità. Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani. La categoria dell'intermedio, che ci aiuta così a ricomprendere l'essere del demonio, si presta inoltre per un altro servizio parallelo; rende possibile spiegare meglio la vera potenza opposta, che diventa anch'essa sempre più estranea alla teologia occidentale, lo Spirito Santo cioè. Noi potremmo dire, partendo da quella categoria, che egli è quell'intermediario, nel quale Padre e Figlio costituiscono una cosa sola, l'unico Dio; nella forza di questo intermediario il cristiano si pone di fronte a quell'intermediario demoniaco, che sta ovunque «fra mezzo» ed ostacola un'unità.

    Un teologo così «libero da pregiudizi» come H. Cox ha di recente affermato che i mass-media, nei modelli di comportamento da loro elogiati, farebbero appello «ai demoni non esorcizzati»; sarebbe perciò molto necessaria «una chiara parola di esorcismo» (Stadt ohne Gott, 1967, p. 210;trad. it.: La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968). Forse egli lo pensa solo in termini allegorici, non lo so. Ma chi come cristiano vede i baratri dell'era moderna, vede operare la potenza dei sette demoni, che sono tornati nella casa pulita e vuota e mettono in moto il loro non-essere, costui sa che il compito di esorcista del credente inizia oggi a riacquistare quella necessità, che possedette all'inizio del cristianesimo. Egli sa che in questo campo è debitore di un servizio al mondo e che trascura il suo incarico, se egli aiuta i demoni ad avvilupparsi in quella anonimità, che è il loro elemento prediletto.


    [Modificato da Caterina63 15/01/2018 09:31]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 15/01/2018 09:38
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    La rivelazione di Dio non coincide con la Scrittura, ma è più ampia

    da J. Ratzinger, Un tentativo circa il problema del concetto di tradizione, in K. Rahner - J. Ratzinger, Rivelazione e Tradizione, Morcelliana, Brescia, 2006, pp. 36-37

    Il fatto che esista la «Tradizione» si fonda innanzitutto sulla non-identità delle due realtà, «Rivelazione» e «Scrittura». Rivelazione infatti indica il complesso di parole e gesta di Dio per l'uomo, cioè una realtà di cui la Scrittura ci informa ma che non è semplicemente la Scrittura stessa.

    La rivelazione perciò supera la Scrittura nella stessa misura in cui la realtà trascende la notizia che ce la fa conoscere. Si potrebbe anche dire: la Scrittura è il principio materiale della rivelazione (forse l'unico, forse uno accanto ad altri - è una questione che per il momento può essere lasciata aperta), ma non è la rivelazione stessa.

    Di questo i riformatori erano perfettamente consci; fu soltanto nella successiva controversia tra teologia cattolica postridentina e ortodossia protestante che ciò andò in gran parte perduto. Nel nostro secolo furono dei teologi evangelici, come Barth e Brunner, a riscoprire questo fatto, che per la teologia patristica e medioevale costituiva una cosa perfettamente ovvia.

    Quanto s'è detto può risultare chiaro se lo consideriamo anche da un altro punto di vista: si potrebbe possedere la Scrittura anche senza avere la rivelazione. La rivelazione infatti diventa realtà soltanto e sempre là dove c'è fede. Il non-credente rimane dietro il velo, di cui parla Paolo nel cap. 3 della 2 Cor. Egli può leggere la Scrittura e conoscere ciò che contiene, può perfino comprendere concettualmente ciò ch'essa intende dire e la coerenza delle sue affermazioni, tuttavia egli non è divenuto partecipe della rivelazione.

    C'è piena rivelazione soltanto là dove, oltre alle affermazioni materiali che la testimoniano, è divenuta operante nella forma della fede anche la sua intima realtà. Di conseguenza appartiene, fino a un certo punto, alla rivelazione anche il soggetto ricevente, senza del quale essa non esiste.

    Non si può mettere in tasca la rivelazione, come si può portare con sé un libro. Essa è una realtà vivente, che esige l'accoglienza di un uomo vivo come luogo della sua presenza.









    Sola Scriptura o Sola Traditio (da Joseph Ratzinger)

    «C'è la riscoperta della necessità di una Tradizione, senza la quale la Bibbia è come sospesa in aria, diventa un vecchio libro tra tanti altri. Questa riscoperta è favorita anche dal fatto che i protestanti sono, assieme agli ortodossi, nel Consiglio Ecumenico di Ginevra, l'organismo che raccoglie una grande parte delle Chiese e delle Comunità cristiane. Ora: dire "ortodossia orientale" significa dire "Tradizione"».

    «Del resto - aggiunge - questo accanimento sul Sola Scriptura del protestantesimo classico non poteva sopravvivere e oggi è più che mai messo in crisi proprio dall'esegesi "scientifica" che, nata e sviluppatasi in ambito riformato, ha mostrato come i vangeli siano un prodotto della Chiesa primitiva; anzi, come la Scrittura intera non sia che Tradizione. Tanto che, rovesciando il loro motto tradizionale, alcuni studiosi luterani sembrano convergere nell'opinione delle Chiese ortodosse d'Oriente: non, dunque, Sola Scriptura ma Sola Traditio. C'è poi anche, da parte di alcuni teologi protestanti, la riscoperta dell'autorità, di una qualche gerarchia (cioè di un ministero spirituale sacramentale), della realtà dei sacramenti».

    Sorride, come soprappensiero: «Sino a quando queste cose le dicevano i cattolici per i protestanti era difficile farle proprie. Dette dalle Chiese d'Oriente sono state accolte e studiate con maggior attenzione, forse perché si diffidava meno di quei cristiani, la cui presenza al Consiglio di Ginevra si rivela dunque provvidenziale».

    (da Joseph Ratzinger-Vittorio Messori, Paoline, Milano, 1985, Rapporto sulla fede, p.168)





    Inculturazione o inter-culturalità? Cristo, la fede e le culture
    dell’allora cardinal Joseph Ratzinger

    Riprendiamo sul nostro sito il testo della conferenza tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger in occasione dell’incontro dei vescovi della FABC (Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche), tenutosi ad Hong Kong nei giorni 2-6 marzo 1993. Il testo è stato tradotto da Piero Gheddo e Rodolfo Casadei e pubblicato su ASIA NEWS, n. 141, 1-15 gennaio 1994, con il titolo Cristo, la fede e la sfida delle culture.

    Con le sue ultime parole, il Signore risorto manda i suoi Apostoli fino agli ultimi confini della terra: "Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole ... e insegnate ad esse tutto quello che ho insegnato a voi" (Mt 28,19 ss.; At 1,8). Il cristianesimo entra nel mondo conscio di una missione universale. Fin dall’inizio i seguaci di Gesù Cristo sono coscienti del loro dovere di trasmettere la fede a tutti gli uomini. Essi vedevano nella fede un bene che non apparteneva solo a loro, ma che tutti avevano diritto di ricevere. Gli Apostoli sarebbero stati infedeli al loro Maestro, se non avessero portato fino agli estremi confini della terra ciò che avevano ricevuto.

    Il punto di partenza dell’universalismo cristiano non è un desiderio di potere, ma la certezza di aver ricevuto la conoscenza che salva e l’amore che redime, che tutti gli uomini hanno diritto di ricevere ed a cui aspirano fin dal profondo del loro essere. La missione non era percepita come un’operazione di conquista per esercitare il potere, ma come la trasmissione obbligatoria di quel bene che era stato dato per tutti e di cui tutti hanno bisogno.

    Oggi sono sorti dei dubbi circa l’universalità della fede cristiana. Molti non vedono più la storia della missione mondiale come la storia della diffusione della verità che libera e dell’amore, ma una storia di alienazione e di violenza. Questa nuova consapevolezza chiede a noi cristiani di riconsiderare radicalmente chi siamo e chi non siamo, cosa crediamo e cosa non crediamo, cosa abbiamo da dare agli altri e cosa non abbiamo da dare. Nel quadro di questa conversazione, posso solo tentare di compiere un piccolo passo in una così vasta problematica.

    La mia intenzione è di considerare il diritto e la capacità della fede cristiana di comunicare se stessa alle altre culture, di assimilarle e di diffondersi in esse. Essenzialmente, questo include tutti i problemi che riguardano il fondamento dell’esistenza cristiana. Perché credere in qualcosa? Esiste la verità, una verità raggiungibile dall’uomo e che tutti possono conoscere? Oppure siamo destinati, attraverso vari simboli, a scorgere solo alcuni bagliori della verità, che in realtà non ci è mai stata rivelata?Parlare della verità della fede è presunzione o dovere? Anche questi interrogativi non possono essere presi di petto e discussi nella loro integrale profondità. Noi li teniamo presenti nell’impostare la nostra discussione su fede e cultura.

    1/ Cultura – Inculturazione – Incontro delle culture

    Il nostro primo interrogativo è questo: cos’è la cultura? In quale rapporto sta con la religione e in che modo può essere in contatto con forme religiose che originariamente le erano estranee? Prima di tutto dobbiamo notare che è stata l’Europa moderna ad inventare un concetto di cultura nel quale la cultura appare come un campo distinto o anche in opposizione alla religione. In tutte le culture storicamente conosciute, la religione è l’elemento essenziale della cultura, anzi il nucleo determinante, caratterizzante. È la religione che determina le strutture dei valori e perciò dà ad essi la loro logica interna.

    Ma se questo è vero, l’inculturazione della fede cristiana nelle altre culture appare ancor più difficile, poiché non si capisce come una cultura, che vive e respira la religione con cui è profondamente interconnessa, possa essere trapiantata in un’altra religione, senza che ambedue vadano in rovina. Se da una cultura togliete la religione che l’ha generata, la private del suo cuore. Potete metterle un nuovo cuore, il cuore cristiano, ma sembra inevitabile che l’organismo che non è orientato a ricevere questo nuovo cuore, debba alla fine rigettarlo come un corpo estraneo.

    Una soluzione positiva è difficile da immaginare. L’operazione può solo aver senso se la fede cristiana e l’altra religione, con la cultura che essa ha originato, non sono in una situazione di radicale differenza e opposizione; se esse sono interiormente aperte l’una all’altra o, per dirla in altro modo, se esse naturalmente tendono ad avvicinarsi e ad unirsi. Perciò l’inculturazione presuppone la potenziale universalità di ogni cultura, che in tutte le culture la stessa natura umana sia al lavoro e che cercare l’unità è la comune verità della condizione umana come si esprime nelle culture. In altre parole, il programma di inculturazione ha senso solo se non si compie nessuna ingiustizia nei confronti di una cultura quando, data l’universale disposizione dell’uomo a cercare la verità, la cultura è aperta e viene sviluppata da una nuova potenza culturale.

    Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e all’uomo.

    Vorrei tentare di dare una definizione di cultura: è quella forma comune di espressione delle intuizioni e dei valori che storicamente s’è sviluppata e che caratterizza la vita di una comunità. Esaminiamo ora più da vicino gli elementi di questa definizione per comprendere meglio la possibilità di inter-comunicazione delle culture, secondo quanto indica il termine "inculturazione".

    a) Anzitutto, la cultura ha a che fare con la conoscenza e i valori.
    È un tentativo di comprendere il mondo e l’esistenza dell’uomo nel mondo, non in un senso puramente teorico, ma orientato agli interessi fondamentali dell’esistenza umana. La comprensione ci dovrebbe indicare come essere uomini, come l’uomo deve prendere il suo posto in questo mondo e come deve vivere per realizzare se stesso nella sua ricerca di successo e di felicità.

    Tuttavia, nelle grandi culture, questo problema non è posto ai singoli individui, come se ciascuno debba pensare ad un modello di vita per venire a patti col mondo e con l’esistenza. Il singolo può riuscire solo con gli altri: il problema della retta conoscenza è dunque un problema di adeguata formazione della comunità. D’altra parte, la comunità è la condizione primaria, indispensabile per la realizzazione dell’individuo. Nella cultura noi trattiamo di una comprensione che è conoscenza, da cui nasce la prassi della vita, il modo di vivere; in altre parole, noi stiamo trattando di una conoscenza che comprende l’indispensabile dimensione dei valori o morale.

    Possiamo aggiungere qualcosa d’altro che era evidente per tutti nel mondo antico. I problemi dell’uomo e del mondo sempre contengono la questione fondamentale di Dio. Non si può capire il mondo né vivere onestamente, se la domanda su Dio rimane senza risposta. In realtà, andando alla radice delle grandi culture possiamo dire che esse interpretano il mondo per ordinarlo alla divinità.

    b) La cultura, in un senso classico, include l’andare oltre le cose visibili per raggiungere le cause reali: così la cultura, nel suo nucleo più profondo, significa un’apertura al divino. A ciò, come già abbiamo visto, è collegata la nozione secondo cui l’individuo trascende se stesso nella cultura e si trova portato in un soggetto sociale più vasto, di cui eredita le intuizioni, dà ad esse continuità e le sviluppa. La cultura è sempre unita ad un soggetto sociale che da un lato assume le esperienze dell’individuo e, dall’altro, aiuta a formarle.

    Il soggetto comune conserva e sviluppa le intuizioni che superano le capacità di un individuo; intuizioni che possono essere definite pre-razionali e super-razionali. In questo modo, le culture richiamano la sapienza degli "antenati", che furono più vicini agli dèi; esse richiamano le primordiali tradizioni che hanno carattere di rivelazione, cioè non vengono da un’indagine e decisione umana, ma da un originario contatto con la radice di tutte le cose. In altre parole, le culture indicano una comunicazione da parte della divinità[1].

    La crisi di una cultura, di conseguenza, viene quando quella cultura non è più capace di portare avanti l’eredità sopra-razionale, mettendola in relazione in modo convincente con una nuova conoscenza critica. In questo caso, la verità ereditata viene messa in questione; quello che una volta era verità diventa solo abitudine, costume e perde la sua vitalità.

    c) Un altro punto importante è questo: le società camminano e le culture hanno a che fare con la storia. Nel suo viaggio attraverso il tempo, la cultura si sviluppa incontrando nuove realtà e con l’emergere di nuove intuizioni.

    La cultura non è isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti culturali che muovono verso l'unità. La storicità di una cultura significa la sua capacità di progredire e questo dipende dalla sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso l’incontro.

    In realtà, si potrebbe distinguere tra culture cosmico-statiche e culture storiche. Le antiche culture, come si dice, descrivono il mistero del cosmo che è sempre uguale, mentre il mondo culturale giudeo-cristiano concepisce il rapporto con Dio come storia. La storia è dunque fondamentale a questo mondo culturale. La distinzione fra culture statiche e culture dinamiche è corretta, ma non dice tutto, in quanto le culture statiche credono nella morte e nella rinascita, alla condizione umana come cammino. Come cristiani noi diciamo che esse contengono una dinamica messianica, ma questo è un tema su cui ritorneremo in seguito[2].

    I nostri piccoli sforzi per chiarificare le categorie di base del concetto di cultura ci aiutano a capire meglio come le culture possono incontrarsi e intercomunicare. Possiamo ora dire che l’attaccamento ad una identità culturale, ad una particolare espressione culturale, è la base per la molteplicità delle culture e le loro rispettive caratteristiche.

    D’altra parte possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta. Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse.

    Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna trasformazione.

    Un tale procedimento può anche risolvere l’alienazione latente dell’uomo dalla verità e da se stesso, che una cultura può albergare. Può significare la Pasqua di salvezza di una cultura: mentre sembra morire, la cultura realmente nasce, ritrovando pienamente se stessa per la prima volta.

    Per questo motivo noi non dovremmo più parlare di "inculturazione", madi incontro di culture o "inter-culturalità", se vogliamo forgiare una nuova espressione. Infatti l’inculturazione presume che la fede, liberata dalla cultura, sia trapiantata in un’altra cultura religiosamente indifferente, dove due soggetti, sconosciuti l’uno all’altro, si incontrano e si fondono.

    Ma questo modo di concepire l’incontro della fede con le culture è anzitutto artificiale e irrealistico, perché, con l’eccezione della civiltà moderna tecnologica, non esiste una fede senza cultura o una cultura senza fede. È difficile immaginare come due organismi, estranei l’uno all’altro, possano diventare improvvisamente un insieme coerente in un trapianto che arresta lo sviluppo di ambedue. Invece, se è vero che le culture sono potenzialmente universali e aperte l’una all’altra, l’inter-culturalità può portare a una fioritura di nuove forme.

    Fino a questo punto abbiamo espresso considerazioni che possono essere definite fenomenologiche, cioè abbiamo notato come le culture agiscono e si sviluppano. Facendo questo, abbiamo ragionato sulla potenziale universalità di tutte le culture, come espressione fondamentale dell’idea che la storia va verso l’unificazione.

    Ma allora noi ci chiediamo: perché è così? Perché tutte le culture sono particolari e quindi diverse l’una dall’altra? Perché esse sono, allo stesso tempo, aperte a tutte le altre culture e capaci di reciproco scambio, purificazione, perfezionamento? Non voglio dare una risposta positivista a questi interrogativi, anche se esiste.

    A me sembra che proprio nel nostro caso il riferimento alla metafisica non può essere evitato. L’incontro delle culture è possibile perché l’uomo, nonostante tutte i divergenti cammini della sua storia e dei suoi sistemi sociali, rimane un unico ed identico essere. Quest’unico uomo, tuttavia, è segnato in profondità nella sua esistenza dalla verità. La fondamentale apertura di ogni persona all’altra può essere spiegata solo dal fatto misterioso che le nostre anime sono state toccate dalla verità; e questo spiega la sostanziale concordanza che esiste anche fra le culture più lontane l’una dall’altra.

    D’altra parte, la diversità che porta all’isolamento è attribuibile alla limitatezza dello spirito umano. Nessuno afferra il tutto. Le miriadi di intuizioni e di forme sono una specie di mosaico che rivela la loro complementarietà e la loro interconnessione. Per essere se stesso, ciascuno ha bisogno dell’altro. L’uomo si avvicina all’unità e alla totalità del suo essere solo nella reciprocità di tutte le grandi realizzazioni culturali.

    In realtà dobbiamo riconoscere che questa diagnosi ottimistica non corrisponde alla realtà dei fatti. La potenziale universalità delle culture si scontra sempre di nuovo con ostacoli insormontabili, quando tentiamo di tradurla in un’universalità pratica, poiché non si tratta solo della forza dinamica di ciò che noi abbiamo in comune.

    Dobbiamo anche considerare gli elementi di separazione, le barriere e le contraddizioni, l’impossibilità di raggiungere l’altra sponda perché le acque che ci dividono sono troppo profonde e non esistono ponti. Abbiamo parlato dell’unità dell’essere umano, toccato da Dio in modo misterioso attraverso la verità. Ma ci rendiamo anche conto che esiste un fattore negativo nell’esistenza umana, un’alienazione che ostacola la conoscenza e taglia fuori l’uomo, almeno in modo parziale, dalla verità e, perciò, impedisce agli uomini di incontrarsi.

    In questo innegabile fattore di alienazione sta la povertà dei nostri sforzi per promuovere l’incontro delle culture. Da questo fatto, mentre possiamo dedurre che è sbagliato accusare tutte le religioni della terra di idolatria, sarebbe anche scorretto considerare tutte le religioni solo in modo positivo. Non dobbiamo dimenticare la critica della religione che non solo Feuerbach e Marx, ma anche grandi teologi come Karl Barth e Bonhoeffer hanno acceso come un fuoco nelle nostre anime.

    2/ Fede e cultura

    Veniamo alla seconda parte delle nostre considerazioni. Abbiamo discusso l’essenza della cultura e le condizioni che permettono l’incontro delle culture, il loro reciproco influsso che origina la nascita di nuove forme culturali. Dal piano dei princìpi dobbiamo ora scendere a quello dei fatti.

    Ma prima riassumiamo i risultati essenziali delle nostre riflessioni e chiediamoci cosa può unire le culture in modo che non siano solo superficialmente appiccicate l’una all’altra, ma il loro incontro diventi occasione per il mutuo arricchimento e perfezionamento. Il mezzo che può unire le culture non può essere altro che la verità partecipata sull’uomo, la quale necessariamente chiama in gioco la verità su Dio e sulla realtà del mondo nel suo complesso.

    Una cultura, più è umana e più è grande, più esprimerà la verità che in precedenza ignorava e più sarà capace di assimilare la verità e sarà essa stessa assimilata dalla verità. A questo punto, la speciale comprensione di se stessa della fede cristiana diventa manifesta.

    La fede cristiana, se è vigile e onesta, sa benissimo che c’è una buona parte di umano nelle sue espressioni culturali particolari, molto del quale necessita di essere purificato e aperto.

    Ma la fede cristiana è anche certa che il suo nucleo fondamentale è la rivelazione della verità stessa e perciò è la redenzione. Poiché la vera povertà dell’uomo è essere all’oscuro della verità, il che falsifica le nostre azioni e ci scatena l’un contro l’altro, appunto perché siamo corrotti, alienati da noi stessi, tagliati fuori dalla radice del nostro essere, che è Dio.

    La comunicazione della verità porta alla liberazione dall’alienazione e dalla divisione, ci dà il criterio universale di giudizio, che non fa violenza ad alcuna cultura, anzi conduce ciascuna al suo proprio centro, dato che ogni cultura è in fondo attesa della verità.

    Questo non significa uniformità. Proprio l’opposto. Solo quando questo si verifica l’opposizione tra le culture può diventare complementarietà poiché ogni cultura, basata su un comune criterio di giudizio, può ora portare i suoi frutti particolari.

    Questo è il grande mandato col quale la fede cristiana venne al mondo; esso sottolinea l’intimo impegno di mandare tutti i popoli alla scuola di Gesù, poiché Egli è la verità in persona e quindi la via dell’umanità. Non è qui il caso di discutere la legittimità del mandato missionario, ma ritorneremo su questo punto. Chiediamoci ora: quali conclusioni possiamo trarre da quanto detto finora riguardo al concreto rapporto della fede cristiana con le culture del mondo?

    Primo, possiamo dire che la fede stessa è cultura. Non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura.

    La parola fede non è un’astrazione; è maturata attraverso una lunga storia e rapporti interculturali nei quali essa ha formato un organico sistema di vita, l’interazione dell’uomo con se stesso, i suoi vicini, il mondo e Dio. Questo significa anche che la fede è, in se stessa, una comunità che vive in una cultura, che noi chiamiamo "Popolo di Dio".

    Il carattere storico della fede come soggetto può essere forse più chiaramente espresso da questo concetto. Significa questo che la fede si pone come una cultura fra le altre, così che uno debba scegliere se appartenere a questo popolo, come comunità culturale, o ad un altro? No. A questo punto appare evidente ciò che è speciale e proprio di una cultura.

    Il soggetto culturale "Popolo di Dio" differisce dalle culture classiche, che sono definite dalla tribù, dal popolo o dai confini di una comune regione, mentre il Popolo di Dio esiste nelle diverse culture le quali, pur diventando cristiane, non cessano di essere culture in modo primario e non relativo.

    Il cristiano non cessa di essere francese, tedesco, americano, indiano, ecc. Nel mondo pre-cristiano, anche nelle grandi culture dell’India, Cina e Giappone, l’identità e l’indivisibilità del soggetto culturale rimane. Una doppia appartenenza è impossibile, con l’eccezione del buddhismo, capace di inserirsi in altre culture come una specie di principio interno.

    Ma la doppia appartenenza culturale incomincia in modo consistente con la cristianità, così che l’uomo vive oggi in due mondi culturali, la sua cultura storica e quella nuova della fede: ambedue contribuiscono a formare la sua identità. Questa interazione non porterà mai ad una sintesi compiuta, poiché essa include la necessità di continui sforzi verso la riconciliazione e la perfezione.

    Sempre di nuovo l’uomo deve imparare la trascendenza verso la totalità e l’universalità che sono proprie non di un popolo specifico, ma precisamente del Popolo di Dio che abbraccia tutti gli uomini. D’altra parte, sempre più quanto è posseduto in comune dev’essere ricevuto nel campo del particolare e vissuto o anche sofferto nella storia concreta.

    Da tutto questo deriva qualcosa di molto importante. Si potrebbe pensare che la cultura è un problema della storia di ogni singolo paese (Germania, America, Francia, ecc.), mentre la fede per parte sua è alla ricerca di un’espressione culturale. Le singole culture dovrebbero quindi fornire alla fede un corpo culturale per esprimersi. Di conseguenza, la fede dovrebbe sempre vivere in culture imprestate che rimangono alla fine in qualche modo esterne e corrono il rischio di essere gettate via. Soprattutto, una forma culturale imprestata non potrebbe parlare a chi vive in un’altra cultura. Così l’universalità diventerebbe alla fine fittizia.

    Questo modo di pensare è, alla sua radice, manicheo. La cultura è svilita, diventa un guscio intercambiabile, e la fede è ridotta ad uno spirito disincarnato, ultimamente privo di realtà. Una simile visione è tipica della mentalità post-illuministica. La cultura è ridotta ad una pura forma e la religione a mero sentimento inesprimibile o puro pensiero. Si perde la feconda tensione che dovrebbe caratterizzare la coesistenza di due soggetti.

    Se la cultura è più di una pura forma o principio estetico, se essa è piuttosto l’ordinamento di valori in una forma storica e vivente e non può prescindere dal problema di Dio, allora noi non possiamo evitare che la Chiesa sia per il fedele il suo proprio soggetto culturale. Questo soggetto culturale: Chiesa, Popolo di Dio, non coincide con alcun altro soggetto culturale storico, anche in tempi di apparente piena cristianizzazione, come si pensa sia stata raggiunta nell’Europa del passato. Piuttosto la Chiesa mantiene, significativamente, la sua forma culturale come una volta, un arco al di sopra di tutte le altre culture.

    Se le cose stanno così, quando la fede e la sua cultura incontrano un’altra cultura fino a quel momento ad essa estranea, non si tratta di dissolvere la dualità delle culture a vantaggio di una o dell’altra. Entrare in una cristianità privata del suo carattere umano, al prezzo di perdere la propria eredità culturale, sarebbe un errore allo stesso modo che se la fede abbandonasse la sua propria fisionomia culturale. Veramente la tensione è fruttuosa, poiché essa rinnova la fede e guarisce la cultura.

    Sarebbe dunque insensato offrire una sorta di cristianesimo pre-culturale o deculturato, che dovrebbe privare se stesso della sua forza storica e degradarsi ad un vuoto contenitore di idee. Non dobbiamo dimenticare che già nel Nuovo Testamento il cristianesimo è frutto di una storia culturale, storia di accettazione e di rifiuto, di incontro e cambiamento. La storia della fede in Israele, che è stata assunta dal cristianesimo, trovò la sua propria forma nel confronto con le culture egiziana, ittita, sumera, babilonese, persiana e greca. Tutte queste culture erano allo stesso tempo religioni, totalizzanti forme storiche di modi di vivere.

    Israele, con sofferenza, le adottò e trasformò nel corso della sua lotta con Dio e con i grandi profeti, in modo da preparare un vaso più puro per la novità della rivelazione dell’unico Dio. Così, queste altre culture raggiunsero la loro definitiva realizzazione. Esse sarebbero scomparse nel lontano passato, se non fossero state purificate ed elevate nella fede della Bibbia, raggiungendo così la loro permanenza.

    In verità, la storia della fede in Israele incomincia con la chiamata di Abramo: "Esci dalla tua terra, dalla tua stirpe e dalla casa di tuo padre" (Gen 12, 1): incomincia con una rottura culturale. Questa rottura con la sua storia precedente, questo andare oltre segnerà sempre l’inizio di una nuova epoca nella storia della fede.

    Ma questo nuovo inizio si manifesta come un potere risanante e capace di attirare a sé tutto quello che è umano, tutto ciò che viene realmente da Dio. "Quando sarò elevato da terra, attirerò a me tutti gli uomini" (Gv 12, 31): queste parole del Signore risorto si applicano anche qui. La croce è prima di tutto rottura, espulsione, elevazione dalla terra, ma proprio per questo diventa un nuovo centro di attrazione magnetica, che orienta la storia del mondo verso l’alto e raduna gli uomini divisi.

    Chiunque entra nella Chiesa deve essere cosciente di entrare in un soggetto culturale con la sua inter-culturalità che s’è sviluppata nella storia con molteplici manifestazioni. Non si può diventare cristiani senza un certo "esodo", una rottura con la precedente vita in tutti i suoi aspetti. La fede non è una via privata a Dio, essa conduce dentro al Popolo di Dio e nella sua storia. Dio ha legato se stesso ad una storia che ora è anche la sua e che noi non possiamo rifiutare. Cristo resta uomo in eterno, egli conserva il suo corpo nell’eternità. Essendo uomo e avendo un corpo, inevitabilmente questo include una storia e una cultura, una particolare storia e cultura, lo vogliamo o no.

    Noi non possiamo replicare l’avvenimento dell’incarnazione per accontentare noi stessi, nel senso di rimuovere la carne di Cristo e offrirgliene un’altra. Cristo rimane Se stesso, col Suo vero corpo. Ma Egli ci attira a sé.

    Questo significa che, poiché il Popolo di Dio non è una particolare entità culturale, ma invece è stato tratto da tutti i popoli, perciò la sua stessa primaria identità culturale, nata dalla rottura, ha il suo posto. Ma non solo questo. La prima identità è necessaria per permettere all’Incarnazione di Cristo, del Logos, di raggiungere la sua pienezza. La tensione dei molti soggetti nell’unico soggetto appartiene essenzialmente al dramma non ancora completato dell’Incarnazione del Figlio. Questa tensione è il reale e intimo dinamismo della storia, che si sviluppa sotto il segno della Croce, cioè, sempre deve lottare contro le spinte contrarie della chiusura mentale e del rifiuto.

      continua................


     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 15/01/2018 09:39

    3/ Fede cristiana e religioni non cristiane nell’attuale situazione storica


    Se Gesù di Nazareth è veramente l’Incarnazione del senso della storia, il Logos, l’auto-manifestazione della verità, allora è chiaro che questa verità è il luogo dove ciascuno può essere riconciliato e non perde nulla della propria dignità e del proprio valore.

    Ma a questo punto oggi si sollevano varie obiezioni. Affermare che le concrete asserzioni di una religione sono vere è considerato oggi non solo presunzione, ma un segno di non essere illuminati. Hans Kelsen esprime lo spirito del nostro tempo quando sostiene che la questione posta da Pilato "Cosa è la verità?" è il solo punto di vista adeguatodi fronte ai gravi problemi morali e religiosi dell’umanità.

    La verità è sostituita dalla decisione della maggioranza, egli dice, precisamente perché non c’è alcun modello vincolante e accessibile per l’uomo [3]. Così la molteplicità delle culture diventa la prova della loro relatività. La cultura è messa in opposizione alla verità. Questo relativismo, sentimento basilare dell’uomo illuminista che oggi è penetrato profondamente nella teologia, è il più grave problema del nostro tempo. È anche il motivo fondamentale per cui la prassi ha preso il posto della verità e così ha spostato l’asse delle religioni.

    Noi non sappiamo cosa è vero, ma noi sappiamo cosa dobbiamo fare, cioè annunziare una società migliore, il "regno", come spesso si dice, prendendo una parola biblica ed usandola in un senso profano, utopico. La centralità della Chiesa, di Cristo e di Dio, tutto questo sembra essere sostituito dalla centralità del regno, come compito comune a tutte le religioni, in cui tutte si possono incontrare[4].

    Così non c’è più motivo per cui le religioni debbano essere conosciute nel loro nucleo essenziale o che si debbano mettere in relazione reciproca nei loro messaggi morali e religiosi. Al contrario, le religioni sono distorte nella loro profonda essenza, in quanto ci si attende che esse servano come mezzi per una futura struttura che in realtà è estranea ad esse e le svuota di contenuto.

    Il dogma del relativismo agisce anche in un’altra direzione. L’universalismo cristiano portato avanti nella missione non è più la doverosa trasmissione di un bene, cioè della verità e dell’amore validi per tutti gli uomini. La missione diventa invece l’arrogante presunzione di una cultura che si ritiene superiore alle altre e così le spoglia di ciò che hanno di buono e di caratteristico.

    Le conclusioni che derivano da questo relativismo differiscono da cultura a cultura, anche se la spinta di base è comune. Nell’America Latina vi è oggi un movimento sotterraneo che si definisce "teologia india", in riferimento ai popoli indigeni. Il movimento lamenta la scomparsa delle antiche religioni di questo continente e vorrebbe in qualche modo richiamarle in vita. Le religioni sono viste come vie dei differenti popoli a Dio, egualmente e fondamentalmente valide per la salvezza. Ogni popolo ha il diritto alla sua propria via. L’America Latina deve al fine essere liberata dall’alienazione che ha sperimentato quando il cristianesimo occidentale fu imposto su di essa.

    La situazione è abbastanza diversa in Africa dove, in contrasto con l’America Latina, le religioni tribali originali sono ancora vigorose. Ma anche qui si verifica un movimento di ritorno al passato, dovuto al dubbio su di sé che affligge oggi il cristianesimo e alla riduzione della sua essenza religiosa a puri imperativi morali.

    Perché l’Africa dovrebbe gettar via la sua identità religiosa, in favore di una religione la cui proclamazione e impiantazione appare a molti, in una visione retrospettiva, come un altro aspetto alienante della colonizzazione imposta agli africani?

    Chiunque esamina questi problemi da vicino, si rende subito conto che non può esserci alcun semplice ritorno al passato. Non solo perché la convergenza dell’umanità verso una singola comunità con una vita e un destino comune è un movimento inarrestabile (essendo questa tendenza fondata nell’essenza dell’essere umano), ma anche perché la diffusione della civiltà tecnologica è irrevocabile. È un sogno romantico quello di preservare isole pre-tecnologiche nel mare dell’umanità. Non potete chiudere uomini e culture in una specie di riserva naturale spirituale.

    In pratica nessuno, sia in America Latina che in Asia e in Africa, vuole seriamente escludere se stesso dalla scienza naturale e dalla tecnologia che ebbero origine in Occidente. Ma poiché la tecnologia come scienza naturale appare neutrale, alcuni dicono: perché non accettare le realizzazioni dell’epoca moderna, mantenendo allo stesso tempo le religioni indigene?

    Quest’idea così apparentemente illuminata non funziona. Poiché in realtà la moderna civiltà non è pura moltiplicazione di conoscenza e di metodi. Essa è profondamente fondata sul modo di intendere l’uomo, il mondo e Dio; essa cambia i modelli e i comportamenti e capovolge l’interpretazione del mondo alla base. La visione sacrale del cosmo è necessariamente scossa. L’arrivo di queste nuove possibilità di esistenza è come un terremoto che scuote il panorama intellettuale fin dalle sue fondamenta.

    In ogni modo, succede sempre più di frequente che la fede cristiana è scartata come un’eredità culturale europea e le antiche religioni sono ripristinate, mentre, allo stesso tempo, la tecnologia, sebbene indubbiamente occidentale, viene adottata e utilizzata con passione. Questa divisione dell’eredità occidentale nell’utile che viene accettato e nello straniero che viene rifiutato, non porterà le antiche culture alla salvezza.

    Oggi si può vedere che quello che è grande e profetico, cioè la dimensione messianica delle antiche religioni, entra in crisi perché sembra incompatibile con la nuova conoscenza del mondo e dell’uomo, mentre il magico (nel senso lato della parola), tutto quello che promette potere sul mondo, rimane intatto e diventa per la prima volta determinante per la vita. Così le religioni perdono la loro dignità, poiché quello che in esse è il meglio viene eliminato e resta solo quello che è pericoloso.

    La situazione dell’Asia riguardo al cristianesimo è diversa da quella dell’America Latina e dell’Africa nera. Qui infatti non abbiamo a che fare con culture tribali senza scrittura, ma con alte culture religiose, che hanno anche prodotto un vasto patrimonio di testi sacri e scritti filosofici e di riflessione teologica. In Africa, il cristianesimo incontrò le religioni indigene in un momento in cui le stesse, piene di giovanile vigore, erano ancora alla ricerca di una definitiva parola.

    Si può riconoscere una certa analogia con la situazione del mondo mediterraneo nel momento del suo incontro con Cristo, anche se l’analogia contiene tante differenze quante sono le somiglianze, come in tutte le analogie. La prima proclamazione del cristianesimo al mondo greco-romano si trovò di fronte a religioni che erano moribonde, avevano perso la loro credibilità e vitalità. La gente era alla ricerca di un qualcosa di nuovo. Possiamo dire che c’era un’aspirazione al monoteismo, a conoscere l’unico Dio sopra tutti gli dei. La filosofia lo vedeva da lontano, ma non era in grado di indicare il cammino verso di Lui; come filosofia, non poteva sostituire la religione.

    Qui la proclamazione cristiana fu la risposta interiormente attesa che afferrò il pensiero filosofico e lo riempì con una realtà religiosa. In Africa esisteva e tuttora c’è una simile esigenza di autotrascendenza delle religioni tribali. Anche queste non sono adeguate alle esigenze del momento storico. L’islam e il cristianesimo stanno tentando di rispondere ai problemi posti dalle religioni stesse.

    La situazione è diversa in Cina e Giappone, poiché le religioni tradizionali hanno prodotto sistemi filosofici che interpretano il mondo nel suo complesso e inquadrano razionalmente la religione nella struttura della vita e della cultura. Perciò qui il cristianesimo non ha potuto essere sperimentato come nel Mediterraneo o anche nell’Africa nera, come un nuovo passo avanti nel cammino di questi popoli, che già va in quella direzione. Invece, il cristianesimo è apparso più come una cultura e una religione straniera che si è collocata accanto a quelle asiatiche, minacciando di soppiantarle. Per questo motivo, le conversioni al cristianesimo sono rimaste largamente marginali nel quadro dell’intera società.

    Tuttavia, il confronto tra i mondi religiosi cristiano e asiatico non è rimasto senza effetto, ma ha condotto ad un profondo processo di trasformazione, specie nella religiosità. Il neo-induismo come rappresentato da Radhakrishnan, ad esempio, viene dalla fusione delle tradizioni indiane con una tarda forma di cristianesimo occidentale.

    Senza dubbio si può definire una sintesi di cultura e religione, ma forse può essere meglio compresa come una forma di filosofia della religione, in cui il moderno relativismo occidentale si fonde con la spiritualità orientale ed offre una specie di base razionale per prospettive religiose e cultuali che di sicuro hanno perso in gran parte il loro senso originario in questa nuova visione. Se in questo caso il momento indiano è determinante nella sintesi, si può dire che in Panikkar si verifica un’unione in cui l’accento è posto sulla componente cristiana. Ma anche qui si tratta più di filosofia della religione che di religione.

    Al di là di questi tentativi, bisogna trovare una via di incontro autentico di culture e religioni, caratterizzato non dalla perdita di fede o di verità ma da un più profondo contatto con la verità, che renda possibile dare a tutto ciò che è maturato in passato il suo pieno e profondo significato. Questa sintesi di verità non può essere inventata a tavolino, altrimenti non supererà lo status di filosofia o di pura teoria. Piuttosto è indispensabile un processo di fede vissuta, che crei la capacità di incontrare nella verità e così, come dice il Salmo, "porre le cose in un vasto spazio" (31,8). Ma naturalmente questo processo deve essere guidato e ordinato a pensare la fede.

    Questo è il grande compito che la teologia in Asia nel nostro tempo deve affrontare, un compito che nello stesso tempo riguarda tutta la Chiesa. Il nostro incontro qui a Hong Kong dovrebbe essere un incoraggiamento a intraprendere questo lavoro e nello stesso tempo aiutarci a chiarificare i necessari principi che ne sono coinvolti. I Padri della Chiesa possono mostrarci la via per conseguire i retti principi poiché essi hanno affrontato un simile compito nel loro incontro con le religioni dell’area del Mediterraneo, con le loro endemiche filosofie della religione.

    Infatti, sebbene la fede negli dei e quindi il significato immediato degli antichi culti si fossero disintegrati, vennero concepite nuove giustificazioni filosofiche delle religioni pagane che mostrano caratteristiche molto simili alle filosofie della religione del nostro secolo, per esempio a quella di Radhakrishnan.

    Citerò soltanto due esempi notevoli. Il primo ce lo fornisce il retore romano Simmaco (ca. 345-402), che difese appassionatamente la preservazione dell’antica religione romana. Egli divenne famoso soprattutto per la sua richiesta a Cesare di reinstallare la statua della dea Vittoria nel Senato romano. La frase chiave del suo memorandum contenente la richiesta recita: uno itinere non potest veniri ad tam grande secretum, non si può accedere a un così grande mistero per un’unica strada.

    Questa frase è una classica espressione dell’idea romana di religione: il mistero divino è così grande che nessuna via umana può esaurirlo, nessuna religione può circoscriverlo. Può essere accostato solo da lati diversi e deve essere rappresentato in varie forme. Simmaco non voleva abolire il cristianesimo, voleva soltanto integrarlo nella sua concezione di religione. Il cristianesimo doveva imparare a considerarsi come un modo di vedere, cercare e parlare di Dio, ammettendo che ci sono anche altri modi. Anche il cristianesimo non può pretendere di esaurire il grande mistero.

    Forse la questione si può capire ancora meglio nel caso dell’imperatore Giuliano l’Apostata (332-363), che voleva nuovamente sopprimere il cristianesimo e ristabilire gli antichi culti, collocando come fondale la filosofia neoplatonica. Giuliano criticava l’Antico Testamento e la fede cristiana dallo stesso punto di vista di Simmaco. La sua principale critica al cristianesimo e la sua decisa obiezione all’ebraismo riguardavano il primo comandamento. Non poteva e non voleva ammettere l’unicità dell’unico Dio.

    Anche il Dio di Israele, il Dio di Gesù Cristo, era per lui soltanto una manifestazione del divino, che non esauriva il "grande mistero". Per questo motivo, il Dio dell’Antico Testamento, il Dio dei cristiani doveva tollerare altri dei oltre a Sé. Per questa ragione, il Nazareno non poteva essere riconosciuto come il Logos incarnato che è l’unico mediatore per tutta l’umanità. Nella polemica col politeismo filosofico illuminato i Padri della Chiesa hanno individuato i fondamenti della fede biblica: relativizzarli significa annullare questa fede e privarla della sua identità. Ciò che resterebbe dopo l’abbandono sarebbero elementi selezionati di tradizione biblica, ma non la fede della Bibbia in quanto tale.

    Tenterò brevemente di indicare questi elementi fondamentali che i Padri hanno derivato dalle Sacre Scritture.

    a) Il primo grande comandamento è allo stesso tempo il primo articolo di fede e il principio fondativo di identità della fede: "Il Signore, nostro Dio, è un solo Signore". Tutti gli "dei" non sono Dio. Pertanto solo l’unico Dio può essere adorato nella verità; adorare altri dei è idolatria. Senza questa fondamentale decisione non c’è cristianesimo.

    Dove essa è dimenticata o relativizzata, ci si trova fuori della fede cristiana. Cristologia, ecclesiologia, adorazione e sacramento possono essere correttamente trattati solo quando esiste questa decisione. Il cristianesimo rivoluzionò il mondo antico con questa confessione di fede. Il mondo antico aveva preso le mosse dal principio esattamente opposto, nuovamente formulato dall’imperatore Giuliano alla fine dell’antichità.

    Certamente l’unico Dio non è un tema sconosciuto nella storia della religione. In realtà si può dire che la grande maggioranza delle religioni ne ha nozione. Pertanto esse sanno che gli dei non rappresentano la potenza ultima, ma solo potenze relative. In generale le religioni sono anche coscienti che gli "dei" non sono "Dio".

    Allo stesso tempo, l’unico Dio è spesso privo di culto, o almeno è privo di importanza livello di culto, poiché è troppo lontano dalla vita dell’uomo. Pertanto le pratiche cultuali sono indirizzate agli dei, dimodoché nelle religioni Dio è spesso nascosto quasi interamente dietro gli dei per quanto riguarda tutti gli aspetti pratici. La fede cristiana è consistita, per il mondo mediterraneo e poi ancora per l’America latina e per l’Africa, in una liberazione dagli dei perché ora l’unico Dio si è mostrato ed è diventato il "Dio con noi".

    Le parole cruciali con cui Gesù respinge Satana, il tentatore dell’umanità, recitano: "Adorerai il Signore Dio tuo e Lui solo servirai" (Mt 4,10; Lc 4,8; Dt 5,9; 6,13). Senza l’accettazione di questo comando non ci si può collocare dalla parte di Gesù Cristo nella religione professata dalla Bibbia.

    b) L’esistenza cristiana comincia con questa decisione fondamentale e si fonda sempre su di essa. Quando scompare la differenza fra adorazione e idolatria, il cristianesimo è distrutto. La Bibbia e il linguaggio dei Padri chiamano "conversione" (metanoia) la necessaria decisione.

    Una teologia che omettesse il concetto di conversione trascurerebbe la categoria decisiva della religione biblica. La fede cristiana è un nuovo inizio, e non semplicemente una nuova variante culturale di una strutture religiosa sempre in via di svolgimento. Per questo motivo i Padri sottolineavano con enfasi la novità del cristianesimo.

    L’atto della conversione è essenziale alla speciale comprensione della verità dei cristiani. In un grande numero di religioni, come abbiamo visto, la realtà del Dio unico non è certamente sconosciuta, ma questo Dio unico è troppo distante. Il suo mistero è inaccessibile. Così i contenuti concreti della religione possono essere solo di natura simbolica. Essi non sono la verità, ma manifestazioni parziali al di là delle quali sono possibili altre manifestazioni.

    La fede cristiana riconosce nel Dio di Israele, nel Dio di Gesù Cristo, l’unico vero Dio, la verità stessa che si manifesta. Pertanto la conversione cristiana è nella sua essenza fede nel fatto della rivelazione di sé che la verità attua. Mentre il mistero non è per questo abolito, il relativismo è senza dubbio escluso, poiché esso separa l’uomo dalla verità facendone uno schiavo. La reale povertà dell’uomo consiste nell’oscurità rispetto alla verità. Egli diventa libero per la prima volta quando è obbligato a servire la sola verità.

    Tuttavia un altro punto è importante in questa riflessione. I Padri hanno anzitutto enfatizzato con molto vigore il carattere della conversione come decisione e di conseguenza il carattere della fede come esodo. Una volta garantito questo punto, hanno sempre più sottolineato il secondo aspetto, cioè che la conversione è trasformazione, non distruzione.

    La conversione non distrugge le religioni e le culture, ma le trasforma. Sulla base di questa intuizione, i Padri giunsero sempre più a opporsi all’iconoclastia di fanatici cristiani dalla visuale ristretta. I templi non furono più smantellati, ma trasformati in chiese. La profonda continuità fra le religioni e la fede cristiana divenne visibile.

    Essa condusse alla resurrezione del meglio delle antiche religioni. Non fu una filosofia della religione relativistica che diede ad esse esistenza continuata; in realtà, proprio questa filosofia in un primo momento le aveva rese inutili. La fede diede alle religioni lo spazio in cui la loro verità potè svilupparsi e dare frutti. Entrambi gli aspetti dell’atto di conversione sono importanti, ma solo dopo che è stato compiuto il primo passo, cioè la svolta decisiva verso l’unico Dio, può seguire il secondo, la conservazione trasformante.

    c) Il mistero di Gesù Cristo può essere compreso solo in questo contesto del primo comandamento e dell’atto di conversione che esso esige. Per Gesù, che non abolì il Vecchio Testamento ma lo portò a compimento, il primo comandamento rimase il fondamento di ogni cosa ulteriore; rimase il contenuto che sta alla base della fede: "Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è un solo Signore".

    Oso sostenere che la centralità di questo passo per tutta la letteratura dell’Antico Testamento è anche la ragione essenziale del posto unico che l’Antico Testamento tiene nella fede cristiana. Poiché l’intero Antico Testamento è costruito attorno a questa singola frase, per questo motivo esso rappresenta un "canone" per i cristiani, quindi Sacra Scrittura. Solo per questa ragione esso rende testimonianza a Gesù e viceversa. Gesù è la chiave all’Antico Testamento perché egli rende concreta questa frase nella Sua stessa carne.

    Sfortunatamente, la mancanza di tempo non ci permette di presentare la questione cristologica come meriterebbe. Per questo motivo mi piace tanto più rimandare all’enciclicaRedemptoris Missio, in cui gli argomenti essenziali sono esposti in maniera vivida e chiara. Questa enciclica deve costituire il modello per ogni ulteriore ricerca di Teologia delle religioni e della missione. Non sarà mai studiata e accolta abbastanza intensamente.

    Qui mi devo limitare a una breve allusione. Il problema che si pone in India ma anche altrove trova espressione nella famosa frase di Panikkar: "Gesù è Cristo, ma Cristo non è (soltanto) Gesù".

    Per capire tutta l’ampiezza del problema dovremmo sostituire la parola "Cristo" con Logos o Figlio di Dio, dal momento che Cristo è un titolo storico-salvifico nel quale l’intera profondità metafisica del mistero di Gesù non viene ancora alla luce. Nella sua vita storica, Gesù fu reticente sull’uso di questo titolo. La tradizione post-pasquale spiega il titolo sempre più decisamente col titolo di Figlio, che infine lo sostituisce e che allora di nuovo Giovanni interpreta in profondità per mezzo del concetto di Logos.

    Questo processo dello sviluppo della rivelazione, comunque, è già molto evidente nella tradizione sinottica. La confessione di Pietro suona molto semplicemente in Marco: "Tu sei il Cristo (il Messia)". In Matteo leggiamo: "Tu sei il Cristo (il Messia), il Figlio del Dio vivente" (Mc 8,29; Mt 16,16). Gesù dice espressamente a Pietro che quest’ultimo non aveva appreso questa confessione dalla carne e dal sangue, cioè dalla sua cultura o dalla sua tradizione religiosa, ma "te l’ha rivelata il Padre mio che sta nei cieli" (Mt 16,17).

    Pertanto questa confessione, la fondamentale confessione di tutta la Chiesa di ogni tempo e luogo, è espressamente dichiarata estranea alle semplici tradizioni umane e definita come una rivelazione nel senso stretto del termine. Ogni interpretazione che non perviene ad essa rappresenta un ritorno al puramente umano. Il cristianesimo sta o cade sulla base di questa confessione.

    Essa non può essere separata dalla confessione fondamentale di Israele: "Il Signore nostro Dio è un solo Signore". L’unico Dio mostra Se stesso a noi nel Suo unico Figlio e desidera essere adorato come l’unico Dio in Lui. Ciò risponde in via di principio alla questione della reversibilità delle formule cristologiche. Quando Panikkar nega la semplice reversibilità, egli ha ragione nella misura in cui le due nature, divina ed umana, rimangono distinte. La natura umana di Gesù ha il suo inizio nel tempo, la natura divina del Logos è eterna. Le due sono tanto diverse come sono diversi creatore e creatura, e perciò non sono intercambiabili.

    Tuttavia, nell’Incarnazione il Logos eterno ha legato Se stesso a Gesù in modo tale che la reversibilità delle formule deriva dalla Sua persona. Il Logos non può essere più pensato indipendentemente dalla Sua connessione con l’uomo Gesù. Il Logos ha tratto a Sé Gesù e ha unito Se stesso a Lui in modo tale che essi sono solo un’unica persona nella dualità delle nature.

    Chiunque entra in contatto col Logos tocca Gesù di Nazareth. Gesù è più del sacramento del Logos. Egli è il Logos stesso che nell’uomo Gesù è un soggetto storico. Certamente Dio tocca l’uomo in molti modi anche al di fuori dei sacramenti.

    Ma Egli lo tocca sempre attraverso l’uomo Gesù che è la Sua automediazione nella storia e la nostra mediazione nell’eternità. Cristo non è una semplice teofania, una manifestazione di Dio, ma piuttosto in Lui l’essere di Dio stesso entra in unità con l’essere dell’uomo. Se noi - con Pietro, con tutto il Nuovo Testamento, con l’intera Chiesa - confessiamo Gesù come Cristo, Figlio del Dio vivente, allora noi non vogliamo solo dire che questo Gesù è diventato la più alta manifestazione del divino per noi, mentre altri altrove possono ben aver trovato i loro propri salvatori.

    La Fede, nel senso del Nuovo Testamento, significa esattamente che veniamo distolti dalle nostre valutazioni puramente umano-culturali, che Colui che ci prende per mano è Colui che attraversa il mare del tempo senza affondare perché Egli è Signore del tempo. La fede come atto trascende ogni esperienza. È un atto di assenso che possiamo fare solo al Dio vivente, che è verità in persona. Non possiamo tributare, questa obbedienza a nessuna realtà relativa. È quel che Pietro vuole significare quando dice ai capi e agli anziani del popolo di Israele: "... non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo salvarci" (At 4,12).

    Nelle sue lettere dalla prigione Paolo sviluppa il significato cosmico di Cristo e così dischiude per noi una cristologia nel senso di quanto abbiamo prima detto a proposito dalla conversione. La fede in Gesù Cristo diventa un nuovo principio di vita e dischiude un nuovo spazio di vita. Il vecchio non è distrutto, ma trova la sua forma definitiva e il suo pieno significato. Questa conservazione trasformante, praticata dai Padri in modo splendido nell’incontro fra la fede biblica e le sue culture, è il contenuto reale dell’"inculturazione", dell’incontro e dell’interfecondazione di culture e religioni sotto il potere di mediazione della fede.

    È qui che si collocano i grandi compiti dell’attuale momento storico. Senza dubbio la missione cristiana deve capire ed accogliere le religioni in un modo molto più profondo di quanto abbia fatto fino ad ora. D’altra parte le religioni, per vivere in modo autentico, devono riconoscere il loro proprio carattere messianico che le sospinge in avanti verso Cristo.

    Se procediamo in questo senso verso una ricerca interculturale di indizi dell’unica verità comune, scopriremo qualcosa di inatteso: gli elementi che il cristianesimo ha in comune con le antiche culture dell’umanità sono più grandi di quelli che esso ha in comune col mondo razionalistico-relativistico. Quest’ultimo ha tagliato i ponti con le fondamentali intuizioni comuni che sono di sostegno all’umanità e ha condotto l’uomo in un vuoto esistenziale che lo minaccia di rovina se non giungerà una risposta.

    Infatti la conoscenza della dipendenza dell’uomo da Dio e dall’eternità, la conoscenza del peccato, della penitenza e del perdono, la conoscenza della comunione con Dio e con la vita eterna, e infine la conoscenza dei precetti morali fondamentali come hanno preso forma nel decalogo, tutte queste conoscenze permeano le culture. Non è certo il relativismo a trovare conferma. Al contrario, è l’unità della condizione umana, l’unità dell’uomo che è stata toccata da una verità più grande di lui.


    Note

    [1] Cfr. Josef Pieper, Überlieferung: Begriff und Anspruch, Monaco 1970; e Über die platonischen Mythen, Monaco 1965.

    [2] Soprattutto T. Häcker ha sottolineato il concetto del messianico nel precristiano. Cfr. T. Häcker, Vergil: Vater des Abendlandes Lipsia 1931; ristampato Monaco 1947.

    [3] Cfr. V. Possenti, Le società liberali al bivio: Lineamenti di filosofia della società, Marietti 1991, pp. 315-345, spec. 345.

    [4] Cfr. le indicazioni di J. Dupuis in The Kingdom of God and World Religions in Vidyajyoti, Journal of Theological Reflection n. 51 (1987), pp. 530-544.


    [Approfondimenti]





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 09:43
    Risultati immagini per Ratzinger Benedetto xvi


    da Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1969, pp. 40-41

    Cos'è questa fede? Ora possiamo rispondere così: è la forma, non riducibile a scienza e incommensurabile ai suoi parametri, assunta dalla posizione dell'uomo nel complesso della realtà; è l'interpretazione senza la quale l'intero uomo rimarrebbe campato in aria; è l'atteggiamento che precede il calcolo e l'azione dell'uomo, senza il quale egli in definitiva non potrebbe né calcolare né agire, perché tutto ciò egli è in grado di farlo unicamente nell'ambito d'un senso capace di sostentarlo.

    L'uomo in effetti non vive del solo pane del fattibile, ma vive invece da uomo, e, proprio nella configurazione più tipica della sua umanità, vive di parola, di amore, di senso della realtà. Il senso delle cose è davvero il pane di cui l'uomo si sostenta, di cui alimenta il nucleo più centrale della sua umanità. Senza la parola, senza il senso, senza l'amore, egli vien messo in condizione di non poter più nemmeno vivere, quand'anche fosse circondato in sovrabbondanza di tutti i conforts terreni immaginabili.

    Chi non sa con quanta frequenza, pur in mezzo alla più sfondata abbondanza, può insorgere la situazione del 'non ne posso proprio più'? Il senso della realtà però non si può dedurre dalla mera scienza. Il voler procacciarselo in questa maniera, cioè basandosi sul fatto che si è capaci di provare la fattibilità, finirebbe per assomigliare all'assurdo e ridicolo tentativo intrapreso dal barone di Münchhausen, quando si mise in testa di strapparsi fuori dalla palude tirandosi per i capelli.

    Propendo a credere che nella comica assurdità di quella storia venga messa in luce, in maniera azzeccatissima, la situazione di fondo in cui versa l'uomo. Dal pantano dell'incertezza, dell'incapacità di vivere, nessuno è in grado di tirarsi fuori da sé; e non ce ne tiriamo fuori nemmeno con un «cogito ergo sum», come pensava ancora Descartes, ossia appigliandoci ad una catena di conclusioni imbastita col raziocinio. Un senso fasullo della realtà, in ultima analisi, non è nemmeno un senso. Il senso vero, ossia il terreno su cui la nostra esistenza possa realmente reggersi e vivere, non può venir fabbricato empiricamente, ma solo venir ricevuto dal di fuori.




    Le conferenze sulla crisi della catechesi tenute a Lione ed a Parigi nel 1983 dall’allora cardinal Joseph Ratzinger: la trasmissione della fede ed il problema delle fonti

    Indice
    Parte prima. La crisi della catechesi e il problema delle fonti

    1. Caratteristiche generali della crisi
    2. Catechesi, Bibbia e dogma

    Parte seconda. Per superare la crisi

    1. Cosa è la fede?
    2. Che cosa sono le "fonti"?
    3. La struttura della catechesi

    Note

    ___________________________

    Con le ultime parole rivolte ai suoi apostoli, il Signore diede loro l'incarico di andare in tutto il mondo per farvi dei discepoli (Mt 28,19 ss.; Lc 16,15; At 1,7). Fa parte della essenza della fede il richiedere di essere trasmessa: si tratta dell’interiorizzazione di un messaggio, che si rivolge a tutti perché é la verità, e l'uomo non può essere salvato senza la verità (1 Tim 2,4). Per questo la catechesi e la trasmissione della fede sono state, fino dalle origini, una funzione vitale per la Chiesa, e tali devono restare fin tanto che la Chiesa durerà.

    Parte prima.
    La crisi della catechesi e il problema delle fonti

    1. Caratteristiche generali della crisi

    Le difficoltà attuali della catechesi sono un dato generalmente accettato che non è necessario provare nei particolari. Le cause della crisi e le sue conseguenze sono state descritte spesso e abbondantemente[1].

    Nel mondo della tecnica, che é una creazione dell'uomo stesso, non si incontra anzitutto il Creatore, ma l'uomo incontra sempre se stesso. La sua struttura fondamentale è quella di essere "fattibile", il modo delle sue certezze è il calcolabile. Per questo motivo il problema della salvezza non viene posto in relazione a Dio, che non compare in alcun modo, ma in funzione del potere dell'uomo, che vuole diventare costruttore di se stesso e della sua storia.

    L'uomo non cerca più, dunque, i criteri della sua morale in un discorso sulla creazione o sul Creatore, che gli sono diventati sconosciuti. La creazione non ha più, per lui, risonanze morali; essa gli parla solamente il linguaggio matematico della sua utilità tecnica, a meno che ella non protesti contro le violenze che lui le fa subire. Anche allora l'appello morale che la creazione così gli rivolge, resta indeterminato: in definitiva, la morale si identifica, in un modo o nell'altro, con la dimensione sociale, quella dell'uomo verso se stesso e quella dell'uomo nei confronti del suo contesto. Da questo punta di vista, anche la morale è diventata una questione di calcolo delle migliori condizioni per uno sviluppo nel futuro.

    La società ne è stata mutata profondamente: la famiglia, che è la cellula portante della cultura cristiana, sembra essere, il più delle volte, in via di dissoluzione. Quando i legami metafisici non contano più, essa non può essere conservata, per lungo tempo, da altre specie di legami.

    Questa nuova visione del mondo, da una parte si riflette nei mass-media, dall'altra si nutre di essi. La rappresentazione del mondo e degli avvenimenti da parte dei mass-media oggi segna la coscienza, più di quanto non lo faccia l'esperienza personale della realtà. Tutto ciò influisce sulla catechesi, che vede spezzati i classici sostegni della società cristiana, senza, peraltro, potersi appoggiare sull'esperienza vissuta della fede in una Chiesa vivente: in un tempo in cui il linguaggio e la coscienza si nutrono solo con l’esperienza di un mondo che si vuole creatore di se stesso, la fede sembra condannata al mutismo.

    Negli ultimi decenni la teologia pratica si è consacrata con energia a questi problemi per tracciare alla trasmissione della fede vie nuove e più adatte a questa situazione. Certo molti, nel frattempo, sono arrivati a convincersi che questi sforzi hanno contribuito più ad aggravare che a risolvere la crisi. Sarebbe ingiusto generalizzare questa affermazione, ma sarebbe anche falso negarla puramente e semplicemente.

    Un primo grave errore fu quello di sopprimere il catechismo e di dichiarare "sorpassato" il genere stesso del catechismo. Certo, il catechismo come libro è divenuto comune soltanto al tempo della Riforma; ma la trasmissione della fede, come struttura fondamentale nata dalla logica della fede, è vecchia quanto il catecumenato, cioè quanto la Chiesa stessa. Essa scaturisce dalla natura stessa della sua missione e, dunque, non si può rinunciarvi. La rottura con una trasmissione della fede attinta nella sua strutturazione fondamentale alle fonti di una tradizione presa nella sua globalità, ha avuto come conseguenza la frammentazione della proclamazione della fede. Essa fu non solo arbitrariamente accolta nella sua esposizione, ma anche messa in discussione in alcune sue parti, che appartengono a un tutto e che, staccate da esso, appaiono sconnesse.

    Cosa vi era dietro questa decisione errata, affrettata e universale? Le ragioni sono molteplici e fino a ora poco esaminate. Sicuramente questa decisione è da mettere in rapporto con la evoluzione generale dell'insegnamento e della pedagogia, caratterizzata da una ipertrofia del metodo rispetto al contenuto delle diverse discipline. I metodi diventano i criteri del contenuto e non più i veicoli di esso. L'offerta si regola sulla domanda: è così che sono state tracciate le vie della nuova catechesi nella disputa sul catechismo olandese[2].

    Ne conseguì che ci si limitò alle questioni per principianti, invece di cercare le vie che avrebbero permesso di superarle e di arrivare a ciò che inizialmente non si comprendeva, unico metodo che modifica positivamente l'uomo e il mondo. Così, il potenziale di cambiamento proprio della fede fu paralizzato. Infatti la teologia pratica non era più intesa come uno sviluppo concreto della teologia dogmatica o sistematica, ma come un valore in sé. Ciò corrispondeva, di nuovo, alla tendenza attuale a subordinare la verità alla prassi, che, nel contesto delle filosofie neo-marxistiche e positivistiche, ha fatto breccia anche in teologia[3].

    Tutti questi fatti contribuirono a impoverire considerevolmente l’antropologia: precedenza del metodo sul contenuto significa predominanza dell'antropologia sulla teologia, di modo che questa dovette trovarsi un posto nel contesto di un antropocentrismo radicale. Il declino dell'antropologia fece apparire, a sua volta, nuovi centri di gravità: supremazia della sociologia, o, ancora, primato della esperienza, come nuovi criteri di comprensione della fede tradizionale.

    Dietro a queste cause e ad altre ancora, che si possono trovare nel rifiuto del catechismo e nel crollo della catechesi classica, vi è tuttavia un processo più profondo. Il fatto di non avere più il coraggio di presentare la fede come un tutto organico in se stesso, ma solamente come una serie di riflessi scelti di esperienze antropologiche parziali, si fondava, in ultima analisi, su di una certa diffidenza nei riguardi della totalità.

    Esso si spiega con una crisi della fede, meglio: della fede comune alla Chiesa di tutti tempi. Ne risultava che la catechesi ometteva generalmente il dogma e tentava di ricostruire la fede direttamente a partire dalla Bibbia. Ora, il dogma non è niente altro, per definizione, che interpretazione della Scrittura, ma questa interpretazione, nata dalla fede dei secoli, non sembrava più potersi accordare con la comprensione dei testi, a cui il metodo storico aveva nel frattempo condotto. In questo modo, coesistevano due forme di interpretazione apparentemente irriducibili: la interpretazione storica e quella dogmatica.

    Ma quest'ultima, secondo le concezioni contemporanee, poteva essere considerata solo come una tappa pre-scientifica della nuova interpretazione. Così, sembrava difficile riconoscere a essa un posto proprio. Laddove la certezza scientifica è considerata la sola forma valida, perfino la sola possibile, della certezza, quella del dogma doveva sembrare o come una tappa sorpassata di un pensiero arcaico, oppure come la espressione della volontà di potenza di istituzioni passate che ancora sopravvivevano. La verità del dogma deve allora essere valutata secondo la misura dell'esegesi scientifica e può, al massimo, confermare le dichiarazioni di quest’ultima; essa non può più pretendere di giudicarla in ultima istanza.

    2. Catechesi, Bibbia e dogma

    Eccoci arrivati al punto centrale del nostro tema, al problema del posto occupato dalle "fonti" nel processo di trasmissione della fede. Una catechesi che sviluppava, per così dire, la fede direttamente a partire dalla Bibbia, senza passare attraverso il dogma, poteva pretendere di essere una catechesi dedotta specificamente dalle fonti. Ma allora emerse un fenomeno curioso. L'effetto di freschezza, all'inizio provocato dal contatto diretto con la Bibbia, non fu durevole. Certo, all'inizio ne risultò molta fecondità, bellezza e ricchezza nella trasmissione della fede. Si sentiva "l'odore della terra di Palestina", si riviveva il dramma umano nel quale la Bibbia è nata. Vi fu così, più verità umana e concreta.

    Ben presto, però, apparve l’ambiguità del progetto, che J. A. Möhler aveva descritto in modo classico centocinquanta anni fa. Ciò che la Bibbia apporta in fatto di bellezza, di immediatezza, a cui non si può rinunciare, e così descritto: "Senza la Scrittura, la forma propria delle parole di Gesù ci resterebbe nascosta, noi non sapremmo come parlava il Figlio dell'uomo e credo che non mi piacerebbe più continuare a vivere se non la sentissi più".

    Ma Möhler sottolinea subito il motivo per cui la Scrittura non può essere separata dalla comunità vivente, nella quale soltanto può essere "la Scrittura", quando continua dicendo: "Solo che, senza la tradizione, noi non sapremmo chi parlava allora, ne ciò che annunciava, e anche la gioia che proviene dal suo modo di parlare svanirebbe"[4].

    Nel libro che Albert Schweitzer consacrò alla storiografia delle ricerche sulla vita di Gesù, si trova descritta, da tutt'altro punto di vista, la stessa evoluzione di una catechesi legata unicamente allo studio letterario delle fonti: "Ciò che è capitato alla ricerca sulla vita di Gesù è singolare. Essa è partita alla ricerca del Gesù della storia ed ha creduto di poterlo ricollocare nel nostro tempo così come era, come Maestro e Salvatore. Essa disfece i legami che, da secoli, la univano alla roccia dell'insegnamento della Chiesa, e si rallegrava vedendo la sua figura riprendere vita e movimento, e il Gesù storico venire incontro. Ma ecco, esso non si arrestò, passò di fianco al nostro tempo e ritornò verso il suo"[5].

    In realtà questo processo, di cui, circa un secolo fa, Schweitzer aveva creduto di avere arrestato l'evoluzione teologica, si ripete sempre in un modo nuovo e con svariati cambiamenti nella moderna catechesi. Infatti, i documenti che si sono voluti leggere senza alcun altro intermediario oltre al metodo storico, per ciò stesso si allontanarono alla distanza che li separa storicamente. Una esegesi che non vive e non comprende più la Bibbia insieme all'organismo vivente della Chiesa diventa archeologia: un museo di cose passate.

    Concretamente, ciò si verifica anzitutto nel fatto che la Bibbia si disgrega come Bibbia, per non essere niente altro che una collezione di libri eterogenei. Di qui la domanda: come assimilare questa letteratura, e secondo quali criteri scegliere i testi con i quali bisogna costruire la catechesi? La rapidità con cui si è realizzata questa evoluzione si vede, per esempio, in una proposta fatta recentemente in Germania in una lettera di un lettore a una rivista: stampare, nelle nuove edizioni della Bibbia, in caratteri piccoli ciò che è superato, e mettere invece in evidenza ciò che resta valido. Ma che cosa è valido? Che cosa è superato? In fin dei conti, è il gusto a decidere, e la Bibbia potrà tutt'al più servire ad assecondare la nostra decisione.

    Ma la Bibbia si disgrega anche in un altro modo. Cercando l'elemento primitivo, giudicato sicuro e affidabile, ci si scontra con le fonti più antiche ricostruite a partire dalla Bibbia, che si pensa in definitiva essere più importanti de "la Fonte". Una madre tedesca mi raccontò, un giorno, che suo figlio, che frequentava la scuola media, era in procinto di essere iniziato alla cristologia della presunta fonte dei "loghia del Signore"; ma dei sette sacramenti, degli articoli del Credo, egli non sospettava ancora neppure la esistenza. L'aneddoto vuole dire questo: con il criterio dello strato letterario più antico come testimonianza storica più sicura, la vera Bibbia spariva a vantaggio di una Bibbia ricostruita, a vantaggio di una Bibbia come avrebbe dovuto essere.

    Lo stesso succede di Gesù. Quello dei Vangeli è considerato come un Cristo notevolmente rimaneggiato dal dogma, dietro il quale bisognerebbe ritornare al Gesù dei loghia oppure di un'altra fonte presunta, per trovare il Gesù reale. Questo Gesù "reale", a questo punto, non dice e non fa niente di più di quello che ci piace. Ci risparmia, per esempio, la croce come sacrificio espiatorio; la croce è ricondotta alle dimensioni di uno scandaloso incidente, al quale non conviene prestare troppa attenzione. Anche la Resurrezione diventa una esperienza dei discepoli secondo la quale Gesù, o almeno la sua "realtà", continua. Non ci si sofferma più sugli avvenimenti, ma sulla coscienza che ne hanno avuto i discepoli e la "comunità". La certezza della fede è sostituita dalla fiducia nell'ipotesi storica. Ora, questo modo di procedere mi sembra irritante.

    La garanzia dell’ipotesi storica, in un grande numero di testi di catechismo, diventa assolutamente più importante della certezza della fede. Questa è scaduta al livello di una vaga fiducia senza contorni precisi. Ma la vita non è una ipotesi, e la morte neppure; ci si rinchiude nello scrigno vitreo di un mondo intellettuale, che ci si è fatti da soli e che, allo stesso modo, può dissolversi.

    Ma ritorniamo al nostro tema. Se ricapitoliamo le riflessioni fatte finora, possiamo anzitutto constatare che lo sconvolgimento della catechesi negli ultimi venti o trenta anni è caratterizzato da una nuova immediatezza nel contatto con le fonti scritte della fede, con la Bibbia. Se prima la Bibbia entrava nell'insegnamento della fede solo nella forma di dottrina della Chiesa, ora si tenta di penetrare nel cristianesimo attraverso un dialogo diretto tra l’esperienza attuale e la parola biblica. L'utilità di questo sforzo consiste in un accrescimento di umanità concreta nella esposizione dei fondamenti del fatto cristiano. Ma così facendo, il dogma non era generalmente negato, ma scadeva al rango di una specie di quadro orientativo di poca importanza per il contenuto e per la struttura della catechesi.

    Dietro a ciò stava una certa perplessità nei confronti del dogma, che proveniva dal fatto di non avere chiarito i rapporti tra lettura dogmatica e lettura storico-critica della Scrittura. Nella misura in cui questa evoluzione progrediva, apparve manifesto che la Scrittura, lasciata a se stessa, cominciava a dissolversi: la si sottometteva sempre a nuove "riletture". Nel tentativo di attualizzare il passato, l'esperienza personale o comunitaria diveniva, a vista d'occhio, il criterio decisivo di ciò che rimaneva attuale. Così nasceva una specie di empirismo teologico, in cui l’esperienza del gruppo, della comunità oppure degli "esperti", diventa la fonte ultima.

    Le fonti comuni sono allora canalizzate in modo tale che non si riconosce più granché del loro dinamismo originario. Se un tempo è stato rimproverato alla catechesi tradizionale di non condurre alle fonti, ma di farle arrivare agli uomini dopo averle filtrate, oggi queste canalizzazioni del passato dovrebbero piuttosto essere paragonate a dei torrenti in rapporto ai nuovi metodi di analizzare delle fonti. Infatti, oggi, si pone una domanda centrale, ed è questo propriamente il nostro tema: come può essere conservata pura l'acqua delle fonti nella trasmissione della fede? Con questa domanda sono messi in luce due problemi essenziali per la situazione attuale.

    a. I rapporti tra esegesi dogmatica ed esegesi storico-critica

    La questione che deve essere esaminata in primo luogo è quella dei rapporti tra esegesi dogmatica ed esegesi storico-critica. Questa è anche la questione dei rapporti da stabilire tra il tessuto vivente della tradizione, da una parte, e i metodi razionali di ricostruzione del passato, dall'altra. Ma è anche la questione dei due livelli del pensiero e della vita: qual è, dunque, il posto dell'articolazione razionale della scienza nel tutto dell'esistenza umana e del suo incontro con il reale?

    b. I rapporti tra metodo e contenuto e tra esperienza e fede

    La seconda questione ci sembra consistere nella determinazione dei rapporti tra metodo e contenuto, tra esperienza e fede. È chiaro che la fede senza esperienza può essere soltanto chiacchiericcio di formule vuote. Per contro, è ugualmente evidente che ridurre la fede alla esperienza significa privarla del suo contenuto. Ci smarriremmo nel campo del non sperimentato e non potremmo dire con il salmo: "Hai guidato al largo i miei passi" (Sal 31[30],9), prigionieri della ristrettezza delle nostre esperienze.


       continua.................
     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 09:44
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    Parte seconda.
    Per superare la crisi

    1. Cosa è la fede?

    Sarebbe dare prova di un inammissibile accademismo attendere che si "sia finito di discutere" prima di promuovere un rinnovamento della catechesi. La vita non aspetta che la teoria sia arrivata alla fine della sua elaborazione; la teoria, piuttosto, ha bisogno delle iniziative della vita, che è sempre "aggiornata". La fede stessa è anticipazione su quanto è attualmente inaccessibile. Così essa lo raggiunge nella nostra vita e conduce la nostra vita a superarsi.

    In altri termini: in vista di un giusto rinnovamento teorico e pratico della trasmissione della nostra fede, proprio come in vista di un vero rinnovamento della catechesi, è indispensabile che i problemi appena enunciati siano riconosciuti come tali e condotti verso la loro soluzione. Ora, l'impossibilita in cui siamo di rinunciare alla teoria, sia nella Chiesa che riguardo alla fede, non significa che la fede debba risolversi in teoria, né che dipenda totalmente dalla teoria. La discussione teologica, di norma, è possibile e significativa solo se e perché vi è, in permanenza, una avanzamento del reale. Di questo parla con insistenza la prima lettera di san Giovanni, a proposito di una crisi del tutto simile alla nostra: "Voi avete l'unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza" (1 Gv 2,20).

    Questo vuole dire: la vostra fede battesimale, la conoscenza che vi è stata trasmessa con l'unzione (sacramentale), sono un contatto con la realtà stessa, che ha, dunque, la precedenza sulla teoria. Non è la fede battesimale che deve giustificarsi davanti alla teoria, ma la teoria davanti alla realtà, davanti alla conoscenza della verità concessa nella confessione battesimale. Alcuni versetti più avanti, l'Apostolo traccia una frontiera molto netta alle esigenze intellettuali che si facevano chiamare "gnosi". Poiché ciò che allora era in causa, era l'esistenza stessa del cristianesimo o il suo riassorbimento da parte della filosofia del tempo. L'Apostolo dice: "E quanto a voi, l'unzione che avete ricevuto da Lui [cioè la conoscenza della fede in comunione di spirito con la Chiesa] rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa [la sua unzione, cioè la fede cristologica della Chiesa, dono dello Spirito], è veritiera e non mentisce, così state saldi in Lui come essa vi insegna" (1 Gv 2,27).

    Questo passaggio avverte, attraverso l'autorità apostolica di colui che aveva toccato il Verbo incarnato, che i fedeli devono resistere alle teorie che dissolvono la fede in nome dell’autorità della pura ragione. Ai cristiani viene detto che il loro giudizio - quello della semplice fede della Chiesa - ha una autorità più alta di quella delle teorie teologiche, poiché la loro fede esprime la vita della Chiesa, che è al di sopra delle spiegazioni teologiche e delle loro certezze ipotetiche[6].

    Ora, con questi rinvii al primato della fede battesimale su tutte le teorie didattiche e teologiche, diamo, in realtà, una risposta completa alle domande fondamentali della nostra esposizione. Per meglio elaborare e approfondire queste vedute, dobbiamo adesso formulare meglio la nostra questione. Per rispondere esattamente, dobbiamo, dunque, chiarire ciò che si deve intendere per fede e per fonte della fede.

    L’ambiguità del termine "credere" deriva dal fatto che può indicare due atteggiamenti spirituali diversiNel linguaggio quotidiano, credere significa "pensare, supporre"; questo è un grado inferiore di sapere riguardo a realtà delle quali non abbiamo ancora certezza. Ora, si suppone comunemente che la fede cristiana stessa sia un insieme di supposizioni su argomenti di cui non abbiamo una conoscenza esatta.

    Ma una tale opinione manca totalmente il suo obiettivo. Il più importante catechismo cattolico, il Catechismo Romano pubblicato sotto Pio V in seguito al Concilio di Trento - e al quale dovremo sovente ritornare -, in merito al fine e al contenuto della catechesi, che è la somma delle conoscenze cristiane, si esprime, infatti, conformemente a un detto di Gesù riportato da san Giovanni: "E la vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Gv 17,3)[7].

    Dicendo ciò, il Catechismo Romano intende precisare contenuto e finalità di ogni catechesi, e precisa effettivamente, in un modo fondamentale, ciò che è la fede: credere significa trovare e realizzare la vita, la vera vita. Non si tratta di un qualsiasi potere, che sarebbe lecito acquisire o lasciare da parte, ma proprio del potere di imparare a vivere, e di vivere una vita che possa rimanere per sempre. Sant’Ilario di Poitiers, che scrisse nel secolo IV un libro sulla Trinità, ha descritto in modo simile il punto di partenza della sua ricerca di Dio: aveva finalmente preso coscienza che la vita non è donata solamente per morire. Nello stesso tempo aveva compreso che i due possibili scopi della vita, che vengono proposti come il contenuto di vita, sono insufficienti: non mi bastano – egli dice - né il possesso, né il tranquillo godimento della vita. "Beni e sicurezza": di questo la vita non si può accontentare sono ciò che la vita non può accontentarsi di essere, "altrimenti l'uomo ubbidirebbe solo al suo ventre ed alla sua pigrizia"[8].

    Il vertice della vita può essere raggiunto solo là dove vi è qualche cosa di più: la conoscenza e l’amore. Si potrebbe dire anche: solo la relazione dona alla vita la sua ricchezza, la relazione con l’altro, la relazione con l'universo. Tuttavia, neppure questa duplice relazione è sufficiente, perché "la vita eterna è che conoscano te". La fede è la vita, perché è relazione, cioè conoscenza che diventa amore, amore che viene dalla conoscenza e che conduce alla conoscenza. Come la fede indica un altro potere oltre a quello di compiere alcune azioni isolate, cioè il potere di vivere, così essa possiede anche, in proprio, un altro campo oltre a quello della conoscenza degli esseri particolari, vale a dire il potere della conoscenza fondamentale stessa, grazie alla quale prendiamo coscienza del nostro fondamento, impariamo ad accettarlo, e grazie a esso possiamo vivere. Il dovere essenziale della catechesi consiste, dunque, nel condurre alla conoscenza di Dio e di Colui che Egli ha inviato, come dice giustamente il Catechismo Tridentino.

    Le nostre riflessioni ci hanno fatto descrivere, finora, quello che si potrebbe chiamare il carattere personale della nostra fede. Ma questa è solo la metà di un tutto. Vi è un secondo aspetto che troviamo ancora descritto nella prima lettera di san Giovanni. Al versetto I, l'esperienza dell'Apostolo è definita "visione" e "contatto" con il Verbo, che è Vita e si offrì al tatto facendosi carne. Di qui la missione degli apostoli, che consiste nel trasmettere quanto hanno sentito e visto, "perché anche voi siate in comunione con noi", con questa Parola (1 Gv 1,1-4).

    La fede non è, dunque, soltanto un incontro faccia a faccia con Dio e con Cristo: è anche quel contatto che apre all'uomo la comunione con coloro ai quali Dio stesso si è comunicato. Questa comunione - possiamo aggiungere - è dono dello Spirito, che getta per noi un ponte verso il Padre e il Figlio. La fede non è, dunque, solo un "io" e un "tu", essa è anche un "noi". In questo "noi" vive il memoriale che ci fa ritrovare quanto abbiamo dimenticato: Dio e Colui che Egli ha Inviato.

    Per dirla in altri termini, non vi è fede senza Chiesa. Henri de Lubac ha dimostrato che l’"io" della confessione di fede cristiana non è l’"io" isolato dell'individuo, ma l’"io" collettivo della Chiesa[9].

    Quando io dico: "Credo", significa che supero le frontiere della mia soggettività per integrarmi nell'"io" della Chiesa e, nello stesso tempo, mi integro nel suo sapere, che oltrepassa i limiti del tempo. L'atto di fede è sempre un atto con il quale si entra nella comunione di un tutto. È un atto di comunione con il quale ci si lascia integrare nella comunione dei testimoni, tanto che, attraverso loro, tocchiamo l’intoccabile, udiamo l'inaudibile, vediamo l'invisibile.

    Il cardinale de Lubac ha dimostrato anche che noi non crediamo nella Chiesa allo stesso modo con il quale crediamo in Dio, ma che la nostra fede è fondamentalmente un atto compiuto con tutta la Chiesa[10].

    Dunque, tutte le volte che si pensa di potere trascurare anche solo un poco, nella catechesi, la fede della Chiesa, con il pretesto di attingere alla Scrittura una conoscenza più diretta e più precisa, si penetra nel campo dell'astrazione. Allora, infatti, non si pensa più, non si vive più, non si parla più in ragione di una certezza che oltrepassa le possibilità dell'io individuale e che si fonda su una memoria ancorata alle basi della fede e derivante da essa; non si parla più in virtù di una facoltà che oltrepassa i poteri dell'individuo; al contrario, ci si butta in quell'altra sorta di fede che è solo opinione, più o meno fondata, su quanto non si è in grado di conoscere. In queste condizioni, la catechesi si riduce ad essere soltanto una teoria accanto ad altre, un potere simile ad altri; essa non può più essere, allora, studio e accoglienza della vita vera, della vita eterna.

    2. Che cosa sono le "fonti"?

    Considerando la fede in questa prospettiva, anche il problema delle "fonti" si pone in modo diverso. Quando, circa trent'anni fa, tentavo di fare uno studio della Rivelazione nella teologia del secolo XIII, mi sono scontrato con una constatazione inaspettata: infatti, in questa epoca nessuno aveva avuto l'idea di chiamare la Bibbia "la Rivelazione"; così pure ad essa non venne mai applicato il termine di "fonte". Non che allora si fosse tenuta la Bibbia in minore stima di oggi: al contrario, se ne aveva un rispetto assai meno condizionato, ed era chiaro che la teologia non poteva e non doveva essere altro che interpretazione della Scrittura.

    È l'idea che ci si faceva dell'armonia tra Scrittura e Vita che era differente. Per questo si applicava la parola "Rivelazione", da un lato, al solo atto - mai esprimibile con parole umane - con il quale Dio si fa conoscere alla sua creatura e, d'altro lato, all'accoglienza con la quale la "condiscendenza" divina diventa percettibile all'uomo in forma di Rivelazione. Tutto ciò che deve essere fissato in parole, dunque la Scrittura stessa, testimonia della Rivelazione, senza essere questa Rivelazione nel senso più stretto del termine.

    Solo la Rivelazione medesima è, propriamente parlando, "fonte", una fonte alla quale attinge anche la Scrittura. Se la si distacca da questo contesto vitale della "condiscendenza" divina nel "noi" dei credenti, allora la fede è strappata al suo terreno naturale, per non essere più che "lettera" e "carne"[11].

    Quando, molto più tardi, si applicò alla Bibbia il concetto storico di "fonte", si eliminò contemporaneamente la sua capacità interna di superamento, che, ciononostante, appartiene alla sua essenza, e si ridussero pure a una sola le dimensioni della sua lettura. Questa non poteva cogliere altro che lo storicamente verosimile; ma che Dio agisca, ciò non poteva e non doveva più rientrare nelle categorie del verosimile agli occhi dello storico. Se non si considera la Bibbia altrimenti che come una fonte nel senso del metodo storico - cosa che certo essa è anche -, allora lo storico è il solo competente ad interpretarla; ma allora, anche, essa può darci soltanto informazioni storiche. Lo storico si sente in dovere di provare a fare dell'agire di Dio, in un tempo e in un luogo determinati, un’ipotesi inutile.

    Se, al contrario, la Bibbia è il condensato di un processo di Rivelazione molto più grande e inesauribile, e il suo contenuto è percettibile al lettore solamente quando costui resta aperto a questa dimensione più alta, allora il senso della Bibbia non ne risulta diminuito. Ciò che, per contro, cambia totalmente sono le competenze della sua interpretazione. Ciò significa che essa appartiene ad un ambito di relazioni, per le quali il Dio vivente si comunica in Cristo mediante lo Spirito Santo. Ciò significa che essa è espressione e strumento della comunione grazie alla quale l’"io" divino e il "tu" umano si toccano nel "noi" della Chiesa attraverso la mediazione di Cristo.

    Essa è allora parte di un organismo vivente dal quale trae, per altro, la sua origine; di un organismo che - attraverso le vicissitudini della storia - conserva nondimeno la sua identità e che, di conseguenza, può fare valere, per così dire, i suoi diritti d'autore sulla Bibbia come su di un bene che ad esso appartiene. Che la Bibbia, come tutte le opere d'arte e ben più di tutte le opere d’arte, dica di più di quello che noi possiamo comprendere ora della sua lettera, risulta allora dal fatto che essa esprime una Rivelazione, riflessa ma non esaurita dalla parola.

    Si spiega così anche che, laddove la Rivelazione è stata "percepita" ed è ridiventata vivente, ne sia seguita un'unione con la parola più profonda che là dove essa è stata analizzata soltanto come un testo. La "simpatia" dei santi verso la Bibbia, le loro sofferenze condivise con la Parola, la fanno loro comprendere più profondamente di quanto non abbiano potuto farlo i sapienti dell'epoca dei lumi. Questa è una conseguenza del tutto logica. Ma, contemporaneamente, divengono comprensibili sia il fenomeno della Tradizione che quello del Magistero della Chiesa[12].

    Che rapporto hanno queste considerazioni con il nostro argomento? Se sono esatte, significano che le fonti storiche devono sempre confluire nella fonte per eccellenza, cioè Dio che agisce in Cristo. Questa fonte non è altrimenti accessibile che nell'organismo vivente che l’ha creata e la mantiene in vita. In questo organismo, i libri della Scrittura e i commenti della Chiesa che spiegano la fede non sono più testimonianze morte di avvenimenti passati, ma elementi portatori di una vita nuova. Là, essi non hanno mai smesso di essere presenti e di aprire le frontiere del presente. Dal momento che essi ci conducono verso Colui che tiene il tempo nella sua mano, rendono anche permeabili le frontiere del tempo. Il passato e il presente si ricongiungono nell'oggi della fede[13].

    3. La struttura della catechesi

    a. Le quattro parti principali

    La coesione interna tra la parola e l’organismo vivente che la trasmette traccia il cammino alla catechesi. La sua struttura appare attraverso gli avvenimenti principali della vita della Chiesa, che corrispondono alle dimensioni essenziali della esistenza cristiana. Così, fin dai primi tempi, è nata una struttura catechetica,il cui nucleo risale alle origini della Chiesa. Lutero ha utilizzato questa struttura per il suo catechismo così naturalmente come lo hanno fatto gli autori del catechismo del Concilio di Trento. Ciò fu possibile perché non si trattava di un sistema artificiale, bensì, semplicemente, della sintesi del materiale mnemonico indispensabile alla fede, che riflette contemporaneamente gli elementi vitalmente indispensabili alla Chiesa: il simbolo degli apostoli, i sacramenti, il decalogo, la preghiera del Signore.

    Queste quattro parti classiche e principali della catechesi sono servite per secoli come disposizione e riassunto dell’insegnamento catechetico; esse hanno anche aperto l'accesso alla Bibbia così come alla vita della Chiesa. Vogliamo dire che corrispondono alle dimensioni della esistenza cristiana. E quanto afferma il Catechismo Romano dicendo che vi si trova quanto il cristiano deve credere (simbolo), sperare (Padre Nostro), fare (decalogo), e in quale spazio vitale deve compierlo (sacramenti e Chiesa)[14].

    Così diventa percettibile contemporaneamente l’accordo con i quattro gradi dell’esegesi, dei quali si parla nel Medioevo, e che sono anche considerati come una risposta alle domande che si pongono nel corso delle quattro tappe dell’esistenza umana. Vi è, anzitutto, il senso letterale della Scrittura, che si ricava con l’attenzione al radicamento storico degli avvenimenti della Bibbia. Viene poi il senso detto allegorico, cioè l’intuizione e l’interiorizzazione di tali avvenimenti in vista di superarli - quello grazie al quale i fatti storici riportati fanno parte di una storia della salvezza. Vi sono, infine, il senso morale e quello anagogico, che mettono in evidenza come l'agire deriva dall’essere e come la storia, al di là dell'avvenimento, è speranza e sacramento del futuro[15]. Oggi occorrerebbe rifare 1o studio di questa dottrina dei quattro sensi della Scrittura: essa spiega il posto indispensabile dell’esegesi storica, ma delimita altrettanto chiaramente i suoi confini e il suo necessario contesto.

    Alla raccolta mnemonica dei contenuti della fede, che rappresentano le quattro componenti principali che stiamo enumerando, presiede, dunque, una innegabile logica interna. Per questo il Catechismo Romano le ha caratterizzate a giusto titolo come i "luoghi della esegesi biblica". Nel linguaggio scientifico e teorico di oggi si direbbe che esso intende considerarle come i punti fissi di una topica e di una ermeneutica della Scrittura[16].

    Non si comprende perché oggi si ritenga che questa struttura semplice, esatta tanto teologicamente che pedagogicamente, sia da abbandonare a tutti i costi. Nei primi tempi del nuovo movimento catechetico essa passava per ingenua. Si credeva di dovere edificare a tutti i costi una sistematizzazione cristiana contemporaneamente logica e cogente. Ora, tentativi di questo genere appartengono alla ricerca teologica e non alla catechesi: essi, d'altronde, raramente sopravvivono ai loro autori. All'estremo opposto, si proponeva un’abolizione di qualunque struttura e si affermava la caducità delle scelte fatte in ragione di una situazione contingente: fu una reazione inevitabile agli eccessi del pensiero sistematico.

    b. Riflessioni su due problemi di contenuto

    Il fine di questa esposizione non è di dare in dettaglio il contenuto di queste quattro componenti principali. Qui si vuole occuparsi solo di problemi di struttura. Non posso nondimeno evitare alcune brevi riflessioni a proposito di due elementi di queste strutture, che mi sembrano oggi particolarmente minacciati.

    La nostra Fede in Dio Creatore e nella creazione

    Il primo punto è quello della nostra fede in Dio creatore e nella creazione, come elementi del simbolo di fede della Chiesa. Di tanto in tanto compare il timore che una troppo forte insistenza su tale aspetto della fede possa compromettere la cristologia[17]. Considerando qualche presentazione della teologia neoscolastica, questo timore potrebbe sembrare giustificato.

    Oggi, tuttavia, è il timore inverso che mi sembra giustificato. La emarginazione della dottrina della creazione riduce la nozione di Dio e, di conseguenza, la cristologia. Il fenomeno religioso non trova, allora, altra spiegazione al di fuori dello spazio psicologico e sociologico; il mondo materiale è confinato nel campo di indagine della fisica e della tecnica. Ora, soltanto se l’essere, ivi compresa la materia, è concepito come uscito dalle mani di Dio e conservato nelle mani di Dio, Dio è anche, realmente, nostro Salvatore e nostra Vita, la vera Vita.

    Oggi si tende a evitare la difficoltà dovunque il messaggio della fede ci mette in presenza della materia, e si tende ad attenersi a una prospettiva simbolica: questo comincia con la creazione, continua con la nascita verginale di Gesù e la sua resurrezione, finisce con la presenza reale di Cristo nel pane e nel vino consacrati, con la nostra stessa resurrezione e con la parusìa del Signore. Non si tratta di una discussione teologica di poca importanza quando si situa la resurrezione individuale al momento della morte, negando così non soltanto l'anima, ma anche la realtà della salvezza per il corpo[18]. Per questo un rinnovamento decisivo della fede nella creazione costituisce una condizione necessaria e preliminare alla credibilità e all'approfondimento sia della cristologia che della escatologia.

    Il decalogo

    Il secondo punto che vorrei sottolineare concerne il decalogo. Fu a causa di una incomprensione fondamentale della critica fatta da Paolo alla Legge che molti sono giunti a pensare che il decalogo, in quanto legge, doveva essere eliminato dalla catechesi e sostituito dalle beatitudini del discorso della Montagna. Si misconosceva così non solo il decalogo, ma anche il discorso della Montagna, come pure tutta la struttura interna della Bibbia. Paolo, al contrario, ha caratterizzato il passaggio dalla Legge al Nuovo Testamento dicendo che "pieno compimento della Legge è l'amore", e per spiegare questo compimento si è espressamente riferito al decalogo (Rom 13,8-10; cfr. Lev 19,8; Es 20,13 ss.; Dt 5,17)[19].
    Dove il decalogo è espulso dalla catechesi, viene intaccata la struttura fondamentale di essa. Non vi e più, allora, alcuna introduzione reale alla fede della Chiesa[20].

    c. La struttura formale della catechesi

    Vorrei terminare le mie riflessioni con due osservazioni sui problemi teologici essenziali, che sono stati oggetto della nostra considerazione nella prima parte dell’esposizione.

    Rapporti tra esegesi dogmatica ed esegesi storica

    La prima riflessione concerne i rapporti dell’esegesi dogmatica con l’esegesi storica. All'origine del ritorno alla Scrittura che fu in pari tempo un abbandono della catechesi dogmatica tradizionale, vi era la paura che il legame con il dogma non lasciasse vera libertà ad una lettura comprensiva della Bibbia. Il modo con il quale la tradizione dogmatica aveva effettivamente praticato la esegesi scritturistica giustificava ampiamente, infatti, questo timore.

    Ma oggi constatiamo che solo il contesto della tradizione ecclesiale mette il catechista in condizione di attenersi a tutta la Bibbia e alla vera Bibbia. Oggi vediamo che solo nel contesto della fede comunitaria della Chiesa si può prendere la Bibbia alla lettera, ritenere ciò che essa dice come realtà attuale, tanto per il nostro mondo di oggi che per la sua storia. Questa circostanza legittima l'interpretazione dogmatica della Bibbia anche da un punta di vista storico: il luogo ermeneutico costituito dalla Chiesa è il solo che possa fare accettare gli scritti della Bibbia come Sacra Scrittura, e le loro dichiarazioni come significative e vere. Vi sarà, nondimeno, sempre una certa tensione tra i nuovi problemi della storia e la continuità della fede. Ma, nello stesso tempo, ci sembra chiaro che la fede tradizionale non costituisce il nemico, bensì il garante di una fedeltà alla Bibbia che sia conforme ai metodi della storia.

    Rapporto tra metodo e contenuto della catechesi

    La seconda e ultima rif1essione ci fa tornare al problema dei rapporti tra metodo e contenuto della catechesi. Il lettore di oggi può stupirsi che il Catechismo Romano del secolo XVI abbia avuto una coscienza assai viva del metodo catechetico.

    Vi si legge, infatti, che importava enormemente sapere se tale insegnamento dovesse essere impartito in questa o in quella maniera. Per questo la catechesi doveva essere esattamente adeguata all'età, alle capacita di comprensione, alle abitudini di vita e alla situazione sociale degli uditori, per essere veramente tutto a tutti. Il catechista doveva sapere chi aveva bisogno di latte, chi aveva bisogno di alimenti solidi, al fine di adattare il suo insegnamento alla capacita di ciascuno.

    Lo stupefacente per noi è che il Catechismo Romano abbia lasciato al catechista molta più libertà di quanto non faccia generalmente la catechetica attuale. Infatti, esso lascia all'iniziativa di colui che insegna l’ordine da adottare nella sua catechesi in funzione delle persone e delle circostanze. Esso presuppone anche, è vero, che il catechista viva e faccia sua la materia del suo insegnamento attraverso una meditazione continua e una assimilazione interiore e che - nella scelta del proprio piano - non perda di vista la necessità di ordinarlo in funzione delle quattro componenti principali della catechesi[21].

    Il Catechismo Romano non esige certo di prescrivere un certo metodo didattico. Esso dice piuttosto: quale che sia l’ordine scelto dal catechista, noi abbiamo scelto per questo libro la via dei Padri[22]. In altre parole, mette a disposizione del catechista il dispositivo fondamentale indispensabile, come pure i contenuti con cui riempirlo; ma non lo dispensa dal trovare lui stesso quale via sia la più appropriata alla sua trasmissione in una data situazione concreta. Senza alcun dubbio, il Catechismo Romanopresupponeva già, così, l'esistenza di una letteratura di secondo grado, grazie alla quale il catechista poteva essere aiutato nel suo compito, senza che si potessero tuttavia programmare anticipatamente tutte le situazioni particolari.

    Questa distinzione di livelli è, ai miei occhi, essenziale. Il guaio della nuova catechesi consiste, in definitiva, in questo: ci si è un poco dimenticati di distinguere il "testo" dal suo "commento". Il "testo", cioè il contenuto propriamente detto di ciò che bisogna annunciare, si diluisce sempre più nel suo commento; ma il commento non ha allora più nulla da commentare, è diventato misura di se stesso, e perde, nello stesso tempo, la sua serietà.

    Sono dell'avviso che la distinzione fatta dal Catechismo Romano tra il testo di base (il contenuto della fede della Chiesa) e i testi parlati o scritti della sua trasmissione non sia una via possibile tra altre: essa appartiene all'essenza della catechesi (questo ordinamento di livelli appare chiaramente a partire dal secolo II nella struttura delle relazioni tra simbolo e regula fidei dei trattati catechetici: se il simbolo presenta la parola comune della confessione orante, per contro la regula, che non può essere fissata parola per parola, è una struttura fondamentale dei "capita" del cristianesimo preesistente a ogni maestro, struttura che, a sua volta, è riflessa, concretizzata e applicata alle diverse situazioni nella produzione teologica[23].

    Da un lato è al servizio della necessaria libertà del catechista nel trattare le situazioni particolari; dall’altro, essa è indispensabile per garantire l’identità del contenuto della fede. A ciò non si può obiettare che qualunque discorso umano relativo alla fede è già un commento e non più il testo primitivo, perché la Parola di Dio non può mai essere imprigionata nella parole umane. Che la Parola di Dio sia sempre infinitamente più grande di ogni parola umana, più grande anche delle parole ispirate dalla stessa Scrittura, questo non toglie al messaggio della fede il suo volto e i suoi contorni.

    Al contrario, questo ci obbliga tanto più alla salvaguardia della nostra fede ecclesiale come un bene comune. È questa che dobbiamo sforzarci di spiegare nelle situazioni sempre mutevoli, con parole sempre nuove, al fine di corrispondere così, attraverso il tempo, alla inesauribile ricchezza della Rivelazione. Credo, di conseguenza, che sia necessario distinguere di nuovo con chiarezza i gradi del discorso catechetico, anche nei libri destinati alla catechesi e al catechista. Ciò vuol dire che bisogna avere il coraggio di presentare il catechismo come un catechismo, affinché il commento possa restare un commento e affinché le fonti e la loro trasmissione possano ritrovare il loro rapporto esatto.

    Non saprei trovare migliore conclusione alle mie riflessioni delle parole con le quali il Catechismo Tridentino - che ho spesso citato - descrive la catechesi: "L'intera finalità della dottrina e dell'insegnamento deve essere posta nell'amore che non finisce. Poiché si può ben esporre ciò che bisogna credere, sperare o fare: ma, soprattutto, si deve sempre fare apparire l’amore di Cristo, affinché ciascuno comprenda che ogni atto di virtù perfettamente cristiano non ha altra origine che l'Amore e nessun altro termine che l'Amore"[24].


    Note

    [1] Cfr. Conferenza Episcopale Francese, La catéchèse des enfants. Texte de reference, Paris, 1980, pp. 11-26; Sinodo Generale delle diocesi della Germania Federale, edizione ufficiale, I.

    [2] Cfr. Joseph Ratzinger, Dogma und Verkündigung, München, 1973, p. 70.

    [3] Cfr. Idem, Theologische Prinzipienlehre, München, 1982, pp. 334ss.

    [4] J. A. Möhler, L'unité dans l'Église, trad. francese di A. de Lilienfeld, Paris, 1938, p. 52.

    [5] Cit. in W.-G. Kümmel, Das Neue Testament. Geschichte der Erforschung seiner Probleme, Fribourg/B, 1958, p. 305.

    [6] Questa è la posizione fondamentale di sant'Ireneo nel suo scontro con la gnosi, così capitale da essere a fondamento stesso della teologia cattolica e da fondare, in maniera decisiva, la dottrina della Chiesa, che la riceve come tale: cfr. H. J. Jaschke, Der Heilige Geist im Bekenntnis der Kirche, Münster, 1976, pp. 265-294.

    [7] Cfr. Catechismo Tridentino, prefazione, n. 10 (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. Il n. 10 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrisponde, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 5).

    [8] Sant'Ilario di Poitiers, La Trinità, I, 1 e 2.

    [9] Cfr. Henri de Lubac, Paradoxe et mystère de l’Église, Paris, 1967.

    [10] Cfr. IDEM, La Foi chrétienne. Essai sur la structure du symbole des apôtres. Aubier-Montaigne, Paris, 1969, 2e ed. 1970, pp. 201-234; cfr. anche J. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, cit., pp. 15-27; importante e chiarificatore a tale proposito è quanto sottolinea Louis Bouyer, Le métier du théologien, Paris, 1979, pp. 207-227.

    [11] A causa di diverse circostanze, fino a ora ho potuto pubblicare solo frammenti delle ricerche fatte a quell'epoca; cfr. J. Ratzinger, Offenbarung - Schrift – Überlieferung, in Trierer Theologische Zeitschrift 67, 1958, pp. 13-27; Idem, Wesen und Weisen der Auctoritas im Werk des hlg. Bonaventura, in Die Kirche und ihre Amter und Stande, Miscellanea cardinale Frings, Köln, 1960, pp. 58-72; si troveranno ugualmente alcune indicazioni nella mia opera Die Geschichtstheologie des hlg. Bonaventura, München, 1959; cfr., per questa problematica, H. de Lubac, Exégèse médiévale, 3 voll., Paris, 1959-1964.

    [12] Cfr. P.-G. Müller, Der Traditionsprozess im Neuen Testament, Freiburg/B, 1981, che ha bene dimostrato, con l’aiuto del metodo linguistico, come la Bibbia stessa presupponga questo contesto e possa, dunque, essere letta nella sua prospettiva propria solamente nella misura in cui vi si acceda così; H. Gese, Zur biblische Theologie, Munich, 1977, pp. 9-30, presenta, a questo riguardo, punti di vista importanti e interessanti; sulla Chiesa in quanto soggetto, cfr. Commissione Teologica Internazionale, L'unité de la loi et le pluralisme théologique, Einsiedeln 1973, in particolare il mio commento sulle tesi IV-VIII, pp. 32-48.

    [13] Così l’"oggi" e il "domani" della liturgia nel tempo di Avvento e in quello di Quaresima non sono un semplice gioco di parole nella fede, ma, piuttosto, interpretazione della realtà.

    [14] Cfr. Catechismo Tridentino, prefazione, n. 12. (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. Il n. 12 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrisponde, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 8).

    [15] Cfr. H. De Lubac, Histoire et Esprit. L'intelligence de l'Écriture d'après Origène, Paris, 1950.

    [16] Cfr. Il Catechismo Tridentino, prefazione, n. 12, che parla di "quattuor his quasi communibus Sacrae Scripturae locis", "questi quattro luoghi per così dire comuni della sacra Scrittura"; il n. 13 tratta di "prima ilia quattuor genera", "queste quattro categorie prime"; la parola "fonte" interviene quando si dice che ogni enunciato della Bibbia può essere ricondotto a uno di questi "luoghi", ai quali ogni catechista deve ricorrere come alla fonte della dottrina da spiegare in ogni caso, "quo tamquam ad ejus doctrinae fontem [...] confugient" (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. I nn. 12 e 13 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrispondono entrambi, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 8).
    Per l’uso della parola "fonte", come pure per la comprensione esatta dei fattori che entrano in gioco nell'insegnamento cristiano, l'osservazione seguente non mi pare priva di importanza; qui, non si considera la Bibbia come fonte, in opposizione alle "componenti principali", "capita", che sarebbero uno schema di organizzazione, ma sono, invece, le "componenti principali" a essere la fonte dalla quale scaturiscono gli enunciati biblici particolari. Il fatto che ciò sia valido per il decalogo nel suo rapporto con i libri legislativi dell'Antico Testamento è stato dimostrato in modo convincente da H. Gese, con i metodi della esegesi scientifica, nel suo fondamentale studio sulla Legge, Zur biblischen Theologie (cit., pp. 55-84). Lo si potrebbe dimostrare ugualmente, non in modo equivalente ma analogo, anche per le altre tre "componenti principali".

    [17] Questo timore è ricordato dalla Conferenza Episcopale Francese, La catéchèse des enfants. Texte de référence. cit., p. 37, che sottolinea, per altro giustamente, "che si può parlare cristianamente di Dio creatore soltanto nella luce di Gesù Cristo risorto".

    [18] Su questa problematica, cfr. J. Ratzinger, La Mort et l’Au-delà. Court traité d'espérance chrétienne; trad. francese, 1979, e il mio articolo Entre la mort et la résurrection, in Revue catholique internationale Communio, V (1980) 3, pp. 4-19, dove sintetizzo e approfondisco tale problema.

    [19] Cfr. anche H. Gese, Zur biblische Theologie. cit.

    [20] È merito del testo di riferimento della Conferenza Episcopale Francese avere situato con esattezza l’attualità del decalogo - La catéchèse des enfants. Texte de reference, cit., p. 59 -; così pure è in rapporto con il nostro discorso quanto è detto della catechesi come "processo strutturato sacramentalmente", ibid.. p. 57.

    [21] Catechismo Tridentino, prefazione, n. 13: "Docendi autem ordinem eum adhibebit, qui et personis et temporis accomodatum videbitur"; gli altri riferimenti sono alla prefazione, n. 12 (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. I nn. 12 e 13 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrispondono entrambi, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 8).

    [22] Ibid., n. 13(N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. Il n. 13 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrisponde, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 8).

    [23] Per le relazioni tra il simbolo, la regula e la teologia, cfr. H. J. Jaschke, op. cit., passim, ma, in particolare, le pp. 36-44 e 140-147.

    [24] Catechismo Tridentino, prefazione, n. 10 (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. Il n. 10 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrisponde, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 5)..



     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 09:49
     

    Risultati immagini per Ratzinger Benedetto xviChe cosa crede la Chiesa? Una introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica: proporre l’unità e la perenne novità della fede 
    dell’allora cardinal Joseph Ratzinger

    Il testo che mettiamo a disposizione on-line è la trascrizione della riflessione tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger, durante il Sinodo Romano, il 18 gennaio 1993, per presentare il Catechismo della Chiesa Cattolica. Il testo è apparso sui Quaderni-Nuova Serie del Sinodo Romano, n.2, dal titolo La fede della Chiesa di Roma, Vicariato di Roma, 1993, pagg.67-73.


    Permettetemi di iniziare con un episodio verificatosi nei primi tempi dopo il Concilio. Il Concilio aveva aperto per la Chiesa e la teologia ampie prospettive di dialogo, soprattutto con la sua Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ma anche con i Decreti sull'ecumenismo, sulla missione, sulle religioni non cristiane, sulla libertà religiosa. Nuovi temi si aprivano, e nuovi metodi divenivano necessari. Per un teologo, che voleva essere all’altezza dei tempi e aveva un concetto giusto della sua missione, appariva come ovvio, innanzitutto lasciare per un momento da parte i vecchi temi e dedicarsi con tutte le energie ai nuovi problemi, che da ogni parte si ponevano. 

    In quell’epoca io avevo inviato un piccolo lavoro ad Hans Urs von Balthasar, il quale come sempre mi ringraziò immediatamente con un cartoncino ed al ringraziamento aggiunse una frase pregnante che per me divenne indimenticabile: non presupporre, ma proporre la fede. Fu un imperativo che mi colpì. L’ampio spaziare in nuovi campi era buono e necessario, ma solo a partire dal presupposto che esso stesso traesse origine dalla luce centrale della fede e da questa luce fosse sostenuto. La fede non ha permanenza di per se stessa. Non la si può mai semplicemente presupporre come una cosa già in se conclusa. Deve continuamente essere rivissuta. E poiché è un atto, che abbraccia tutte le dimensioni della nostra esistenza, deve anche essere sempre ripensata e sempre di nuovo testimoniata. 

    Perciò i grandi temi della fede - Dio, Cristo, Spirito Santo, Grazia e peccato, Sacramenti e Chiesa, morte e vita eterna - non sono mai temi vecchi. Sono sempre i temi, che ci colpiscono più nel profondo. Devono sempre rimanere centro dell’annuncio e quindi anche centro nel pensiero teologico. 

    I Vescovi del Sinodo del 1985 con la loro richiesta di un catechismo comune di tutta la Chiesa hanno avvertito esattamente ciò che Balthasar aveva allora espresso in parole nei miei confronti. L’esperienza pastorale aveva mostrato loro che tutte le molteplici nuove attività pastorali perdono il loro terreno portante, se non sono irradiamento e applicazione del messaggio della fede. La fede non può essere pre-supposta, essa deve essere pro-posta. Per questo c’è il nuovo Catechismo. Esso vuole pro-porre la fede con la sua pienezza e la sua ricchezza, ma anche nella sua unità e semplicità

    Che cosa crede la Chiesa? Questa domanda include le altre: chi crede? E come credere? Il Catechismo ha trattato entrambe le due domande fondamentali, la domanda del “che cosa” e quella del “chi” della fede, come un’unità interiore. Detto in altre parole: illustra l’atto della fede ed il contenuto della fede nella loro inseparabilità. Ciò suona forse un po’ astratto: cerchiamo di sviluppare un poco che cosa si intende con questo. 

    Si ritrova nelle confessioni di fede tanto la formula “io credo” come l'altra “noi crediamo”. Parliamo della fede della Chiesa, e parliamo del carattere personale della fede, e infine parliamo della fede come di un dono di Dio, come di un “atto teologale”, secondo un’espressione oggi corrente nella teologia. Che cosa significa tutto questo?

    La fede è un orientamento della nostra esistenza nel suo insieme. È una decisione di fondo, che ha effetti in tutti gli ambiti della nostra esistenza. La fede non è un processo solo intellettuale, né solo di volontà, né solo emozionale, è tutto questo insieme. È un atto di tutto l’io, di tutta la persona nella sua unità raccolta insieme. In questo senso viene designato dalla Bibbia come un atto del “cuore” (Rom10,9). È un atto altamente personale. Ma proprio perché è il nostro io, afferma in un passo Sant’Agostino, laddove l’essere umano come un tutto è in gioco, egli supera se stesso; un atto di tutto l’io è nello stesso tempo anche sempre un divenire aperti per gli altri, un atto dell'essere con

    Ancor più: non può realizzarsi senza che noi tocchiamo il nostro fondamento più profondo, il Dio vivente, che è presente nella profondità della nostra esistenza e la sostiene. Laddove è in gioco l'essere umano come un tutto, insieme con l’io è in gioco il noi ed il tu del totalmente altro, il tu di Dio. Ciò significa però anche che in un tale atto viene superato l’ambito dell'agire puramente personale. L’essere umano come essere creato è nel suo più profondo non solo azione, ma sempre anche passione, non solo essere donante, ma essere accogliente

    Il Catechismo esprime questo così: Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza (166). San Paolo ha espresso questo carattere radicale della fede nella descrizione della sua esperienza di conversione e di battesimo con la formula: io vivo, ma non più io... (Gal2,20). La fede è uno scomparire del semplice io e così un risorgere del vero io, un divenire se stessi attraverso il liberarsi del semplice io nella comunione con Dio, che è mediata attraverso la comunione con Cristo. 

    Abbiamo cercato finora di analizzare con il Catechismo “chi” crede, quindi di individuare la struttura dell’atto di fede. Ma in tal modo si è già venuto delineando il contenuto essenziale della fede. La fede cristiana è nella sua essenza incontro con il Dio vivente. Dio è il vero ed ultimo contenuto della nostra fede. In questo senso il contenuto della fede è molto semplice: io credo in Dio. Ma la realtà più semplice è sempre anche la realtà più profonda e che tutto abbraccia. 

    Possiamo credere in Dio, perché Dio ci tocca, perché egli é in noi e perché egli anche dall’esterno si avvicina a noi. Possiamo credere in lui, perché esiste colui che egli ha mandato: “Egli ha visto il Padre (Gv6,46)”, dice il Catechismo; egli “è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare” (151). Potremmo dire che la fede è partecipazione allo sguardo di Gesù. Nella fede Egli ci permette di vedere insieme con lui, ciò che egli ha visto. In questa affermazione la divinità di Gesù Cristo è inclusa, così come la sua umanità. A motivo del fatto che egli è il Figlio, egli vede continuamente il Padre. A motivo del fatto che egli è uomo, noi possiamo guardare insieme con lui. A motivo del fatto che egli è entrambe le cose allo stesso tempo, Dio e uomo, egli non è mai una persona del passato e non è mai soltanto nell’eternità, sottratto ad ogni tempo, ma è sempre al centro del tempo, sempre vivo, sempre presente. 

    In tal modo però si tocca anche allo stesso tempo il mistero trinitario. Il Signore diviene presente per noi attraverso lo Spirito Santo. Ascoltiamo di nuovo il Catechismo: “Non si può credere in Gesù Cristo se non si ha parte del suo Spirito ... Dio solo conosce pienamente Dio. Noi crediamo nello Spirito Santo, perché è Dio” (152). 

    Se si considera bene l’atto di fede, si sviluppano in conformità con esso come da se stessi i singoli contenuti. Dio diviene per noi concreto in Cristo. Così da una parte diviene riconoscibile il mistero trinitario, dall’altra diviene visibile che egli stesso si è inserito nella storia fino al punto che il Figlio è divenuto uomo e dal Padre ci manda lo Spirito. Nell’incarnazione tuttavia è contenuto anche il mistero della Chiesa, poiché Cristo in realtà è venuto per “radunare in unità i dispersi figli di Dio” (Gv11,52). Il noi della Chiesa è la nuova, ampia comunità, nella quale ci attira (cfr. Gv12,32). Così la Chiesa è contenuta nell’inizio stesso dell’atto di fede. La Chiesa non è un’istituzione, che sopraggiunge alla fede dall’esterno e crea una cornice organizzativa per attività comuni dei fedeli; essa appartiene allo stesso atto di fede. L’ “io credo” è sempre anche un “noi crediamo”. Dice il Catechismo a questo proposito: “Io credo: è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’ ” (167). 

    Avevamo precedentemente constatato che l’analisi dell’atto di fede ci rivela anche immediatamente il suo contenuto essenziale: la fede risponde al Dio trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo. Possiamo ora aggiungere che nello stesso atto di fede è contenuta anche l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, il suo mistero umano-divino e quindi tutta la storia della salvezza; si rende ora evidente che il Popolo di Dio, la Chiesa, come portatrice umana della storia della salvezza è presente nell’atto di fede stesso. Non sarebbe difficile dimostrare similmente come siano sviluppi dell’unico atto fondamentale dell’incontro con il Dio vivente anche gli altri contenuti della fede. Infatti la relazione con Dio proprio per la sua natura ha a che fare con la vita eterna. E supera necessariamente l’ambito puramente antropologico. Dio è veramente Dio solo se è il Signore di tutte le cose. Così creazione, storia della salvezza, vita eterna sono temi che fluiscono immediatamente dal problema di Dio. Se parliamo della storia di Dio con l’umanità, si tocca con questo anche il problema del peccato e della grazia. È toccato il problema di come noi incontriamo Dio, quindi il problema della liturgia, dei sacramenti, della preghiera, della morale. 

    Ma non vorrei ora sviluppare tutto questo nei particolari; ciò che mi stava a cuore era propriamente la considerazione dell’interiore unità della fede, che non è un cumulo di proposizioni, ma un semplice intenso atto, nella cui semplicità è contenuta tutta la profondità ed ampiezza dell’essere. Chi parla di Dio, parla del tutto; impara a distinguere l’essenziale da ciò che non è essenziale, e scopre qualcosa della logica interiore e dell’unità di tutto il reale, anche se sempre solo in frammenti e per enigma (1Cor13,12), finché la fede sarà fede e non diverrà visione. 

    Per concludere vorrei ancora soltanto toccare l’altra questione, che abbiamo incontrato all'inizio delle nostre riflessioni: quella che riguarda il come della fede. In Paolo si trova in proposito una parola singolare, che ci potrà aiutare. Egli dice che la fede è un’obbedienza di cuore a quella forma di insegnamento, alla quale siamo stati consegnati (Rom6,17). Si esprime qui in fondo il carattere sacramentale dell’atto di fede, l’intimo legame fra confessione di fede e sacramento. È propria della fede una “forma di insegnamento”, dice l’apostolo. Non la inventiamo noi. Non ci viene come un’idea dal di dentro di noi, ma come una parola dal di fuori di noi. 

    È in certo qual modo parola dalla parola, noi veniamo “consegnati” a questa parola, che indica nuove vie al nostro pensiero e dà forma alla nostra vita. Questo “essere consegnati” ad una parola che ci precede si realizza attraverso la simbologia di morte dell’immersione nell’acqua. Ciò ricorda la frase precedentemente citata, “Io vivo, ma non più io”; ricorda che nell’atto della fede si compiono morte e rinnovamento dell’io. La simbologia di morte del battesimo unisce questo nostro rinnovamento alla morte ed alla resurrezione di Gesù Cristo. 

    Questo essere consegnati alla parola che ci ammaestra è un essere consegnati a Cristo. Non possiamo accogliere la sua parola come una teoria, come si apprendono ad esempio formule matematiche e opinioni filosofiche. La possiamo apprendere solo nella misura in cui accettiamo la comunione di destino con lui, e questa la possiamo attingere solo laddove egli stesso si è legato permanentemente con gli uomini in una comunione di destino: nella Chiesa. Usando il suo linguaggio chiamiamo questo processo dell'essere consegnati “sacramento”. L’atto di fede non è pensabile senza il sacramento. 

    A partire di qui possiamo però capire la costruzione letteraria concreta del Catechismo. Fede, così abbiamo udito, è essere consegnati ad una forma di insegnamento. In un altro passo Paolo chiama questa forma di insegnamento professione di fede (cfr. Rom10,9). Qui emerge un altro aspetto dell’evento della fede: la fede, che come parola viene a noi, deve diventare di nuovo parola anche presso di noi stessi, in quanto nello stesso tempo si esprime la nostra vita. Credere significa sempre anche confessare. La fede non è privata, ma è pubblica e comunitaria. Da parola diviene innanzitutto concezione, ma deve anche continuamente da concezione diventare parola ed azione

    Il Catechismo indica le diverse forme di confessione della fede, che ci sono nella Chiesa: professioni di fede battesimali, professioni di fede formulate da Concili, professioni di fede formulate da Papi (192). Ciascuna di queste professioni di fede ha il suo significato specifico. Ma l’archetipo della professione di fede, sul quale tutti gli altri si fondano è la professione di fede battesimale. Laddove si tratta della catechesi, cioè dell’introduzione alla fede e alla vita nella comunione di fede della Chiesa, si deve partire dalla professione di fede battesimale. Ciò avviene fin dai tempi apostolici e doveva pertanto essere anche la strada del Catechismo. Esso svolge la fede a partire dalla professione di fede battesimale. Appare così chiaramente in quale maniera vuole insegnare la fede: catechesi è catecumenato. Non è una semplice lezione di religione, ma il processo del donarsi e del lasciarsi donare alla parola della fede, nella comunione di destino con Gesù Cristo

    È proprio della catechesi l’itinerario interiore a Dio. Sant’Ireneo dice in un passo, a questo proposito, che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si è abituato a noi, agli uomini nell'incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, ciò che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita. La catechesi dovrebbe anche essere sempre un processo del genere di assimilazione a Dio, poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza. 

    “Se l’occhio non fosse solare, non potrebbe riconoscere il sole”, ha scritto Goethe a commento di un detto di Plotino. Il processo della conoscenza è un processo di assimilazione, un processo vitale. Il noi, il che cosa ed il come della fede sono strettamente legati. In tal modo diventa ora visibile anche la dimensione morale dell'atto di fede: esso implica uno stile di esistenza umana, che non produciamo da noi stessi, ma che apprendiamo lentamente attraverso l’immersione del nostro essere immersi nel battesimo, nel quale continuamente Dio agisce in noi e nuovamente ci attira a sé. La morale fa parte del Cristianesimo, ma questa morale è sempre parte del processo sacramentale del divenire cristiano, nel quale noi non siamo soltanto attori, ma sempre, anzi, addirittura in primo luogo ricettori, in una ricezione, che significa trasformazione. 

    Non è quindi per mania di archeologismo che il Catechismo sviluppa il contenuto della fede a partire dalla professione di fede battesimale della Chiesa di Roma, dal cosiddetto Simbolo apostolico. In esso si manifesta piuttosto la vera natura dell’atto di fede e così la vera natura della catechesi come un esercitarsi ad esistere con Dio. 

    Così, appare anche che il Catechismo è totalmente determinato dal principio della gerarchia delle verità, come la ha intesa il Vaticano secondo. Infatti il Simbolo è innanzitutto, come abbiamo visto, professione di fede nel Dio trino, che si sviluppa dalla formula battesimale ed è ad essa legata. 

    Tutte le “verità della fede” sono sviluppi dell’unica verità, che noi scopriamo in esse come la perla preziosa, per la quale merita dare tutta la vita. Si tratta di Dio. Solo egli può essere la perla, per la quale noi vendiamo tutto il resto. Dio solo basta. Chi trova Dio, ha trovato tutto. Ma noi lo possiamo trovare solo perché egli prima ci ha cercato e ci ha trovato. Egli è in primo luogo colui che agisce e, per questo la fede in Dio è inseparabile dal mistero dell’incarnazione, dalla Chiesa, dal sacramento

    Tutto ciò che viene detto nella catechesi è sviluppo dell’unica verità, che è Dio stesso – l’amore che muove il sole e l'altre stelle (Dante, Paradiso XXXIII,145).



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    Temi dal pensiero di Sua Santità Papa Benedetto XVI: la coscienza morale, organo del bene e del male.
    Oggettività e soggettività dinanzi alla sfida delle scienze e delle tecnologie.

    (da J.Ratzinger, La coscienza nel tempo, Conferenza alla Reinhold-Schneider-Gesellschaft, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Torino, 1987, p.159 e 163)

    Nei suoi Colloqui con Hitler, Hermann Rauschning, che nel 1933-34 era presidente del senato della libera città di Danzica, riferisce la seguente dichiarazione del dittatore fatta in sua presenza: “Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza e morale, e dalle pretese di una libertà e autodeterminazione personale, di cui ben pochi possono essere all’altezza”.
    La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza. Del tutto affine è quanto Göring dichiarò allo stesso autore: “Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza si chiama Adolf Hitler”. La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà...

    E’ certamente possibile che sotto il concetto di coscienza si insinui come la canonizzazione di un super-io, che blocca l’uomo nella sua realizzazione. Il richiamo assoluto rivolto alla persona nella sua responsabilità è allora coperto e sopraffatto da un sistema di convenzioni che viene esibito falsamente come voce di Dio, mentre non è in verità che la voce del passato, la cui paura impedisce il presente. La coscienza può diventare anche un alibi per la propria ostinazione e indocilità, quando una caparbia incapacità alla correzione di sé viene giustificata con la fedeltà alla voce interiore. La coscienza diventa allora il principio di un egoismo soggettivo che si pone come assoluto, allo stesso modo in cui, viceversa, può diventare il principio del passaggio dall’io a un “sì” impersonale o a un io estraneo. In questo senso il concetto di coscienza ha bisogno di costante purificazione, e la pretesa della coscienza come pure il richiamo ad essa hanno bisogno di lealtà e di prudenza, consapevole dei possibili abusi di grandi valori quando la si chiama in gioco troppo in fretta. Chi ha in bocca con troppa facilità la parola “coscienza” si rende sospetto in modo simile a coloro che pronunciano banalmente e a ripetizione il santo nome di Dio, dunque da idolatri e non da veri adoratori. Ma la vulnerabilità della coscienza, la possibilità dell’abuso non possono cancellarne la grandezza, Reinhold Schneider ha detto: “Che cosa è la coscienza se non la consapevolezza della nostra responsabilità davanti alla totalità della creazione e davanti a chi l’ha creata?”. Coscienza significa, detto molto semplicemente, riconoscere l’uomo, se stesso e l’altro da sé come creazione e rispettare in quest’uomo il suo creatore. Ciò definisce il confine di ogni potere e gli indica a un tempo la direzione.

    (da J.Ratzinger, La teologia morale oggi, conferenza per la Diocesi di Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire Lazio-sette, 2005)

    Quando si parla di coscienza oggi vengono in mente tre correnti principali di pensiero. Abbiamo già trattato della prima di queste quando abbiamo det­to che la coscienza rivendica il diritto della soggettività, che non può in alcun modo essere misurata oggettivamente. Ma di rimando sorge immediatamen­te l'obiezione: chi stabilisce questo diritto assoluto della soggettività? Essa può certamente avere un diritto relativo; ma in casi realmente importanti, non deve questo diritto essere sacrificato a un bene comune oggettivo di più alto livello?
    È strano che certi teologi trovino difficile accettare la dottrina precisa e li­mitata dell'infallibilità pontificia, ma non abbiano problemi nel riconoscere de facto l'infallibilità a chiunque abbia una coscienza.
    In realtà non è possibile rivendicare un diritto assoluto della soggettività come tale.

    Un secondo concetto di coscienza afferma che la coscienza è la voce di Dio dentro di noi. Con questo concetto viene stabilito il carattere assoluta­mente inviolabile della coscienza, la quale verrebbe a trovarsi al disopra di qualsiasi legge umana. L'esistenza di un simile legame diretto tra Dio e l'uomo, da all'uomo una dignità assoluta.
    Ma allora sorge il quesito: Dio parla forse agli uomini in maniera contraddittoria? Contraddice forse sé stesso? Proibisce forse a qualcuno di fare un'azione, anche a prezzo del martirio, mentre autorizza un altro o addirittu­ra esige da lui di compiere questa stessa azione?
    Chiaramente non è possibile parlare di una identità dei giudizi di coscien­za individuali con la voce di Dio. La coscienza non è un oracolo, come osservava giustamente Robert Spaemann.

    Incontriamo ora un terzo significato: la coscienza come super “io”, come interiorizzazione della volontà e delle convinzioni di altri che ci hanno forma­ti e hanno impresso in noi la loro volontà, a tal punto che essa non ci parla più esteriormente, ma dal più intimo di noi stessi.
    In una situazione come questa, la coscienza non sarebbe affatto una sor­gente reale di moralità, ma soltanto il riflesso della volontà di un altro, una guida estranea in noi stessi. La coscienza non sarebbe allora un organo di li­bertà, ma una schiavitù interiorizzata dalla quale l'uomo dovrebbe logica­mente liberarsi per scoprire l'ampiezza della sua reale libertà.

    Organo, non oracolo
    Anche se è possibile spiegare in questo modo molte singole espressioni della coscienza, questa teoria non può reggersi globalmente.
    Vi sono, infatti, bambini i quali, prima di aver ricevuto una educazione for­male, reagiscono spontaneamente contro l'ingiustizia. Essi danno un «sì» spontaneo a ciò che è buono e vero, prima di qualsiasi azione educativa, che troppo spesso li confonde e li schiaccia anziché aiutarli a crescere.
    D'altra parte vi sono uomini e donne maturi nei quali si osserva una libertà o una prontezza di coscienza che si contrappongono a ciò che è stato appreso o che viene comunemente fatto. Una coscienza come questa è diventata un senso interiore di ciò che è buono.
    Qual'è allora la posizione reale della coscienza? Vorrei fare mie le parole di Robert Spaemann sull'argomento: la coscienza è un organo, non un oracolo. È un organo perché è una cosa insita in noi, che appartiene alla nostra essen­za, e non una cosa fatta fuori di noi. Ma essendo un organo ha bisogno di cre­scere, di essere formata, di esercitarsi. Trovo molto adatto in questo caso il confronto che Spaemann fa con la parola.
    Perché parliamo? Parliamo perché abbiamo imparato a parlare dai nostri genitori. Parliamo la lingua che essi ci hanno insegnato, anche se sappiamo che esistono altre lingue che siamo incapaci di parlare o comprendere. La persona che non ha mai imparato a parlare è muta. Eppure la lingua non è un condizionamento esterno che abbiamo interiorizzato; è invece una cosa che propriamente è interna a noi. Viene formata dall'esterno, ma questa formazione risponde a ciò che è insito nella nostra natura, che cioè possiamo espri­merci con il linguaggio. L'uomo come tale è un essere-che-parla, ma lo di­venta soltanto a condizione che impari a parlare da altri. Incontriamo così la nozione fondamentale di quel che significa essere un uomo: l'uomo è «un es­sere che ha bisogno dell'aiuto di altri per diventare ciò che è in sé stesso» (R. Spaemann).

    Noi vediamo, ancora una volta, questa struttura antropologica fondamentale nella coscienza. L'uomo come tale è un essere che ha un organo di cono­scenza interna del bene e del male. Perché esso diventi ciò che è, ha tuttavia bisogno dell'aiuto degli altri.

    La coscienza richiede formazione e educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal pun­to da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della coscienza può diventare una malattia mortale per una intera civiltà. Incon­triamo di tanto in tanto, nei Salmi, la preghiera a Dio perché liberi l'uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi apparentemente con buona coscienza.
    Non riuscire ad avere una coscienza di colpa è una malattia, come è una malattia l'assenza di dolore in una malattia. Non si può quindi accettare il principio che ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato a fare qualsiasi cosa. Invece è proprio per colpa sua se la coscienza è tanto oscurata che egli non vede più quello che, in quanto uomo, dovrebbe vedere.
    In altre parole, nel concetto di coscienza è compreso un obbligo, quello cioè di aver cura di essa, di formarla e di educarla. La coscienza ha diritto al ri­spetto e all’obbedienza, nella misura in cui la persona la rispetta e ha per es­sa la cura che la sua dignità merita.

    Il diritto della coscienza e l'obbligo di formar­la.
    Come cerchiamo di sviluppare il nostro uso del linguaggio, e ci sforziamo di dominare l'utilizzazione delle sue regole, così dobbiamo anche cercare la vera misura della coscienza, affinché la sua parola interiore possa infine conseguire la propria validità.
    Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza.
    Sarebbe quindi semplicistico porre una affermazione del Magistero in contrapposizione alla coscienza. In tal caso, devo interrogarmi molto più a fondo.
    Che cosa c'è, in me, che contraddice questa parola del Magistero? È forse soltanto il mio benessere, la mia routine di ogni giorno? O la mia ostinazio­ne? O è una alienazione, dovuta a un certo modo di vivere, che mi consente qualche cosa che il Magistero mi vieta, che a me sembra meglio motivata o più adatta semplicemente perché la società la considera ragionevole?
    È solo nel contesto di questo tipo di lotta che la coscienza può essere eser­citata, e che il Magistero ha il diritto di attendersi da essa un'apertura in ma­niera consona alla gravita della questione.
    Se io credo che la Chiesa ha le sue origini nel Signore, allora il ministero della dottrina nella Chiesa ha il diritto, mentre si sviluppa nell'autenticità, di essere accettato come elemento prioritario nella formazione della coscienza. A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di orientamenti. Deve esprimersi in modo da rendere possibile una riso­nanza interiore della sua parola all'interno della coscienza, ciò che significa qualcosa di più che una semplice dichiarazione occasionale di massimo livello.

        continua..............



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    (da J.Ratzinger, Coscienza e verità, Conferenza a Dallas ed a Siena, in La chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, Torino, 1991, pag.113-137)

    Nell’attuale dibattito sulla natura propria della moralità e sulle modalità della sua conoscenza, la questione della coscienza è divenuto il punto nodale...
    La coscienza vi è presentata come il baluardo della libertà di fronte alle limitazioni dell’esistenza imposte dall’autorità. In tale contesto vengono così contrapposte due concezioni del cattolicesimo: da un lato sta una comprensione rinnovata della sua essenza, che spiega la fede cristiana a partire dalla libertà e come principio della libertà e, dall’altro lato, un modello superato, “preconciliare”, che assoggetta l’esistenza cristiana all’autorità, la quale attraverso norme regola la vita fin nei suoi aspetti più intimi e cerca in tal modo di mantenere un potere di controllo sugli uomini. Così “morale della coscienza” e “morale dell’autorità” sembrano contrapporsi tra di loro come due modelli incompatibili; la libertà dei cristiani sarebbe poi messa in salvo facendo appello al principio classico della tradizione morale, secondo cui la coscienza è la norma suprema che dev’essere sempre seguita, anche in contrasto con l’autorità.

    E’ fuori discussione che si deve sempre seguire un chiaro dettame di coscienza, o che almeno non si può mai andare contro di esso. Ma è questione del tutto diversa se il giudizio di coscienza, o ciò che uno prende come tale, abbia anche sempre ragione, se esso cioè sia infallibile. Infatti, se così fosse, ciò varrebbe a dire che non c’è nessuna verità, almeno in materia di morale e di religione, ossia nell’ambito dei fondamenti veri e propri della nostra esistenza. Dal momento che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo una verità del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità. Non ci sarebbe nessuna porta e nessuna finestra che potrebbe condurre dal soggetto al mondo circostante e alla comunione degli uomini...

    (La tesi che la coscienza morale sia infallibile) viene presumibilmente esposta per primo da J.G.Fichte: “La coscienza non erra mai e non può mai errare”, poiché è “essa stessa giudice di ogni convinzione, non conosce alcun giudice sopra di sé”. Essa decide in ultima istanza ed è essa stessa inappellabile (System der Sittenlehre 1789, III, §15; Werke, vol.4 Berlin, 1971, p.174)... Gli argomenti in contrario già formulati in precedenza da Kant, vennero approfonditi da Hegel per il quale la coscienza “come soggettività formale... è sul punto di rovesciarsi in male”.

    Una volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in buona coscienza. Infatti se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti, non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere la salvezza.

    Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile da portare, adatta solo a nature particolarmente forti: quasi una forma di punizione, e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile far fronte. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a quel giogo morale che la fede della Chiesa cattolica comporta. La coscienza erronea, che consente di vivere una vita più facile e indica una via più umana, sarebbe dunque la vera grazia, la via normale alla salvezza. La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo meglio della verità. Non è la verità a liberarlo, anzi egli dovrebbe piuttosto esserne liberato. L’uomo sta a suo agio più nelle tenebre che nella luce; la fede non è un bel dono del buon Dio, ma piuttosto una maledizione. Stando così le cose, come dalla fede potrebbe provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura il coraggio di trasmettere la fede ad altri?

    Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nascondersi ad essa. A tal riguardo è qui presupposta proprio la concezione di coscienza del liberalismo: la coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la quale o non esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza è l’istanza che ci dispensa dalla verità, essa si trasforma nella giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione, così come nella giustificazione del conformismo sociale, che, come minimo denominatore comune tra le diverse soggettività, ha il compito di rendere possibile la vita nella società. Il dovere di cercare la verità viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle tendenze generali predominanti, nella società e su quanto in essa è diventato abitudine.

    Görres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro l’esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato, è “un cadavere vivente, una maschera da teatro”, come dice Görres. “Sono i mostri che, tra altri bruti, non hanno nessun senso di colpa. Forse ne erano totalmente sprovvisti Hitler e Himmler o Stalin. Forse i padrini della mafia non hanno sensi di colpa, anche se probabilmente nascondono molti cadaveri in cantina insieme ai relativi sensi di colpa. Tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa”.

    Qualcosa di analogo, d’altro canto, possiamo trovare anche in san Paolo, il quale ci dice che i pagani conoscono molto bene, anche senza legge, ciò che Dio attende da loro (Rm 2,1-16). Tutta quanta la teoria della salvezza mediante l’ignoranza crolla in questo versetto: c’è nell’uomo la presenza del tutto inevitabile della verità, dell’unica verità del Creatore, la quale è stata poi anche messa per iscritto nella rivelazione della storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità di Do a motivo del suo essere creaturale. Non vederla è peccato.

    Quanto è venuto alla luce dopo il crollo del sistema marxista nell’Europa orientale conferma questa diagnosi. Le personalità più attente e nobili dei popoli finalmente liberati parlano di un’immane devastazione spirituale, che si è verificata negli anni della deformazione intellettuale. Essi rilevano un ottundimento del senso morale, che rappresenta una perdita e un pericolo ben più grave dei danni economici che si sono creati. Il nuovo patriarca di Mosca lo denunciò in maniera impressionante all’inizio del suo ministero, nell’estate 1990: la capacità di percezione degli uomini, vissuti in un sistema di menzogna, si era, secondo lui, oscurata. La società aveva perso la capacità di misericordia e i sentimenti umani erano andati perduti. Un’intera generazione era perduta per il bene, per azioni degne dell’uomo. “Abbiamo il compito di ricondurre la società ai valori morali eterni”, cioè: il compito di sviluppare nuovamente nel cuore degli uomini l’udito ormai quasi spento per ascoltare i suggerimenti di Dio. L’errore, la “coscienza erronea”, solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce, l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e a un pericolo mortale. In altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti e abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno.

    Certamente si deve seguire la coscienza erronea. Tuttavia quella rinuncia alla verità, che è avvenuta precedentemente e che ora si prende la sua rivincita, è la vera colpa; una colpa che sulle prime culla l’uomo in una falsa sicurezza, ma poi lo abbandona in un deserto privo di sentieri.

    A questo punto diventa chiara l’estrema radicalità dell’odierna disputa sull’etica e sul centro, la coscienza. Mi sembra che un parallelo adeguato nella storia del pensiero lo si possa trovare nella disputa tra Socrate-Platone e i sofisti. In essa viene messa alla prova la decisione cruciale tra due atteggiamenti fondamentali: la fiducia nella possibilità per l’uomo di conoscere la verità, da una parte, e d’altra parte una visione del mondo in cui l’uomo da se stesso crea i criteri per la sua vita. Il fatto che Socrate, un pagano, sia potuto diventare in un certo senso il profeta di Gesù Cristo ha, secondo me, la sua giustificazione proprio in tale questione fondamentale.

    La rinuncia ad ammettere la possibilità per l’uomo di conoscere la verità conduce dapprima ad un uso puramente formalistico delle parole e dei concetti. A sua volta la perdita dei contenuti porta ad un mero formalismo dei giudizi, ieri come oggi. In molti ambienti oggi non ci si chiede più che cosa un uomo pensi. Si ha già pronto un giudizio sul suo pensiero, nella misura in cui lo si può catalogare con una delle corrispondenti etichette formali: conservatore, reazionario, fondamentalista, progressista, rivoluzionario. La catalogazione in uno schema formale basta a rendere superfluo il confronto con i contenuti. La stessa cosa si può vedere, in un modo ancor più netto, nell’arte: ciò che un’opera d’arte esprime è del tutto indifferente; essa può esaltare Dio o il diavolo; l’unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale. Abbiamo così raggiunto il punto veramente scottante della questione: Quando i contenuti non contano più, quando ha il predominio una mera prassologia, la tecnica diventa il criterio supremo. Ma ciò significa: il potere diventa la categoria che domina ogni cosa, sia esso rivoluzionario o reazionario. Questa è precisamente la forma perversa della somiglianza con Dio, di cui parla il racconto del peccato originale: la strada di una mera capacità tecnica, la strada del puro potere è contraffazione di un idolo e non realizzazione della somiglianza con Dio. Lo specifico dell’uomo in quanto uomo consiste nel suo interrogarsi non sul “potere”, ma sul “dovere”, nel suo aprirsi alla voce della verità e delle sue esigenze. Questo fu, a mio parere, il contenuto ultimo della ricerca socratica e questo è anche il senso più profondo della testimonianza di tutti i martiri: essi attestano la capacità di verità dell’uomo quale limite di ogni potere e garanzia della sua somiglianza divina. E’ proprio in questo senso che i martiri sono i grandi testimoni della coscienza, della capacità concessa all’uomo di percepire, oltre al potere, anche il dovere e quindi di aprire la via al vero progresso, alla vera ascesa.

    Ciò significa che il primo, per così dire, ontologico livello del fenomeno della coscienza consiste nel fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà coincidono); che c’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme. Fin dalla sua radice l’essere dell’uomo avverte un’armonia con alcune cose e si trova in contraddizione con altre. Questa anamnesi dell’origine, che deriva dal fatto che il nostro essere è costituito a somiglianza di Dio, non è un sapere già articolato concettualmente, uno scrigno di contenuti che aspetterebbero solo di venir richiamati fuori. Essa è, per così dire, un senso interiore, una capacità di riconoscimento, così che colui che ne viene interpellato, se non è interiormente ripiegato su se stesso, è capace di riconoscerne in sé l’eco. Egli se ne accorge: “Questo è ciò a cui mi inclina la mia natura e ciò che essa cerca!”. Su questa anamnesi del Creatore, che si identifica col fondamento stesso della nostra esistenza, si basa la possibilità e il diritto della missione. Il vangelo può, anzi, dev’essere predicato ai pagani, perché essi stessi, nel loro intimo, lo attendono (cfr. Is 42,4). Infatti la missione si giustifica, se i destinatari, nell’incontro con la parola del vangelo, ri-conoscono: “Ecco, questo è proprio quello che io aspettavo”.

    Il papa non può imporre ai fedeli cattolici dei comandamenti, solo perché egli lo vuole o perché lo ritiene utile. Una simile concezione moderna e volontaristica dell’autorità può soltanto deformare l’autentico significato teologico del papato. Così la vera natura del ministero di Pietro è diventata del tutto incomprensibile nell’epoca moderna precisamente perché in questo orizzonte mentale si può pensare all’autorità solo con categorie che non consentono più alcun ponte tra soggetto e oggetto. Pertanto tutto ciò che non proviene dal soggetto può essere solo una determinazione imposta dall’esterno. Ma le cose si presentano del tutto diverse a partire da un’antropologia della coscienza quale abbiamo cercato di delineare a poco a poco in queste riflessioni. L’anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire, di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo “dal di fuori” non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi è piuttosto qualcosa di ordinato ad essa: esso ha una funzione maieutica, non le impone niente dal di fuori, ma porta a compimento quanto è proprio dell’anamnesi, cioè la sua interiore specifica apertura alla verità.

    Il significato autentico dell’autorità dottrinale del papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Il papa non impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana e la difende. Per questo il brindisi per la coscienza deve precedere quello per il papa (N.d.R. Fa riferimento all’espressione del card J.H.Newman, contenuta nella lettera al duca di Norfolk: “Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il papa. Ma prima per la coscienza e poi per il papa”) perché senza coscienza non ci sarebbe nessun papato. Tutto il potere che egli ha è potere della coscienza: servizio al duplice ricordo, su cui si basa la fede, che dev’essere continuamente purificata, ampliata e difesa contro le forme di distruzione della memoria, la quale è minacciata tanto da una soggettività dimentica del proprio fondamento, quanto dalle pressioni di un conformismo sociale e culturale.

    Dopo queste considerazioni sul primo livello, essenzialmente ontologico, del concetto di coscienza, dobbiamo ora rivolgerci alla sua seconda dimensione, il livello del giudicare e del decidere, che nella tradizione medievale venne designato con l’unico termine di “conscientia” (coscienza).

    Su questo piano, il piano del giudicare (quello della “conscientia” in senso stretto), vale il principio che anche la coscienza erronea obbliga. Quest’affermazione è pienamente intelligibile nella tradizione di pensiero della scolastica. Nessuno può agire contro le sue convinzioni, come già aveva detto san Paolo (Rm 14,23). Tuttavia il fatto che la convinzione acquisita sia ovviamente obbligatoria nel momento in cui si agisce, non significa nessuna canonizzazione della soggettività. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. Ciò nondimeno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione dell’anamnesi dell’essere. La colpa quindi si trova altrove, più in profondità: non nell’atto del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma in quella trascuratezza verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della verità e ai suoi suggerimenti interiori. Per questo motivo, i criminali che agiscono con convinzione come Hitler e Stalin rimangono colpevoli. Questi esempi macroscopici non devono tranquillizzarci su noi stessi, piuttosto dovrebbero risvegliarci e farci prendere sul serio la gravità della supplica: “liberami dalle colpe che non vedo” (Sal 19,13).

    La ricerca estremamente chiara di I.G.Belmans, Le paradoxe de la conscience erronée d’Abélard à Karl Rahner, in Rev. Thom 90 (1990), pp. 570-586 mostra che questa è esattamente la posizione anche di san Tommaso. Belmans dimostra che la pubblicazione del libro di Sertillanges su san Tommaso nel 1942 ha dato inizio ad una molto diffusa falsificazione della dottrina dell’Aquinate sulla coscienza. Semplificando, la falsificazione consiste nel fatto che viene citato solamente l’articolo 5 (“Bisogna seguire una coscienza erronea?”) della Summa Theol. I-II q. 19, mentre viene del tutto tralasciato l’articolo 6 (“E’ sufficiente seguire la propria coscienza per agire bene?”). Ciò significa che a Tommaso viene ora attribuito l’insegnamento di Abelardo, che l’Aquinate, invece, si riprometteva invece di superare. Abelardo aveva sostenuto che coloro i quali avevano crocifisso Cristo non avevano peccato, poiché avevano agito per ignoranza. L’unico modo di peccare consisterebbe, invece, nell’agire contro coscienza. Le teorie moderne circa l’autonomia della coscienza possono rifarsi ad Abelardo, non a Tommaso.

    (ancora da J.Ratzinger, La teologia morale oggi, conferenza per la Diocesi di Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire Lazio-sette, 2005)

    Natura, ragione e oggettività
    La parola del Magistero non è più plausibile, oggi, per molti cristiani, perché la sua ragio­nevolezza e la sua oggettività non sono più trasparenti. Il Magistero è accusa­to di partire da una interpretazione obsoleta della realtà. Come gli stoici dei tempi antichi, - si dice - il Magistero ragiona a partire dalla «natura». Ma l'espressione stessa di «natura» è stata completamente sorpassata insieme al­l'intera epoca metafisica.
    In un primo tempo, questo cosiddetto naturalismo della tradizione del Magistero venne considerato in contrapposizione al personalismo della Bib­bia. L'opposizione tra natura e persona, come modello fondamentale per l'argomentazione, era considerata, nello stesso tempo, una contrapposizione tra tradizione filosofica e tradizione biblica. Eppure è un fatto riconosciuto da tempo che non esiste un «biblicismo» puro, e che anche il «personalismo» ha i propri aspetti filosofici.
    Assistiamo oggi a un movimento che è quasi il diretto opposto del prece­dente: la Bibbia è in larga misura scomparsa dalle opere moderne di teologia morale. Domina, al suo posto, la tendenza a un'analisi razionale particolar­mente vigorosa, accompagnata dalla rivendicazione dell'autonomia della morale, che non si basa né sulla natura né sulla persona, ma sulla storicità e su modelli di comportamento sociale orientati verso il futuro. Bisogna cercare di scoprire ciò che è socialmente compatibile e ciò che serve a costruire una futura società umana.
    La «realtà» sulla quale si basa l'«oggettività» non è più una natura che pre­cede l'uomo, ma è piuttosto il mondo che egli stesso ha strutturato, che può analizzare in maniera semplice, e dal quale può estrapolare ciò che il futuro porterà. Qui ci troviamo di fronte alla vera ragione per cui il cristianesimo di oggi manca in larga misura di una autentica plausibilità, e non solo nel cam­po della morale.

    Come abbiamo già visto, a seguito del mutamento filosofico introdotto da Kant, la divisione della realtà in soggettivo e oggettivo è diventata dominan­te.
    L'oggettivo non è semplicemente la realtà in sé stessa, ma la realtà in quan­to oggetto del nostro pensiero, in quanto cioè è misurabile e passibile di cal­colo. Il soggettivo invece sfugge alla spiegazione «oggettiva». Questo signifi­ca, tuttavia, che la realtà che incontriamo parla soltanto il linguaggio del cal­colo, ma non contiene alcuna espressione morale. Le forme radicali in co­stante espansione della teoria dell'evoluzione portano alla stessa conclusio­ne, anche se da un punto di partenza differente. Il mondo non presuppone al­cuna ragione: ciò che vi è di ragionevole in esso è risultato di una combina­zione di accidenti, il cui continuo accumulo ha creato in seguito un tipo di necessità.
    Secondo tale punto di vista, il mondo non contiene alcun significato, ma soltanto traguardi, posti dalla stessa evoluzione. Se il mondo è quindi un fo­tomontaggio di apparenze statiche, la massima direttiva morale che può dare all'uomo sarà dunque che questi deve impegnarsi in un qualche tipo di foto­montaggio del futuro, e che deve dirigere tutto conformemente, a ciò che considera utile. Il modello si trova quindi sempre nel futuro: sotto questo aspetto, il massimo miglioramento possibile del mondo è l'unico comanda­mento morale.
    La Chiesa invece crede che in principio era il Verbo, e che quindi l'essere stes­so porta il linguaggio del Logos, la ragione non solo matematica, ma anche estetica, morale. Ecco che cosa s'intende quando la Chiesa ribadisce che la «natura» ha un valore morale. Nessuno dice che il biologismo debba diventa­re la norma dell'uomo. Questo concetto è stato proposto solo da una certa corrente di un’evoluzione radicale.
    La Chiesa difende dichiaratamente il significato della creazione, e mette in pratica ciò che intende quando dice: io credo in Dio, Creatore del Cielo e della terra. Vi è una ragione dell'essere, e quando l'uomo si stacca totalmente da essa riconoscendo solo il valore di ciò che ha costruito egli stesso, in quel momento egli abbandona ciò che è morale in senso stretto. In un modo o in un altro, stiamo cominciando a renderci conto che la materialità contiene un'espressione spirituale, e non è semplicemente destinata al calcolo e al­l’uso. Possiamo intravedere che vi è una ragione che ci precede, che essa sola può mantenere in equilibrio la nostra ragione e può impedirci di cadere in una non-ragione esteriore.

    Necessità dell'esercizio
    In definitiva, il linguaggio dell'essere, il linguaggio della natura, è identi­co al linguaggio della coscienza. Ma per ascoltare quel linguaggio è necessario, come per qualsiasi linguaggio, esercitarlo. Ora, poiché l'organo preposto a questa funzione è stato mortificato nel nostro mondo tecnologico, ecco che manca una qualsiasi plausibilità. La Chiesa tradirebbe non soltanto il suo messaggio ma il destino stesso dell'umanità, se rinunciasse a essere custo­de dell'essere e del suo messaggio morale. In questo senso, può essere con­trapposta a ciò che è «plausibile», ma nello stesso tempo rappresenta le più profonde rivendicazioni della ragione.
    Diventa evidente, a questo punto, che anche la ragione è un organo e non un oracolo. E anche la ragione richiede esercizio e comunità.
    Che una persona sia capace di attribuire una ragione all'essere e di decifra­re la propria dimensione morale, dipende dal fatto che risponda o non ri­sponda alla domanda su Dio. Se il Verbo che è principio non esiste, non vi può neanche essere un Verbo nelle cose. Ciò che Kolakowski scopriva recen­temente, diventa allora enfaticamente vero: quando non vi è Dio, non vi è morale, anzi non vi è neanche umanità.
    In questo senso, analizzando le cose più a fondo, tutto dipende da Dio, da un Dio che è Creatore e che ha rivelato sé stesso. Per questa ragione, ancora una volta, abbiamo il bisogno della comunità la quale può garantire quel Dio che nessuno da solo potrebbe pretendere di portare nella propria vita.
    La questione di Dio, punto centrale, non è una questione per specialisti. La percezione di Dio è proprio quella semplicità che gli specialisti non po­tranno mai monopolizzare, che invece può essere percepita soltanto mante­nendo una semplicità di visione. Forse ci riesce oggi così difficile affrontare l'essenza dell'umanità, perché non siamo più capaci di semplicità.
    La morale richiede quindi non lo specialista ma il testimone. Non ne con­segue, naturalmente, che l'opera scientifica riguardante i criteri della morale e la conoscenza specializzata in questo campo siano superflue. Poiché la co­scienza esige esercizio, poiché la tradizione deve essere vissuta e deve svilup­parsi in epoche di cambiamenti culturali, e poiché il comportamento morale è una risposta alla realtà e quindi richiede una conoscenza della realtà, per tutti questi motivi l'osservazione e lo studio del reale e delle tradizioni della morale sono anch'essi importanti.
    In altre parole, cercare una conoscenza approfondita della realtà è un co­mandamento morale basilare.
    Non senza ragione gli antichi ponevano la «prudenza» al primo posto tra le virtù cardinali, interpretandola come volontà e capacità di percepire la realtà e di rispondervi in maniera adeguata.
    Il compito generale della Chiesa e di ogni credente quanto alle questioni morali potrebbe alla fine, tutto sommato, essere così brevemente caratteriz­zato: il credente non insegna ciò che ha scoperto da sé stesso, ma testimonia la vivente saggezza della fede, nella quale la saggezza primitiva dell'umanità viene purificata, mantenuta e approfondita. Attraverso il rapporto con Dio, nella misura in cui la coscienza sia percettiva, quella sapienza umana primitiva diventa un veicolo concreto di comunicazione con la verità attraverso la comunione cui partecipa con la coscienza dei santi, e con la conoscenza di Gesù Cristo. Così il cristiano esprime e vive non una ideologia chiusa, e nep­pure una teoria limitata all'interno della Chiesa, ma riapre il messaggio del­l'essere e da così una risposta autentica alla questione decisiva dell'umanità di oggi e di ogni tempo: alla questione di come si può essere uomo, di come si può vivere una vita veramente umana.

    Altri testi utilizzati per l’incontro

    Sir 37, 7-15

    7 Ogni consigliere suggerisce consigli,
    ma c'è chi consiglia a proprio vantaggio.

    8 Guàrdati da un consigliere,
    infòrmati quali siano le sue necessità
    - egli nel consigliare penserà al suo interesse
    - perché non getti la sorte su di te

    9 e dica: «La tua via è buona»,
    poi si terrà in disparte per vedere quanto ti accadrà.

    10 Non consigliarti con chi ti guarda di sbieco,
    nascondi la tua intenzione a quanti ti invidiano.

    11 Non consigliarti con una donna sulla sua rivale,
    con un pauroso sulla guerra,
    con un mercante sul commercio,
    con un compratore sulla vendita,
    con un invidioso sulla riconoscenza,
    con uno spietato sulla bontà di cuore,
    con un pigro su un'iniziativa qualsiasi,
    con un mercenario annuale sul raccolto,
    con uno schiavo pigro su un gran lavoro;
    non dipendere da costoro per nessun consiglio.

    12 Invece frequenta spesso un uomo pio,
    che tu conosci come osservante dei comandamenti
    e la cui anima è come la tua anima;
    se tu inciampi, saprà compatirti.

    13 Segui il consiglio del tuo cuore,
    perché nessuno ti sarà più fedele di lui.

    14 La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire
    meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare.

    15 Al di sopra di tutto questo prega l'Altissimo
    perché guidi la tua condotta secondo verità.

    (da S.Bastianel S.J., Moralità personale nella storia. Dispense, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1993, pagg.40-41)

    Se l'ambito della moralità è definito (se ritengo che sia definibile) nei termini del mio intimo rapportarmi con la mia coscienza, senza bisogno di altri elementi, allora in realtà io assumo una figura di coscienza morale che è radicalmente segnata dal negativo; è come pretendere di legittimare moralmente il disinteresse per l'altro. Questo significa centrare la propria moralità si se stessi, cosa che è la radice dell'immoralità. Abbiamo indicato il senso specifico del vivere morale nel consegnarsi all’altro in libera responsabilità. L’atteggiamento ora indicato contraddice direttamente il dinamismo di un’autentica coscienza morale... Non occorre che io faccia un discorso, che io spieghi o difenda la possibilità di separare l'intimità della coscienza dal vivere pubblico: basta che io viva quella separazione e con ciò stesso la mia presenza sarà mediatrice di una comprensione dell'esistenza morale giustificante alla radice la possibilità di un "onesto disinteresse" dell'altro. In termini religiosi sarà il distinguere un sacro da un profano, paradossalmente mettendo sotto il termine "profano" l'uomo che è uscito dalle mani di Dio, facendo diventare profano-poco-importante quello che appartiene all'intenzionalità dell'Alleanza, cioè la solidarietà, la condivisione, la fraternità di vita.



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Cristianesimo e razionalità, dall’illuminismo ad oggi

    Le basi dell’Europa; quell’Europa che un tempo, possiamo dire, è stata il Continente cristiano, ma che è stata anche il punto di partenza di quella nuova razionalità scientifica che ci ha regalato grandi possibilità e altrettante grandi minacce. Il cristianesimo non è certo partito dall’Europa, e dunque non può essere neanche classificato come una religione europea, la religione dell’ambito culturale europeo. Ma proprio in Europa ha ricevuto la sua impronta culturale e intellettuale storicamente più efficace e resta pertanto intrecciato in modo speciale all’Europa. D’altra parte è anche vero che quest’Europa, sin dai tempi del rinascimento, e in forma compiuta dai tempi dell’illuminismo, ha sviluppato proprio quella razionalità scientifica che non solo nell’epoca delle scoperte portò all’unità geografica del mondo, all’incontro dei continenti e delle culture, ma che adesso, molto più profondamente, grazie alla cultura tecnica resa possibile dalla scienza, impronta di sé veramente tutto il mondo, anzi, in un certo senso lo uniforma. E sulla scia di questa forma di razionalità, l’Europa ha sviluppato una cultura che, in un modo sconosciuto prima d’ora all’umanità, esclude Dio dalla coscienza pubblica, sia che venga negato del tutto, sia che la Sua esistenza venga giudicata non dimostrabile, incerta, e dunque appartenente all’ambito delle scelte soggettive, un qualcosa comunque irrilevante per la vita pubblica. Questa razionalità puramente funzionale, per così dire, ha comportato uno sconvolgimento della coscienza morale altrettanto nuovo per le culture finora esistite, poiché sostiene che razionale è soltanto ciò che si può provare con degli esperimenti. Siccome la morale appartiene ad una sfera del tutto diversa, essa, come categoria a sé, sparisce e deve essere rintracciata in altro modo, in quanto bisogna ammettere che comunque la morale, in qualche modo, ci vuole. In un mondo basato sul calcolo, è il calcolo delle conseguenze che determina cosa bisogna considerare morale oppure no. E così la categoria di bene, come era stata evidenziata chiaramente da Kant, sparisce. Niente in sé è bene o male, tutto dipende dalle conseguenze che un’azione lascia prevedere. Se il cristianesimo, da una parte, ha trovato la sua forma più efficace in Europa, bisogna d’altra parte anche dire che in Europa si è sviluppata una cultura che costituisce la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell’umanità. Da qui si capisce che l’Europa sta sperimentando una vera e propria “prova di trazione”; da qui si capisce anche la radicalità delle tensioni alle quali il nostro Continente deve far fronte. Ma qui emerge anche e soprattutto la responsabilità che noi europei dobbiamo assumerci in questo momento storico: nel dibattito intorno alla definizione dell’Europa, intorno alla sua nuova forma politica, non si gioca una qualche nostalgica battaglia di “retroguardia” della storia, ma piuttosto una grande responsabilità per l’umanità di oggi.
    Diamo uno sguardo accurato a questa contrapposizione tra le due culture che hanno contrassegnato l’Europa. Nel dibattito sul preambolo della Costituzione europea, tale contrapposizione si è evidenziata in due punti controversi: la questione del riferimento a Dio nella Costituzione e quella della menzione delle radici cristiane dell’Europa. Visto che nell’articolo 52 della Costituzione sono garantiti i diritti istituzionali delle Chiese, possiamo stare tranquilli, si dice. Ma ciò significa che esse, nella vita dell’Europa, trovano posto nell’ambito del compromesso politico, mentre, nell’ambito delle basi dell’Europa, l’impronta del loro contenuto non trova alcuno spazio. Le ragioni che si danno nel dibattito pubblico per questo netto “no” sono superficiali, ed è evidente che più che indicare la vera motivazione, la coprono. L’affermazione che la menzione delle radici cristiane dell’Europa ferisce i sentimenti dei molti non-cristiani che ci sono in Europa, è poco convincente, visto che si tratta prima di tutto di un fatto storico che nessuno può seriamente negare. Naturalmente questo cenno storico contiene anche un riferimento al presente, dal momento che, con la menzione delle radici, si indicano le fonti residue di orientamento morale, e cioè un fattore d’identità di questa formazione che è l’Europa. Chi verrebbe offeso? L’identità di chi viene minacciata? I musulmani, che a tale riguardo spesso e volentieri vengono tirati in ballo, non si sentono minacciati dalle nostre basi morali cristiane, ma dal cinismo di una cultura secolarizzata che nega le proprie basi. E anche i nostri concittadini ebrei non vengono offesi dal riferimento alle radici cristiane dell’Europa, in quanto queste radici risalgono fino al monte Sinai: portano l’impronta della voce che si fece sentire sul monte di Dio e ci uniscono nei grandi orientamenti fondamentali che il decalogo ha donato all’umanità. Lo stesso vale per il riferimento a Dio: non è la menzione di Dio che offende gli appartenenti ad altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità umana assolutamente senza Dio.

    Le motivazioni per questo duplice”no” sono più profonde di quel che lasciano pensare le motivazioni avanzate. Presuppongono l’idea che soltanto la cultura illuminista radicale, la quale ha raggiunto il suo pieno sviluppo nel nostro tempo, potrebbe essere costitutiva per l’identità europea. Accanto ad essa possono dunque coesistere differenti culture religiose con i loro rispettivi diritti, a condizione che e nella misura in cui rispettino i criteri della cultura illuminista e si subordino ad essa. Questa cultura illuminista sostanzialmente è definita dai diritti di libertà; essa parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto.

    E’ evidente che questo canone della cultura illuminista, tutt’altro che definitivo, contiene valori importanti dei quali noi, proprio come cristiani, non vogliamo e non possiamo fare a meno; ma è altrettanto evidente che la concezione mal definita o non definita affatto di libertà, che sta alla base di questa cultura, inevitabilmente comporta contraddizioni; ed è evidente che proprio per via del suo uso (un uso che sembra radicale) comporta limitazioni della libertà che una generazione fa non riuscivamo neanche ad immaginarci. Una confusa ideologia della libertà conduce ad un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile verso la libertà.

    Queste filosofie sono caratterizzate dal fatto che sono positivistiche, e perciò antimetafisiche, tanto che, alla fine, Dio non può avere in esse alcun posto.

    Ma soprattutto bisogna dire che questa filosofia illuminista e la sua rispettiva cultura sono incomplete. Essa taglia coscientemente le proprie radici storiche privandosi delle forze sorgive dalle quali essa stessa è scaturita, quella memoria fondamentale dell’umanità, per così dire, senza la quale la ragione perde l’orientamento. Infatti adesso vale il principio che la capacità dell’uomo sia la misura del suo agire. Ciò che si sa fare, si può anche fare. Un saper fare separato dal poter fare non esiste più, perché sarebbe contro la libertà, che è il valore supremo in assoluto. Ma l’uomo sa fare tanto, e sa fare sempre di più; e se questo saper fare non trova la sua misura in una norma morale, diventa, come possiamo già vedere, potere di distruzione. L’uomo sa clonare uomini, e perciò lo fa. L’uomo sa usare uomini come “magazzino” di organi per altri uomini, e perciò lo fa; lo fa perché sembrerebbe essere questa una esigenza della sua libertà. L’uomo sa costruire bombe atomiche, e perciò le fa, essendo, in linea di principio, anche disposto ad usarle. Anche il terrorismo, alla fine, si basa su questa modalità di “auto-autorizzazione” dell’uomo, e non sugli insegnamenti del Corano. Il radicale distacco della filosofia illuminista dalle sue radici diventa, in ultima analisi, un fare a meno dell’uomo. L’uomo, in fondo, non ha alcuna libertà, ci dicono i portavoce delle scienze naturali, in totale contraddizione col punto di partenza di tutta la questione. Egli non deve credere di essere qualcos’altro rispetto a tutti gli altri esseri viventi, e perciò dovrebbe anche essere trattato come loro, ci dicono persino i portavoce più avanzati di una filosofia nettamente separata dalle radici della memoria storica dell’umanità.

    Affermando questo non si nega tutto ciò che questa filosofia dice di positivo e importante, ma si afferma piuttosto il suo bisogno di compiutezza, la sua profonda incompiutezza. E così ci troviamo di nuovo a parlare dei due punti controversi del preambolo della Costituzione europea. L’accantonamento delle radici cristiane non si rivela espressione di una superiore tolleranza che rispetta tutte le culture allo sesso modo, non volendo privilegiarne alcuna, bensì come l’assolutizzazione di un pensare e di un vivere che si contrappongono radicalmente, fra l’altro, alle altre culture storiche dell’umanità. La vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra. Se si arriverà ad uno scontro delle culture, non sarà per lo scontro delle grandi religioni – da sempre in lotta le une contro le altre ma che, alla fine, hanno anche sempre saputo vivere le une con le altre - ma sarà per lo scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture storiche. Così, anche il rifiuto del riferimento a Dio, non è espressione di una tolleranza che vuole proteggere le religioni non teistiche e la dignità degli atei e degli agnostici, ma piuttosto espressione di una coscienza che vorrebbe vedere Dio cancellato definitivamente dalla vita pubblica dell’umanità e accantonato nell’ambito soggettivo di residue culture del passato. Il relativismo, che costituisce il punto di partenza di tutto questo, diventa così un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della ragione, ed in diritto di considerare tutto il resto soltanto come uno stadio dell’umanità in fondo superato e che può essere adeguatamente relativizzato. In realtà ciò significa che abbiamo bisogno di radici per sopravvivere e che non dobbiamo perdere Dio di vista, se vogliamo che la dignità umana non sparisca.

    Questo è un semplice rifiuto dell’illuminismo e della modernità? Assolutamente no. Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione del Logos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i suoi precursori in primo luogo nelle altre religioni, ma in quell’illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada dalle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene, verso l’unico Dio che sta al di sopra di tutti gli dèi. In quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede. Ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignitàIn questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato. Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razionalità – anche della nostra fede - sia sempre stata appannaggio del cristianesimo, la voce della ragione era stata troppo addomesticata. E’ stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo ed illuminismo, cercando di arrivare ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti.

    Il cristianesimo deve ricordarsi sempre che è la religione del Logos. Essa è fede nel Creator Spiritus, nello Spirito creatore, dal quale proviene tutto il reale. Proprio questa dovrebbe essere oggi la sua forza filosofica, in quanto il problema è se il mondo provenga dall’irrazionale, e la ragione non sia dunque altro che un “sottoprodotto”, magari pure dannoso, del suo sviluppo, o se il mondo provenga dalla ragione, ed essa sia di conseguenza il suo criterio e la sua meta. La fede cristiana propende per questa seconda tesi, avendo così, dal punto di vista puramente filosofico, davvero delle buone carte da giocare, nonostante sia la prima tesi ad essere considerata oggi da tanti la sola “razionale” moderna. Ma una ragione scaturita dall’irrazionale e che è, alla fin fine, essa stessa irrazionale, non costituisce una soluzione ai nostri problemi. Soltanto la ragione creatrice, e che nel Dio crocifisso si è manifestata come amore, può veramente mostrarci la via.

    Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur, anche nel caso che Dio non esistesse. Nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità. A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili. Ma non è più così.

    Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno
    (da L’Europa di Benedetto di Joseph Ratzinger, LEV-Cantagalli, Roma-Siena, 2005).

    Potrà risultare opportuno ascoltare una storiella ebraica, riportataci da Martin Buber, nella quale il dilemma dell’esistenza umana affiora in tutta la sua evidenza. “Un esploratore, uomo assai erudito che aveva sentito parlare dell’uomo di Berditchev, andò a fargli visita, per disputare come il suo solito anche con lui, nell’intento di far ancora una volta scempio delle retrive prove da lui apportate per dimostrare la verità della sua fede. Entrando nella stanza dello Zaddik, lo vide passeggiare innanzi e indietro con un libro in mano, immerso in profonda meditazione. Il saggio non prestò alcuna attenzione al visitatore. Finalmente si arrestò, lo guardò di sfuggita, e sbottò fuori a dire: “Chissà, forse è proprio vero”. Il dotto esploratore chiamò invano a raccolta tutto il suo orgoglio: gli tremavano le ginocchia, tanto era imponente lo Zaddik da vedere, tanto tremenda la sua sentenza da udire. Il rabbino Levi Jizchak si volse però completamente a lui, rivolgendogli in tutta calma le seguenti parole: “Figlio mio, i grandi della Thora con i quali tu hai polemizzato, hanno sciupato inutilmente le loro parole con te; quando te ne sei andato, ci hai riso sopra. Essi non sono stati in grado di porgerti Dio e il suo Regno; ora, neppur io sono in grado di farlo. Ma pensaci, figlio mio, perché forse è vero”.
    L’esploratore fece appello a tutte le sue energie interiori, per ribattere; ma quel tremendo “forse”, che risuonava ripetutamente scandito ai suoi orecchi, aveva spezzato ogni sua velleità di opposizione”.
    (da Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger, Queriniana, Brescia, 1979)



    Tre elementi morali fondanti

    Vorrei indicare gli elementi morali fondanti che non dovrebbero a mio avviso mancare.
    Un primo elemento è l’ “incondizionatezza” con cui la dignità umana e i diritti umani devono essere presentati come valori che precedono qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore, né conferiti ai cittadini, “ma piuttosto esistono per diritto proprio, sono da sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui previamente dati come valori di ordine superiore” (G.Hirsch, Ein Bekenntnis zu den Grundewerten, in “Frankfurter Allgemeine Zeitung” 12 ottobre 2000).
    Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico e ad ogni decisione politica rinvia ultimamente al Creatore: solamente Dio può stabilire valori che si fondano sull’essenza dell’uomo e che sono intangibili. Che ci siano valori che non sono manipolabili per nessuno è la vera e propria garanzia della nostra libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il mistero del Creatore e della condizione di immagine di Dio che egli ha con­ferito all’uomo.
    Ora oggi quasi nessuno negherà direttamente la precedenza della dignità umana e dei diritti umani fondamentali rispetto ad ogni decisione politica; sono ancora troppo recenti gli orrori del nazismo e della sua teoria razzista. Ma nell’ambito concreto del cosiddetto progresso della medicina ci sono minacce molto rea­li per questi valori: sia che noi pensiamo alla donazione, sia che pensiamo alla conservazione dei feti umani a scopo di ri­cerca e di donazione degli organi, sia che pensiamo a tutto quan­to l’ambito della manipolazione genetica — la lenta consunzio­ne della dignità umana che qui ci minaccia non può venir mi­sconosciuta da nessuno. A ciò si aggiungono in maniera cre­scente i traffici di persone umane, le nuove forme di schiavi­tù, i traffici di organi umani a scopo di trapianti. Sempre ven­gono addotte finalità buone, per giustificare quello che non è giustificabile.

    Un secondo punto in cui appare l’identità europea è il matri­monio e la famiglia. Il matrimonio monogamico, come struttu­ra fondamentale della relazione tra uomo e donna e al tempo stes­so come cellula nella formazione della comunità statale, è sta­to modellato a partire dalla fede biblica. Esso ha dato all’Europa, a quella occidentale come a quella orientale, il suo volto par­ticolare e la sua particolare umanità, anche e proprio perché la forma di fedeltà e di rinuncia qui delineata dovette sempre nuovamente venire conquistata, con molte fatiche e sofferenze. L’Europa non sarebbe più Europa, se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente cambiata. Tutti sappiamo quanto il matrimonio e la famiglia siano minacciati – da una parte mediante lo svuotamento della loro indissolubilità ad opera di forme sempre più facili di divorzio, dall’altra attraverso un nuovo comportamento che si va diffondendo sempre di più, la convivenza di uomo e donna senza la forma giuridica del matrimonio. In vistoso contrasto con tutto ciò vi è la richiesta di comunione di vita di omosessuali, che ora paradossalmente richiedono una forma giuridica, la quale più o meno deve venir equiparata al matrimonio. Con questa tendenza si esce fuori dal complesso della storia morale dell’umanità, che nonostante ogni diversità di forme giuridiche del matrimonio sapeva tuttavia sempre che detto matrimonio, secondo la sua essenza, è la particolare comunione di uomo e donna, che si apre ai figli e così alla famiglia.

    Il mio ultimo punto è la questione religiosa. Non vorrei entrare qui nelle complesse discussioni degli ultimi anni, ma mettere in rilievo solo un aspetto fondamentale per tutte le culture: il rispetto nei confronti di ciò che per l’altro è sacro, e particolarmente il rispetto per il sacro nel senso più alto, per Dio, cosa che è lecito supporre di trovare anche in colui che non è disposto a credere in Dio. Laddove questo rispetto viene infranto, in una società va perduto qualcosa di essenziale. Nella nostra società attuale grazie a Dio viene multato chi disonora la fede di Israele, la sua immagine di Dio, le sue grandi figure. Viene multato anche chiunque offende il Corano e le convinzioni di fondo dell’Islam. Laddove invece si tratta di Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora la libertà di opinione appare come il bene supremo, limitare il quale sarebbe un minacciare o addirittura distruggere la tolleranza e la libertà in generale. La libertà di opinione trova però il suo limite in questo, che essa non può distruggere l’onore e la dignità dell’altro; essa non è libertà di mentire o di distruggere i diritti umani.
    C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro.
    L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza il rispetto di ciò che è sacro. Essa comporta l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi.
    (da Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani di Joseph Ratzinger, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004)





    [Modificato da Caterina63 15/01/2018 09:59]
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    Unificare l’Europa non solo economicamente

    L’opera di unificazione europea era determinata essenzialmente da due motivazioniDi fronte ai nazionalismi che dividevano e di fronte alle ideologie egemoniche, che avevano radicalizzato la contrapposizione nella seconda guerra mondiale, la comune eredità culturale, morale e religiosa dell’Europa doveva plasmare la coscienza delle sue nazioni e dischiudere come identità comune di tutti i suoi popoli la via della pace, una via comune verso il futuro. Si cercava una identità europea, che non doveva dissolvere o negare le identità nazionali, ma unirle ad un livello di unità più alto in una unica comunità di popoli. La storia comune doveva essere valorizzata come forza creatrice di pace. Non vi è alcun dubbio che presso i padri fondatori dell’unificazione europea l’eredità cristiana era considerata come il nucleo di questa identità storica, naturalmente non nelle forme confessionali; ciò che è comune a tutti i cristiani sembrava comunque riconoscibile al di là dei confini confessionali come forza unificante dell’agire nel mondo. Non sembrava neppure incompatibile con i grandi ideali morali dell’illuminismo, che avevano per così dire messo in risalto la dimensione razionale della realtà cristiana e al di là di tutte le contrapposizioni storiche sembrava senz’altro compatibile con gli ideali fondamentali della storia cristiana dell’Europa. Nei singoli particolari questa intuizione generale non è mai stata ben chiarita del tutto con evidenza; in questo senso sono rimasti qui dei problemi, che esigono di essere approfonditi. Nel momento degli inizi tuttavia la convinzione della compatibilità fra le grandi componenti dell’eredità europea era più forte dei problemi, che esistevano al riguardo.

    A questa dimensione storica e morale, che stava all’inizio dell’unificazione europea, si univa però anche una seconda motivazione. Il dominio europeo sul mondo, che si era espresso soprattutto nel sistema coloniale e nelle conseguenti connessioni economiche e politiche, con la conclusione della seconda guerra mondiale era finito per sempre. In questo senso l’Europa come insieme aveva perduto la guerra. Gli Stati Uniti d’America campeggiavano ora sulla scena della storia mondiale come potenza dominatrice, ma anche il Giappone sconfitto divenne una potenza economica di alto livello, e finalmente l’Unione Sovietica rappresentava con i suoi stati satelliti un impero, sul quale soprattutto gli stati del terzo mondo cercavano di appoggiarsi in contrapposizione all’America ed all’Europa occidentale. In questa nuova situazione i singoli stati europei non potevano più presentarsi come interlocutori di pari livello. L’unificazione dei loro interessi in una struttura europea comune era necessaria, se l’Europa voleva continuare ad avere un peso nella politica mondiale. Gli interessi nazionali dovevano unirsi insieme in un comune interesse europeo. Accanto alla ricerca di un’identità comune derivante dalla storia e creatrice di pace, si poneva l’autoaffermazione di interessi comuni, vi era quindi la volontà di divenire una potenza economica, ciò che rappresenta il presupposto della potenza politica. Nel corso dello sviluppo degli ultimi cinquant’anni questo secondo aspetto dell’unificazione europea è divenuto sempre più dominante, anzi, quasi esclusivamente determinante. La moneta comune europea è l’espressione più chiara di questo orientamento dell’opera di unificazione europea: l’Europa si presenta come un’unità economica e monetaria, che come tale partecipa alla formazione della storia e reclama un suo proprio spazio.

    Karl Marx ha proposto la tesi secondo cui le religioni e le filosofie sarebbero solo sovrastrutture ideologiche di rapporti economici. Ciò non corrisponde totalmente alla verità, si dovrebbe piuttosto parlare di un’influenza reciproca: atteggiamenti spirituali determinano comportamenti economici, situazioni economiche influenzano poi a loro volta retroattivamente modi di vedere religiosi e morali. Nell’edificazione della potenza economica Europa – dopo gli inizi di orientamento più etico e religioso – era determinante in modo sempre più esclusivo l’interesse economico.

    Le grandi conferenze internazionali come quelle del Cairo e di Pechino sono espressione di una tale ricerca di criteri comuni dell’agire, sono qualcosa di più che una manifestazione di problemi. Le si potrebbe definire come una sorta di concili della cultura mondiale, nel corso delle quali dovrebbero venire formulate certezze comuni ed essere elevate a norme per l’esistenza dell’umanità. La politica della negazione o della concessione di aiuti economici è una forma di imposizione di tali norme, al riguardo delle quali ci si preoccupa soprattutto del controllo della crescita della popolazione mondiale e dell’obbligatorietà universale dei mezzi previsti per questo scopo. Le antiche norme etiche della relazione fra i sessi, come vigevano in Africa nella forma delle tradizioni tribali, nelle grandi culture asiatiche come derivate dalle regole dell’ordine cosmico e nelle religioni monoteistiche a partire dal criterio dei dieci comandamenti, vengono dissolte attraverso un sistema di norme, che da una parte si fonda sulla piena libertà sessuale, dall’altra però ha come contenuto fondamentale il numerus clausus della popolazione mondiale e i mezzi tecnici predisposti allo scopo. Una tendenza analoga si riscontra nelle grandi conferenze sul clima. In entrambi i casi l’elemento che spinge a ricercare norme è il timore di fronte al carattere limitato delle riserve dell’universo. In entrambi i casi si tratta da una parte di difendere la libertà del rapporto umano con la realtà, ma dall’altra di arginare le conseguenze di una libertà illimitata. Il terzo tipo di grandi conferenze internazionali, l’incontro delle potenze economiche dominanti per la regolazione dell’economia divenuta globale è diventato il campo di battaglia ideologico dell’era postcomunista. Mentre da una parte tecnica ed economia sono intese come veicolo della libertà radicale degli uomini, la loro onnipresenza con le norme ad essa inerenti viene ora avvertita come dittatura globale e combattuta con una furia anarchica, nella quale la libertà della distruzione si presenta come un elemento essenziale della libertà umana.

    Nell’illuminismo la concezione biblica di Dio era stata mutata in una duplice direzione sotto l’influsso della ragione autonoma: il Dio creatore e sostentatore, che continuamente sostiene e guida il mondo, era divenuto colui che semplicemente aveva dato inizio all’universo. Il concetto di rivelazione era stato abbandonato. La formula di Spinosa Deus sive natura potrebbe essere considerata per molti aspetti come caratteristica della visione dell’illuminismo. Ciò significa nondimeno pur sempre che si credeva ad una specie di natura divinamente plasmata ed alla capacità dell’uomo di comprendere questa natura ed anche di valutarla come istanza razionaleIl marxismo aveva invece introdotto una rottura radicale: l’attuale mondo è un prodotto dell’evoluzione senza una sua razionalità; il mondo ragionevole l’uomo deve solo farlo emergere dal materiale grezzo irragionevole della realtà. Questa visione – unita alla filosofia della storia di Hegel, al dogma liberale del progresso ed alla sua interpretazione socio-economica – condusse all’attesa della società senza classi, che doveva apparire nel progresso storico come prodotto finale della lotta delle classi e così divenne l’idea morale normativa ultimamente unica: è buono ciò che serve all’avvento di questa condizione di felicità; è cattivo ciò che vi si oppone. Oggi ci troviamo in un secondo illuminismo, che non solo ha lasciato dietro di sé il Deus sive natura, ma ha anche smascherato come irrazionale l’ideologia marxista della speranza ed al suo posto ha postulato una meta razionale del futuro, che porta il titolo di nuovo ordine mondiale ed ora deve divenire a sua volta la norma etica essenziale. Resta in comune con il marxismo l’idea evoluzionistica di un mondo nato da un caso irrazionale e dalle sue regole interne, che pertanto – diversamente da quanto prevedeva l’antica idea di natura – non può contenere in sé nessuna indicazione etica. Il tentativo di far derivare dalle regole del gioco dell’evoluzione anche regole del gioco per l’esistenza umana, quindi una specie di nuova etica, è in verità assai diffuso, ma poco convincente. Crescono le voci di filosofi come Singer, Rorty, Sloterdijk, che ci dicono che l’uomo avrebbe ora il diritto e il dovere di costruire un mondo nuovo su base razionale. Il nuovo ordine mondiale, della cui necessità non si potrebbe dubitare, dovrebbe essere un ordine mondiale della razionalità. Fin qui tutti sono d’accordo. Ma cosa è razionale? Il criterio di razionalità viene assunto esclusivamente dalle esperienze della produzione tecnica su basi scientifiche. La razionalità è nella direzione della funzionalità, dell’efficacia, dell’accrescimento della qualità della vita. Lo sfruttamento della natura, che vi è connesso, diviene sempre più un problema a motivo dei disagi ambientali che stanno divenendo drammatici. Con molta maggiore disinvoltura avanza frattanto la manipolazione dell’uomo su se stesso. Le visioni di Huxley divengono decisamente realtà: l’essere umano non deve più essere generato irrazionalmente, ma prodotto razionalmente. Ma dell’uomo come prodotto dispone l’uomo. Gli esemplari imperfetti vanno scartati, per tendere all’uomo perfetto, sulla via della pianificazione e della produzione. La sofferenza deve scomparire, la vita essere solo piacevole. Tali visioni radicali sono ancora isolate, per lo più in molte maniere attenuate, ma il principio di comportamento, secondo cui è lecito all’uomo fare tutto ciò che è in grado di fare, si afferma sempre più. La possibilità come tale diviene un criterio per sé sufficiente. In un mondo pensato in modo evoluzionistico è anche di per sé evidente, che non possono esistere valori assoluti, ciò che è sempre cattivo e ciò che è sempre buono, ma la ponderazione dei beni rappresenta l’unica via per il discernimento di norme morali. Ciò però significa che scopi più elevati, presunti risultati ad esempio per la guarigioni di malattie, giustificano anche lo sfruttamento dell’uomo, se solo il bene sperato appare abbastanza grande.

    Ma così nascono nuove oppressioni, e nasce una nuova classe dominante. Ultimamente, del destino degli altri uomini, decidono coloro che dispongono del potere scientifico e coloro che amministrano i mezzi. Non restare indietro nella ricerca diviene un obbligo cui non ci si può sottrarre, che decide esso stesso la sua direzione. Quale consiglio si può dare all’Europa ed al mondo in questa situazione? Come specificamente europea in questa situazione appare oggi proprio la separazione da ogni tradizione etica e il puntare solo sulla razionalità tecnica e le sue possibilità. Ma un ordine mondiale con questi fondamenti non diverrà in realtà un’utopia dell’orrore? Non ha forse bisogno l’Europa, non ha forse bisogno il mondo proprio di elementi correttivi a partire dalla sua grande tradizione e dalle grandi tradizioni etiche dell’umanità? L’intangibilità della dignità umana dovrebbe diventare il pilastro fondamentale degli ordinamenti etici, che non dovrebbe essere toccato. Solo se l’uomo si riconosce come scopo finale e solo se l’uomo è sacro ed intangibile per l’uomo, possiamo avere fiducia l’uno nell’altro e vivere insieme nella pace. Non esiste nessuna ponderazione di beni, che giustifichi di trattare l’uomo come materiale di esperimento per fini più alti. Solo se noi vediamo qui un assoluto, che si colloca al di sopra di tutte le ponderazioni di beni, noi agiamo in modo veramente etico e non per mezzo di calcoli.

    Anche l’essere umano sofferente, disabile, non ancora nato è un essere umano. Vorrei aggiungere che a questo deve essere unito anche il rispetto per l’origine dell’uomo dalla comunione di un uomo e di una donna. L’essere umano non può divenire un prodotto. Egli non può essere prodotto, può solo essere generato. E perciò la protezione della particolare dignità della comunione fra uomo e donna, sulla quale si fonda il futuro dell’umanità, deve essere annoverata fra le costanti etiche di ogni società umana. Ma tutto questo è possibile solo se acquisiamo anche un senso nuovo per la dignità della sofferenza. Imparare a vivere significa anche imparare a soffrire. Perciò è richiesto anche rispetto per il sacro. La fede nel Dio creatore è la più sicura garanzia della dignità dell’uomo. Non può essere imposta a nessuno, ma poiché è un grande bene per la comunità, può avanzare la pretesa del rispetto da parte dei non credenti.

    Il legame con le due grandi fonti del sapere – la natura e la storia – è necessario. Ambedue gli ambiti non parlano semplicemente di per sé, ma da entrambi può derivare un’indicazione di cammino. Lo sfruttamento della natura,che si ribella ad un utilizzo indiscriminato, ha messo in movimento nuove riflessioni circa le indicazione di cammino, che derivano dalla natura stessa. Dominio sulla natura nel senso del racconto biblico della creazione non significa utilizzazione violenta della natura, ma la comprensione delle sue possibilità interiori ed esige così quella forma accurata di utilizzazione, nella quale l’uomo si mette al servizio della natura e la natura a servizio dell’uomo. L’origine stessa dell’uomo è un processo insieme naturale ed umano: nella relazione fra un uomo e una donna l’elemento naturale e quello spirituale si uniscono nello specificamente umano, che non si può disprezzare senza danno. Così anche le esperienze storiche dell’uomo, che si sono riflesse nelle grandi religioni, sono fonti permanenti di conoscenza, di indicazioni per la ragione, che interessano anche colui, che non può identificarsi con nessuna di queste tradizioni. Riflettere prescindendo da esse e vivere senza prenderle in considerazione, sarebbe una presunzione, che alla fine lascerebbe l’uomo disorientato e vuoto.
    (da Europa di Joseph Ratzinger, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005)

    Vorrei, a tale riguardo, citare un’espressione significativa di Tocqueville: “Il dispotismo può fare a meno della fede, la libertà no”. Lei stesso, nella Sua lettera a me indirizzata, ha citato un’espressione di John Adams che va nella stessa direzione: la Costituzione americana “è fatta soltanto per un popolo morale e religioso”. Benché anche in America la secolarizzazione proceda a ritmo accelerato e la confluenza di molte differenti culture sconvolga il consenso cristiano di fondo, lì si percepisce, assai più chiaramente che in Europa, l’implicito riconoscimento delle basi religiose e morali scaturite dal cristianesimo e che oltrepassano le singole confessioni. L’Europa – contrariamente all’America – è in rotta di collisione con la propria storia e si fa spesso portavoce di una negazione quasi viscerale di qualsiasi possibile dimensione pubblica dei valori cristiani.

    La società americana fu costruita in gran parte da gruppi che erano fuggiti dal sistema di chiese di Stato vigente in Europa, e avevano trovato la propria collocazione religiosa nelle libere comunità di fede al di fuori della Chiesa di Stato. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle chiese libere, per le quali – a causa del loro approccio religioso – è strutturale non essere Chiesa dello Stato, ma fondarsi su un’unione libera degli individui. In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione fra Stato e Chiesa determinata, anzi reclamata dalla religione; separazione, di conseguenza, ben altrimenti motivata e strutturata rispetto a quella imposta, nel segno del conflitto, dalla Rivoluzione francese e dai sistemi e che a essa hanno fatto seguito. Lo Stato in America non è altro che lo spazio libero per diverse comunità religiose; è nella sua natura riconoscere queste comunità nella loro particolarità e nel loro essere non statali, e lasciarle vivere. Una separazione che intende lasciare alla religione la sua propria natura, che rispetta e protegge il suo spazio vitale distinto dallo Stato e dai suoi ordinamenti, è una separazione concepita positivamente. Questo ha poi comportato un rapporto particolare tra sfera statale e sfera “privata”, del tutto diverso da quello che conosciamo in Europa: la sfera “privata” ha un carattere assolutamente pubblico, ciò che è non statale non è affatto escluso per questo dalla dimensione pubblica della vita sociale. La maggior parte delle istituzioni culturali non è statale – prendiamo le università oppure gli enti per la tutela delle discipline artistiche eccetera; l’intero sistema giuridico e fiscale favorisce questo tipo di cultura non statale e la rende possibile, mentre da noi, per esempio, le università private costituiscono un fenomeno recente e di fatto marginale.

    Il principio cattolico contrasta con il sistema della Chiesa di Stato: esso sottolinea il carattere universale della Chiesa, che non coincide con nessuna nazione e con nessuna comunità statale, vive in tutte le nazioni e, malgrado la fedeltà al proprio paese, crea comunque una comunità che va oltre i confini nazionali. Bisogna inoltre aggiungere che la Riforma gregoriana era riuscita, dopo tanti sforzi, a ottenere la distinzione tra sacerdotium e imperium, creando così anche le basi per una separazione delle due sfere. In realtà, anche in ambito cattolico, in Europa – almeno a partire dall’inizio dell’età moderna – il sistema delle chiese di Stato è riuscito ad affermarsi in modo da far diventare la fede praticamente una cosa dello Stato. Tuttavia, nel protestantesimo e nel cattolicesimo, proprio a causa delle peculiarità di ciascuno di essi, la ricezione dell’illuminismo è avvenuta in due modi del tutto differenti. Di fronte alla proclamata autonomia della ragione e alla sua emancipazione dalla fede tradizionale, la Chiesa cattolica rimase fortemente attaccata al suo patrimonio di fede, così che illuminismo e cattolicesimo si trovarono contrapposti l’uno all’altro in un conflitto insanabile. Nonostante tanti disordini, i paesi cattolici non avevano conosciuto alcuno scisma nel XVI secolo; esso doveva verificarsi più tardi, nel XVIII secolo. Da lì scaturì la nuova “confessione” dei “laici”. Da allora la separazione tra cattolici e laici è tipica dei paesi latini, mentre l’area linguistica germanica protestante non solo non conosce l’uso della parola “laico”, ma trova il termine stesso del tutto incomprensibile. Essere “laico” indica l’appartenenza – nel senso più vasto della parola – alla corrente spirituale dell’illuminismo, e da quel momento non sembra esserci più nessun ponte che conduca alla fede cattolica; i due mondi sembrano essere diventati impenetrabili l’uno all’altro.

    E così sorge la domanda: come può l’Europa arrivare a una religione civile cristiana che vada oltre i confini delle confessioni e rappresenti valori che non solo siano di consolazione per l’individuo ma che possano sostenere la società? E’ chiaro che essa non può essere costruita da esperti, in quanto nessuna commissione e nessuna riunione, quali che esse siano, possono produrre un éthos mondiale. Qualcosa di vivo non può nascere altrimenti che da una cosa viva. E’ qui che vedo l’importanza delle minoranze creative. Certo, dal punto di vista numerico, in gran parte dell’Europa i cristiani costituiscono ancora la maggioranza, anche se il numero dei battezzati è ormai in declino in alcuni paesi, specialmente nell’Est e nel Nord della Germania, tanto che nella Germani ex comunista i battezzati non sono più la maggioranza. Ma anche le maggioranze ancora esistenti sono diventate stanche e mancano di fascino.

    Dunque la mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la “perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali forze sorgive non si costruisce niente. La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità, o, piuttosto, che esse si creano da sé quando la loro capacità di convincere è sufficientemente grande.

    Come terza tesi, dire che queste minoranze creative evidentemente non possono stare in piedi da sé, né vivere di sé. Vivono naturalmente del fatto che la Chiesa nel suo insieme resta, vive della fede nella sua origine divina e di conseguenza difende ciò che non ha inventato lei stessa ma che riconosce come un dono della cui trasmissione è responsabile. Le “minoranze” rendono di nuovo vitale questa grande comunità, ma attingono nello stesso tempo, alla forza di vita che è nascosta in essa ed è in grado di creare sempre nuova vita. Come quarta tesi, infine, direi che laici e cattolici, coloro che cercano e quelli che credono, nel folto intreccio dei rami dell’albero con tanti uccelli, devono andare incontro gli uni agli altri con una nuova capacità di apertura. Anche i credenti non smettono mai di cercare, e chi cerca, d’altra parte, è toccato dalla verità e come tale non può essere classificato come un uomo senza fede o senza principi morali ispirati alla fede cristiana. Ci sono modi di appartenenza alla verità nei quali gli uni danno agli altri, ed entrambi possono sempre imparare qualcosa dall’altro. E’ per questo che la distinzione tra cattolici e laici dev’essere relativizzata. I laici non sono un blocco rigido, non costituiscono una confessione fissa, o peggio un’ “anti-confessione”. Sono uomini che non si sentono in grado di fare il passo della fede ecclesiale con tutto ciò che un tale passo comporta; ma molto spesso sono uomini che cercano appassionatamente la verità che soffrono per la mancanza di verità dell’uomo, riprendendo proprio così i contenuti essenziali della cultura e della fede e spesso rendendoli, con il loro impegno, ancora più luminosi di quanto possa fare una fede scontata, accettata più per abitudine che per conoscenza sofferta. Gradi diversi di appartenenza hanno anche un senso positivo.

    La questione del perché oggi la fede cristiana stenta a raggiungere, con il suo grande messaggio, gli uomini, in Europa, inevitabilmente riguarda il cristiano credente e anzitutto il pastore della Chiesa. Vedo due cause principali:

    1. La prima causa è stata introdotta da Nietzsche quando disse: “Il cristianesimo è sempre stato attaccato finora in un modo... sbagliato. Finché non si percepisce la morale del cristianesimo come crimine capitale contro la vita, i suoi difensori avranno sempre gioco facile. La questione della verità del cristianesimo... è una cosa del tutto secondaria finché non viene affrontata la questione del valore della morale cristiana”. Qui abbiamo veramente a che fare, a mio parere, con le ragioni decisive dell’abbandono del cristianesimo: il suo modello di vita, come è chiaro, non convince. Sembra che limiti l’uomo in tutto, che guasti la sua gioia di vivere, che limiti la sua libertà come preziosa e lo conduca non al largo – come dicono i Salmi – ma nell’angustia, nello stretto. Si può rilevare che qualcosa di simile accadde già nell’antichità quando i rappresentanti del potere statale romano lanciarono il seguente appello ai cristiani: tornate alla nostra religione: la nostra religione è gioiosa, abbiamo feste, gozzoviglie e divertimenti, e voi credete in uno che è stato crocifisso. All’epoca i cristiani riuscirono a dimostrare, in modo persuasivo, quanto i divertimenti del mondo degli dei fossero vuoti e insipidi, e quale altezza regala la fede in quel Dio che soffre con noi e ci porta sulla via della vera grandezza.
    1. La seconda ragione dello sgretolarsi del cristianesimo sta – a mio parere – nel fatto che sembra essere superato dalla “scienza” e non essere più in armonia con la razionalità dell’età moderna. Ciò vale soprattutto da due punti di vista. La critica storica ha scompaginato la Bibbia rendendo non credibile la sua origine divina. La scienza e l’immagine moderna del mondo creata dalla scienza sembrano escludere dalla realtà la visione di fondo della fede cristiana, relegandola nell’ambito del mito. Come si può ancora essere cristiani, allora? La Chiesa e la sua teologia hanno sprecato troppo tempo in piccole schermaglie di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non si sono abbastanza impegnate nel porre le domande di fondo.

    Nel confronto con la scienza e nel dialogo con i filosofi dell’età moderna deve riaffacciarsi la questione di fondo su che cos’è che tiene insieme il mondo. E’ la materia che crea la ragione, è il puro caso che produce il significato, oppure sono l’intelletto, il logos, la ragione che vengono prima, così che la ragione, la libertà e il bene fanno già parte dei principi che costruiscono la realtà? Una valida religione civile comporterà anche il non concepire Dio come un’entità mitica, ma come una possibilità della ragione, come la Ragione stessa che precede e che rende possibile che la nostra ragione cerchi di riconoscerla. Credo che lo sforzo per acquisire un’immagine del mondo basata sullo spirito e sul senso, contro le tendenze di “decostruzione” che Lei ha esposto nel Suo contributo, sia una grande sfida comune per cattolici e laici.

    Negli ultimi tempi mi capita di notare sempre di più che il relativismo — quanto più diventa la forma di pensiero generalmente accettata — tende all’intolleranza, trasformandosi in un nuovo dog­matismo. La political correctness, la cui pressione onnipresente Lei (N.d.R. Marcello Pera) ha evidenziato, vorrebbe erigere il regno di un solo modo di pensare e parlare. Il suo relativismo apparentemente la innalza più in alto di tutte le grandi vette del pensiero finora raggiunte; soltanto cosi si dovrebbe ancora pensa­re e parlare se si vuole essere all’altezza del pre­sente. Mentre la fedeltà ai valori tradizionali e alle conoscenze che li sostengono viene bollata come intolleranza e lo standard relativistico viene ele­vato a obbligo. Mi sembra molto importante contrapporsi a questa costrizione di un nuovo pseudo­illuminismo che minaccia la libertà di pensiero e anche la libertà di religione. Che in Svezia un pre­dicatore che aveva esposto l’insegnamento biblico circa la questione dell’omosessualità senza se e senza ma sia stato condannato a una pena detentiva è soltanto uno dei segni del fatto che il relativismo comincia a prendere piede come una sorta di nuova “confessione”, che pone limiti alle convinzioni religiose e cerca di sottoporle tutte al super-dogma del relativismo

    Qui emerge appieno il dilemma dell’esistenza umana. Se si dovessero equiparare razionalità e coscienza media, alla fine rimarrebbe ben poco della “ragione”. Il cristiano è convinto che la sua fede non solo gli apre nuove dimensioni del conoscere, ma che aiuta soprattutto la ragione a essere se stessa. C’è il vero e proprio patrimonio della fede (Trinità, divinità di Cristo, sacramenti, eccetera), ma ci sono anche le conoscenze alla cui evidenza contribuisce la fede, che poi però vengono riconosciute come razionali e appartenenti alla ragione come tale, e che perciò implicano anche una responsabilità nei confronti degli altri. Il fedele, che ha ricevuto egli stesso un aiuto per la sua ragione, deve impegnarsi in favore della ragione e di ciò che è razionale: questo, di fronte alla ragione addormentata o ammalata, è un dovere che ha verso tutta la comunità umana.

    Detto questo, vorrei brevemente trattare due questioni di contenuto. C’è, per prima cosa, il problema dell’essere «persona fin dal concepi­mento». L’Istruzione Donum vitae del 22 febbraio 1987, al n. I, 1, ricorda come, in base alle cono­scenze della genetica moderna, «dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà que­sto vivente: un uomo, quest’uomo individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate». O, in altre parole: «nello zigote derivante dalla fe­condazione si è già costituita l’identità biologica di un nuovo individuo umano».
    È qui che si passa dall’empirico al filosofico. L’I­struzione afferma che nessun dato sperimentale potrà mai essere sufficiente per constatare l’esistenza di un’anima spirituale. Il documento formula la connessione tra livello empirico e filo­sofico in forma di domanda. Ricorda ancora una volta che si può constatare empiricamente che c’è un nuovo individuo: «individuo» è un termine em­pirico in quanto si tratta di un organismo che, pur essendo completamente dipendente da quello del­la madre, tuttavia è un organismo nuovo, con un suo proprio programma genetico. Ne consegue la domanda: «Come può un individuo umano non essere una persona umana?» Da cui risulta la deduzione etica: «L’essere umano è da rispettare - come una persona - fin dal primo istante della sua esistenza».
    Il Magistero qui non propone una propria teo­ria filosofica, tanto meno argomenta teologicamente; pone, al punto d’incontro dei livelli empirico e filosofico (antropologico), una domanda che — a mio parere — comporta una chiara conse­guenza etica per la ragione. Da cui risulta, d’altra parte, una deduzione per il legislatore: se le cose stanno così, allora l’autorizzazione all’uccisione dell’embrione significa che «lo Stato viene a nega­re l’uguaglianza di tutti davanti alla legge» (parte III). La questione del diritto alla vita di tutti quelli che sono uomini non è per noi una questione di etica della fede, ma di etica della ragione. Ed è a questo livello che si deve svolgere il dibattito. Trattare allo stesso modo anche i problemi inerenti alla fecondazione artificiale ci costringereb­be ad andare troppo oltre. Vorrei però almeno accennare al fatto che la Donum vitae, pur rifiutan­do, sulla base di un’etica che argomenta antropo­logicamente, la fecondazione omologa come anche quella eterologa non esige dal legislatore il divieto della fecondazione omologa extracorpo­rea, ma vorrebbe comunque vedere esclusa la fe­condazione eterologa anche per legge, in quanto altrimenti si rinuncerebbe al valore, ancora pro­tetto per legge, del matrimonio; sarebbe cioè un «no» a un’istituzione fondamentale delle società basate sulla cultura cristiana. Un tale affronto contro la base della nostra struttura sociale è in fondo un’auto-contraddizione del legislatore; il fatto che ciò non venga più percepito dimostra chiaramente quanto sia avanzato il processo di smantellamento dell’istituzione matrimoniale. Partendo dalla mia fede, come anche dalla ragione morale, posso in questo riconoscere un segnale d’allarme molto serio per le nostre società.

    Partono innanzitutto dal fatto che accettazione e successo non possono essere i criteri decisivi per la coscienza in cerca della verità. Ma, d’altra parte, si rendono anche conto che in politica si tratta di ciò che è realizzabile e di avvicinarli il più possibile a ciò che la coscienza e la ragione hanno riconosciuto come il vero bene per l’individuo e per la società. Alla politica appartiene il compromesso. Fin dove si può spingere, con dei compromessi, il politico cristiano nella sua ricerca di un diritto moralmente fondato senza entrare in contraddizione con la sua coscienza?

    Tutti e due i testi insistono perciò che il legislatore, partendo dal principio comunemente riconosciuto della libertà di coscienza, dovrebbe, in questo ambito, concedere il diritto all’obiezione di coscienza: la Chiesa non vuole imporre agli altri ciò che non comprendono, ma si aspetta, da parte loro, almeno il rispetto per la coscienza di coloro che lasciano guidare la loro ragione dalla fede cristiana.
    (dalla Lettera a Marcello Pera di Joseph Ratzinger in Marcello Pera-Joseph Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano, 2004)

    In sintesi

    L’eredità greca

    L’Europa è, come parola, come concezione geografica e spirituale, una creazione dei greci. Già il termine come tale è significativo. Esso si rifà alla comune denominazione semitica della sera (ereb) e rimanda così al fatidico dialogo dello spirito semitico e di quello occidentale, che appartiene all’essenza dell’Europa. Geograficamente lo spazio inteso dalla parola si estende a poco a poco. Dapprima esso abbraccia solo la Tessaglia, la Macedonia e l’Attica. Ma già Erodoto indica nella ripartizione delle tre parti della terra – Europa, Asia, Libia – una delle tre grandi zone geografiche e culturali, che si trovano contigue nello spazio del Mediterraneo.
    L’Europa appare quindi costituita anzitutto di spirito greco. Se dimenticasse la sua eredità greca, non potrebbe essere più Europa. Il mito di “Europa” rientra sì nella sfera delle religioni croniche e dell’ambito religioso minoico, ma la formazione dell’Europa si fonda sul superamento della religione ctonica mediante la forma apollinea. Che cosa significhi la Grecia come eredità vincolante è difficile dirlo in dettaglio. Io vedrei il punto centrale in ciò che Helmut Kuhn ha chiamato differenza socratica: la differenza tra il bene e i beni dove si danno insieme convegno, a un tempo, il diritto della coscienza e la reciproca relazione di ratio e di religio. Si può formulare l’eredità della Grecia anche da un’altra angolazione, per noi forse più tangibile. La sua scoperta, valida al di sopra dei tempi (pur con tutte le distinzioni di quanto oggi si intende con la parola), è la democrazia, la quale però, come Platone ha spiegato, è legata per sua essenza all’ “eunomia”, alla validità del buon diritto e solo in questo rapporto può ancora essere democrazia. La democrazia non è quindi mai puro dominio di maggioranze, e il meccanismo di produzione delle maggioranze deve sottostare al criterio della comune signoria del “nomos”, di ciò che, interiormente, è giusto, è cioè subordinato al riconoscimento di valori, che sono una premessa vincolante anche per la maggioranza.

    L’eredità cristiana

    Lo strato secondo del concetto “Europa” si può percepire nel noto episodio di At 16,6-10. In questo frammento narrativo, altamente misterioso e drammatico, lo Spirito di Gesù vieta a Paolo di continuare la sua evangelizzazione in Asia. Invece gli appare nella notte in visione un uomo macedone che gli grida: “Passa in Macedonia e aiutaci!”. Il testo poi continua: “Dopo che (Paolo) ebbe avuto questa visione, subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore”. Tutto ciò si trova narrato solo negli Atti degli Apostoli, tuttavia io ritengo che una base un po’ più estesa si possa trovare anche nel resto del Nuovo Testamento. Quanto qui viene detto a mio avviso, trova un intimo riscontro con una frase del Vangelo di Giovanni che, per di più, è collocata in un punto importante. Poco prima della Passione, dopo l’entrata di Gesù in Gerusalemme, in un momento in cui si parla dell’adempimento della gloria di Gesù, si narra la richiesta di certi greci a Filippo: “Signore, vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21). Il vescovo Graber ha osservato che nel racconto della Pentecoste di Luca (At 2,11), sulla lista dei popoli che rappresentano la terra vengono nominati solo degli asiatici. Ma quasi all’ultimo posto, si parla anche di “stranieri di Roma”. Il punto di partenza del Vangelo si trova dunque in Oriente. Luca sottolinea (come anche Giovanni e tutto il Nuovo Testamento) la radice che è Israele: la salvezza viene dai Giudei (Gv 4,22). Ma Luca vi aggiunge una strada che apre una porta nuova. La strada presentata dall’insieme degli Atti degli Apostoli è la strada che conduce da Gerusalemme a Roma, la via ai pagani, i quali distruggeranno sì Gerusalemme ma poi la riassumeranno in sé in una maniera nuova. Il cristianesimo è, perciò, la sintesi operata in Gesù Cristo, tra la fede d’Israele e lo spirito greco. Wilhelm Kamlah ha esposto tutto ciò in maniera penetrante. Su questa sintesi si fonda l’Europa. Il tentativo del Rinascimento, volto a distillare l’elemento greco, eliminando quello cristiano, per restaurare la pura grecità è insensato e senza prospettive, come lo è il tentativo recente per un cristianesimo disellenizzato. L’Europa in senso stretto nasce, a mio parere, da questa sintesi e vi si basa.

    L’eredità dell’età moderna

    Altro strato che costituisce l’Europa è l’irrinunciabile apporto dello spirito dell’età moderna.
    Come noi sappiamo per esperienza, l’età moderna viene descritta per così dire in maniera idealpolitica, così come essa voleva vedersi, ma come essa concretamente non è mai esistita. L’ambivalenza dell’età moderna si fonda sul fatto che essa, molto presto, non riconobbe la radice e il fondamento vitale dell’idea di libertà e si mosse con forza verso un’emancipazione della ragione, la quale è in interna contraddizione con l’essenza della ragione umana, in quanto non divina, e doveva quindi diventare, essa stessa, irragionevole. La quintessenza dell’età moderna appare, in ultima analisi a torto, in quella ragione perfettamente automatizzata, che riconosce oramai solo se stessa, ma che è in tal modo diventata cieca e diviene, nella distruzione del suo fondamento, inumana e ostile alla creazione. Questa specie di autonomia della ragione è certamente un prodotto dello spirito europeo, ma al tempo stesso è nella sua essenza post-europea, anzi anti-europea, come intima distruzione di ciò che è costitutivo non solo per l’Europa, ma presupposto di ogni società umana. Così noi dobbiamo assumere dall’età moderna, come dimensione essenziale ed irrinunciabile dell’elemento europeo, la separazione relativa di stato e chiesa, la libertà di coscienza, i diritti umani e l’autoresponsabilità della ragione. Ma di fronte all’esaltazione unilaterale di questi valori deve al tempo stesso essere tenuto fermo il radicamento della ragione nel rispetto di Dio e dei valori etici fondamentali, che derivano dalla fede cristiana.
    (da Chiesa, ecumenismo e politica di Joseph Ratzinger, Edizioni Paoline, Torino, 1987)




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 10:07
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      LA QUESTIONE ECUMENICA-INTERRELIGIOSA

    Come un preambolo: il rapporto ecumenico ed il rapporto inter-religioso nello “spirito di Assisi”

    Quando, giovedì 24 gennaio, sotto un cielo gravido di pioggia, si è mosso il treno che doveva condurre ad Assisi i rappresentanti di un gran numero di Chiese cristiane e comunità ecclesiali assieme ai rappresentanti di molte religioni mondiali per testimoniare e pregare per la pace, questo treno mi è apparso come un simbolo del nostro pellegrinaggio nella storia. Non siamo, infatti, forse tutti passeggeri di uno stesso treno?...
    Il saluto della gente era diretto principalmente all’uomo anziano vestito di bianco che stava sul treno. Uomini e donne, che nella vita quotidiana troppo spesso si fronteggiano l’un l’altro con ostilità e sembrano divisi da barriere insormontabili, salutavano il Papa, che, con la forza della sua personalità, la profondità della sua fede, la passione che ne deriva per la pace e la riconciliazione, ha come tirato fuori l’impossibile dal carisma del suo ufficio: convocare insieme in un pellegrinaggio per la pace rappresentanti della cristianità divisa e rappresentanti di diverse religioni. Ma l’applauso, rivolto innanzitutto al Papa, esprimeva anche un consenso spontaneo per tutti coloro che con lui cercano la pace e la giustizia, ed era un segnale del desiderio profondo di pace che provano gli individui di fronte alle devastazioni che ci circondano provocate dall’odio e dalla violenza. Anche se talvolta l’odio appare invincibile e si moltiplica senza sosta nella spirale della violenza, qui, per un momento, si è percepita la presenza della forza di Dio, della forza della pace. Mi vengono alla mente le parole del salmo: «Con il mio Dio scavalcherò le mura» (Sal 18, 30). Dio non ci mette gli uni contro gli altri, bensì Egli che è Uno, che è il Padre di tutti, ci ha aiutato, almeno per un momento, a scavalcare le mura che ci separano, facendoci riconoscere che Egli è la pace e che non possiamo essere vicini a Dio se siamo lontani dalla pace.

    Nel suo discorso il Papa ha citato un altro caposaldo della Bibbia, la frase della Lettera agli Efesini: «Cristo è la nostra pace. Egli ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2, 14). Pace e giustizia sono nel Nuovo Testamento nomi di Cristo (per «Cristo, nostra giustizia» vedere ad esempio 1Cor 1, 30). Come cristiani non dobbiamo nascondere questa nostra convinzione: da parte del Papa e del Patriarca ecumenico la confessione di Cristo nostra pace è stata chiara e solenne. Ma proprio per questa ragione c’è qualcosa che ci unisce oltre le frontiere: il pellegrinaggio per la pace e la giustizia. Le parole che un cristiano deve dire a colui che si mette in cammino verso tali mete sono le stesse usate dal Signore nella risposta allo scriba che aveva riconosciuto nel duplice comandamento che esorta ad amare Dio e il prossimo la sintesi del messaggio veterotestamentario: «Non sei lontano dal regno di Dio» (Mc 12, 34).
    Per una giusta comprensione dell’evento di Assisi, mi sembra importante considerare che non si è trattato di un’autorappresentazione di religioni che sarebbero intercambiabili tra di loro. Non si è trattato di affermare una uguaglianza delle religioni, che non esiste. Assisi è stata piuttosto l’espressione di un cammino, di una ricerca, del pellegrinaggio per la pace che è tale solo se unita alla giustizia. Infatti, là dove manca la giustizia, dove agli individui viene negato il loro diritto, l’assenza di guerra può essere solo un velo dietro al quale si nascondono ingiustizia e oppressione.
    Con la loro testimonianza per la pace, con il loro impegno per la pace nella giustizia, i rappresentanti delle religioni hanno intrapreso, nel limite delle loro possibilità, un cammino che deve essere per tutti un cammino di purificazione. Ciò vale anche per noi cristiani. Siamo giunti veramente a Cristo solo se siamo arrivati alla sua pace e alla sua giustizia. Assisi, la città di san Francesco, può essere la migliore interprete di questo pensiero. Anche prima della sua conversione Francesco era cristiano, così come lo erano i suoi concittadini. E anche il vittorioso esercito di Perugia che lo gettò in carcere prigioniero e sconfitto era formato da cristiani. Fu solo allora, sconfitto, prigioniero, sofferente, che cominciò a pensare al cristianesimo in modo nuovo. E solo dopo questa esperienza gli è stato possibile udire e capire la voce del Crocifisso che gli parlò nella piccola chiesa in rovina di San Damiano la quale, perciò, divenne l’immagine stessa della Chiesa della sua epoca, profondamente guasta e in decadenza. Solo allora vide come la nudità del Crocifisso, la sua povertà e la sua umiliazione estreme fossero in contrasto con il lusso e la violenza che prima gli apparivano normali. E solo allora conobbe veramente Cristo e capì anche che le crociate non erano la via giusta per difendere i diritti dei cristiani in Terra Santa, bensì bisognava prendere alla lettera il messaggio dell’imitazione del Crocifisso.
    Da quest’uomo, da Francesco, che ha risposto pienamente alla chiamata di Cristo crocifisso, emana ancora oggi lo splendore di una pace che convinse il sultano e può abbattere veramente le mura. Se noi come cristiani intraprendiamo il cammino verso la pace sull’esempio di san Francesco, non dobbiamo temere di perdere la nostra identità: è proprio allora che la troviamo. E se altri si uniscono a noi nella ricerca della pace e della giustizia, né loro né noi dobbiamo temere che la verità possa venir calpestata da belle frasi fatte. No, se noi ci dirigiamo seriamente verso la pace allora siamo sulla via giusta perché siamo sulla via del Dio della pace (Rm 15, 32) il cui volto si è fatto visibile a noi cristiani per la fede in Cristo.
    (da Lo splendore della pace di Francesco, articolo apparso su 30giorni del gennaio 2002 - con Ratzinger)

    È chiaro... che in quest' ora, in cui l'umanità ha acquisito la possibilità dell' autodistruzione e della distruzione del proprio pianeta, le religioni sono coinvolte nella comune responsabilità di vincere questa tentazione. Esse vengono valutate in modo particolare in base a questa scala di valori, che appare sempre più come il loro compito comune e, di conseguenza, anche la formula della loro conciliazione. Hans Küng, facendosi portavoce di molti, ha proposto lo slogan «Nessuna pace nel mondo senza pace tra le religioni», dichiarando in tal modo la pace religiosa, l'ecumenismo delle religioni, compito primario di tutte le comunità religiose.
    (da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.60)

    Il rapporto con coloro che sono della stessa religione cristiana, ma di un’altra confessione

    Provenendo io stesso da questo paese, conosco bene la situazione penosa che la rottura dell'unità nella professione della fede ha comportato per tante persone e tante famiglie. Anche per questo motivo, subito dopo la mia elezione a vescovo di Roma, quale successore dell'apostolo Pietro, ho manifestato il fermo proposito di assumere il ricupero della piena e visibile unità dei cristiani come una priorità del mio pontificato.

    La Germania nel dialogo ecumenico riveste senza dubbio un posto di particolare importanza. Noi siamo il paese d'origine della Riforma; però la Germania è anche uno dei paesi da cui è partito il movimento ecumenico del XX secolo.

    A seguito dei flussi migratori del secolo scorso, anche cristiani delle Chiese ortodosse e delle antiche Chiese dell'Oriente hanno trovato in questo paese una nuova patria. Ciò ha indubbiamente favorito il confronto e lo scambio, cosicché ora esiste fra noi un dialogo a tre.

    Insieme ci rallegriamo nel constatare che il dialogo, col passare del tempo, ha suscitato una riscoperta della nostra fratellanza e creato tra i cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali un clima più aperto e fiducioso. Il mio venerato predecessore nella sua enciclica “Ut Unum Sint” (1995) ha indicato proprio in questo un frutto particolarmente significativo del dialogo (cfr nn. 41s.; 64).

    Ritengo che non sia poi così scontato che ci consideriamo veramente fratelli, che ci amiamo, che ci sentiamo insieme testimoni di Gesù Cristo. Questa fraternità è in sé, come credo, un frutto molto importante del dialogo, di cui dobbiamo essere lieti e che dovremmo continuare a curare e a praticare.

    La fraternità tra i cristiani non è semplicemente un vago sentimento e nemmeno nasce da una forma di indifferenza verso la verità. Essa è fondata... sulla realtà soprannaturale dell'unico battesimo, che ci inserisce tutti nell'unico corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12, 13; Gal 3, 28; Col 2, 12).

    Insieme confessiamo Gesù Cristo come Dio e Signore; insieme lo riconosciamo come unico mediatore tra Dio e gli uomini (cfr 1 Tm 2, 5), sottolineando la nostra comune appartenenza a lui (cfr “Unitatis Redintegratio”, 22; “Ut Unum Sint”, 42).

    A partire da questo essenziale fondamento del battesimo, che è una realtà da lui proveniente, una realtà nell'essere e poi nel professare, nel credere e nell'agire, a partire da questo decisivo fondamento il dialogo ha portato i suoi frutti e continuerà a farlo.

    Vorrei menzionare il riesame, auspicato da papa Giovanni Paolo II durante la sua prima visita in Germania, delle reciproche condanne. Penso con un po' di nostalgia a quella prima visita. Ho potuto essere presente quando eravamo insieme a Magonza in un circolo relativamente piccolo e autenticamente fraterno. Furono poste delle questioni e il papa elaborò una grande visione teologica, nella quale la reciprocità aveva un suo spazio.

    Da quel colloquio scaturì poi la commissione a livello episcopale e cioè ecclesiale, sotto la responsabilità ecclesiale, che con l'aiuto dei teologi portò infine all'importante risultato della "Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione" del 1999 e a un accordo su questioni fondamentali che fin dal XVI secolo erano state oggetto di controversie.

    Ed ora chiediamoci: che cosa significa ristabilire l'unità di tutti i cristiani? Sappiamo tutti che esistono numerosi modelli di unità e voi sapete anche che la Chiesa cattolica si prefigge il raggiungimento della piena unità visibile dei discepoli di Gesù Cristo secondo la definizione che ne ha dato il Concilio Ecumenico Vaticano II in vari suoi documenti (cfr “Lumen Gentium”, nn. 8;13; “Unitatis Redintegratio”, nn. 2; 4 ecc.). Tale unità, secondo la nostra convinzione, sussiste, sì, nella Chiesa cattolica senza possibilità di essere perduta (cfr “Unitatis Redintegratio”, n. 4); la Chiesa infatti non è scomparsa totalmente dal mondo.

    D'altra parte questa unità non significa quello che si potrebbe chiamare ecumenismo del ritorno: rinnegare cioè e rifiutare la propria storia di fede. Assolutamente no! Non significa uniformità in tutte le espressioni della teologia e della spiritualità, nelle forme liturgiche e nella disciplina. Unità nella molteplicità e molteplicità nell'unità: nell'omelia per la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, lo scorso 29 giugno, ho rilevato che piena unità e vera cattolicità nel senso originario della parola vanno insieme. Condizione necessaria perché questa coesistenza si realizzi è che l'impegno per l'unità si purifichi e si rinnovi continuamente, cresca e maturi. 

    A questo scopo può recare un suo contributo il dialogo. Esso è più di uno scambio di pensieri, di un'impresa accademica: è uno scambio di doni (cfr “Ut Unum Sint”, n. 28), nel quale le Chiese e le Comunità ecclesiali possono mettere a disposizione i loro tesori (cfr “Lumen Gentium”, nn. 8; 15; “Unitatis Redintegratio”, nn. 3; 14s; “Ut Unum Sint”, nn. 10-14).

    Desidero anche io in questo contesto ricordare il grande pioniere dell'unità, padre Roger Schutz, che è stato strappato alla vita in modo così tragico. Lo conoscevo personalmente da tempo e avevo con lui un rapporto di cordiale amicizia.

    Mi ha spesso reso visita e, come ho già detto a Roma, il giorno della sua uccisione ho ricevuto una sua lettera che mi è rimasta nel cuore perché in essa sottolineava la sua adesione al mio cammino e mi annunciava di volermi venire a trovare. Ora ci visita dall'alto e ci parla. Penso che dovremmo ascoltarlo, ascoltare dal di dentro il suo ecumenismo vissuto spiritualmente e lasciarci condurre dalla sua testimonianza verso un ecumenismo interiorizzato e spiritualizzato.

    Vedo un confortante motivo di ottimismo nel fatto che oggi si sta sviluppando una sorta di "rete" di collegamento spirituale tra cattolici e cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali: ciascuno si impegna nella preghiera, nella revisione della propria vita, nella purificazione della memoria, nell'apertura della carità.

    Il padre dell'ecumenismo spirituale, Paul Couturier, ha parlato a questo riguardo di un "chiostro invisibile", che raccoglie tra le sue mura queste anime appassionate di Cristo e della sua Chiesa. Io sono convinto che, se un numero crescente di persone si unirà interiormente alla preghiera del Signore "perché tutti siano una sola cosa" (Gv 17, 21), una tale preghiera nel nome di Gesù non cadrà nel vuoto (cfr Gv 14, 13; 15, 7.16 ecc.).
    (dal discorso tenuto da Benedetto XVI ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, nell’arcivescovado di Colonia, il 19 agosto 2005, durante la Giornata Mondiale della Gioventù)

    Quello dei modelli di unità è un grande e difficile problema. Viene subito da chiedersi: che cosa è possibile? Che cosa possiamo o non possiamo sperare? E in secondo luogo, che cosa è veramente bene? Non oso sperare in una unità di cristiani pienamente compiuta all’interno della storiaVediamo anzi che, contemporaneamente agli sforzi che si compiono per arrivare all’unità, avvengono continuamente ulteriori frammentazioni. Non solo continuano a formarsi nuove sette (tra le quali anche sette sincretistiche, con grandi componenti pagane e non cristiane), ma, anzi, aumentano anche le divisioni all’interno delle Chiese: tanto in quelle riformate, in cui si approfondisce sempre più la frattura tra elementi più evangelici e movimenti modernisti (anche nel protestantesimo tedesco vediamo come le due correnti siano sempre più distanti), quanto nell’ortodossia. Qui l’unità è comunque sempre meno forte a causa delle autocefalie, ma anche lì ci sono movimenti di separazione, anche lì vediamo all’opera lo stesso fermento. Anche nella stessa Chiesa cattolica esistono profonde spaccature, cosicché talvolta si ha letteralmente la sensazione che in essa convivano due chiese l’una accanto all’altra. Si devono vedere entrambi gli aspetti, sia l’avvicinarsi di cristiani separati, sia il contemporaneo nascere di spaccature interne. Ci si dovrebbe cautelare da speranze utopistiche. L’importante è che si rifletta sempre sull’essenziale, cioè che ognuno cerchi di andare oltre se stesso e di guardare con fede a ciò che conta davvero. Sarebbe già un risultato se non si verificassero ulteriori fratture e se comprendessimo che anche nella separazione possiamo essere uniti in molte cose. Non credo che si arriverà molto rapidamente a grandi “unioni confessionali”. Molto più importante è che noi ci accettiamo reciprocamente con profondo rispetto, con amore, che ci riconosciamo come cristiani e che tentiamo, nelle cose essenziali, di portare nel mondo una testimonianza comune, tanto a favore di un giusto ordinamento mondiale, quanto per dare una risposta ai grandi interrogativi su Dio, sull’origine e sul destino dell’uomo.
    (da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag.273-274)

    E’ per me importante distinguere due tempi, o due fasi dell’ecumenismo: la finalità ultima, lo scopo ultimo al quale tendiamo, che deve essere sempre il vero dinamismo e il movente principale del nostro impegno ecumenico e, diciamo, il tempo intermedio, con soluzioni intermedie. Finalità ultima è, ovviamente, l’unità delle chiese nella chiesa unica, ma questa ultima finalità non implica uniformità, ma unità nella pluriformità. Mi sembra che la chiesa antica ci offra un po’ un modello. La chiesa antica era unita nei tre elementi fondamentali: Sacra Scrittura, regula fidei, struttura sacramentale della chiesa; per il resto era una chiesa molto pluriforme, come sappiamo tutti. C’erano le chiese di area o di lingua semitica, la chiesa Copta nell’Egitto, c’erano le chiese greche dell’impero bizantino, le altre chiese greche, le chiese latine, con grande diversità tra la chiesa d’Irlanda, per esempio, e la chiesa di Roma. Con altre parole, troviamo una chiesa unita nell’essenziale, ma una chiesa con grande pluriformità. Naturalmente non possiamo ripristinare le forme della chiesa antica, ma possiamo ispirarci ad esse per vedere come sia possibile comporre unità e pluriformità. Questo quindi è lo scopo, la finalità ultima di ogni lavoro ecumenico: arrivare all’unità reale della chiesa, la quale implica pluriformità in forme che adesso non possiamo ancora definire.
    Ma dobbiamo anche tener presente che questa unità, questo ultimo scopo dell’ecumenismo, non è una cosa che possiamo semplicemente fare noi. Noi dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze, ma dobbiamo anche riconoscere che in ultima analisi questa unità è un dono di Dio, perché è la sua chiesa, e non la nostra. Una unità costruita tutta da noi, in modo politico o intellettuale, potrebbe creare solo una unità, una chiesa nostra e non sarebbe quindi quella unità della chiesa di Dio alla quale tendiamo. Perciò, dato che ultimamente non sta nelle nostre mani creare questa unità, dobbiamo trovare anche dei modelli per il tempo intermedio. Questo modello sarebbe, per me, da esprimere con la formula ben conosciuta della “diversità riconciliata”, e su questo punto mi sento molto vicino alle idee formulate dal caro collega Oscar Cullmann.
    Ma per spiegare cosa intendo dire con queste parole, mi sia concesso di citare un brano di una conferenza che ho tenuto nell’autunno scorso davanti a giovani vescovi europei su diversi problemi, tra cui anche sull’ecumenismo. Secondo me, molti problemi derivano dal fatto che l’ecumenismo spesso viene inteso secondo un modello politico e considerato come le negoziazioni tra stati o anche fra le parti del mondo economico. Tutto dipende qui dalla prudenza e dalla buona volontà dei partners che, dopo un certo tempo, devono arrivare ad un contratto con compromessi accettabili da tutti. Così, si pensa, le negoziazioni tra le diverse chiese dovrebbero man mano produrre dei compromessi e tramite questi pervenire a “contratti” sui diversi elementi della separazione: dottrina della giustificazione, ministero, primato del papa, intercomunione ecc. e, finalmente, sfociare in un “contratto di riunificazione”. Questo modello è costruito senza tener conto della specificità della realtà chiesa. Si mette tra parentesi la dipendenza radicale della chiesa da Dio e si dimentica che il vero soggetto agente nella chiesa è Dio. Solo Dio può creare l’ultima vera unità ecclesiale; le unificazioni solamente fatte da noi non arriverebbero all’altezza dell’unità sacramentale e dottrinale. Per un vero ecumenismo è importante, quindi, riconoscere il primato dell’azione divina e trarre le conseguenze di un tale atteggiamento. Anzitutto: l’ecumenismo esige pazienza; il vero successo dell’ecumenismo non consiste in sempre nuovi contratti, ma consiste nella perseveranza dell’andare insieme, dell’umiltà che rispetta l’altro, anche dove la compatibilità in dottrina o prassi della chiesa non è ancora ottenuta; consiste nella disponibilità ad imparare dall’altro e a lasciarsi correggere dall’altro, in gioia e gratitudine per le ricchezze spirituali dell’altro, in una permanente essenzializzazione della propria fede, dottrina e prassi, sempre di nuovo da purificare e da nutrire alla Scrittura, tenendo fisso lo sguardo al Signore e, nello Spirito Santo, col Signore al Padre. Consiste nella disponibilità di perdonare e di cominciare sempre di nuovo nella ricerca dell’unità e, finalmente, nella collaborazione nelle opere di carità e nella testimonianza per il Dio rivelato davanti al mondo.
    Se Dio è il primo agente della causa ecumenica, il comune avvicinarsi al Signore è la condizione fondamentale di ogni vero avvicinamento delle chiese.Con altre parole, ecumenismo è innanzitutto un atteggiamento fondamentale, un modo di vivere il cristianesimo. Non è un settore particolare, accanto ad altri settori. Il desiderio dell’unità, l’impegno per l’unità appartiene alla struttura dello stesso atto di fede, perché Cristo è venuto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. La caratteristica fondamentale di un ecumenismo teologico e non politico è dunque la disponibilità di stare e di camminare insieme anche nella diversità non superata; la regola pratica è fare tutto ciò che possiamo fare noi per l’unità e lasciare al Signore quanto può fare soltanto il Signore. “Oportet et haereses esse”, dice san Paolo.
    Forse non siamo tutti maturi per l’unità e abbiamo bisogno della spina nella carne, che è l’altro nella sua alterità, per risvegliarci da un cristianesimo dimezzato, riduttivo. Forse il nostro dovere è essere spina l’uno per l’altro. Ed esiste un dovere di lasciarsi purificare ed arricchire dall’altro. Forse ci aiuta più l’ascolto umile, reciproco nella diversità che non una unità superficiale. Tutti questi atteggiamenti devono sempre essere collegati con la volontà ferma di diventare maturi per il momento dell’unità. Il modello della diversità riconciliata è da interpretarsi in questo senso dinamico e processuale. Questo è per me molto importante: diversità riconciliata non vuol dire essere contenti della situazione che abbiamo, ma è un processo dinamico; è un ecumenismo positivo se interpretato in questo senso.
    Anche nel momento storico nel quale Dio ancora non ci dà l’unità perfetta, riconosciamo l’altro, il fratello cristiano, riconosciamo le chiese sorelle, amiamo la comunità dell’altro, ci vediamo insieme in un processo di educazione divina nella quale il Signore usa le diverse comunità l’una per l’altra, per farci capaci e degni dell’unità definitiva.

    Detto ciò, posso ora brevemente passare al problema del papato. In questo modello si inserisce anche una visione dinamica dello sviluppo, non solo dell’unità, ma anche degli organi dell’unità. Dalla storia sappiamo bene che il ministero dell’unità, che secondo la nostra fede è affidato a Pietro e ai suoi successori, si può realizzare in modi molto diversi. La storia ci offre dei modelli, ma la storia naturalmente non è ripetibile; ci ispira, ma dobbiamo rispondere alle situazioni nuove. Io non oserei, per il momento, suggerire per il futuro realizzazioni concrete possibili e pensabili. Vorrei dire solo due cose, e così finire.
    La prima: negli anni settanta ero in contatto con un gruppo di luterani della Germania e dei paesi Scandinavi ed abbiamo un po’ riflettuto su come dovrebbe presentarsi una “ecclesia catholica confessionis augustanae”; abbiamo formulato diverse ipotesi. Lo ricordo solo per dire che in situazioni concrete si possono pensare possibilità concrete, sebbene non osi presentare un modello astratto per un futuro che non è ancora presente.
    La seconda cosa: io ripeto anche oggi quanto ho detto venti anni fa in una conferenza a Graz in Austria circa le chiese ortodosse. Dissi che non dovrebbero cambiare al loro interno molto, anzi quasi niente, nel caso di una unità con Roma. Due osservazioni concrete. Gli ortodossi hanno un modo diverso di garantire l’unità e la stabilità della comune fede, diverso da come lo abbiamo noi nella Chiesa cattolica dell’occidente. Non hanno una Congregazione per la dottrina della fede. Ma nella Chiesa ortodossa la liturgia e il monachesimo sono due fattori molto forti che garantiscono una fermezza e una coerenza della fede. La storia mostra che sono mezzi adeguati e sicuri, in questo contesto storico ed ecclesiale, per servire all’unità fondamentale.
    In secondo luogo mi ha molto illuminato un contributo del teologo ortodosso Meyendorf, il quale, con una franchezza rara, direi, compie sia un’autocritica del problema dell’unità nelle chiese ortodosse, sia una critica della chiesa romana, e così apre strade per pensare al futuro (senza di nuovo indicare già modelli concreti). Meyendorf critica l’universalismo nella sua forma romana, ma critica anche, come dice, il regionalismo come si è formato nella storia delle chiese ortodosse. Rileva che anche le chiese ortodosse (le quali probabilmente non avrebbero intenzione di definire il ministero dell’unità in termini di “jus divinum”, ma piuttosto di “jus ecclesiasticum”), devono necessariamente proporre delle forme istituzionali per garantire ed esprimere in modo reale la dimensione universale della chiesa. Inoltre afferma che tre livelli sono necessari, e devono penetrarsi reciprocamente perché sia realizzata la chiesa nella sua pienezza. Primo livello: la chiesa locale è chiesa reale nella celebrazione dell’ eucaristia. Secondo, la chiesa deve poi anche implicare e realizzarsi nella dimensione regionale, cioè culturale, nazionale, sociale. Ma infine la chiesa deve anche realizzarsi nella dimensione universale. Il regionalismo, dice il teologo ortodosso, deve sempre riconciliarsi anche coll’universalismo. Solo così siamo nella chiesa voluta dal Signore e tutti insieme dobbiamo trovare come queste tre dimensioni possano riconciliarsi.
    Mi sembra che questa non sia ancora una risposta concreta, ma l’indicazione di un cammino, un’autocritica sincera, insieme con una critica oggettiva degli altri, nella quale possiamo incontrarci e che, nella sostanza, vale non solo per le chiese ortodosse, ma anche per quelle nate dalla Riforma.

    Quando ho un po’ riflettuto, nel tempo molto limitato a mia disposizione, sulla risposta da dare a questa domanda, mi è venuta in mente (e qui il mio pensiero coincide con quello del professor Ricca), la “essenzializzazione”. Dobbiamo realmente ritornare al centro, all’essenziale o, in altre parole: il problema centrale del nostro tempo è l’assenza di Dio e perciò il dovere prioritario dei cristiani è testimoniare il Dio vivente. Mi sembra che prima di tutti i moralismi, di tutti quei doveri che abbiamo, noi con forza e con chiarezza dobbiamo testimoniare il centro della nostra fede. Dobbiamo rendere presente nella nostra fede, nella nostra speranza e nella nostra carità la realtà del Dio vivente. Se oggi esiste un problema di moralità, di ricomposizione morale nella società, mi sembra che risulti dall’assenza di Dio nel nostro pensiero, nella nostra vita. Risulta ancora, per essere più concreti, dall’assenza della fede nella vita eterna, che è vita con Dio. Io sono convinto che oggi il deismo - cioè l’idea che Dio può esistere, ma non entra finalmente nella nostra vita - è presente non solo nel mondo cosiddetto secolarizzato, ma è determinante fino a una misura pericolosa, direi, all’interno delle chiese e della nostra vita di cristiani.
    Non abbiamo più osato parlare sulla vita eterna e sul giudizio. Dio è divenuto per noi un Dio lontano, un Dio astratto. Non abbiamo più il coraggio di credere che questa creatura, l’uomo, sia così importante agli occhi di Dio che Dio si occupa e preoccupa con noi e per noi. Pensiamo che tutte queste cose che facciamo siano finalmente cose nostre e per Dio, se esiste, non possano avere molta importanza. Così abbiamo deciso di costruire da noi stessi, di ricostruire il mondo, e non contiamo realmente sulla realtà di Dio, la realtà del giudizio e della vita eterna. Ma se prescindiamo nella nostra vita di oggi e di domani dalla vita eterna, cambia tutto: perché l’essere umano perde il suo grande onore, la sua grande dignità, e tutto diventa finalmente manipolabile. Perde la sua dignità, questa creatura immagine di Dio, e perciò la conseguenza inevitabile è una decomposizione morale, un cercare se stesso nel breve tempo di questa vita; dobbiamo inventare noi quale sarebbe il migliore modo di costruire la nostra vita e la vita in questo mondo. Perciò il nostro compito fondamentale, proprio se vogliamo contribuire alla vita umana e alla umanizzazione della vita in questo mondo, è rendere presente, e per così dire quasi tangibile, questa realtà di un Dio che vive, di un Dio che ci conosce e ci ama, nel cui sguardo viviamo, un Dio che riconosce la nostra responsabilità e aspetta da essa la risposta del nostro amore realizzato e concretizzato nella nostra vita di ogni giorno.
    A me sembra che il più grande pericolo delle chiese, dei cristiani, è rifugiarsi in un certo moralismo per essere più accettabili, più comprensibili nel mondo secolarizzato, lasciando da parte l’essenziale. E questo moralismo può avere, ha spesso degli scopi realmente validi, buoni, ma se diventa moralismo puro e non è animato dalla fede nel Dio vivente, alla fine non ha forza e non può realmente cambiare la vita umana. Perciò questa priorità per la testimonianza del Dio vivente mi sembra l’imperativo più urgente per tutti i cristiani, e mi sembra anche l’imperativo che ci unisce, perché tutti i cristiani siamo uniti nella fede in questo Dio che si è rivelato, incarnato in Gesù Cristo. Rendere questa testimonianza essenziale per il mondo di oggi, il mondo cristiano e il mondo non cristiano, ci unisce proprio se non intendiamo immediatamente le cose ecclesiastiche, ecumeniche, ma se intendiamo (senza guardare a noi stessi) la testimonianza essenziale per Dio. E mi sembra che tutto il resto segua. Se viviamo sotto gli occhi di Dio e se Dio è la priorità della nostra vita, del nostro pensiero e della nostra testimonianza, il resto segue. Segue cioè l’impegno per la pace, segue necessariamente l’impegno per la creatura, segue la protezione e l’impegno per i deboli, segue l’impegno per la giustizia e l’amore.
    (da Ecumenismo: crisi o svolta? Dialogo tra il cardinal Joseph Ratzinger e il pastore Paolo Ricca, Roma, Facoltà valdese di teologia, 29 gennaio 1993, pubblicato in NEV Dossier/2, supplemento al numero 7 del 17 febbraio 1993 del settimanale NEV)

    Le persone perseverano nella chiesa non perché vi trovano feste comunitarie e gruppi di azione, bensì perché sperano di trovarvi risposte a domande vitali indispensabili. Tali risposte non sono state escogitate dai parroci o da altre autorità, ma vengono da un’autorità più grande e sono fedelmente mediate e amministrate, semmai, dai parroci. Gli uomini soffrono anche oggi, forse ancora più di prima; non basta ad essi la risposta che viene dalla testa del parroco o da qualche “gruppo attivistico”. La religione penetra oggi come sempre in profondità nella vita degli uomini per attingervi un punto di assoluto e, a tanto, serve solo una risposta che viene dall’assoluto. Là dove i parroci o i vescovi non appaiono più come i mediatori di quanto è assoluto anche per essi, ma hanno solamente da offrire le proprie azioni, è allora che diventano una “chiesa ministeriale” e, come tali, superflui.

    Una unità operata dagli uomini non potrà essere logicamente che un affare iuris humani. Non attingerebbe per principio l’unità teologica intesa da Gv 17 e non potrà essere di conseguenza neppure una testimonianza del pensiero di Gesù Cristo, ma parlerà unicamente a favore dell’abilità diplomatica e della capacità compromissoria dei responsabili della trattativa. E’ già qualcosa, ma non tocca il piano veramente religioso, di cui si tratta appunto in fatto di ecumenismo. Anche le dichiarazioni teologiche di consenso rimangono di necessità sul piano dell’intelligenza umana (scientifica), la quale è in grado di approntare certe condizioni essenziali per l’atto di fede, ma non concerne l’atto di fede in quanto tale. Nella prospettiva dell’avvenire mi sembra quindi importante riconoscere i limiti dell’”ecumene contrattuale” e non aspettarsi da essa più di ciò che può dare: avvicinamento su importanti aspetti umani, ma non l’unità stessa.

    Ma, stando così le cose, che cosa dobbiamo fare? In vista di una risposta mi è assai di aiuto la formula che Oscar Cullmann ha coniato per tutta la discussione: unitàattraverso pluralità, attraverso diversità. Certamente la spaccatura è dal male, specie quando porta all’inimicizia e all’impoverimento della testimonianza cristiana. Ma se a questa spaccatura viene a poco a poco sottratto il veleno dell’ostilità, e se, nell’accoglimento reciproco della diversità, non c’è più riduzionismo, bensì ricchezza nuova di ascolto e di comprensione, allora la spaccatura può diventare nel trapasso una felix culpa, anche prima che sia del tutto guarita. Caro signor collega Seckler, verso la fine degli anni da me trascorsi Tubinga, Lei mi diede da leggere un lavoro compiuto sotto la sua guida, lavoro che esponeva l’interpretazione agostiniana della misteriosa sentenza di Paolo: “E’ necessario che avvengano divisioni tra voi” (1Cor 11,19). Il problema esegetico nell’interpretazione di 1Cor 11,19 non è in discussione qui; a me sembra che i padri non avevano gran torto a trovare in questa annotazione localizzata un’affermazione aperta sull’universale, ed anche H. Schlier pensa che si tratti per Paolo di un principio escatologico-dogmatico (ThWNT, I, 182). Se è legittimo pensare in questa direzione, assume un peso speciale l’affermazione esegetica secondo cui il dei (N.d.C. “dei”: espressione greca che traduciamo in italiano con “è necessario”) biblico rinvia sempre in qualche modo a un agire di Dio, cioè a una necessità escatologica (così per es. Grundmann, ThWNT, II, 22-25). Ma allora ciò significa che, se le divisioni sono anzitutto opera umana e colpa umana, esiste tuttavia in esse anche una dimensione che corrisponde a disposizioni divine. Perciò noi le possiamo trasformare solo fino a un certo punto con la penitenza e la conversione; ma quando le cose sono arrivate al punto che noi non abbiamo più bisogno di questa rottura e che il dei viene a cadere, questo lo decide tutto da sé il Dio che giudica e perdona.
    Sulla strada mostrata da Cullmann noi dovremmo per prima cosa cercare di trovare l’unità attraverso diversità, cioè a dire: assumere nella divisione ciò che è fecondo, disintossicare la divisione stessa e ricevere proprio dalla diversità quanto è positivo; naturalmente nella speranza che alla fine la rottura smetta radicalmente di essere rottura e sia invece solo una “polarità” senza contraddizioneMa quando ci si protende troppo direttamente verso quest’ultimo stadio con la fretta superficiale di voler fare tutto da sé, si approfondisce la separazione invece di sanarla. Mi permetta di dire il mio pensiero con un esempio molto pratico. Non è stato forse in tanti modi un bene per la Chiesa cattolica in Germania e altrove il fatto che sia esistito accanto alla Chiesa il protestantesimo con la sua liberalità e la sua devozione religiosa, con le sue lacerazioni e la sua elevata pretesa spirituale? Certo, ai tempi delle lotte per la fede, la spaccatura è stata quasi soltanto contrapposizione; ma poi sono cresciuti sempre di più elementi positivi per la fede in entrambe le parti, un positivo che ci permette di comprendere qualcosa del misterioso “è necessario” di San Paolo. Giacché, viceversa, ci si potrebbe immaginare un mondo interamente protestante? O non è forse vero che il protestantesimo in tutte le sue affermazioni, e proprio come protesta, è del tutto riferito al cattolicesimo, al punto che senza di questo sarebbe quasi impensabile?

    A tanto vale davvero e in tutta serietà il detto di Melantone “ubi et quandum visum est Deo”. In ogni caso dovrebbe risultare chiaro che l’unità non la facciamo noi (come non facciamo noi la giustizia con le nostre opere) e che inoltre non possiamo tuttavia rimanere con le mani in mano. Ciò che qui importa è di accogliere sempre daccapo l’altro in quanto altro nel rispetto della sua alterità. Possiamo essere uniti anche come divisi.
    Questa specie di unità, per la cui crescita continua possiamo e dobbiamo impegnarci, senza collocarla sotto la pressione troppo umana del successo e della “meta finale”, conosce molte e varie strade ed esige molti e vari impegni. Anzitutto è importante trovare, conoscere e riconoscere le unità che già ci sono e che non sono piccola cosa. Il fatto che leggiamo insieme la Bibbia come parola di Dio; che ci è comune la professione di fede, formatasi negli antichi concilii in base alla lettura della Bibbia, in Dio uno e trino, in Gesù Cristo vero Dio e uomo, del battesimo e della remissione dei peccati, e che ci è quindi comune l’immagine fondamentale di Dio e dell’uomo: tutto ciò deve essere sempre nuovamente attualizzato, pubblicamente testimoniato ed approfondito nella pratica. Ma comune a noi è pure la forma della preghiera cristiana ed unico tra noi pure l’essenziale comandamento etico del decalogo, interpretato nella luce del Nuovo Testamento. All’unità di fondo della confessione di fede dovrebbe corrispondere una unità di fondo operativa. Si tratta dunque di rendere effettiva l’unità che già sussiste, di concretizzarla e di ampliarla.

    All’”unità attraverso la diversità” potrebbero e dovrebbero aggiungersi certamente azioni di carattere simbolico, per tenerla costantemente presente nella coscienza delle comunità. Il suggerimento di O.Cullmann quanto alle collette ecumeniche meriterebbe di essere richiamato alla memoria. L’uso del pane dell’eulogia presente nella Chiesa d’oriente potrebbe essere utile anche per l’occidente. Dove la comunità eucaristica non è possibile, questo pane è un modo reale e corporeo di essere accanto nell’alterità e di “comunicare”; di portare la spina dell’alterità e al tempo stesso cambiare la divisione in una preghiera reciproca.

    Immaginiamo che i concetti appena accennati non piaceranno a molti. Credo che una considerazione dovrebbe in ogni caso essere evitata: che tutte queste non siano che delle idee stagnanti e rassegnate, o addirittura un rifiuto dell’ecumenismo. E’ molto semplice il tentativo di lasciare a Dio quello che è affare unicamente suo, e di esplorare poi, in tutta serietà, che cosa è nostro compito. A questa sfera dei nostri compiti appartiene agire e soffrire, attività e pazienza. Se si cancella una delle due cose, si guasta l’insieme. Se noi ci impegniamo su ciò che spetta a noi, allora l’ecumenismo sarà anche in futuro, e più ancora di prima, un compito altamente vivace e ardimentoso.
    (da Progressi dell’ecumenismo. Una lettera alla “Theologische Quartalschrift di Tubinga, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.131-137)




      continua..................
     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 10:09
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    Mi sia concessa soltanto una piccola annotazione: si dice che ora, dopo il chiarimento relativo alla dottrina della giustificazione, l'elaborazione delle questioni ecclesiologiche e delle questioni relative al ministero sia l'ostacolo principale che rimane da superare. Ciò in definitiva è vero, ma devo anche dire che non amo questa terminologia e da un certo punto di vista questa delimitazione del problema, poiché sembra che ora dovremmo dibattere delle istituzioni invece che della Parola di Dio, come se dovessimo porre al centro le nostre istituzioni e fare per esse una guerra. Penso che in questo modo il problema ecclesiologico così come quello del "ministerium" non vengano affrontati correttamente. 

    La questione vera è la presenza della Parola nel mondo. La Chiesa primitiva nel II secolo ha preso una triplice decisione: innanzitutto di stabilire il canone, sottolineando in tal modo la sovranità della Parola e spiegando che non solo il Vecchio Testamento è "hài graphài" [le Scritture], ma che il Nuovo Testamento costituisce con esso un'unica Scrittura e in tal modo è per noi il nostro vero sovrano.

    Ma al contempo la Chiesa ha formulato la successione apostolica, il ministero episcopale, nella consapevolezza che la Parola e il testimone vanno insieme, che cioè la Parola è viva e presente solo grazie al testimone e, per così dire, da esso riceve la sua interpretazione, e che reciprocamente il testimone è tale solo se testimonia la Parola.

    E infine, la Chiesa ha aggiunto come terza cosa la "regula fidei" [la regola della fede] quale chiave interpretativa. Credo che questa vicendevole compenetrazione costituisca oggetto di dissenso fra noi, sebbene siamo uniti su cose fondamentali.

    Quindi, quando parliamo di ecclesiologia e di ministero, dovremmo parlare preferibilmente di questo intreccio di Parola, testimone e regola di fede, e considerarlo come questione ecclesiologica e quindi insieme come questione della Parola di Dio, della sua sovranità e della sua umiltà, in quanto il Signore affida la sua Parola ai testimoni e ne concede l'interpretazione, che però deve commisurarsi sempre alla "regula fidei" e alla serietà della Parola. Scusatemi se ho espresso qui un'opinione personale, ma mi sembrava giusto farlo.
    (dal discorso tenuto da Benedetto XVI ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, nell’arcivescovado di Colonia, il 19 agosto 2005, durante la Giornata Mondiale della Gioventù)

    (Vorrei) circoscrivere, partendo da lati differenti, quell’unico punto che... si è mostrato come il centro del problema: la questione dell’Autorità, che è identica a quella della tradizione e non può essere disgiunta da quella circa il rapporto tra Chiesa e Chiesa particolare.

    Tra i cristiani è indiscusso che la Sacra Scrittura è la misura fondamentale della fede cristiana, l’autorità centrale attraverso cui Cristo stesso esercita la Sua autorità sulla Chiesa e nella Chiesa. Perciò ogni insegnamento nella Chiesa è ultimamente interpretazione della S.Scrittura, così come questa da parte sua è solo interpretazione della Parola vivente che è Gesù Cristo. Orbene, la cosa ultima non è allora lo scritto, ma la vita, che il Signore ha trasmesso alla Sua Chiesa, e in cui la Scrittura ha vita ed è vita. Il Vaticano II ha formulato questa connessione con parole molto belle: «E’ la stessa tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei Libri sacri, e in essa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre Lettere; così Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del Suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti nella verità tutta intera e in essi fa risiedere la Parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16)» (Dei Verbum II,8). La precedenza della Scrittura come testimonianza e la precedenza della Chiesa come spazio vitale di questa testimonianza stanno perciò in un indissolubile rapporto scambievole, nel quale l’una non sarebbe pensabile senza l’altra. Questa precedenza relativa della Chiesa nei confronti della Scrittura presuppone certamente allo stesso tempo l’esistenza della Chiesa universale come una realtà concreta e capace di agire, poiché solo la Chiesa nel suo insieme può essere in simile maniera spazio vitale della S. Scrittura. Così il problema della determinazione del rapporto tra Chiesa singola e Chiesa universale entra chiaramente a far parte delle questioni fondamentali.

    Al contrario, proprio dal punto di vista della fede testimoniata nel Nuovo Testamento e della vita della Chiesa antica, si deve tener per fermo che non ci può essere una verificabilità ulteriore di quanto la Chiesa universale insegna come Chiesa universale; chi potrebbe mai arrogarsi il potere di intraprenderla? Si può approfondire la parola della Chiesa universale; la si può purificare nella sua forma linguistica; la si può sviluppare ulteriormente in avanti guardando verso il centro della fede e tenendo conto di nuove prospettive che si mostrano all’orizzonte, ma non la si può «discutere» nel senso che questo termine comunemente esprime.

    La Chiesa antica, infatti, non ha certo riconosciuto l’esercizio del Primato nel senso della teologia romano-cattolica del secondo millennio, conosceva però certamente forme viventi di unità ecclesiale universale che non avevano solo carattere di manifestazione, ma erano costitutive per l’esser chiesa delle Chiese singole. In tal senso ci fu certamente la precedenza della Chiesa universale nei confronti della Chiesa particolare.
    Ricordo qui solo tre fenomeni noti: le lettere di comunione, che vincolavano le Chiese tra di loro; la rappresentanza della Collegialità nella consacrazione episcopale, che era sempre collegata col reciproco controllo e riconoscimento del Credo, della Tradizione viva il cui carattere ecclesiale universale veniva chiaramente in luce nella rappresentanza (Darstellung) dei titolari delle grandi sedi: qui non bastava più il riconoscimento dei vicini, qui si doveva dimostrare la comunione delle grandi sedi tra loro, che poi a sua volta garantiva il carattere ecclesiale universale delle sedi singole. Il fatto che Roma come sede di Pietro fosse in modo particolare espressione dell’effettivo ancoramento nella Chiesa universale, non ha qui bisogno di alcuna particolare menzione. In fin dei conti rientra qui ciò che oggi si chiama volentieri la conciliarità della Chiesa, la cui presentazione non di rado appare romanticamente abbreviata. E’ noto infatti che questa conciliarità non ha mai funzionato semplicemente da sé, in virtù della pura e autonoma armonia della molteplicità, come si potrebbe supporre da molte esposizioni correnti. Di fatto, per la convocazione dei Concili c’era bisogno dell’autorità dell’imperatore. Se si toglie la figura dell’imperatore, non si parla più della realtà conciliare della Chiesa antica, ma di una finzione teologica. Un’osservazione più precisa mostra che anche l’assenso di Roma, la sede in cui erano morti Pietro e Paolo, era di importanza essenziale per la piena validità di un concilio, anche se questo fattore si pose in luce meno della posizione dell’imperatore. In ogni caso Vincent Twomey ha mostrato, in una ricerca accuratamente documentata, che già nella polemica attorno a Nicea si formano due opzioni contrapposte: l’eusebiana e quella di Atanasio, cioè la concezione di Chiesa universale nei termini di Chiesa imperiale, e una concezione propriamente teologica in cui non l’imperatore, ma Roma gioca il ruolo decisivo. Ma comunque stiano le cose, la Chiesa regno è sparita, e con essa l’imperatore (Dio sia lodato, possiamo dire). Perciò è inevitabile la domanda su quale entità propriamente teologica può sostituire e assumere la funzione rivestita dall’imperatore, se si vuol parlare sensatamente e concretamente di conciliarità della Chiesa.

    Jean Meyendorff ha recentemente affrontato questo insieme di questioni con un realismo e una franchezza che devono essere considerati esemplari per una ricerca proiettata in avanti. Egli mostra come la rinuncia ad organi di unità teologicamente fondati dopo la caduta dell’antica Chiesa imperiale di fatto e con una stringente logica interiore condusse ovunque a Chiese-stato, che non corrispondono affatto al romanticismo della chiesa locale o della comunità con cui si tenta di legittimarle teoricamente. Esse portano con sé piuttosto una interiore particolarizzazione della realtà cristiana e della chiesa che contraddice all’essenza di ciò che dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa delle origini è inteso con «Chiesa» (Meyendorff, J., p. 311: «Come si vede, il nazionalismo dell’epoca moderna ha mutato la forma del legittimo regionalismo ecclesiale e ne ha fatto una copertura del separatismo etnico.»). Infatti con la scomparsa della Chiesa universale come realtà che forgia concretamente la chiesa parziale e con il legame ad una realtà politica o etnica come cornice della Chiesa, cambia la costituzione stessa della Chiesa, cambia il valore del ministero episcopale e cambia così la struttura della Chiesa. Non cade via solo una «manifestazione» esteriore, ma una forza animante dall’interno. In questo contesto Meyendorff si pone poi la domanda se in effetti non si debba dare più spazio all’idea di sviluppo della Chiesa e poi dall’idea di sviluppo avvicinarsi al contenuto propriamente teologico del Primato, cui rinvia la legge costante e negativa delle particolarità, subentrata dopo la frantumazione dell’antico Impero, in ogni luogo dove mancava la connessione con la funzione unificante del ministero di Pietro.
    Simili riflessioni non devono affatto condurre ad unilaterali conferme del «Romano». Esse rinviano al principio di un ministero dell’unità, ma provocano anche un’autocritica della teologia romano-cattolica, in cui gli sviluppi sbagliati della teologia e prassi del Primato, che indiscutibilmente ci sono stati, vengono messi in luce in maniera così consapevole e franca, allo stesso modo in cui Meyendorff ha presentato gli sviluppi errati di una teologia e prassi che mirano semplicemente alla Chiesa locale. In questo modo potrebbe davvero evidenziarsi e divenire accettabile il nucleo teologico. Il principio di un ministero petrino della Chiesa universale non sopporta a mio avviso alcun indebolimento nel senso di venire sminuito a semplice manifestazione, eliminando così teologicamente la realtà della Chiesa universaleI modi di realizzazione pratica del ministero sono invece mutabili e devono sempre di nuovo essere verificati in base al principio.

    Nella questione circa la Chiesa universale e il Primato come suo organo reale non si tratta di un particolare problema romano, cui si può attribuire maggiore o minore significato. In nuce si tratta invece della questione della presenza autorizzata e comunionale della Parola di Dio nella Chiesa, che in base a quanto detto include la questione circa la Chiesa universale e la sua autorità, o circa gli organi di questa autorità. Ancora in altri termini, si tratta della questione di cosa propriamente si debba intendere col termine «Tradizione».

    Molto rozzamente si potrebbe si potrebbe forse brevemente dire: nella Chiesa cattolica col principio «Tradizione» non si intende esclusivamente e neppure principalmente un patrimonio di dottrine o testi giuntici dall’antichità, ma una precisa determinazione della relazione tra la parola viva della Chiesa e la parola, canonica, della Bibbia. «Tradizione» significa qui soprattutto che la Chiesa vivente nella struttura della successione apostolica, col ministero petrino come centro, è la dimora in cui la Bibbia viene vissuta e interpretata con autorità. Questa interpretazione costituisce un continuum storico, che pone termini di confronto non più spostabili, ma non diventa mai un passato definitivamente chiuso. Conclusa è la «Rivelazione», ma non è conclusa l’interpretazione vincolante. Contro un’interpretazione ultimamente vincolante non c’è più alcuna possibilità di appello. La tradizione è allora qui essenzialmente caratterizzata dall’elemento «voce vivente», cioè dalla normativa della dottrina della Chiesa universale.

    Simili ragionamenti a cui ho preso parte anch’io, sono nel frattempo cresciuti a formare l’opinione secondo cui i Concili e le decisioni dogmatiche del secondo millennio non sono da considerare ecumenici, bensì sviluppi particolari della Chiesa latina, suoi beni propri nel senso di «our two traditions». In questo modo però l’argomento iniziale è trasformato in una tesi del tutto nuova e dalle ampie portate. Infatti una simile concezione significa che di fatto l’esistenza della Chiesa universale viene negata per il secondo millennio, e la Tradizione come grandezza viva, portatrice di verità, viene congelata alla svolta del secondo millennio. Così però resta colpito nel suo nucleo il concetto di Chiesa e quello di Tradizione, giacché in ultima analisi il criterio dell’antichità soppianta la potestà apostolica della Chiesa, la quale allora non ha più voce alcuna nel presente. Del resto, di fronte ad una simile concezione, ci sarebbe anche da chiedersi con quale diritto in una Chiesa particolare, quale è allora la «latina», le coscienze possono venire vincolate da simili affermazioni. Ciò che si presentò sulla scena come verità, sarebbe allora da qualificare come semplice usanza. La pretesa di verità sinora elevata dovrebbe adesso venir qualificata come abuso. ..

    L’autentico nucleo di ciò che là s’intende io lo vedo nel fatto che l’unità rappresenta un principio ermeneutico fondamentale di ogni teologia, e che dobbiamo perciò imparare a leggere i documenti della Tradizione in un’ermeneutica dell’unità, la quale permette di vedere realtà nuove e può aprire porte là dove prima si erano visti solo chiavistelli. Una tale ermeneutica dell’unità consisterà nel leggere le singole affermazioni nel contesto dell’intera Tradizione e di una approfondita comprensione della Bibbia.

    Le grandi Confessioni della Riforma come anche la comunità anglicana hanno assunto i Simboli della Chiesa antica come parte della loro propria Confessione, e così hanno tenuto fuori dalle dispute la fede trinitaria e cristologia dei Concili della Chiesa antica: accanto alla Sacra Scrittura e insieme con essa è questo il nucleo vero e proprio dell’unità che ci unisce e che dà speranza in una piena riunificazione. Perciò per amore dell’unità ci si deve opporre con tutte le forze a tutti i tentativi di demolire questo centro ecclesiale, e la comune lettura della Bibbia da esso sostenuta, come non più al passo coi tempi. Un biblicismo ora davvero nudo, quale quello sostenuto oggi da molti, non ci ricondurrebbe insieme, ma dissolverebbe ben presto la Bibbia stessa, la quale senza questo centro non è più libro e non è più autorità.
    Mentre dunque nei diversi «Credo» l’unità rimase, la frattura fu totale nella forma della liturgia eucaristica. In effetti però era la liturgia eucaristica della Chiesa antica (insieme con la liturgia battesimale), costruita e compresa in modo strutturalmente unitario, nonostante tutte le diversità testuali e rituali, lo spazio vitale in cui il Dogma della Chiesa antica era radicato. L’autorità di Tradizione di questo typus eucaristico non è inferiore all’autorità di Tradizione dei Concili e delle loro Confessioni, anche se essa si è espressa in modo diverso, non per mezzo di decreti conciliari, ma attraverso una ininterrotta celebrazione vitale. Solo artificiosamente le due autorità possono essere divise l’una dall’altra; ma è l’unica forma di fondo in cui si esprimeva la Chiesa antica.

    Se al contrario venisse riconosciuta la forma fondamentale della Liturgia della Chiesa antica come bene della Tradizione di uguale solidità dei Simboli conciliari, allora sarebbe data un’ermeneutica dell’unità che renderebbe superflue le dispute. Non è la Liturgia della Chiesa come originaria forma di comprensione dell’eredità biblica a doversi giustificare di fronte alle ricostruzioni storiche; essa è piuttosto la misura proveniente dalla vita che dà un orientamento alla ricerca delle origini. …”.

    Per il fatto che la maggior parte delle comunità, che una volta vivevano come Chiesa nazionale o Chiesa di stato, hanno oltrepassato i confini delle nazioni e dei continenti, si è destata una nuova sensibilità per ciò che significa «cattolicità» nel senso più originario del termine. Così pure l’attuazione di una vita comunitaria ecclesiale ha relativizzato concezioni del principio scritturistico e ha fatto rinascere la sensibilità per l’importanza della Tradizione e della potestà d’insegnamento fondata nel sacramento. In entrambi i casi l’incontro con la Chiesa Ortodossa ha trasmesso importanti impulsi. La Chiesa dell’Oriente ha potuto trasmettere alle Comunità della Riforma una figura di cattolicità non sovraccarica del peso della storia occidentale; essa ha potuto viceversa, partendo dalla comune struttura della Chiesa Cattolica d’Occidente, scoprire alcune estremizzazioni e unilateralità e aiutare a distinguere meglio ciò che è propriamente caratterizzante da ciò che è invece particolare.

    In realtà c’è più unità nella ricerca appassionata della verità da parte delle comunità separate le quali hanno una volontà decisa di non imporre l’una all’altra nulla che non provenga dal Signore, ma anche di non lasciar cadere nulla di ciò che da Lui ci è stato affidato. Proprio così noi viviamo in tensione gli uni verso gli altri, perché viviamo in tensione verso Cristo. Forse la divisione istituzionale partecipa anche del senso storico-salvifico che Paolo attribuisce alla divisione fra Israele e i Gentili: «rendersi gelosi» reciprocamente per la maggior vicinanza al Signore (Rm 11,11).

    Che il Cattolicesimo è divenuto un partito all’interno dell’Anglicanesimo nessuno realisticamente può metterlo in discussione... Ma rimane vero che Gesù non volle fondare un partito cattolico all’interno di una società di dibattiti cosmopolita, bensì una Chiesa cattolica, alla quale Egli ha promesso la pienezza della verità... Una corporazione che riduce i suoi cattolici ad un partito all’interno di un parlamento religioso difficilmente può pretendere di essere denominata un ramo della Chiesa cattolica. Essa è una religione nazionale, governata e strutturata secondo i principi dell’idea di tolleranza, in cui l’Autorità della Rivelazione è subordinata alla democrazia e all’opinione privata.

    Nel mio libro Il nuovo popolo di Dio ho potuto, sulla base di dettagliate analisi filologiche, evidenziare la profonda differenza semantica e oggettiva che nel linguaggio e nel pensiero della Chiesa antica separa l’uno dall’altro i cosiddetti Communio e Concilium. Mentre Communio può figurare addirittura come equivalente per Chiesa, accenna alla sua essenza, al suo centro vitale e anche alla sua forma costituzionale, la stessa cosa non si può affatto dire per il concetto di Concilio. Concilio, al contrario di Comunione, di unificazione nel e col Corpo di Cristo, non è l’atto vitale della Chiesa stessa, bensì un determinato e importante evento operativo in essa. Il Concilio ha la sua importanza grande ma limitata e mai può esprimere la vita della Chiesa, ma la Chiesa non serve il Concilio. Nella visuale dei Padri è completamente insensato e impensabile spiegare la Chiesa intera come una specie di Concilio permanente. Il Concilio discute e prende decisioni, ma poi finisce. La Chiesa però non esiste per deliberare sul Vangelo, ma per viverlo. Perciò il Concilio presuppone la costituzione della Chiesa, ma non è esso stesso la costituzione.

    Ma è falsa anche l’ultima concezione di Concilio presupposta dallo slogan della «conciliarità». Qui si vuole sostenere in effetti che il Concilio, l’accordo di tutte le chiese locali, è allo stesso tempo anche l’unica forma di espressione della Chiesa universale come Chiesa universale, il suo unico organo costituzionale. Già... ho richiamato l’attenzione sul fatto che non si vede come con queste premesse possa svolgersi un Concilio universale. Le difficoltà incontrate ai nostri giorni dalla Chiesa d’Oriente sulla via ad un Sinodo panortodosso rappresenta una verifica molto concreta di questo problema. Di fatto la Chiesa dei Padri non si è mai considerata come un puro intreccio di chiese particolari con gli stessi diritti. A grandi linee si possono distinguere in essa tre concezioni fondamentali della costituzione della Chiesa universale, che certo solo lentamente si sono formate nella loro forma specifica e poi distinte l’una dall’altra. L’Oriente conosceva due modelli fondamentali: uno era la Pentarchia, nella quale si ampliarono nel quarto secolo i tre Primati del Concilio niceno e nella quale un fondamento petrino-teologico si univa a finalità politico-pratiche: Roma e Antiochia sono sedi di Pietro, Alessandria con la figura di San Marco reclama parimenti per sé una derivazione petrina. Se Gerusalemme originariamente, per l’idea della translatiodella sua missione a Roma, era stata eliminata dal numero delle sedi normative, ora rientra nel loro novero come luogo di origine della fede. Allo stesso tempo la nuova translatio imperii da Roma a Costantinopoli rende possibile alla città imperiale sul Bosforo di entrare nella schiera delle sedi primaziali. Il riferimento ad Andrea diventa allora una specie di variante teologica dell’idea di traslazione e nel pensiero in esso insito della fraterna uguaglianza delle sue città. Comunque stiano le cose, l’antica Chiesa episcopale, sullo sfondo dell’idea petrina e delle sue variazioni storiche, si è concepita come pentarchia, non come generale conciliarità o come «patto d’amore» (come «sobornost»). Il modello misto teologico-politico della pentarchia, che non fu considerato affatto come frutto di semplici casualità storiche o di opportunità politiche, fu poi sostituito sempre più dal modello della Chiesa imperiale, nel quale all’imperatore spettano le funzioni del ministero petrino, egli diviene l’espressione completa della Chiesa universale. Adeguandosi a questa evoluzione nella Chiesa-stato bizantina, la pentarchia viene visibilmente rimodellata nella monarchia del Patriarca ecumenico. Se possiamo considerare questa connessione fra la monarchia dell’imperatore e la monarchia del Patriarca ecumenico come secondo modello, allora l’idea della successione romana di Pietro, niente affatto limitata alla città di Roma e al suo immediato ambito d’influsso, deve infine venir considerata come il terzo modello. Per questo modello l’unico successore di Pietro, il Vescovo di Roma, è il vero organo della Chiesa universale biblicamente fondato, senza che in un primo momento la Pentarchia e la posizione dell’imperatore fossero considerate del tutto inconciliabili con questo modello. La mia riflessione conclusiva è che il modello di «conciliarità» come forma di rappresentazione dell’unità della Chiesa universale dalle e nelle chiese particolari è inadatto e dovrebbe essere abbandonato.

    Chi legge attentamente i testi di consenso ecumenici, che diventano sempre più numerosi, ne ricava con sempre maggiore chiarezza l’impressione che il classico Sola Scriptura non venga quasi più impiegato: al suo posto, invece, sembra formarsi un nuovo principio formale, che io a mo’ di tentativo sono portato a descrivere con lo slogan «traditionibus».

    Un paio di esempi possono chiarire questa circostanza. In Africa, così ci dice il BEM, ci sono comunità che battezzano solo con l’imposizione delle mani, senza acqua. La conseguenza? Si deve studiare il rapporto di questa prassi con il Battesimo con l’acqua. In alcune «tradizioni» è costume dare ai bambini solo una benedizione per unirli alla Chiesa. Solo allorquando essi stessi possono compiere la confessione di fede vengono anche battezzati. Altre comunità battezzano i bambini, i quali più tardi – quando sono maturi per farlo – aggiungono la propria confessione di fede. Cosa bisogna fare? Guardare ad entrambe le «tradizioni» come in fondo omogenee. Alcune chiese hanno cominciato con l’ordinazione delle donne, le altre la respingono. Cosa ne consegue? La benedizione, che manifestamente è presente nell’ordinazione delle donne, la legittima senz’altro, ma non tutti devono riceverla... Questi esempi dovrebbero bastare per chiarire l’essenza del nuovo principio formale: le «tradizioni» sono da accettare come tali in un primo momento; esse sono la realtà con cui l’Ecumenismo ha a che fare. Compito del dialogo ecumenico è poi quello di cercare in giusta maniera i necessari compromessi tra le tradizioni, senza distruggere l’identità di nessuno, ma rendendo possibile a tutti il reciproco riconoscimento. Questo non è più il principio scritturistico di Lutero o di Calvino; su ciò non è necessario spendere alcuna ulteriore parola. Ma è anche qualcosa di completamente diverso dal principio cattolico (o ortodosso) di «Tradizione». In questo, infatti, si trattava di «tradizioni apostoliche» «di diritto divino», cioè di tradizioni che riposavano sulla Rivelazione, senza come tali essere chiaramente contenute per iscritto nella Scrittura. Pure e semplici «tradizioni umane», la cui esistenza nessuno contesta, potevano esigere rispetto, ma non venire portate a livello di Rivelazione. Ora però nella crisi dell’esegesi l’idea di una vera e propria derivazione da Gesù (istituzione) e quindi di una reale qualità di rivelazione sembra essere divenuta così insicura che quasi non vi si ricorre più. Quel che è sicuro sono appunto le «tradizioni», e non ha più molta rilevanza se esse sono sorte nel primo, nel decimo, nel sedicesimo o nel ventesimo secolo e in quale maniera sono sorte.

    Se infatti ci si accordasse completamente nel considerare tutte le Confessioni semplicemente come tradizioni, allora ci si sarebbe completamente allontanati dalla questione circa la verità, e la teologia sarebbe oramai solo una forma di diplomazia, di politica. In questo caso i nostri Padri, nella polemica, erano in realtà molto più vicini: pur in mezzo ad ogni conflittualità essi sapevano tuttavia che potevano essere servitori solo di una Verità che deve essere riconosciuta così grande e così pura, quale da Dio è stata pensata per noi.
    (da Problemi e speranze del dialogo anglicano-cattolico, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.71-95)

    Nel secolo XIX si era a poco a poco costituito il movimento ecumenico, inizialmente a partire dall'esperienza missionaria delle Chiese protestanti, le quali, incontrando il mondo pagano, avevano trovato un ostacolo fondamentale alla loro testimonianza nella divisione dei cristiani in numerose confessioni e avevano così riconosciuto l'unità della Chiesa come condizione essenziale della missione. In questo senso l'ecumenismo fu all'inizio un fenomeno del protestantesimo, scaturito dall'uscita dal mondo tradizionalmente cristiano.
    (da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.58)



    1. Le delucidazioni che seguono sottolineano il consenso raggiunto nella Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione (DG) al riguardo di verità fondamentali della giustificazione; risulta pertanto chiaro che le reciproche condanne dei tempi passati non si applicano alla dottrina cattolica e alla dottrina luterana della giustificazione così come tali dottrine sono presentate nella Dichiarazione congiunta.

    2. “Insieme confessiamo che soltanto per grazia e nella fede nell'opera salvifica di Cristo, e non in base ai nostri meriti, noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere le buone opere” (DG 15).

    A) “Insieme confessiamo che Dio perdona per grazia il peccato dell’uomo e che, nel contempo, egli lo libera dal potere assoggettante del peccato [...]” (DG 22). La giustificazione è perdono dei peccati e azione che rende giusti, attraverso la quale Dio dona all’uomo “la vita nuova in Cristo” (DG 22). “Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio” (Rm 5,1). Siamo “chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1 Gv 3,1). Noi siamo in verità ed interiormente rinnovati dall’azione dello Spirito Santo, restando sempre dipendenti dalla sua opera in noi. “Quindi se uno è in Cristo, è una creazione nuova ; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). In questo senso i giustificati non restano peccatori.
    Se però diciamo che siamo senza peccato non siamo nel giusto (cfr. 1 Gv 1, 8-10, cfr. DG 28). “Tutti quanti manchiamo in molte cose” (Gc 3,2). “Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo” (Sal 19,12). E quando preghiamo, possiamo soltanto dire, come l’esattore, “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13). Ciò è espresso in svariati modi nelle nostre liturgie. Insieme, noi ascoltiamo l’esortazione: “Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri” (Rm 6,12). Ciò ci ricorda il perdurante pericolo che proviene dal potere del peccato e dalla sua azione nei cristiani. In questa misura, luterani e cattolici possono insieme comprendere il cristiano come simul justus et peccator, malgrado i modi diversi che essi hanno di affrontare tale argomento, così come risulta in DG 29-30.

    B) Il concetto di “concupiscenza” è adoperato con significati diversi da parte cattolica e da parte luterana. Negli scritti confessionali luterani la concupiscenza è compresa nei termini del desiderio egoistico dell’essere umano che, alla luce della Legge spiritualmente intesa, è considerato come peccato. Secondo il modo di comprendere cattolico, la concupiscenza è una inclinazione che permane negli esseri umani perfino dopo il battesimo, la quale proviene dal peccato e spinge verso il peccato. Malgrado le differenze riscontrabili in questo contesto, si può riconoscere, da una prospettiva luterana, che il desiderio può diventare il varco attraverso il quale il peccato assale. Dato il potere del peccato, l’essere umano nella sua interezza ha la tendenza ad opporsi a Dio. Tale tendenza, secondo la concezione cattolica e luterana, “non corrisponde al disegno originario di Dio sull’umanità” (DG 30). Il peccato ha un carattere personale e, come tale, conduce alla separazione da Dio. Esso è desiderio egoistico dell'uomo vecchio e mancanza di fiducia e di amore nei confronti di Dio.
    La realtà di salvezza nel battesimo ed il pericolo che proviene dal potere del peccato possono essere espressi in maniera tale da enfatizzare, da una parte, il perdono dei peccati e il rinnovamento dell'umanità in Cristo per mezzo del battesimo; dall'altra, si può intendere che anche il giustificato “non è svincolato dal dominio che esercita su di lui il peccato e che lo stringe nelle sue spire (cfr. Rm 6, 12-14) né può esimersi dal combattimento di tutta una vita contro l'opposizione a Dio […]” (DG 28).

    C) La giustificazione avviene “soltanto per mezzo della grazia” (DG 15 e 16); soltanto per mezzo della fede, la persona è giustificata “indipendentemente dalle opere” (Rm 3,28, cfr. DG 25). “La grazia crea la fede non soltanto quando la fede nasce in una persona, ma per tutto il tempo che la fede dura” (Tommaso d'Aquino, S. Th. II/II 4, 4 ad 3). L'opera della grazia di Dio non esclude l'azione umana: Dio produce tutto, il volere e l'operare, pertanto noi siamo chiamati ad agire (cfr. Fil 2,12 ss). “Immediatamente quando lo Spirito Santo ha iniziato in noi la sua opera di rigenerazione e di rinnovamento, attraverso la Parola e i santi sacramenti, è certo che noi possiamo e dobbiamo collaborare per mezzo della potenza dello Spirito Santo (…)” (Formula di Concordia, FC SD II, 64 s; BSLK 897, 37 s).

    D) La grazia quale comunione del giustificato con Dio nella fede, nella speranza e nell'amore, proviene sempre dall'opera salvifica e creatrice di Dio (cfr. DG 27). Nondimeno il giustificato ha la responsabilità di non sprecare questa grazia e di vivere in essa. L'esortazione a compiere le buone opere è l'esortazione a mettere in pratica la fede (cfr. BSLK 197,45). Le buone opere dei giustificati “dovrebbero essere realizzate in modo da confermare la loro chiamata, cioè, affinché essi non disattendano la loro chiamata peccando di nuovo” (Apol. XX, 13, BSLK 316, 18-24; con riferimento a 2 Pt 1,10. Cfr. anche FC SD IV,33; BSLK 948, 9-23). In questo senso, luterani e cattolici possono comprendere insieme ciò che viene affermato circa la “preservazione della grazia” in DG 38 e 39. Certamente “la giustificazione non si fonda né si ottiene in tutto ciò che precede e segue nell'uomo il libero dono della fede” (DG 25).

    E) Per mezzo della giustificazione siamo incondizionatamente condotti alla comunione con Dio. Ciò comprende la promessa della vita eterna: «se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua resurrezione» (Rm 6,5, cfr. Gv 3,36, Rm 8,17). Nel giudizio finale, i giustificati saranno giudicati anche in base alle loro opere (cfr. Mt 16,27; 25,31-46; Rm 2,16; 14,12; 1 Cor 3,8; 2 Cor 5,10, ecc.). Noi stiamo di fronte ad un giudizio nel quale la benevola sentenza di Dio approverà ogni cosa nella nostra vita e nella nostra azione che corrisponde alla sua volontà. Nondimeno, ogni cosa nella nostra vita che è sbagliata sarà messa a nudo e non entrerà nella vita eterna. La Formula di Concordia afferma anche: «È volontà ed espresso comandamento di Dio che i credenti debbano compiere buone opere che lo Spirito Santo opera in loro, e Dio si compiace di esse per amore di Cristo e promette di ricompensarli gloriosamente in questa vita e nella vita futura» (FC SD IV,38). Ogni ricompensa è una ricompensa di grazia, della quale non possiamo in alcun modo vantarci.

    3. La dottrina della giustificazione è metro o termine di paragone per la fede cristiana. Nessun insegnamento può contraddire tale criterio. In questo senso, la dottrina della giustificazione è un «criterio irrinunciabile che orienta continuamente a Cristo tutta la dottrina e la prassi della Chiesa» (DG 18). In quanto tale, essa ha la sua verità e il suo significato specifico nel contesto d’insieme della fondamentale Confessione di fede trinitaria della Chiesa. Noi [luterani e cattolici] tendiamo «insieme alla meta di confessare in ogni cosa Cristo, il solo nel quale riporre ogni fiducia poiché egli è l’unico Mediatore (1 Tim 2,5s) attraverso il quale Dio nello Spirito Santo fa dono di sé ed effonde i suoi doni che tutto rinnovano” (DG 18).
    (Allegato alla Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione fra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale del 31 ottobre 1999. Questo testo è in allegato alla Dichiarazione che porta la firma del Pontificio Consiglio dell’Unità dei Cristiani, ma lo leggiamo per la sua rilevanza in merito al nostro tema)

    Entrambe le parti (N.d.C. quella cattolica e quella luterana nella Dichiarazione ufficiale comune sulla giustificazione, corredata da un Allegato che ne è parte integrale) hanno sottolineato il fatto che non si ha semplicemente un consenso sulla dottrina della giustificazione come tale, ma su verità fondamentali della dottrina della giustificazione. Quindi ci sono settori dove c’è realmente un’intesa, ma rimangono altri problemi che non sono ancora risolti... Non si tratta delle formule prese in se stesse, ma considerate nel loro contesto, come nel caso di quella simul iustus et peccator. Per Lutero, perseguitato dal timore della condanna eterna, era importante sapere che, anche se era un peccatore, era tuttavia amato da Dio e giustificato. Per lui c’è questa contemporaneità: di essere vero peccatore e di essere totalmente giustificato. E’ una espressione della sua esperienza personale, che poi è stata approfondita anche con riflessioni teologiche. Mentre per la Chiesa cattolica è importante sottolineare che non c’è un dualismo. Se uno non è giusto non è neanche giustificato. La giustificazione, cioè la grazia che ci viene data nel sacramento, rende il peccatore nuova creatura, come dice san Paolo. Ma rimane, come afferma il Concilio di Trento, la concupiscenza, cioè una tendenza al peccato, uno stimolo che porta al peccato, ma che, come tale, non è peccatoQueste sono controversie classiche. Il problema diventa più reale se prendiamo in considerazione la presenza della Chiesa nel processo della giustificazione, la necessità del sacramento della penitenza. Qui si rivelano le vere divergenze.

    In questo senso è importante notare che Dio agisce realmente nell’uomo. Lo trasforma, crea qualcosa di nuovo nell’uomo, non dà soltanto un giudizio quasi giuridico, esterno all’uomo. Ciò ha una portata molto più generale. C’è una trasformazione del cosmo e del mondo. Penso ad esempio all’Eucarestia. Noi cattolici diciamo che c’è una transustanziazione, che la materia diventa Cristo. Lutero parla invece di coesistenza: la materia rimane tale e coesiste con Cristo. Noi cattolici crediamo che la grazia è una vera trasformazione dell’uomo e una trasformazione iniziale del mondo e non è... soltanto una copertura aggiunta che non entra realmente nel vivo della realtà umana.

    E’ importante questa operazione della grazia. Noi siamo tutti contagiati un po’ dal deismo. Dio rimane un po’ fuori. Mentre la fede cattolica – questa grande fiducia, questa grande gioia che Dio, facendosi uomo, entrando nella carne, unendosi alla carne, continua a operare nel mondo trasformandolo – ha la potenza, la volontà, la radicalità dell’amore, per entrare nel nostro essere e trasformarlo.

    Nella Risposta della Chiesa cattolica dello scorso anno stava scritto: “Dovrebbe essere preoccupazione comune di luterani e cattolici trovare un linguaggio capace di rendere la dottrina della giustificazione più comprensibile anche agli uomini del nostro tempo”. Penso che la quasi assenza di questa dottrina è causata da un indebolimento del senso di Dio. Se Dio è preso sul serio, il peccato è una cosa seria. E così era per Lutero. Adesso Dio è abbastanza lontano, il senso di Dio è molto attenuato e perciò anche il senso della grazia è attenuato. Adesso dobbiamo trovare insieme in questo contesto attuale il modo di annunciare Dio, Cristo, di annunciare così la bellezza della grazia. Perché se non c’è senso di Dio, se non c’è senso del peccato, la grazia non dice niente. E mi sembra questo il nuovo compito ecumenico: che insieme possiamo capire e interpretare in un modo accessibile, che tocca il cuore dell’uomo di oggi, cosa vuol dire che il Signore ci ha redenti, ci ha dato la grazia.
    (da Il mistero e l’operazione della grazia, intervista di G.Cardinale al card.J.Ratzinger, in 30giorni, 6, giugno 1999, pagg.11-14)


       continua............

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 10:12
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    Essa, la scomunica, si è estinta con la sua morte, perché il giudizio dopo la morte è solo di Dio. Non c’è bisogno di togliere la scomunica di Lutero; da lungo tempo essa non esiste più.
    Del tutto diversa è la domanda se le dottrine proposte da Lutero possano dividere ancora oggi la Chiesa ed escludano così la comunione ecclesiale. Di tale domanda si occupa il dialogo ecumenico. La commissione mista istituita in occasione della visita del Papa in Germania intende precisamente studiare il problema delle esclusioni del secolo XVI e della loro oggettiva, futura validità o superamento. Giacché bisogna considerare che esistono anatemi non solo cattolici contro la dottrina di Lutero, ma che esistono riprovazioni molto esplicite del cattolicesimo da parte del riformatore e dei suoi compagni, riprovazioni che culminano nella frase di Lutero che noi siamo divisi per l’eternità. Non c’è proprio bisogno di rifarsi alle parole piene di rabbia pronunciate da Lutero nei riguardi del Concilio di Trento, dove la decisività del suo rifiuto della Chiesa cattolica è fin troppo chiara:”Bisognerebbe arrestare il Papa, i cardinali e tutta la plebaglia che lo idolatra e lo santifica, arrestarli come bestemmiatori, e strappar loro la lingua fin dal fondo della gola ed inchiodarli tutti in fila alla forca... Li si potrebbe così lasciar fare il concilio o quel che vogliono sulla forca, oppure all’inferno tra i diavoli”. Lutero dopo la rottura definitiva ha non solo respinto categoricamente il papato, ma ha reputato idolatrica la dottrina cattolica della Messa, perché vi vedeva una ricaduta nella Legge e quindi il rifiuto del Vangelo. Ricondurre tutte queste contrapposizioni semplicemente a malintesi è a mio vedere una pretesa illuministica, con la quale non si dà veramente la misura delle appassionate lotte di allora, né del peso di realtà presente nei loro discorsi. La vera questione può dunque unicamente consistere nel domandarci fino a che punto è oggi possibile superare le posizioni di allora e raggiungere una conoscenza che vada oltre quei tempi. In altre parole, l’unità postula passi nuovi; non si realizza mediante artifici interpretativi. Se a suo tempo si realizzò con esperienze religiose contrapposte, che non potevano trovare spazio entro lo spazio vitale della dottrina ecclesiastica tramandata, così anche oggi l’unità non si fa soltanto mediante discussioni di vario genere, ma con le forze dell’esperienza religiosa. L’indifferenza è un mezzo di unione solo apparente.

    E’ interessante vedere come (E.Herms) evidenzia come particolarmente utile proprio quel passo della lettera che Manns vorrebbe affibbiare a me e spogliare del suo rilievo ecumenico, cioè l’affermazione che la rottura invalsa con la Riforma non è da condurre semplicemente a malintesi tra le due parti, ma che va più a fondo nei suoi fattori decisivi.

    Quando alle celebrazioni del giubileo della pace di Augusta (1980) il card. Willebrands affermò che nelle divisioni del secolo XVI la radice era rimasta una sola, il card. Volk chiese con umorismo e serietà insieme: la realtà di cui qui si parla è una patata oppure (per esempio) un albero di mele? In altre parole: fuori della radice è solo erba da buttar via, oppure l’albero che ne è cresciuto è pure importante? Fino a che punto giunge la differenza?

    Ciò che veniva inteso nella formula, del resto non inventata dal card. Willebrands, non è mai stato messo in discussione da noi, cioè che con l’adesione alla fede trinitaria e cristologica dell’antica Chiesa è rimasto comune il centro contenutistico della fede.

    Dunque l’atto di fede a suo (N.d.C. di Lutero) vedere si era cambiato nel suo contrario, perché la fede è per lui la liberazione dalla legge, ma nella sua forma cattolica gli sembrava di nuovo una sottomissione alla legge. Egli credeva così di dover sostenere da parte sua, contro Roma e la tradizione cattolica, la stessa lotta combattuta da Paolo nella lettera ai Galati contro i giudaizzanti. L’identificazione tra le posizioni di combattimento della sua età e quelle di Paolo (e dunque una certa identificazione di se stesso e della sua missione con Paolo) appartiene agli elementi essenziali della sua strada. Oggi è ormai comune dire che non esiste più contrasto quanto alla dottrina della giustificazione. In realtà la forma con cui Lutero poneva allora la questione non è più possibile oggi: la coscienza del peccato e l’angoscia dell’inferno sussistono oggi nella stessa misura dello sconvolgimento davanti alla maestà di Dio e al grido che chiama la grazia, cioè non sussistono più o quasi. Anche la sua concezione della volontà schiava, che aveva allora provocato l’opposizione di Erasmo da Rotterdam, oggi risulta difficilmente concepibile. Viceversa già il decreto tridentino della giustificazione ha accentuato in modo così definitivo la preminenza della grazia che Harnack pensava che se questo testo fosse stato proposto all’inizio della Riforma, quest’ultima avrebbe avuto un altro corso. Ma dal momento che Lutero ha fissato per tutta la sua vita e con tale insistenza la differenza centrale nella dottrina della giustificazione, mi sembra giusto allora come oggi la congettura che è a partire di qui che si può quanto mai trovare la differenza fondamentale. Tutto questo io non lo posso esporre nello spazio di un’intervista.

    L’elemento fondamentale (così mi sembra) è la paura di Dio, dalla quale Lutero è stato colpito fino alla radice del suo essere nella tensione tra divina pretesa e coscienza del peccato; a tal punto che Dio gli appare “sub contrario”, cioè come l’opposto di Dio, come diavolo, inteso all’annientamento dell’uomo. La liberazione da quest’angoscia diventa il vero problema risolutivo. Viene trovata nel momento in cui la fede appare come la salvezza rispetto alla pretesa di una giustizia propria, come personale certezza di salvezza. Nel piccolo catechismo di Lutero risulta molto chiaro questo nuovo asse nel concetto di fede:”Io credo che Dio mi ha creato .... Io credo che Gesù Cristo .... è il mio Signore che mi ha salvato .... affinché io sia suo proprio .... e lo serva nell’eterna giustizia, innocenza e beatitudine”.
    Dunque la fede ora conferisce soprattutto la certezza della propria salvezza. La certezza personale della salvezza è il centro decisivo della fede. Senza di esso non ci sarebbe salvezza. In tal modo la coordinazione delle cosiddette tre virtù teologiche – fede, speranza, carità – nel cui nodo si può vedere una formula di esistenza cristiana, viene essenzialmente alterata: certezza di fede e certezza di speranza, finora diverse per essenza, ora si identificano. Per il cattolico la certezza di fede si riferisce a ciò che Dio ha fatto e che la Chiesa ci testimonia; la certezza di speranza si riferisce alla salvezza delle singole persone e dunque del proprio io. Per Lutero è invece precisamente quest’ultima cosa il vero punto sorgivo senza il quale tutto il resto non vale. Perciò la carità, che forma secondo il cattolico l’intima forma della fede, viene del tutto separata dal concetto di fede fino alla formulazione polemica del grande commento alla lettera ai Galati: maledicta caritas. Il sola fides, su cui Lutero ha tanto insistito, vuol dire esattamente e propriamente quest’esclusione della carità, o amore, dalla questione della salvezza. La carità appartiene al campo delle “opere” e diventa in tal modo “profana”.

    Il cristianesimo altro non è che un costante esercizio su questo punto dottrinale, cioè nel sentire che tu non hai nessun peccato, anche se hai peccato; che i tuoi peccati stanno invece appesi a Cristo” (Lutero, WA25,331,7). Questo “personalismo” e questa “dialettica” hanno cambiato, insieme con l’antropologia e, in misura più o meno grande, anche la restante struttura della dottrina. Giacché questo principio-base significa che la fede nella visuale di Lutero non è più, come per il cattolico, per la sua essenza un concredere assieme a tutta la Chiesa; in ogni caso la Chiesa, secondo Lutero, non può assumere ne’ una garanzia di certezza per la salvezza personale, ne’ può decidere quanto ai contenuti della fede in maniera vincolante e definitiva. Per il cattolico la Chiesa è invece contenuta nel principio più interno dello stesso atto di fede. Solo nel credere insieme con la Chiesa io ho parte a quella certezza su cui può reggersi la mia vita. Ne segue che per la visione cattolica Scrittura e Chiesa sono indivisibili, mentre in Lutero la Scrittura diventa una misura indipendente sulla stessa Chiesa e tradizione.

    L’unità della Scrittura, letta finora come unità di gradini storico-salvifici, come l’unità di analogia, viene ora dissolta per mezzo della dialettica Legge e Vangelo. Questa dialettica assume tutta la sua forza per il motivo che, dei due concetti complementari dell’evangelium – quello dei “vangeli” e quello delle lettere di Paolo – viene accettato solo quest’ultimo che viene poi radicalizzato nel senso della sola fides sopradescritta.

    Secondo la mia opinione il termine “base” non è applicabile, nel modo indicato alla Chiesa. Il discorso della “base” ha per sua premessa una concezione filosofica e sociale, secondo cui nella struttura della società si contrappongono un “sopra” e un “sotto”, dove il “sopra” definisce il potere stabilito e predatorio, mentre il “sotto”, la base, intende le forze realmente portanti. Solo l’imporsi di queste forze è in grado di realizzare un progresso. Quando si parla di ecumene di base, vibra in chi parla l’emozione di queste ideologie.

    Il Concilio Vaticano II sullo sviluppo della fede della Chiesa dice: “La comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse cresce con la riflessione dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19.51), con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali e con la predicazione di coloro i quali nella successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità”. Vengono dunque presentati due fattori principali del progresso nella Chiesa: riflessione e studio delle parole sacre; intelligenza in base all’esperienza spirituale; predicazione dottrinale dei vescovi. In tal senso non esiste nella tradizione cristiana una monopolizzazione del ministero episcopale, in cose della dottrina e della fede, come invece spesso si afferma. Se si parla di “intelligenza in base all’esperienza spirituale”, viene assunto tutto il contributo della vita cristiana e in tal modo anche riconosciuto il contributo particolare della “base”, cioè delle comunità di credenti come “luogo teologico”. D’altra parte è chiaro che i tre fattori si appartengono: un’esperienza senza riflessione è cieca; uno studio senza esperienza è vuoto; una predicazione episcopale senza un fondo di base delle due cose appena dette è inefficace. Tutt’e tre insieme formano la vita della Chiesa, dove col mutare dei tempi può prendere maggior rilievo ora il primo, ora l’altro elemento, ma nessuno dei tre può mancare del tutto.

    Anche e proprio il Vaticano II dice precisamente che l’unica Chiesa di Cristo “è realizzata” (subsistit) “nella Chiesa cattolica, che viene guidata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui”. Questo “è realizzata” sostituisce come è noto il precedente “è” (la sola Chiesa “è” quella cattolica), perché anche fuori della Chiesa cattolica ci sono molti veri cristiani e c’è molto di veramente cristiano. Ma quest’ultimo riconoscimento, che forma la base dell’ecumenismo cattolico, non significa che d’ora in poi il cattolico debba concepire la “vera Chiesa” ancora come un’utopia, che verrà alla fine dei tempi. La vera Chiesa è realtà, realtà esistente, anche adesso, senza che si debba negare ad altri di essere cristiani o contestare alle loro comunità un carattere ecclesiale.

    Gli scopi intermedi saranno diversi secondo i progressi fatti dai singoli dialoghi. La testimonianza della carità (opere caritative e sociali) dovrebbe essere compiuta per principio sempre insieme, o per lo meno dovremmo accordarci al riguardo a vicenda, quando organizzazioni distinte appaiono più efficaci per motivi tecnici. Allo stesso modo bisognerebbe sforzarsi di rendere insieme testimonianza quanto alle grandi questioni morali. E infine si dovrebbe realizzare una fondamentale testimonianza comune della fede davanti a un mondo sconvolto da dubbi e paure, e quanto più ampiamente tanto meglio. Ma se ciò può accadere solo in misura minima, bisognerebbe egualmente dire insieme quanto è possibile dire. Tutto ciò dovrebbe anche far sì che la comune esistenza cristiana venga internamente sempre più riconosciuta e amata nonostante le divisioni; che la divisione non sia più una ragione di opposizione, bensì una sfida in direzione di una comprensione e accettazione vicendevole dell’altro, il che significa di più che semplicemente tolleranza: significa un appartenersi nella fedeltà a Gesù Cristo. Forse in questo atteggiamento, che non perde di vista l’ultima meta, ma ogni volta mira alla meta prossima, si potrà realizzare una maturazione più profonda, in ordine all’intera unità, che non con una accelerazione unionistica che rimane superficiale e che agisce in modo fittizio.
    (da Lutero e l’unità delle chiese. Una intervista alla rivista Communio, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.99-118)

    A conti fatti io mi sono dichiarato fortemente contrario a forme di riunificazione superficiali e affrettate ed avevo argomentato dicendo che la divisione non può più essere un’opposizione, ma che deve diventare il postulato di una comprensione reciproca, che è di più che non solo tolleranza: un appartenersi nella fedeltà a Gesù Cristo. In questo contesto avevo parlato anche di una indistruttibile unità già data.

    Vorrei sollevare la questione se una personalizzazione così estrema dell’atto di fede corrisponda realmente alla totalità delle acquisizioni della Riforma; se questo totale rinvio della parola e del sacramento, e così anche della chiesa e del suo ministero spirituale, alla dimensione unicamente umana sia veramente la sua ultima parola. La teologia cattolica sa di trovarsi su solido terreno biblico quando non riferisce esclusivamente al singolo e alla sua coscienza l’azione illuminativa e salutare di Dio, ma sa che Dio agisce proprio anche mediante il Corpo di Cristo. Nulla ci autorizza, secondo la mia convinzione, a rinviare tutto il comunitario nell’unicamente umano e a limitare l’azione propria di Dio unicamente a un intimo contatto di Dio percepito dal singolo eletto. Anzi, del tutto al contrario: l’agire di Dio è sempre un agire divino umano, dunque un agire mediato da un altro uomo (il Dio-uomo Gesù Cristo e la sua corporeità). La sua azione consiste precisamente nel fatto che, nell’incontro con Gesù Cristo, vale il detto paolino “io, ma non più io” (Gal 2,20). L’“ubi et quando visum est Deo” non è più dopo Cristo un ignoto chisadove o chissacome, ma si chiama Cristo, e noi non possiamo voler essere più divini di Dio se egli ha legato in tal modo la sua disponibilità al Corpo di Gesù Cristo. Perciò questo ”ubi et quando visum est Deo” opera per prima cosa quanto segue: che l’uomo viene come estratto dal suo io limitato e riceve un nuovo io, una nuova soggettività, nella comunione con Colui che ha patito per noi e per noi è morto e risorto (mistero della sostituzione vicaria!). Così ogni fede cristiana è sapere unitamente con Lui. L’illuminazione consiste appunto nel fatto che io non sono più solo insieme con un Dio lontano, ma con-vivendo nel Corpo di Cristo attingo io stesso il fondo di ogni realtà, perché è diventato il mio proprio fondamento vitale. L’illuminazione è a un tempo salvezza; poiché mi trasforma, io vedo ora in modo nuovo. Ed essa mi trasforma con il restituirmi il mio io nel noi della comunione dei santi.

    La fede, ho detto, è essenzialmente una con-fede insieme con la chiesa come nuovo io più grande. L’“io” dell’“io credo” non è il mio io vecchio, in sé chiuso; è l’io dell’anima ecclesiastica, cioè l’io dell’uomo in cui si esprime tutta la comunità della Chiesa in cui lui vive, che in lui vive e di cui vive. Ma ciò significa anche che l’autorità nella Chiesa non è quella di un capo assoluto e neppure quella di un’autorità democratica. Per essa vale la stessa cosa che per ogni singolo: solo in quanto di fatto riflette la totalità della vera Chiesa, essa è autorità.

    (K.Rahner) pensa che “pur riconoscendo una differenza non irrilevante della vita comunitaria nelle comunità cattoliche ed evangeliche in rapporto alla guida delle chiese, tuttavia di fatto anche nelle chiese evangeliche è solitamente presente nelle comunità medie una disponibilità verso l’autorità della chiesa quale è in uso nelle chiese cattoliche”, e che conseguentemente “il pericolo di una ribellione “dal basso” contro le risoluzioni di unione dei capi non si dovrebbe sopravvalutare, se i portatori di questa autorità... si sforzano con sufficiente zelo di ottenere una comprensione per la scelta fatta da parte dei membri delle chiese”.
    Io trovo in ogni caso questa posizione inaccettabile. Contro di essa deve protestare non solo un teologo protestante; ma neppure un teologo cristiano la può approvare. Riflette il malinteso illuministico sulla gerarchia, che manipola in modo illecito le coscienze e minaccia chiaramente la tenuta interna della chiesa cattolica. Gerarchia – qui bisogna ricordarlo – non significa sacro dominio, ma sacra origine. Un servizio gerarchico è perciò la custodia di un’origine, che è sacra, non disposizione e decisione autonome. Il ministero ecclesiale e il magistero in genere nella chiesa non è quindi una “guida” nel senso del dominatore illuministico, che si sa in possesso della ragione migliore, la traduce in ordini e conta al riguardo sull’obbedienza dei sudditi, i quali devono accettare la sua ragione e le sue decisioni come una misura voluta per essi da Dio. Il ministero gerarchico non corrisponde neppure a un’istanza democratica, in cui i singoli delegano la loro volontà a dei rappresentanti e si dichiarano in tal modo d’accordo che la volontà della maggioranza deve essere legge. Questa delega e vincolo della volontà di maggioranza non è totalmente senza problemi neppure in campo politico, come si vede nel desiderio crescente di democrazia di base. Ad ogni modo esistono limiti nella delegabilità. Nessun deputato può votare contro la propria coscienza e su certi valori fondamentali della società non si può decidere per via di votazione. Ma nella chiesa, dove c’è davvero chiesa e non un corpo amministrativo, si tratta proprio di quei beni fondamentali che sono sottratti alle nostre votazioni, perché ne rappresentano la direttiva che non è da noi inventata. Per questo motivo l’idea di un concilio delle religioni è una proposta assurda. Chi potrebbe conferire agli eventuali delegati il potere di decidere sulle coscienze dei loro fedeli, o addirittura sulle coscienze di tutti gli uomini in qualche modo religiosi della terra?
    Che debbano insorgere simili incongruenze dipende dal fatto (lo dobbiamo riconoscere con vergogna) che anche da noi si è imposta largamente un’idea del potere e del dominio della Chiesa, costruita su modello illuministico, e un’idea del tutto corrispondente del concilio. Ma un concilio non è un parlamento che fa delle leggi alle quali poi le “comunità” si devono adeguare. E’ un luogo di testimonianza. Certo si fonda, per un certo aspetto, sull’idea di rappresentanza. Ma questa rappresentanza non si fonda su una delega delle volontà, bensì sul sacramento. Aver ricevuto il “sacramento dell’ordine” significa: rappresentare la fede di tutta la Chiesa, la “santa origine”; significa essere testimoni della fede della Chiesa. E’ una forma, fondata sulla fede, della vocazione alla “sostituzione vicaria” (Stellvertretung). Dato, però, che questa vicarietà è sacramentale, essa può rappresentare unicamente ciò che è Chiesa, e non operare ciò che essa dovrebbe diventare secondo l’opinione di questi o di quelli (o del rappresentante stesso). Un sacramento è per sua essenza eliminazione dell’arbitrio, del far da sé. Stare nel sacramento significa: vivere dalla radice dell’io nuovo, di cui si è detto poco sopra, e così parlare veramente nel senso della totalità (non nel senso di un’opinione media). Praticamente significa: le affermazioni di fede, che vengono “decise” al concilio, non sono “decisioni” nel senso corrente. L’accordo morale, che per esse è necessario, è per la Chiesa il segno che così si è affermata la fede comune della Chiesa. Non creano qualcosa, ma danno espressione a ciò che già è nella Chiesa del Signore, e lo rendono pubblicamente vincolante in quanto espressione dell’anima ecclesiastica.
    Esiste dunque la sola fede della Chiesa in cui e per cui i credenti si riconoscono come membri di essa. Ed esiste perciò un diritto e un dovere della Chiesa di dire chi è colui che non condivide questa fede e che dunque non appartiene ad essa. Ma tutto questo è qualcosa di molto diverso da una decisone di alcuni capi, che dichiarano qualcosa di vero e obbligano gli altri ad accettarlo o almeno a non opporvisi. Bisogna riconoscere che la questione del rapporto intrinseco tra io e noi, tra evidenza di coscienza ed evidenza comune dell’unica fede, che noi possiamo accogliere solamente nella comunione di fede, è lungi dall’essere risolta con chiarezza.

    Anche Caietano ha cercato di interpretare il problema dell’esistenza cristiana a partire da questo testo (di Gal2,20). Dall’indissolubile comunione del cristiano con Cristo, descritta in Gal 2,20, “segue che io posso dire in tutta verità: ”Io agisco meritando, ma non io bensì il Cristo opera il merito in me” …. In questo modo il merito della vita eterna viene attribuito non tanto alle nostre opere, quanto piuttosto alle opere di Cristo, del Capo, in noi e attraverso di noi”.

    Se le cose stanno così, se nella nebbia generale nessuno vede l’altro e nessuno vede la verità, allora si è in ogni caso verificata la “tolleranza teoretico-conoscitiva”, il fatto cioè che nessuno è in contraddizione con l’altro. Nell’oscurità delle “tendenze alla differenziazione” della nostra cultura resta ancora chiaramente visibile il comandamento di unità di Cristo, il quale comandamento diventa allora, in fondo, l’unico contenuto in qualche modo chiaro. Le “autorità” esistono per dar corso a quest’unità e, dal momento che evidentemente nessuno può giudicare il proprio pensiero, tanto meno quello altrui, non dovrebbe essere proprio difficile un’obbedienza di fronte a questo comandamento.
    Ma quale unità è allora un’unità come questa? Un’unità formale senza contenuti chiari non è in fondo nessuna unità, e una semplice congiunzione delle istituzioni non è, in se stessa, un valore. Una unità così concepita è fondata sullo scetticismo comune, non sulla conoscenza comune. Si fonda sulla capitolazione di fronte alla possibilità di avvicinarsi nella verità. E’ fuor di dubbio che una parte non piccola di cristiani d’oggi la pensa così e che una parte dei superiori ecclesiastici opera su questa base. Ma è altrettanto evidente che in questo modo noi non camminiamo verso l’unità. Io vorrei a questo punto riformulare la domanda circa l’autorità nella Chiesa. Un’autorità che serve alla verità, come dovrebbe essere un’autorità nella Chiesa fondata sul sacramento, è un’autorità di obbedienza. Un’autorità fondata sullo scetticismo è un’autorità autonoma. E non si deve forse dire che, spesso, proprio coloro che, dopo il Concilio, si pensano come le punte del progresso, in tutta la loro critica dell’obbedienza presuppongono e impongono come ovvia l’obbedienza dei fedeli, per poter fare della Chiesa ciò che ad essi sembra utile?

    Nella divisione, non solo rispettarsi ma amarsi, nella convinzione che noi siamo a vicenda necessari anche nella divisione, che riceviamo l’uno dall’altro, viviamo uno per l’altro, siamo cristiani l’uno insieme con l’altro. La divisione – fino a che il Signore la permette – può essere anche feconda, può portare a una ricchezza maggiore della fede e in tal modo preparare l’una-molteplice Chiesa, che noi non ci sappiamo ancora immaginare, ma nella quale nulla sarà perduto di ciò che di positivo è cresciuto nella storia, dappertutto nel mondo. Forse abbiamo bisogno di separazioni per arrivare a tutta la pienezza che il Signore aspetta.
    (da Appendice a Lutero e l’unità delle chiese. Una intervista alla rivista Communio, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.119-130)



    10. In effetti, in senso proprio, Chiese sorelle sono esclusivamente le Chiese particolari (o raggruppamenti di Chiese particolari; per esempio i patriarcati o province metropolitane) tra di loro. Deve essere sempre chiaro, quando l'espressione Chiese sorelle viene usata in questo senso proprio, che l'una, santa, cattolica e apostolica Chiesa universale non è sorella ma madre di tutte le Chiese particolari.

    11. Si può anche parlare in senso proprio di Chiese sorelle in riferimento a Chiese particolari cattoliche e non cattoliche; così la Chiesa particolare di Roma può anche essere chiamata sorella di tutte le altre Chiese particolari. Tuttavia, come ricordato più sopra, non si può affermare correttamente che la Chiesa cattolica è sorella di una Chiesa particolare o di un gruppo di Chiese. Non è semplicemente una questione terminologica, ma soprattutto una questione di rispetto di una verità fondamentale della fede cattolica: quella dell'unicità della Chiesa di Gesù Cristo. Infatti, c'è un'unica Chiesa, e perciò il termine plurale Chiese può solo riferirsi alle Chiese particolari.

    Di conseguenza, si deve evitare, in quanto fonte di fraintendimento e di confusione teologica, l'uso di formulazioni quali "le nostre due Chiese" che, se applicate alla Chiesa cattolica e alla totalità delle Chiese ortodosse (o ad una singola Chiesa ortodossa), implicano una pluralità non semplicemente a livello di Chiese particolari, ma anche a livello dell'una, santa, cattolica e apostolica Chiesa confessata nel Credo, la cui esistenza reale viene in questo modo oscurata.
    Infine, si deve anche tenere in mente che l'espressione Chiese sorelle in senso proprio, come attestato dalla tradizione comune di Oriente e Occidente, può essere usata solo per quelle comunità ecclesiali che hanno conservato un episcopato ed un'eucaristia validi.
    (Nota sull'espressione "chiese sorelle", 30 giugno 2000, preceduta dallalettera ai presidenti delle Conferenze episcopali: La Chiesa cattolica è "madre", non "sorella")

       continua..............

     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 15/01/2018 10:15
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    Ormai la parte evangelica considera la definizione "comunità ecclesiale" un'offesa. Le dure reazioni al suo documento ne sono una chiara dimostrazione.
    La pretesa dei nostri amici luterani mi sembra francamente assurda, cioè che noi consideriamo queste strutture sorte da casualità storiche come Chiesa nello stesso modo in cui crediamo Chiesa la Chiesa cattolica, fondata sulla successione degli apostoli nell'Episcopato. Sarebbe più giusto che i nostri amici evangelici ci dicessero che per loro la Chiesa è qualcosa di diverso, una realtà più dinamica e non così istituzionalizzata, neanche nella successione apostolica. La questione allora non è se le Chiese esistenti siano Chiesa tutte allo stesso modo, cosa che evidentemente non è, ma in che cosa consista o non consista la Chiesa. In questo senso non offendiamo nessuno dicendo che le strutture evangeliche effettive non sono Chiesa nel senso in cui quella cattolica vuole esserlo. Esse stesse non desiderano esserlo.

    Questa questione è stata affrontata dal Concilio Vaticano II?
    Il Concilio Vaticano II ha cercato di accogliere questo diverso modo di determinare il luogo della Chiesa, affermando che le Chiese evangeliche effettive non sono Chiese nello stesso modo in cui ritiene di esserlo quella cattolica, ma in esse esistono "elementi dì salvezza e verità". Può darsi che il termine "elementi" non sia il migliore. In ogni caso il suo senso fu di indicare una visione ecclesiologica, per la quale la Chiesa non esiste in strutture, ma nell'avvenimento della predicazione e dell'amministrazione dei sacramenti. Il modo in cui lo scontro viene condotto ora è senz'altro errato. Vorrei che non ci fosse bisogno di precisare che la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla.

    Invece Eberhard Jüngel vi vede qualcosa di diverso. Il fatto che a suo tempo il Concilio Vaticano II non avrebbe affermato che l'unica e sola Chiesa di Cristo è esclusivamente la Chiesa romana cattolica suscita in Jüngel delle perplessità. Nella Costituzione "Lumen gentium" si dice soltanto che la Chiesa di Cristo "sussiste nella Chiesa cattolica governata dal Successore di Pietro e dai, Vescovi in comunione con lui", non esprimendo con la parola latina "subsistit" alcuna esclusività.
    Purtroppo ancora una volta non riesco a seguire il ragionamento dello stimato collega Jüngel. Io ero presente quando durante il Concilio Vaticano II venne scelta l'espressione "subsistit" e posso dire di conoscerla bene. Purtroppo in un'intervista non si può scendere nei dettagli. Pio XII nella sua Enciclica aveva detto: la Chiesa cattolica romana "è" l'unica Chiesa di Gesù Cristo. Ciò parve esprimere una identità totale, per la quale al di fuori della comunità cattolica non c'era Chiesa. Tuttavia non è così: secondo la dottrina cattolica, condivisa ovviamente anche da Pio XII, le Chiese locali della Chiesa orientale separata da Roma sono autentiche Chiese locali, le comunità scaturite dalla Riforma sono costituite diversamente, come ho appena detto. In esse la Chiesa esiste nel momento in cui si verifica l'evento.

    Ma allora non si dovrebbe dire: non esiste un'unica Chiesa. Essa si è disgregata in numerosi frammenti?
    In effetti, molti contemporanei la considerano così. Esisterebbero solo frammenti ecclesiali e bisognerebbe cercare il meglio dei diversi pezzi. Ma se fosse così si consacrerebbe il soggettivismo: allora ognuno dovrebbe comporsi il proprio cristianesimo e alla fine risulterebbe determinante il gusto personale.

    Forse è proprio la libertà che spetta al cristiano a far interpretare un tale "patchwork" anche come soggettivismo o individualismo.
    La Chiesa cattolica, come quella ortodossa, è convinta che una definizione del genere sia inconciliabile con la promessa di Cristo e con la fedeltà a Lui. La Chiesa di Cristo esiste veramente e non a brandelli. Essa non è un'utopia irraggiungibile, ma una realtà concreta. Il "subsistit" intende proprio questo: il Signore garantisce l'esistenza della Chiesa contro tutti i nostri errori e i nostri peccati, che senza dubbio e in maniera palese sono presenti in essa. Con il "subsistit" si è voluto dire anche che, sebbene il Signore mantenga la sua promessa, esiste una realtà ecclesiale anche al di fuori della comunità cattolica ed è proprio questa contraddizione la più forte sollecitazione a perseguire l'unità. Se il Concilio avesse voluto dire semplicemente che la Chiesa di Gesù Cristo è anche nella Chiesa cattolica, avrebbe detto una banalità. Il Concilio sarebbe entrato in netta contraddizione con tutta la storia di fede della Chiesa, il che non sarebbe venuto in mente a nessun Padre conciliare.

    Le argomentazioni di Jüngel sono di carattere filologico e in questo senso egli ritiene che l'interpretazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, che lei ha appena esposto, sia "fuorviante". Infatti secondo la terminologia della Vecchia Chiesa "sussiste" anche l'unico essere divino e non in una sola Persona, ma in tre Persone. La domanda che sorge da questa riflessione è la seguente: se dunque Dio stesso "sussiste" nella differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo e tuttavia non si separa da se stesso, creando così tre reciproche alterità, perché ciò non dovrebbe valere anche per la Chiesa che rappresenta il "mysterium trinitatis" nel mondo?
    Mi rattrista dovermi opporre ancora una volta a Jüngel. Prima di tutto bisogna osservare che la Chiesa d'Occidente nella traduzione della formula trinitaria in latino non ha accolto direttamente la formula orientale, nella quale Dio è un essere in tre ipostasi ("sussistenze"), ma ha tradotto la parola ipostasi con il termine "persona" perché in latino la parola sussistenza come tale non esisteva e quindi non sarebbe adeguata per esprimere l'unità e la differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma soprattutto sono molto determinato a lottare contro questa tendenza sempre più diffusa a trasferire il mistero trinitario direttamente alla Chiesa. Non va bene. Così finiremo per credere in tre divinità.

    Insomma, perché non si può paragonare "l'alterità" del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con la diversità delle comunità ecclesiali? Quella di Jüngel non è forse una formula affascinante e piena di armonia?
    Fra le comunità ecclesiali esistono molti contrasti e che contrasti! Le tre "Persone" costituiscono un solo Dio in un'unità autentica e somma. Quando i Padri conciliari sostituirono la parola "è" con la parola "subsistit" lo fecero con uno scopo ben preciso. Il concetto espresso da "è" (essere) è più ampio di quello espresso da "sussistere". "Sussistere" è un modo ben preciso di essere, ossia essere come soggetto che esiste in sé. I Padri conciliari dunque intendevano dire che l'essere della Chiesa in quanto tale è un'entità più ampia della Chiesa cattolica romana, ma in quest'ultima acquista, in maniera incomparabile, il carattere di soggetto vero e proprio.

    Facciamo un passo indietro. Colpisce la curiosa semantica a volte presente nei documenti ecclesiali. Lei stesso ha evidenziato che l'espressione "elementi di Verità", che è centrale nello scontro attuale, non è proprio felice. L'espressione elementi di verità non tradisce forse una sorta di concetto chimico di verità? La verità come sistema periodico degli elementi? Ossia: l'idea di poter separare mediante teoremi la verità dalla falsità o dalla verità parziale, non ha un che di prepotente, dal momento che certi teoremi pretendono di ridurre la complessa realtà di Dio a un modello disegnato con il compasso?
    La costituzione ecclesiale del Concilio Vaticano II parla di "parecchi elementi di santificazione e di verità", che si trovano al di fuori dell'organismo visibile della Chiesa (I n. 8); il decreto sull'ecumenismo elenca alcuni di questi elementi: "La parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili" (I n. 3). Forse esiste un termine migliore di "elementi", ma il significato reale è chiaro: la vita della fede, al servizio della quale è la Chiesa, è una struttura molteplice e vi si possono distinguere diversi elementi che sono all'interno o anche all'esterno di essa.

    Ciononostante, non deve forse sorprendere che si voglia rendere intelligibile mediante teoremi un fenomeno che si sottrae alla verificabilità empirica come quello della fede religiosa?
    Per quanto riguarda la fede e il suo essere comprensibile attraverso teoremi, si travisa il Dogma se lo si considera una raccolta di teoremi: il contenuto della fede si esprime nella sua professione, che trova il suo momento privilegiato nell'amministrazione del Sacramento del Battesimo, e che dunque è parte di un processo esistenziale. E' l'espressione di un nuovo orientamento dell'esistenza che però non ci offriamo da soli, ma che riceviamo in dono. Questo nuovo orientamento dell'esistenza significa al contempo uscire dal nostro io e dal nostro individualismo ed entrare in quella comunità di fedeli che si chiama Chiesa. Il punto focale della formula del Battesimo è il riconoscimento del Dio trinitario. Tutti i dogmi successivi non sono altro che precisazioni di questa professione e fanno in modo che il suo orientamento di fondo, il dono di sé al Dio vivente, resti inalterato. Solo quando si interpreta il dogma in questo modo, lo si comprende in maniera giusta.

    Ciò significa che da questa prospettiva spirituale non si giunge più così al contenuto della fede?
    No, la fede cristiana ha una sua certezza contenutistica. Non è un'immersione in una dimensione mistico - inesprimibile, nella quale non si arriva mai ai contenuti. Il Dio, nel quale il cristiano crede, ci ha mostrato il suo volto e il suo cuore in Gesù Cristo: si è rivelato a noi. Come ha detto san Paolo, questa concretezza di Dio era già uno scandalo per i Greci e naturalmente lo è ancora oggi. Questo è inevitabile.

    Allora, dopo la pubblicazione del suo Documento la formula ecumenica della "Diversità riconciliata" è ancora valida?
    Accetto il concetto di "diversità riconciliata", se con esso non si intende uguaglianza di contenuti ed eliminazione della questione della verità al fine di considerarci una cosa sola, anche se crediamo in cose diverse e le insegniamo. Secondo me questo concetto è utilizzato bene se afferma che noi, nonostante i contrasti che non ci permettono di considerarci meri frammenti di una Chiesa di Gesù Cristo che in realtà non esisterebbe, ci incontriamo nella pace di Cristo riconciliati l'uno con l'altro, ossia quando riconosciamo la nostra divisione come contraddizione alla volontà del Signore e il dolore ci spinge a cercare l'unità e implorare il Signore sapendo che abbiamo tutti bisogno del suo amore.

    Occasionalmente si leggono passaggi del Papa e anche suoi che relativizzano la divisione della Cristianità in una trattazione della storia della salvezza dialettica. Il Papa allora parla di "cause metastoriche" della divisione e nel suo libro "Varcare la soglia della speranza" si chiede: "Non potrebbe essere, dunque, che le divisioni siano state anche una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e nella redenzione da Lui operata? Forse tali ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente". Così la divisione dei cristiani sembra un compito didattico dello Spirito Santo, poiché, come dice il Papa, per la conoscenza e l'azione umane è significativa anche una "certa dialettica". Lei stesso scrive: "Anche se le divisioni sono opere umane e colpe umane, esiste in esse una dimensione propria della compagine divina". Se le cose stanno così, ci si chiede con quale diritto si contrasta la didattica divina identificando la Chiesa di Cristo con la Chiesa romana cattolica. Le indeterminatezze concettuali che si deplorano nel dialogo ecumenico non esistono anche nelle speculazioni della storia della salvezza sulla didattica di Dio?
    Questo è un argomento difficile che riguarda la libertà umana e il governo divino. Non esistono risposte valide in maniera assoluta perché noi non oltrepassiamo il nostro orizzonte umano e quindi non possiamo svelare il mistero che lega questi due elementi. Ciò che lei ha citato del Santo Padre e di me, si potrebbe applicare grossolanamente alla nota formula secondo la quale Dio scrive anche con righe storte. Le righe restano storte e ciò significa che le divisioni hanno a che fare con la colpa umana. La colpa non diventa qualcosa di positivo per il fatto che da essa può derivare un processo di maturazione quando la si interpreta come qualcosa che si può superare con la conversione e eliminare con il perdono.
    Già Paolo aveva dovuto spiegare ai Romani l'equivoco scaturito dal suo insegnamento sulla grazia, secondo il quale dal momento che il peccato produce grazia, allora nel peccato si può stare tranquilli (Rm 6, 19). Il fatto che Dio possa trasformare in bene anche i nostri peccati non significa certo che il peccato sia una cosa buona. E il fatto che Dio possa trarre frutti positivi dalla divisione, non la trasforma in una cosa di per sé positiva. Le indeterminatezze concettuali che di fatto esistono sono dovute all'inquietante insondabilità del rapporto fra la libertà di peccare e la libertà della grazia. La libertà della grazia si mostra anche nel fatto che da una parte la Chiesa non affonda e non si disgrega in frammenti ecclesiali antitetici all'interno di un sogno irrealizzabile. Il soggetto Chiesa per la grazia di Dio esiste e sussiste realmente nella Chiesa cattolica; la promessa di Cristo è la garanzia che questo soggetto non sarà mai distrutto. Ma dall'altra parte è vero che questo soggetto è ferito, in quanto realtà ecclesiali esistono ed operano al di fuori di esso. In ciò si delinea al massimo il dramma della colpa e l'ampiezza paradossale della promessa di Dio. Se si rimuove questa tensione, per addivenire a formule chiare e si afferma che tutte le comunità ecclesiali sono Chiesa e tutte sono pur con i loro contrasti quella Chiesa una e santa, l'ecumenismo viene meno perché non esiste più alcun motivo per ricercare l'unità autentica.

    La stessa questione si ripropone sotto un altro aspetto: se la questione della professione religiosa sia in rapporto con quella della salvezza personale. Perché missione, perché lo scontro sulla "verità" e documenti vaticani, se l'uomo alla fine può giungere a Dio attraverso tutte le vie?
    Il Documento non riprende assolutamente la tesi soggettivistica e relativistica, secondo la quale ognuno può divenire santo a suo modo. Questa è un'interpretazione cinica, nella quale io percepisco disprezzo per la questione della verità e della giusta etica. Il Documento afferma con il Concilio che Dio dona luce ad ognuno. Chi cerca la verità si trova obiettivamente sulla via che porta a Cristo e con ciò anche sulla via verso la comunità, nella quale egli rimane presente alla storia, cioè alla Chiesa. Cercare la verità, ascoltare la coscienza, purificare il proprio ascolto interiore, queste sono condizioni di salvezza per tutti. In esse esiste un legame intimo e obiettivo con Cristo e con la Chiesa. In questo senso si dice allora che nelle religioni esistono riti e preghiere, che possono assumere un ruolo di preparazione evangelica, occasioni o pedagogie in cui i cuori degli uomini sono stimolati ad aprirsi all'azione di Dio. Ma si dice anche che ciò non vale per tutti i riti. Ne esistono infatti alcuni (chiunque conosce un po' di Storia delle Religioni non può che essere d'accordo), che allontanano l'uomo dalla luce. Così la vigilanza e la purificazione interiori si ottengono mediante una vita che segue la coscienza, che aiuta a individuare le differenze, un'apertura che alla fine significa appartenenza interiore a Cristo.
    Per questo il Documento può affermare che la missione resta importante in quanto offre quella luce di cui gli uomini hanno bisogno nella loro ricerca della verità e del bene.

    Ma la domanda resta: se la salvezza, purché, come lei ha detto, si viva ascoltando la propria coscienza, si può ottenere mediante tutte le vie, allora la missione non perde urgenza teologica? Infatti, la tesi del "collegamento intimo e obiettivo" di vie di salvezza non cattoliche con Cristo cos'altro significa se non che Cristo stesso rende superflua la distinzione fra verità di salvezza "piena" e "deficitaria", dal momento che Egli, se è presente come strumento di salvezza, lo è sempre e logicamente in modo "pieno"?
    Io non ho detto che la salvezza si può ottenere mediante tutte le vie. La via della coscienza, il tenere lo sguardo fisso sulla verità e sul bene obiettivo, è una strada unica, anche se assume molte forme a motivo del gran numero di persone e di situazioni. Tuttavia il bene è uno e la verità non si contraddice. Il fatto che l'uomo non raggiunga l'uno o l'altra, non relativizza l'esigenza di verità e di bene. Per questo non è sufficiente persistere nella religione ereditata, ma è necessario rimanere attenti al vero bene e così essere capaci anche di superare i confini della propria religione. Ciò ha un senso soltanto se esistono veramente la verità e il bene. Non si potrebbe essere sulla via di Cristo se egli non esistesse. Vivere con gli occhi del cuore aperti, purificarsi interiormente, cercare la luce sono condizioni indispensabili per la salvezza dell'uomo. Annunciare la verità, ossia lasciar risplendere la luce ("non sotto il moggio, ma sul candelabro") è assolutamente necessario.

    A irritare il protestante non è il concetto di Chiesa, ma l'interpretazione biblica di "Dominus Iesus", in cui si afferma che "bisogna opporsi alla tendenza a leggere e ad interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione dal Magistero della Chiesa" e a "presupposti che ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata". Dice Jüngel: "La rivalutazione inopportuna dell'autorìtà del Magistero ecclesiale corrisponde a una svalutazione altrettanto inopportuna dell'Autorità delle Sacre Scritture".
    Forte di 500 anni di esperienza, l'esegesi moderna ha riconosciuto chiaramente, insieme alla moderna letteratura e filosofia del linguaggio, che la semplice autointerpretazione delle Scritture e la chiarezza che ne deriva semplicemente non esistono. Nel 1928, Adolf von Harnack, nel suo carteggio con Erik Peterson, dichiarò con la sua tipica crudezza che: "Il cosiddetto "principio formale" del vecchio luteranesimo è una impossibilità critica e che al contrario quello cattolico è il migliore". Ernst Käsernann ha dimostrato che il canone delle Sacre Scritture in quanto tale non fonda l'unità della Chiesa, ma la molteplicità delle confessioni. Di recente uno degli esegeti evangelici più importanti, Ulrich Luz, ha mostrato che la "Scrittura da sola" dà adito a tutte le possibili interpretazioni. Infine, anche nella prima generazione della Riforma si dovette cercare "il centro della Scrittura" per ottenere una chiave di interpretazione che non si riusciva a estrapolare dal testo in quanto tale. Ancora un esempio pratico: nello scontro con Gerd Lüdemann, un professore che negava la risurrezione di Cristo, la sua divinità ecc., si è evidenziato che anche la Chiesa evangelica non può fare a meno di una sorta di Magistero. Nello sfumare dei contorni della fede in un coro di sforzi esegetici antitetici (esegesi materialista, femminista, liberazionista, ecc.) appare evidente che proprio il rapporto con le professioni di fede, quindi con la tradizione viva della Chiesa, garantisce l'interpretazione letterale delle Sacre Scritture, proteggendole dal soggettivismo e conservandone l'originarietà e l'autenticità. Perciò il Magistero non sminuisce l'autorità delle Sacre Scritture, ma le protegge collocandosi in un posizione inferiore rispetto ad esse e lasciando affiorare la fede che da esse deriva.

    Quale criterio decisivo per la definizione di "Chiesa sorella" della Chiesa cattolica romana, la Dichiarazione della sua Congregazione indica l'accettazione della "Successione apostolica". Un protestante come Jüngel rifiuta questo principio come non biblico. Per lui successore degli apostoli non è il Vescovo, ma il Canone biblico. Secondo lui chi vive secondo le Scritture è successore degli apostoli.
    L'affermazione che il Canone sarebbe il successore degli apostoli è un'esagerazione e mescola cose troppo diverse fra loro. Il canone della Scrittura è stato trovato dalla Chiesa in un processo che sarebbe durato fino al quinto secolo. Il canone quindi non esiste senza il ministero dei successori degli apostoli, e nello stesso tempo stabilisce il criterio del loro servizio. La parola scritta non sostituisce i testimoni vivi, così come questi ultimi non possono sostituirsi alla parola scritta. Testimoni vivi e parola scritta rimandano l'uno all'altro. Condividiamo la struttura episcopale della Chiesa come modo per essere in comunione con gli Apostoli, con tutta la Chiesa antica e con le Chiese ortodosse e ciò dovrebbe far riflettere. Quando si afferma che chi vive secondo le Scritture è successore degli Apostoli, non si risponde alla seguente domanda: chi decide che cosa significa vivere secondo le Scritture e chi giudica se si viva effettivamente secondo le Scritture? La tesi secondo la quale il Successore degli Apostoli non è il Vescovo, bensì il Canone biblico è un chiaro rifiuto del concetto di Chiesa cattolica. Al contempo però si pretende che noi applichiamo questo stesso concetto per definire le Chiese della riforma. Francamente è una logica che non capisco.

    (Intervista al card. J.Ratzinger di Christian Geyer per il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung del 22 settembre 2000, tradotta da L'Osservatore Romano dell'8 ottobre 2000)

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 10:37
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    Il discernimento necessario verso ogni altra religione: i sì ed i no del cristianesimo

    In fondo la fede cristiana ha già da tempo formulato la posizione che assegna a se stessa nella storia delle religioni: essa vede in Cristo l’unica salvezza reale e perciò definitiva dell’uomo. Nei riguardi delle altre religioni, dunque, è possibile un duplice atteggiamento (così sembra): ci si può riferire ad esse come prov-visorie (vor-läufig) e dunque pre-corritrici (vor-läuferisch) rispetto al cristianesimo, valutandole positivamente, in certo senso, nella misura, cioè, in cui si possono inquadrare nell’attitudine del pre-cursore (Vor-läufer). Naturalmente le si può anche concepire come ciò che è insufficiente, contrario a Cristo, contrapposto alla verità, qualcosa che fa credere all’uomo di offrire salvezza senza mai poterla dareIl primo atteggiamento, nei confronti della fede di Israele, vale a dire della religione dell’Antico Testamento, è tracciato esemplarmente da Cristo stesso. Solo in tempi recenti è stato messo in rilievo chiaramente e insistentemente che questo atteggiamento può aver luogo in certo senso anche nei confronti di tutte le altre religioni. Effettivamente si può dire che il racconto della stipulazione dell’alleanza con Noè (Gn 8,20-9,17) conferma la verità nascosta delle religioni mitiche. Nel ciclico “nascere e morire” del cosmo si compie l’opera del Dio fedele, che è legato da alleanza non solo con Abramo e la sua discendenza, ma con tutti gli uomini. E i Magi non sono forse pervenuti a Cristo (Mt 2,1-23) in virtù della stella, vale a dire tramite la “superstizione”, tramite la loro religione (seppure soltanto mediante la deviazione che passava per Gerusalemme, per gli scritti dell’Antico Testamento)? La loro religione non si è inginocchiata, per così dire, davanti a Cristo, non si è dimostrata tale da pre-correre, anzi da ac-correre a Cristo? In tale contesto sembra quasi un luogo comune citare una volta di più il discorso dell’Areopago (At 12,22-32), tanto più che la reazione degli ascoltatori, con il loro atteggiamento di rifiuto di fronte al messaggio sul Risorto, sembra piuttosto smentire la teologia ottimistica di questo discorso. Palesemente la religione delle persone lì lusingate non converge verso Gesù di Nazareth. L’opposizione, alla quale essa invece spinge, richiama così alla memoria l’altro aspetto – che è senz’altro molto più evidente – della concezione biblica delle religioni “delle genti”, presente fin dall’inizio nella linea profetica: quella dura critica agli idoli bugiardi che spesso, nella sua inesorabilità, quasi non si distingue dal piatto razionalismo dell’illuminista (cfr., per esempio Is 44,6-20).

    La teologia del nostro tempo, come s’è detto, ha messo in luce specialmente l’aspetto positivo e, ciò facendo, ha chiarito soprattutto l’estensione del concetto di provvisorietà: anche secoli “dopo Cristo”, cronologicamente parlando, si può vivere ancora nella storia “avanti Cristo”, legittimamente dunque nel regime prov-visorio. In sintesi, perciò, possiamo dire che il cristianesimo, secondo la sua autocomprensione, sta al tempo stesso in un rapporto di “sì” e di “no” rispetto alle religioni. Sa, da una parte, che, se si tiene presente l’alleanza, è ad esse congiunto; vive nella convinzione che, come la storia e il suo mysterium, così anche il cosmo e il suo mito parlano di Dio e possono condurre a Lui. Conosce però un altrettanto deciso “no” alle religioni, vede in esse espedienti con cui l’uomo si assicura contro Dio invece di abbandonarsi alla sua pretesa. Nella sua teologia della storia delle religioni il cristianesimo non prende affatto partito per l’uomo religioso, per il conservatore, che si attiene alle regole del gioco delle sue istituzioni ereditarie; il “no” cristiano agli dei significa piuttosto un’opzione in favore del ribelle che per amore della coscienza osa evadere dalle consuetudini. Forse questo tratto rivoluzionario del cristianesimo è stato tenuto coperto troppo a lungo sotto modelli conservatori.

    Il concetto di religione che ha l’ “uomo di oggi” (mi si consenta di mantenere questa real-fiction) è statico, di solito egli non contempla la possibilità del passaggio da una religione all’altra, ma si aspetta che ciascuno rimanga nella propria e che la viva nella coscienza che, nel suo nucleo spirituale, essa è senz’altro identica a tutte le altre. Esiste dunque una specie di cosmopolitismo religioso, che non esclude, ma include l’appartenenza a una determinata “provincia religiosa”, che non desidera un cambiamento della “cittadinanza” religiosa tranne che per singoli casi esemplari; in ogni caso solleva una pesante riserva di fronte all’idea di missione, in fondo la rifiuta.

    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.17-21)



    2. Prendendo in considerazione i valori che esse testimoniano ed offrono all'umanità, con un approccio aperto e positivo, la Dichiarazione conciliare sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane afferma: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Proseguendo su questa linea, l'impegno ecclesiale di annunciare Gesù Cristo, «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), si avvale oggi anche della pratica del dialogo interreligioso, che certo non sostituisce, ma accompagna la missio ad gentes, per quel «mistero di unità», dal quale «deriva che tutti gli uomini e tutte le donne che sono salvati partecipano, anche se in modo differente, allo stesso mistero di salvezza in Gesù Cristo per mezzo del suo Spirito». Tale dialogo, che fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa, comporta un atteggiamento di comprensione e un rapporto di conoscenza reciproca e di mutuo arricchimento, nell'obbedienza alla verità e nel rispetto della libertà.

    4. Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo.
    Le radici di queste affermazioni sono da ricercarsi in alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata. Se ne possono segnalare alcuni: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità della verità divina, nemmeno da parte della rivelazione cristiana; l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale che si pone tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo di chi, considerando la ragione come unica fonte di conoscenza, diventa «incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere»; la difficoltà a comprendere e ad accogliere la presenza di eventi definitivi ed escatologici nella storialo svuotamento metafisico dell'evento dell'incarnazione storica del Logos eterno, ridotto a mero apparire di Dio nella storia; l'eclettismo di chi, nella ricerca teologica, assume idee derivate da differenti contesti filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica, né alla loro compatibilità con la verità cristiana; la tendenza, infine, a leggere e interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa.
    In base a tali presupposti, che si presentano con sfumature diverse, talvolta come affermazioni e talvolta come ipotesi, vengono elaborate alcune proposte teologiche, in cui la rivelazione cristiana e il mistero di Gesù Cristo e della Chiesa perdono il loro carattere di verità assoluta e di universalità salvifica, o almeno si getta su di essi un'ombra di dubbio e di insicurezza. 

    5. Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo. Deve essere, infatti, fermamente creduta l'affermazione che nel mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, il quale è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), si dà la rivelazione della pienezza della verità divina: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt11,27); «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18); «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza» (Col 2,9 10).

    Fedele alla parola di Dio, il Concilio Vaticano II insegna: «La profonda verità, poi, sia su Dio sia sulla salvezza dell'uomo, risplende a noi per mezzo di questa rivelazione nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione». E ribadisce: «Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede il Padre (cf. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e manifestazione di Sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti e, infine, con l'invio dello Spirito di verità compie e completa la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina [...]. L'economia cristiana, dunque, in quanto è l'alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non si dovrà attendere alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cf. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13)».
    Per questo l'enciclica Redemptoris missio ripropone alla Chiesa il compito di proclamare il Vangelo, come pienezza della verità: «In questa Parola definitiva della sua rivelazione, Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno: egli ha detto all'umanità chi è. E questa autorivelazione definitiva di Dio è il motivo fondamentale per cui la Chiesa è per sua natura missionaria. Essa non può non proclamare il vangelo, cioè la pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso». Solo la rivelazione di Gesù Cristo, quindi, «immette nella nostra storia una verità universale e ultima, che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai».

    6. È quindi contraria alla fede della Chiesa la tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo, che sarebbe complementare a quella presente nelle altre religioni. La ragione di fondo di questa asserzione pretenderebbe di fondarsi sul fatto che la verità su Dio non potrebbe essere colta e manifestata nella sua globalità e completezza da nessuna religione storica, quindi neppure dal cristianesimo e nemmeno da Gesù Cristo.
    Questa posizione contraddice radicalmente le precedenti affermazioni di fede, secondo le quali in Gesù Cristo si dà la piena e completa rivelazione del mistero salvifico di Dio. Pertanto, le parole, le opere e l'intero evento storico di Gesù, pur essendo limitati in quanto realtà umane, tuttavia, hanno come soggetto la Persona divina del Verbo incarnato, «vero Dio e vero uomo», e perciò portano in sé la definitività e la completezza della rivelazione delle vie salvifiche di Dio, anche se la profondità del mistero divino in se stesso rimane trascendente e inesauribile. La verità su Dio non viene abolita o ridotta perché è detta in linguaggio umano. Essa, invece, resta unica, piena e completa perché chi parla e agisce è il Figlio di Dio incarnato. Per questo la fede esige che si professi che il Verbo fatto carne, in tutto il suo mistero, che va dall'incarnazione alla glorificazione, è la fonte, partecipata, ma reale, e il compimento di ogni rivelazione salvifica di Dio all'umanità, e che lo Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo, insegnerà agli Apostoli, e, tramite essi, all'intera Chiesa di tutti i tempi, questa «verità tutta intera» (Gv 16,13).

    (Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione "Dominus Iesus" circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa)



    1. Nel vivace dibattito contemporaneo sul rapporto tra il Cristianesimo e le altre religioni, si fa sempre più strada l'idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente valide di salvezza. Si tratta di una persuasione ormai diffusa non solo in ambienti teologici, ma anche in settori sempre più vasti dell'opinione pubblica cattolica e non, specialmente quella più influenzata dall'orientamento culturale oggi prevalente in Occidente, che si può definire, senza timore di essere smentiti, con la parola: relativismo.
    La cosiddetta teologia del pluralismo religioso in verità si era già affermata gradualmente fin dagli anni cinquanta del secolo XX, ma soltanto oggi ha assunto un'importanza fondamentale per la coscienza cristiana. Naturalmente le sue configurazioni sono molto diverse e non sarebbe giusto voler omologare tutte le posizioni teologiche che si rifanno alla teologia del pluralismo religioso in uno stesso sistema. La Dichiarazione pertanto non si propone nemmeno di descrivere i tratti essenziali di tali tendenze teologiche né tanto meno pretende di rinchiuderle in una formula unica. Piuttosto il nostro Documento segnala alcuni presupposti di natura sia filosofica sia teologica che stanno alla base delle pur diverse teologie del pluralismo religioso attualmente diffuse: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità completa della verità divina; l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo esasperato di chi considera la ragione come unica fonte di conoscenza; lo svuotamento metafisico del mistero dell'incarnazione; l'eclettismo di chi nella riflessione teologica assume categorie derivate da altri sistemi filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza interna, né alla loro incompatibilità con la fede cristiana; la tendenza infine a interpretare testi della Scrittura, al di fuori della Tradizione e del Magistero della Chiesa (cf. Dich. Dominus Iesus, n.4).

    Qual è la conseguenza fondamentale di questo modo di pensare e sentire in relazione al centro e al nucleo della fede cristiana ? E' il sostanziale rigetto dell'identificazione della singola figura storica, Gesù di Nazareth, con la realtà stessa di Dio, del Dio vivente. Ciò che è Assoluto, oppure Colui che è l'Assoluto, non può darsi mai nella storia in una rivelazione piena e definitiva. Nella storia si hanno soltanto dei modelli, delle figure ideali che ci rinviano al Totalmente Altro, il quale però non si può afferrare come tale nella storia. Alcuni teologi più moderati confessano che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, ma ritengono che a causa della limitatezza della natura umana di Gesù, la rivelazione di Dio in lui non può essere ritenuta completa e definitiva, ma sempre deve essere considerata in relazione ad altre possibili rivelazioni di Dio espresse nei geni religiosi dell'umanità e nei fondatori delle religioni del mondo. In tal modo, oggettivamente parlando, si introduce l'idea errata che le religioni del mondo siano complementari alla rivelazione cristiana. E' chiaro pertanto che anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto e considerarli anzi come uno strumento per un incontro reale con la verità di Dio, valida universalmente, significherebbe collocare su un piano assoluto ciò che è particolare e travisare la realtà infinita del Dio Totalmente Altro.

    In base a tali concezioni, ritenere che vi sia una verità universale, vincolante e valida nella storia stessa, che si compie nella figura di Gesù Cristo ed è trasmessa dalla fede della Chiesa, viene considerato una specie di fondamentalismo che costituirebbe un attentato contro lo spirito moderno e rappresenterebbe una minaccia contro la tolleranza e la libertà. Lo stesso concetto di dialogo assume un significato radicalmente diverso da quello inteso nel Concilio Vaticano II. Il dialogo, o meglio, l'ideologia del dialogo, si sostituisce alla missione e all'urgenza dell'appello alla conversione: il dialogo non è più la via per scoprire la verità, il processo attraverso cui si dischiude all'altro la profondità nascosta di ciò che egli ha sperimentato nella sua esperienza religiosa, ma che attende di compiersi e purificarsi nell'incontro con la rivelazione definitiva e completa di Dio in Gesù Cristo; il dialogo nelle nuove concezioni ideologiche, penetrate purtroppo anche all'interno del mondo cattolico e di certi ambienti teologici e culturali, è invece l'essenza del "dogma" relativista e l'opposto della "conversione" e della "missione". In un pensiero relativista dialogo significa porre sullo stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, cosicché tutto si riduce ad uno scambio tra posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo superiore di raggiungere il massimo di collaborazione e di integrazione tra le diverse concezioni religiose.

    Il dissolvimento della cristologia e quindi dell'ecclesiologia, ad essa subordinata, ma con essa inscindibilmente collegata, diventa perciò la conclusione logica di tale filosofia relativista, che paradossalmente si ritrova sia alla base del pensiero post-metafisico dell'Occidente sia della teologia negativa dell'Asia. Il risultato è che la figura di Gesù Cristo perde il suo carattere di unicità e di universalità salvifica. Il fatto poi che il relativismo si presenti, all'insegna dell'incontro con le culture, come la vera filosofia dell'umanità, in grado di garantire la tolleranza e la democrazia, conduce a marginalizzare ulteriormente chi si ostina nella difesa della identità cristiana e nella sua pretesa di diffondere la verità universale e salvifica di Gesù Cristo. In realtà la critica alla pretesa di assolutezza e definitività della rivelazione di Gesù Cristo rivendicata dalla fede cristiana, si accompagna ad un falso concetto di tolleranza. 

    Il principio della tolleranza come espressione del rispetto della libertà di coscienza, di pensiero e di religione, difeso e promosso dal Concilio Vaticano II, e nuovamente riproposto dalla stessa Dichiarazione, è una posizione etica fondamentale, presente nell'essenza del Credo cristiano, poiché prende sul serio la libertà della decisione di fede. Ma questo principio di tolleranza e rispetto della libertà viene oggi manipolato e indebitamente oltrepassato, quando esso si estende all'apprezzamento dei contenuti, quasi che tutti i contenuti delle diverse religioni e pure delle concezioni areligiose della vita fossero da porre sullo stesso piano, e non esistesse più una verità oggettiva e universale, poiché Dio o l'Assoluto si rivelerebbe sotto innumerevoli nomi, ma tutti i nomi sarebbero veri.

    Questa falsa idea di tolleranza è connessa con la perdita e la rinuncia alla questione della verità, che infatti oggi è sentita da molti come una questione irrilevante o di second'ordine. Viene così alla luce la debolezza intellettuale della cultura attuale: venendo a mancare la domanda di verità, l'essenza della religione non si differenzia più dalla sua "non essenza", la fede non si distingue dalla superstizione, l'esperienza dall'illusione. Infine senza una seria pretesa di verità, anche l'apprezzamento delle altre religioni diventa assurdo e contraddittorio, poiché non si possiede il criterio per constatare ciò che è positivo in una religione, distinguendolo da ciò che è negativo o frutto di superstizione e inganno.


    2. A questo proposito la Dichiarazione riprende l'insegnamento di Giovanni Paolo II nell'Enciclica Redemptoris missio«Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica» (RM 29).
    Questo testo si riferisce esplicitamente all'azione dello Spirito non solo «nel cuore degli uomini», ma anche «nelle religioni». Tuttavia il contesto pone questa azione dello Spirito all'interno del mistero di Cristo, da cui non può mai essere separata; inoltre le religioni sono accostate alla storia e alle culture dei popoli, dove la mescolanza tra bene e male non può mai essere messa in dubbio. Quindi è da considerarsi come praeparatio evangelica non tutto ciò che si trova nelle religioni, ma soltanto «quanto lo Spirito opera» in esse. Da ciò segue una importantissima conseguenza: via alla salvezza è il bene presente nelle religioni, come opera dello Spirito di Cristo, ma non le religioni in quanto tali. Ciò è del resto confermato dalla stessa dottrina del Vaticano II a proposito dei semi di verità e di bontà presenti nelle altre religioni e culture, esposta nella Dichiarazione conciliare Nostra Aetate: "La Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini"(NA, 2).

    Tutto ciò che di vero e buono esiste nelle religioni non deve andare perduto, anzi va riconosciuto e valorizzato. Il bene e il vero, dovunque si trovi, proviene dal Padre ed è opera dello Spirito; i semi del Logos sono sparsi ovunque. Ma non si possono chiudere gli occhi sugli errori e inganni che sono pure presenti nelle religioni
    . La stessa Costituzione Dogmatica del Vaticano II Lumen Gentium afferma: "Molto spesso gli uomini, ingannati dal Maligno, vaneggiano nei loro pensamenti, e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore" (LG, 16).

    E' comprensibile che in un mondo che cresce sempre più assieme, anche le religioni e le culture si incontrino. Ciò non conduce soltanto ad un avvicinamento esteriore di uomini di religioni diverse, bensì anche ad una crescita di interesse verso mondi religiosi sconosciuti. In questo senso, in ordine cioè alla conoscenza reciproca, è legittimo parlare di arricchimento vicendevole. Ciò però non ha nulla a che vedere con l'abbandono della pretesa da parte della fede cristiana di aver ricevuto in dono da Dio in Cristo la rivelazione definitiva e completa del mistero della salvezza, e anzi si deve escludere quella mentalità indifferentista improntata ad un relativismo religioso che porta a ritenere che "una religione vale l'altra" (Lett. Enc. Redemptoris missio, 36).

    La stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così come per le culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla promozione della dignità dell'uomo e allo sviluppo della civiltà, non diminuisce l'originalità e l'unicità della rivelazione di Gesù Cristo e non limita in alcun modo il compito missionario della Chiesa: "la Chiesa annuncia ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è la via, la verità e la vita (Gv 14,16) in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose" (Nostra Aetate, 2). Nello stesso tempo queste semplici parole indicano il motivo della convinzione che ritiene che la pienezza, universalità e compimento della rivelazione di Dio sono presenti soltanto nella fede cristiana. Tale motivo non risiede in una presunta preferenza accordata ai membri della Chiesa, né tanto meno nei risultati storici raggiunti dalla Chiesa nel suo pellegrinaggio terreno, ma nel mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, presente nella Chiesa. La pretesa di unicità e universalità salvifica del Cristianesimo proviene essenzialmente dal mistero di Gesù Cristo che continua la sua presenza nella Chiesa, suo Corpo e sua Sposa. Perciò la Chiesa si sente impegnata, costitutivamente, nella evangelizzazione dei popoli. Anche nel contesto attuale, segnato dalla pluralità delle religioni e dall'esigenza di libertà di decisione e di pensiero, la Chiesa è consapevole di essere chiamata "a salvare e rinnovare ogni creatura, perché tutte le cose siano ricapitolate in Cristo e gli uomini costituiscano in lui una sola famiglia e un solo popolo" (Decr. Ad Gentes 1).

    Riaffermando le verità che la fede della Chiesa ha sempre creduto e tenuto riguardo questi argomenti, e salvaguardando i fedeli da errori o da interpretazioni ambigue attualmente diffusi, la Dichiarazione "Dominus Iesus" della Congregazione per la Dottrina della Fede, approvata e confermata certa scientia e apostolica sua auctoritate dal Santo Padre stesso, svolge un duplice compito: da un lato si presenta come un'ulteriore e rinnovata testimonianza autorevole per mostrare al mondo "lo splendore del glorioso vangelo di Cristo" (2 Cor4,4); dall'altro indica come vincolante per tutti i fedeli la base dottrinale irrinunciabile che deve guidare, ispirare e orientare sia la riflessione teologica sia l'azione pastorale e missionaria di tutte le comunità cattoliche sparse nel mondo.

    (dall’Intervento in occasione della presentazione della dichiarazione "Dominus Iesus" alla Sala stampa della Santa Sede)





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 11:18
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    E’ necessario analizzare bene le diverse forme religiose, nelle loro diversità

    La vicenda storica si potrebbe presentare schematicamente come segue:

    • Esperienze primitive
    • Religioni mitiche
    • Triplice uscita dal mito:
      • Mistica
      • Rivoluzione monoteistica
      • Illuminismo

    In questo schema di massima si dovrebbe afferrare l’esito a cui può condurre una “critica della ragione storica” in materia di religione... Tra l’idea di una pluralità sconfinata e quella di una altrettanto sconfinata in-distinzione siamo rimandati invece a un numero limitato di strutture, che sono preordinate a un determinato sviluppo spirituale. Inoltre è risultato che l’instaurarsi di un’assolutezza non è, come abitualmente si ritiene, una peculiarità della sola “via monoteistica”, ma è proprio di tutt’e tre le vie sulle quali l’uomo ha abbandonato il mitoCome il “monoteismo” afferma l’assolutezza della chiamata divina da esso udita, così la mistica parte dall’assolutezza della spiritual experience come l’unica cosa davvero reale in tutte le religioni, mentre fa passare tutto quel che è dicibile e formulabile per forme simboliche secondarie e fungibili. Risiede qui il vero e proprio nocciolo del malinteso tra l’uomo di oggi, affascinato dalla teologia dell’in-distinzione della mistica spiritualistica, e il cristianesimo. L’uomo di oggi (manteniamo per ragioni di semplicità questo termine collettivo) è urtato dall’affermazione di assolutezza del cristianesimo, che gli sembra poco credibile di fronte a così tante relatività storiche a lui ben note, si sente molto più compreso e attirato dal simbolismo e dallo spiritualismo di un Radhakrishnan (N.d.C. Presidente della Repubblica Indiana), che insegna la relatività di tutti i messaggi religiosi articolabili e la validità della sola e unica esperienza spirituale mai adeguatamente dicibile, la quale (sebbene si presenti di grado diverso) è, a suo parere, una e la medesima. Per quanto significativa, questa opzione poggia tuttavia su un cortocircuito. Infatti, solo in apparenza Radhakrishnan oppone al punto di vista “partigiano” di chi è cristiano una apertura super partes verso tutto ciò che è religioso; in verità, come chi è cristiano, egli parte da una dottrina dell’assolutezza che corrisponde alla sua struttura religiosa; e per il cristianesimo (in genere per ogni tipo di vero e proprio “monoteismo”) la pretesa della sua via non rappresenta una pretesa minore di quella che l’assolutezza cristiana rappresenta per la propria. Infatti, se egli insegna l’assolutezza dell’ineffabile esperienza spirituale e la relatività di tutto il resto, chi è cristiano nega la validità unica ed esclusiva dell’esperienza mistica e insegna l’assolutezza della chiamata divina che s’è fatta udibile in Cristo. In ultima analisi, inculcare per forza a chi è cristiano l’assolutezza della mistica quale sola realtà vincolante costituisce una pretesa non inferiore al sostenere di fronte a chi non è cristiano l’assolutezza di Cristo. Infine, bisognerebbe aggiungere che anche la terza delle vie da noi evidenziate, che abbiamo chiamato “illuminismo”, con cui si potrebbe designare l’emergere di una impostazione basata su una concezione della realtà rigorosamente razionale, ha una sua propria assolutezza: l’assolutezza della conoscenza razionale (“scientifica”). Dove la scienza diviene “visione del mondo” (ed è esattamente questo che dev’essere designato col termine “illuminismo), quest’assolutezza diventa esclusiva, diviene la tesi dell’esclusiva validità del conoscere scientifico e di conseguenza diventa contestazione dell’assolutezza religiosa, che di per sé si colloca su tutt’altro piano.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.28-30)

    Una grande e rilevante differenza fra le religioni della “mistica dell’in-distinzione” e religioni della “comprensione di Dio come persona” (in un contributo giovanile teologico le aveva chiamate religioni “mistiche” e “monoteistiche”)

    L’intento di questo libro... si limita a discutere l’alternativa più fondamentale – a mio parere – tra mistica dell’in-distinzione e mistica dell’amore personale.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pag.88)

    il panorama della storia delle religioni ci pone di fronte soprattutto a una scelta di fonda tra due vie che io allora – abbastanza inadeguatamente – avevo designato coi termini “mistica” e “monoteismo”. Oggi invece parlerei piuttosto di “mistica dell’in-distinzione” e di “comprensione di Dio come persona”. In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia “Dio”, qualcuno che ci sta di fronte – così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità (“Dio tutto in tutti”, 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell’ “io” e del “tu” – o se il divino stia al di là della persona e il fine dell’uomo sia l’unirsi a e il dissolversi nell’Uno-tutto... Vorrei indicare già qui le fondamentali conclusione sul tema che recentemente ha tirato J.Sudbrack nel suo libro sullo Pseudo-Dionigi Areopagita e sulla storia del suo influsso. Nel misterioso scrittore del VI secolo che si è celato sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita, Sudbrack scorge il più importante costruttore di ponti tra l’Occidente e l’Oriente, tra il personalismo cristiano e la mistica asiatica. Egli formula l’alternativa di fronte alla quale ci troviamo in questo modo: “Si tratta del dissolversi nell’Uni-totalità o della fiducia originaria in un “tu” infinito, in Dio o qualunque altro sia il nome che si possa dare a quest’entità”. Egli analizza questo problema, secondo la via tracciata da Martin Buber. Il grande pensatore ebreo, nel 1909, nella sua opera Confessioni estatiche, aveva favorito una specie di mistica dell’unità. Dopo la sua conversione “la rifiutò così radicalmente da proibire la ristampa del libro”. Nella sua nuova visione, “non la fusione per giungere all’unità, ma l’incontro è l’elemento fondamentale dell’umana esperienza dell’Essere”. Egli era giunto a capire che quando si parla di mistica spesso vengono scambiati due tipi di accadimento: “Il primo è l’unificarsi dell’anima, che rende l’uomo idoneo all’opera dello Spirito. L’altro accadimento è quella imprecisabile modalità dello stesso atto del relazionarsi, in cui si immagina che due diventino uno”. Sundbrack richiama poi l’attenzione sul modo in cui Lévinas nella sua filosofia dell’ “altro” ha approfondito queste vedute di Buber. Lévinas considera il risolversi della molteplicità in una unità che tutto assorbe come uno smarrimento del pensiero e come una forma di esperienza spirituale che non va fino in fondo. Per lui l’ “infinità” di Hegel rappresenta l’esempio atto a dissuadere da una tale visione dell’unità. Bisogna opporsi al fatto che nella filosofia e nella mistica dell’in-distinzione il “volto dell’altro”, la cui libertà non può mai divenire un possesso, si dissolva in una “totalità” senza nome. In realtà, secondo lui, soltanto se si punta con fiducia sul libero “rimanere altro” dell’altro, si sperimenta la vera infinità. All’unità fusionale, con la sua tendenza al dissolvimento, dev’essere contrapposta l’esperienza personale: l’unità dell’amore è superiore all’ineffabile in-distinzione.
    Horst Bürkle ha mostrato che non si può rinunciare al concetto di persona, decisivo a livello della pratica della vita sociale. “Lo sviluppo dell’induismo dell’età moderna mostra che, anche per l’odierna immagine indiana dell’uomo, questo modo di intendere la persona è irrinunciabile [...]. Nelle Upanishad, l’esperienza dell’in-distinzione, del tat tvam asi [“questo tu sei”] non è in grado di fondare il valore e la dignità permanenti d’ogni singolo uomo. Valore e dignità che non si possono conciliare con l’idea che la vita terrena sia solo una fase transeunte nel ritmo dei successivi gradi di rinascita. Il valore proprio della persona e la sua dignità non si possono mantenere saldi in quanto stadio transitorio e sotto la condizione della loro variabilità [...]. Le riforme dell’induismo nell’epoca moderna, pertanto, prendono le mosse anche, coerentemente, dal problema della dignità umana. La maniera cristiana d’intendere la persona viene assunta nel contesto complessivo dell’induismo senza essere però fondata nel modo d’intendere Dio”. Non sarebbe difficile mostrare che la concezione del singolo come persona e la tutela del valore e della dignità d’ogni persona non si possono sostenere senza che siano fondati nell’idea di Dio.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.45-47)

    Nell’ultimo stadio di tale esperienza, il “mistico” (N.d.C. nel senso critico precedentemente esposto) non dirà più al suo Dio: “io sono tuo”, ma la sua formula sarà: “io sono Te”. La distinzione è relegata nella sfera del provvisorio, lo stadio definitivo è la fusione, l’unità. “Il monismo assoluto è il compimento del dualismo, con il quale inizia la coscienza devota”, dice Radhakrishnan. Quest’esperienza interiore di in-distinzione, in cui ogni separazione affonda e diventa velo irreale che cela l’unità col fondamento di tutte le cose, è poi il motivo della conseguente teologia dell’in-distinzione... nella quale tutte le diverse religioni, appunto perché sono diverse, vengono assegnate al mondo del provvisorio, in cui la parvenza della separazione copre ancora il mistero dell’in-distinzione. L’equiparazione di tutte le religioni, che riscuote tanta simpatia presso l’uomo occidentale contemporaneo, svela qui il suo presupposto dogmatico consistente nell’asserita identità di Dio e del mondo, del fondo dell’anima e della divinità. Al tempo stesso risulta chiaro perché, per la religiosità asiatica, la persona non sia un che di ultimo e perciò Dio stesso non sia concepito come persona: la persona, l’ “io” e il “tu” contrapposti, appartiene al mondo della separazione; anche il confine che distingue l’ “io e il “tu” sprofonda, si rivela provvisorio nell’esperienza che fa il mistico dell’Uno-tutto.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pag.32)

    L’esperienza vissuta, da cui nella mistica (N.d.C. sempre nel senso precedentemente esposto di religione dell’in-distinzione) tutto dipende, si esprime solo in simboli, il suo nucleo è identico in tutti i tempi. Non è il momento cronologico dell’esperienza vissuta ad essere importante, ma unicamente il suo contenuto, che equivale a un travalicamento e a una relativizzazione di ogni realtà temporale. Al contrario, la chiamata divina, da cui il profeta sa d’essere raggiunto, è databile; ha un “qui” ed “ora”, con essa ha inizio una storia, stabilita una relazione, e le relazioni tra persone hanno carattere storico, esse sono quello che noi chiamiamo storia. Jean Daniélou, in particolare, ha messo in forte risalto questo fatto, sottolineando a più riprese che il cristianesimo è “essenzialmente fede in un evento”, mentre le grandi religioni non cristiane affermano l’esistenza d’un mondo eterno “che si oppone al mondo nel tempo. Esse ignorano il fatto dell’irruzione dell’eterno nel tempo, che viene a dargli consistenza e a trasformarlo in storia”. La mistica, del resto, condivide questo carattere dell’astoricità con il mito e con le religioni primitive, nelle quali, secondo Mircea Eliade, è tipica “la ribellione contro il tempo concreto, la loro nostalgia d’un periodico ritorno al mitico tempo originario”. D’altronde, qui sarebbe il caso di mettere in rilievo quanto ha di particolare il cristianesimo nell’ambito della via monoteistica, poiché si potrebbe mostrare che solo nel cristianesimo l’impostazione storica è stata seguita in modo del tutto rigoroso, e che quindi solo nel cristianesimo la via monoteistica ha esplicato i suoi effetti in modo davvero autentico.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.38-39)

    E’ ancora Jean Daniélou che l’ha riconosciuto con perspicacia. Le sue affermazioni al riguardo meritano di essere abbondantemente citate: “Per il sincretismo [così egli dice. E noi potremmo dire: “per le diverse vie religiose al di fuori della rivoluzione inaugurata dai profeti”], le anime salve sono quelle capaci di interiorità, a qualsiasi religione appartengano. Per il cristianesimo, salve sono quelle che credono, qualunque sia il loro grado di interiorità. Un piccolo fanciullo, un operaio oppresso dal lavoro, se credono, sono superiori ai più grandi asceti. “Noi non siamo grandi personalità religiose, ha meravigliosamente detto Guardiani, “noi siamo i servitori della Parola”. Cristo aveva già detto che san Giovanni Battista poteva essere “il più grande tra i figli degli uomini ma che il più piccolo dei figli del Regno è più grande di lui” (cfr. Lc 7,28). E’ possibile che nel mondo vi siano grandi personalità religiose al di fuori del cristianesimo, è anche possibile persino che le più grandi personalità religiose si trovino al di fuori del cristianesimo: ciò non ha alcuna importanza. Quel che importa è obbedire alla parola di Cristo”...

    Mentre nelle religioni mistiche il mistico è “di prima mano” e il credente “di seconda mano”, in assoluto “di prima mano” qui è solo Dio stesso. Gli uomini sono, tutti e ognuno, “di seconda mano”: al servizio della chiamata divina.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.41-42)

    Questa situazione può essere colta con particolare evidenza nelle affermazioni di uno dei fondatori ed esponenti principali di tale teologia, il presbiteriano americano J.Hick, che prende le mosse filosoficamente dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno: non siamo in grado di raggiungere la realtà ultima in se stessa, ma sempre solo di vederla nel suo apparire attraverso varie “lenti” nel nostro modo di percepire. Tutto quello che percepiamo non è la realtà vera e proprio, come è in se stessa, ma solo il riflesso nel nostro sistema di misura. Questo approccio, che Hick in un primo tempo aveva tentato di formulare ancora in un contesto cristocentrico, dopo un soggiorno in India, durato un anno, con una rivoluzione copernicana del suo pensiero (come egli stesso afferma) è stato da lui trasformato in una nuova forma di teocentrismo.L’identificazione di una singola figura storica, Gesù di Nazaret con il reale stesso, ossia con il Dio vivente, viene respinta ora come una ricaduta nel mito; Gesù viene di proposito relativizzato come uno dei tanti geni religiosi. Ciò che è assoluto, oppure Colui che è l’assoluto, non può darsi nella storia, dove si hanno solo modelli, figure ideali che ci rinviano al totalmente Altro, il quale non si può appunto afferrare come tale nella storia. E’ chiaro che con questa tesi anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono più avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto, considerarli anzi come incontri reali con la verità, valida per tutti, del Dio che si rivela, significherebbe assolutizzare ciò che è proprio, particolare e travisare perciò l’infinità del Dio totalmente altro.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.123-125)

    Come mai la fede ha ancora una sua possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. L'uomo infatti possiede una dimensione più ampia di quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito. Kant stesso con i suoi postulati lo ha dovuto ammettere in qualche modo. Nell'uomo vi è un inestinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere.

    In ambito politico-sociale non si può pertanto negare al relativismo una qualche legittimità. Ma il problema deriva dal fatto che esso non si pone dei limiti. Infatti viene adottato espressamente anche sul piano della religione e dell'etica.
    (da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

    Nel pensiero di J.Hick, che qui consideriamo in particolare come l’esponente di maggior spicco del relativismo religioso, la filosofia postmetafisica dell’Europa si collega singolarmente alla teologia negativa dell’Asia, per la quale il divino, in se stesso e svelatamente, non può mai entrare nel mondo dell’apparenza, nel quale viviamo: si mostra solo in riflessi relativi e resta, al di là di tutte le parole e al di là di ogni pensiero, nella sua trascendenza assoluta. Queste due filosofie, in sé, sono radicalmente diverse nei loro presupposti fondamentali e per la direzione che propongono all’esistenza umana. Ma nel loro relativismo metafisico e religioso esse sembrano confermarsi a vicenda. Il relativismo areligioso e pragmatico dell’Europa e dell’America può mutuare dall’India una specie di consacrazione religiosa, che sembra conferire alla sua rinunzia al dogma la dignità di un timore reverenziale più nobile di fronte al mistero di Dio e dell’uomo. Viceversa l’appellarsi del pensiero europeo ed americano alla visione filosofica e teologica dell’India si ripercuote rafforzando la relativizzazione di tutte le figure religiose, caratteristica per la cultura indiana. Sembra perciò ora imperativo anche per la teologia cristiana in India privare la figura di Cristo, considerata occidentale, del suo carattere di unicità e collocarla quindi sullo steso piano dei miti indiani di salvezza: il Gesù storico (così si pensa ora) non è il Logos in assoluto, come non lo è qualsiasi altra figura di salvatore o redentore che appartenga alla storia.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.123-125)

    In base a questa concezione, che ha assunto oggi una posizione rilevante, anche al di là delle tesi di Hick, il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene ritenuto un fondamentalismo che si presenta come un autentico attentato contro lo spirito moderno e come una minaccia multiforme contro il suo bene principale, la tolleranza e la libertà. Anche il concetto di dialogo, che nella tradizione platonica e cristiana aveva acquisito una funzione significativa, assume ora un senso diverso. Diventa addirittura l'essenza del Credo relativista e l'opposto della «conversione» e della missione: in una concezione relativista dialogo significa porre su uno stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, e in linea di principio non ritenerla più vera della posizione dell'altro. Solo se suppongo veramente che l'altro abbia tanto ragione quanto me, o anche di più, sono realmente all'altezza del dialogo. Il dialogo dovrebbe essere uno scambio tra posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo di raggiungere il massimo di cooperazione o d'integrazione tra le varie concezioni religiose (2). Il dissolvimento relativista della cristologia e quindi anche dell'ecclesiologia diventa perciò un precetto fondamentale della religione. Per tornare a Hick: la fede nella divinità di uno solo, così egli dice, condurrebbe al fanatismo e al particolarismo, alla dissociazione tra fede e amore; ma questo è appunto ciò che si deve evitare.
    (da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

    In ultima analisi, per Hick la religione significa che l'uomo passa dalla self-tredness, che caratterizza l'esistenza del vecchio Adamo, alla reality-centredness che contraddistingue l'esistenza dell'uomo nuovo, e quindi si proietta al di fuori del proprio Io verso il Tu del prossimo. Questo è bello a parole, ma a ben guardare nel suo contenuto è insignificante e vuoto, come già l'appello di Bultmann all'autenticità, che egli aveva tratto da Heidegger. Per questo non c'è bisogno della religione. P. Knitter, ex sacerdote cattolico, avvertendo questa difficoltà, ha cercato di superare il vuoto di una teoria della religione, che si riduce in sostanza all'imperativo categorico, con una nuova e più concreta sintesi tra Asia ed Europa, più ricca nel suo contenuto. La sua proposta è quella di dare una nuova concretezza alla religione collegando la teologia pluralista della religione con le teologie della liberazione. In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente e nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico, in quanto resta fondato su di un'unica premessa: «il primato dell'ortoprassi sull'ortodossia». Questa preminenza accordata alla prassi rispetto alla conoscenza è anch'essa un'eredità marxista, ma il marxismo da parte sua concretizza soltanto ciò che si presenta come una conseguenza logica, una volta che si è rinunciato alla metafisica: se la conoscenza diventa impossibile rimane solo l'agire. Per Knitter, l'assoluto non lo si può pensare, ma solo fare. La questione però è: E’ vera questa affermazione? Da dove mi può venir suggerito il retto agire, se non so che cosa è giusto? Il fallimento dei regimi comunisti è dovuto proprio al fatto che si è cambiato il mondo senza sapere ciò che è buono per il mondo e ciò che non lo è, senza sapere in quale direzione esso deve essere mutato, per diventare migliore. La semplice prassi non è una luce.
    (da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

    In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente (N.d.C. da questo tipo di visioni religiose) e nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico in quanto resta fondato su di un’unica premessa: “il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia”.

    Queste religioni conoscono però senza dubbio un sistema di pratiche rituali, che viene considerato necessario per la salvezza e distingue i “fedeli” dagli infedeli. Esso non è caratterizzato da particolari contenuti dottrinali, ma all’adesione scrupolosa ad un rituale che interessa tutta quanta la vita. Ciò che l’ortoprassi significa, ciò che è dunque un “retto agire”, viene definito in modo molto preciso: si tratta di un codice di riti. Del resto il termine ortodossia nella Chiesa primitiva e nelle Chiese orientali aveva più o meno lo stesso significato. In questa parola infatti l’elemento – dossia si riferisce a dóxa, che non veniva certo inteso nel senso di “opinione” (la giusta opinione): per i Greci le opinioni sono sempre relative. Dóxa era inteso invece nel senso di “gloria”, “glorificazione”. Essere ortodosso significa perciò conoscere e praticare il modo esatto in cui Dio deve essere glorificato. Si riferisce al culto e dal culto viene proiettato nella vita. In questo senso si getterebbe certo un ponte solido per un dialogo fruttuoso tra l’Oriente e l’Occidente.

    Ma torniamo all’adozione del termine ortoprassi nella teologia moderna. Qui nessuno ha più pensato al fatto di seguire un rituale. La parola ha assunto dunque un significato del tutto nuovo, che non ha nulla a che fare con le concezioni autentiche dell’India. Resta però una cosa: se l’esigenza di un’ortoprassi deve avere un suo significato e non deve servire solo a mascherare l’assenza di un vincolo, vi deve essere allora anche un’ortoprassi comune, riconoscibile da tutti, che vada al di là del discorso generico circa l’incentrarsi sull’Io e il mettersi in relazione con un Tu. Se si esclude il significato rituale, come lo si intendeva in Asia, il termine “prassi” può essere adottato in senso etico o politico. L’ortoprassi richiederebbe, nel primo caso, un’etica chiaramente definita nel suo contenuto. Questo però viene espressamente escluso nella discussione sull’etica di impronta relativista: non esisterebbe ciò che è bene in sé e ciò che è male in sé. Se si intende ortoprassi in senso politico-sociale, sorge analogamente il problema di ciò che debba essere un retto agire politico.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.128-129)

    In una teologia rigorosamente apofatica non si avanza nessuna pretesa di conoscenza riguardo al divino; la religione non è più definita sul piano positivo e contenutistico e, dunque, neppure su quello istituzionale e sacrale. Essa è integralmente ricompresa nell'esperienza mistica e così resta a priori escluso il conflitto con la ragione scientifica. La New Age è per così dire la proclamazione dell'età della religione mistica, che è razionale proprio in quanto non avanza più alcuna pretesa di verità e dunque per sua natura è tollerante; anche se nel contempo garantisce all'uomo la rottura dei limiti dell' essere di cui egli ha bisogno per poter vivere e accettare la propria finitezza.

    Se questa è la via giusta, io dovrei dare all'ecumenismo la forma di una comprensione universale, riducendo gli assiomi positivi, quelli cioè che esigono delle verità contenutistiche, e riducendo nello stesso tempo le strutture sacrali a strutture di carattere funzionale. Con ciò non si pretende affatto la totale rinuncia alle forme teistiche fin qui esistite. Sembra piuttosto che si vada sempre più sviluppando un orientamento a considerare ambedue le maniere di vedere il divino compatibili e in fondo equivalenti. Il problema, in sostanza, non è se il divino debba essere concepito in modo personale o impersonale. Il Dio che parla e la silenziosa profondità dell'essere sarebbero alla fin fine solo due modi differenti di pensare l'ineffabile al di là di tutte le categorie concettuali. L'imperativo centrale di Israele: «Ascolta, Israele, il tuo Dio è un Dio vivente», che di fatto resta costitutivo anche per cristianesimo e islam, perde così i suoi contorni. In definitiva sarebbe irrilevante il fatto che uno si sottometta al Dio che parla o si abbandoni alla silenziosa profondità dell'essere. L'adorazione che il Dio di Israele pretende e lo svuotamento della coscienza, che dimentica il proprio io e si lascia dissolvere nell'infinito, potrebbero essere considerati come varianti di un unico e medesimo atteggiamento di fronte all'infinito.

    Così tutto sembra risolto nel modo migliore possibile: le forme sviluppate possono sopravvivere, ma riconoscono la relatività di tutte le strutture esteriori e sono unite nella ricerca della profondità dell'essere, in un'interiorizzazione che lascia dietro di sé anche il proprio io e dona il consolante contatto con l'ineffabile, rafforzati dal quale usciamo poi incontro alla realtà e al mondo di ogni giorno.
    Senza dubbio quanto detto può contribuire a un approfondimento delle religioni teistiche, sul cui percorso la corrente mistica e anche la teologia apofatica non sono mai mancate del tutto. Infatti si è sempre insegnato che tutto ciò che si dice e si può dire in definitiva rispecchia solo lontanamente l'ineffabile e che la dissomiglianza con ciò che noi possiamo immaginare e pensare resta sempre più grande di ogni somiglianza. Per questo l'adorazione ha sempre a che fare con l'interiorizzazione e l'interiorizzazione con il superamento di sé.

    Così il IV concilio Lateranense ne1 1215: «quia inter creatorem et creaturam non potest similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda» (DS 806).

    Tuttavia l'identificazione delle due vie e la loro riduzione ultima alla via mistica non sono accettabili, dal momento che, in tal caso, il mondo sensibile finirebbe per uscire del tutto dalla relazione con il divino. Il concetto di creazione non sarebbe allora più utilizzabile. Il cosmo, che non è più creazione, non ha più nulla a che fare con Dio.

    La stessa cosa vale necessariamente per la storia. Dio non entra più nel mondo; quest'ultimo diventa, in senso proprio, a-teo, privo di Dio. La religione non può più produrre alcuna comunione di pensiero e di volontà; diventa, per così dire, una terapia individuale: la salvezza si trova al di fuori del mondo; per operare in esso non ci viene data altra indicazione al di fuori della forza che si può accrescere ritirandosi regolarmente nella dimensione spirituale. Ma questa forza, come tale, non ha per noi alcun messaggio chiaramente definibile. Nel nostro agire all'interno del mondo restiamo dunque abbandonati a noi stessi.
    I tentativi contemporanei di ricomprensione dell'etica prendono facilmente le mosse da questa concezione e la stessa teologia morale ha cominciato a confrontarsi con questo punto di partenza. In tal modo, però, l'etica resta alla fin fine una nostra costruzione, l'ethos perde il suo carattere vincolante e obbedisce, in maniera più o meno esitante, ai nostri interessi.

    Infatti la fede nell'unico Dio implica necessariamente il riconoscimento della volontà di Dio: l'adorazione di Dio non è semplicemente un'immersione, bensì ci restituisce noi stessi e ci impone l'impegno nella vita quotidiana, reclama tutte le energie del nostro intelletto, del nostro sentimento e della nostra volontà. La fede in Dio non può rinunciare alla verità, a una verità definibile nei suoi contenuti, malgrado tutta l'importanza dell'elemento apofatico.

    Basta poco per vedere che questo è un corto circuito. Ovviamente l'impegno per la pace, la giustizia e il rispetto del creato è della massima importanza, e la religione dovrebbe senza dubbio fornire uno stimolo fondamentale in tale direzione. Ma le religioni non possiedono una conoscenza a priori di ciò che hic et nunc è utile alla pace, di come sia possibile costruire la giustizia sociale negli Stati e fra gli Stati, di come si possa tutelare nel modo migliore la creazione, custodendola responsabilmente secondo l'intenzione del creatore. Tutto ciò deve essere elaborato razionalmente di volta in volta.
    Inoltre occorre tener conto del libero confronto tra opinioni differenti e del rispetto di percorsi diversi. Dove questo pluralismo, spesso non superabile, dei percorsi e il faticoso confronto razionale vengono scavalcati da un moralismo con motivazioni religiose e una sola via è dichiarata giusta, la religione si trasforma in dittatura ideologica, il cui furore totalitario non costruisce la pace, ma la distrugge. La religione non può essere subordinata a una finalità pratico-politica, che poi diventa il suo idolo. L'uomo asserve Dio ai propri fini e in tal modo degrada Dio e se stesso.
    (da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.62-66)

    A questo proposito andrebbe ricordata la disputa tra Gregorio di Nissa ed Eunomio: Eunomio sosteneva la piena comprensibilità di Dio data con l'atto della rivelazione, mentre Gregorio interpretava la teologia trinitaria e la cristologia come teologia mistica, che invita a un cammino incessante verso Dio, che è sempre infinitamente più grande.

    In effetti la teologia trinitaria è apofatica in quanto cancella il concetto elementare di persona, derivante dall' esperienza umana, mentre afferma il Dio che parla, il Dio-Logos, ma che, nel contempo, mantiene il silenzio più grande, da cui viene il Logos e a cui egli ci rinvia.
    Qualcosa di simile si può osservare per l'incarnazione. Sì, Dio si fa del tutto concreto, tangibile nella storia. Si avvicina corporalmente all'uomo. Ma proprio questo Dio divenuto tangibile è del tutto misterioso. Il suo abbassarsi, liberamente scelto, la sua chenosi, è, per così dire, in un modo nuovo la nube del mistero, in cui egli si nasconde e allo stesso tempo si mostra. Infatti, quale paradosso potrebbe essere maggiore di questo, di un Dio che è vulnerabile e può essere ucciso? Il concetto di Verbo incarnato e crocefisso supera incommensurabilmente tutte le parole umane; proprio per questo la chenosi di Dio è il luogo in cui possono incontrarsi le religioni, senza pretese di dominio.
    (da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.70)

    Vi è però anche una reazione espressamente antirazionalista all'esperienza che «tutto è relativo», e che si riassume nell'etichetta polivalente del New Age (11). Qui la via di uscita dal dilemma della relatività non viene individuata in un nuovo incontro di un Io con un Tu o con il Noi, ma nel superamento del soggetto, nel ritorno estatico nel processo cosmico. Come già la gnosi antica, questa via ritiene di essere in sintonia con tutto ciò che la scienza insegna e pretende inoltre di valorizzare le conoscenze scientifiche di ogni genere (biologia, psicologia, sociologia, fisica). Nello stesso tempo però, partendo da queste premesse, intende offrire un modello del tutto antirazionalista di religione, una moderna «mistica»: l'assoluto non lo si può credere, ma sperimentare. Dio non è una persona che sta di fronte al mondo, ma l'energia spirituale che pervade il Tutto. Religione significa l'inserimento del mio Io nella totalità cosmica, il superamento di ogni divisione. K. H. Menke descrive molto bene la svolta spirituale che ne deriva, quando afferma: «Il soggetto, che pretendeva sottomettere a sé ogni cosa, si trasfonde ora nel "Tutto"» (12). La ragione oggettivante-così ci avverte il New Age- ci sbarra la via che conduce al mistero della realtà; l'essere Io ci esclude dalla pienezza della realtà cosmica, sconvolge l'armonia del Tutto ed è la causa autentica del nostro irredentismo. La redenzione consiste nello svincolamento dell'Io, nell'immergersi nella pienezza della vita, nel ritorno nel Tutto. Si ricerca l'estasi, l'ebbrezza dell'infinito, che si può sperimentare nel suono della musica, nel ritmo, nell'eccitazione della luce e del buio, nella massa umana. Così facendo, non solo si capovolge la strada dell'epoca moderna al dominio assoluto del soggetto; al contrario l'uomo stesso, per essere liberato, deve sciogliersi nel «Tutto». Ritornano gli dei. Essi appaiono più credibili di Dio. Bisogna rinnovare i riti primordiali, con i quali l'Io viene iniziato ai misteri del Tutto e viene liberato da se stesso.

    Il concetto di New Age, o era dell’Acquario, è stato coniato verso la metà del nostro secolo (1900, n.d.t.) da Raul Le Cour (1937) e Alice Bailey (la quale affermò di aver ricevuto nel 1945 dei messaggi relativi ad un nuovo ordine universale e una nuova religione universale). Tra il 1960 e il 1970 è anche sorto in California l’istituto Esalen. Oggi l’esponente più famosa del New Age è Marilyn Ferguson.

    Bisogna rilevare che si vanno configurando sempre più chiaramente due diverse correnti del New Age: una gnostico-religiosa, che ricerca l'essere trascendente e transpersonale e in esso l'Io autentico, e una ecologico-monista, che si rivolge alla materia e alla Madre Terra.
    (da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)


      continua.............


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Se non vi è una verità comune che abbia valore proprio perché è vera, il cristianesimo diventa solo un prodotto importato dall’esterno, un imperialismo spirituale, che bisogna scuotersi di dosso al pari di quello politico. Se non si realizza un incontro con l’unico Dio vivente di tutti gli uomini nei sacramenti, essi diventano dei riti privi di contenuto, che non ci dicono e non ci danno nulla, o tutt’al più ci fanno percepire il numinoso che domina in tutte le religioni. E’ più sensato allora cercare ciò che ci appartiene originariamente, piuttosto che lasciarci imporre quanto è estraneo e antiquato. Ma soprattutto, se la “sobria ebbrezza” del mistero cristiano non ci può rendere ebbri di Dio, bisogna allora evocare l’ebbrezza reale delle estasi efficaci, la cui passione ci eccita e ci rende dèi almeno per un attimo, ci fa sentire per un momento il gusto dell’infinito e ci fa dimenticare la miseria del finito. Quanto più si rende manifesta l’inutilità degli assolutismi politici, tanto più potente diventa l’attrattiva dell’irrazionalità, la rinuncia alla realtà del quotidiano.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.131-133)

    Con la distinzione mosaica intendo l’introduzione della distinzione tra vero e falso nell’ambito delle religioni. Fino ad allora la religione era basata sulla distinzione tra puro ed impuro, o tra sacro e profano e non c’era assolutamente posto per l’idea di falsi dèi [...] che non si possono adorare...” (J.Assmann). Gli dèi delle religioni politeiste sarebbero stati in un rapporto di equivalenza funzionale tra loro e sarebbero dunque stati interscambiabili gli uni con gli altri. Le religioni avrebbero avuto la funzione di strumento di traducibilità interculturale. “Le divinità erano internazionali, perché erano cosmiche [...] nessuno metteva in discussione la realtà degli dèi stranieri e la legittimità di forme di venerazione straniere. Il concetto di una “religione non vera” era totalmente estraneo ai politeismi antichi”. Con l’introduzione della fede-in-un-Dio-unico accade dunque qualcosa di nuovo, di sconvolgente: questo nuovo tipo di religione sarebbe per sua natura un’ “antireligione”, che emargina tutto quello che la precede come “paganesimo”, e non il mezzo di una traducibilità interculturale, bensì di uno straniamento interculturaleSolo a questo punto si sarebbe costituito il concetto di “idolatria” come il supremo dei peccati: “Nell’immagine del vitello d’oro, del “peccato originale” dell’iconoclastia monoteistica [...] è espresso il potenziale di odio e di violenza, che si è sempre tradotto in atto nella storia delle religioni monoteistiche”. Il racconto dell’Esodo, con questo suo potenziale di violenza, appare come il mito di fondazione della religione monoteistica e al contempo come il ritratto permanente dei suoi effetti.

    La conseguenza è chiara: l’Esodo deve essere annullato; dobbiamo fare ritorno in “Egitto” – vale a dire: la distinzione tra vero e non-vero nell’ambito delle religioni dev’essere abolita, dobbiamo tornare nel mondo degli dèi, i quali esprimono il cosmo in tutta la sua ricchezza e molteplicità, e di conseguenza non conoscono un’esclusione reciproca, anzi, al contrario, rendono possibile una reciproca comprensione. Il desiderio di annullare l’Esodo, d’altra parte, attraversa tutto l’Antico Testamento. Esso affiora continuamente durante la storia delle peregrinazioni nel deserto e si rende drammaticamente presente, ancora una volta, alla fine dell’Antico Testamento, nel primo Libro dei Maccabei, dove si riferisce di “traditori della legge” che propongono un’alleanza “con le nazioni che ci stanno attorno, perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali”. Essi decidono di non vivere più secondo la legge di Mosè, ma “secondo le usanze dei pagani” (1Mac 1,11-15). Dal canto suo, Assmann descrive minuziosamente la nostalgia dell’Egitto, del ritorno a prima della distinzione mosaica, a partire dal Rinascimento, con la sua venerazione del corpus Hermeticum come di una teologia originaria, fino ai sogni egizi dell’Illuminismo, con il Flauto Magico di Mozart quale grandiosa realizzazione artistica di questa nostalgia.

    Se capisco bene, per lui la formula di Spinoza Deus sive natura è al contempo la formula che sintetizza ciò che intende con questo ritorno, con il suo “Egitto”: la distinzione tra vero e falso può essere espunta dalla religione se cade la distinzione tra Dio e cosmo, se il divino ed il “mondo” vengono di nuovo visti indistintamente come un’unica realtà. La distinzione tra vero e falso è indissolubilmente connessa alla distinzione tra Dio e il mondo. Il ritorno all’Egitto è un ritorno agli dèi, in quanto respinge un Dio che sta di fronte al mondo, e considera gli dèi unicamente come forme di espressione simbolica della natura divina.

    Con la distinzione mosaica - così ci insegna Assmann – appare anche, inevitabilmente “la consapevolezza del peccato ed il desiderio di redenzione”; e aggiunge: “Peccato e redenzione non sono temi egizi”. Caratteristico per l’Egitto sarebbe piuttosto l’ “ottimismo morale che “mangia con gioia il suo pane” consapevole del fatto che “Dio ha già gradito le sue opere” – uno dei versetti egiziani della Bibbia (Qo 9,7-10). “Parrebbe – scrive Assmann – che con la distinzione mosaica il peccato sia entrato nel mondo.Forse sta proprio qui la ragione più importante per mettere in discussione la distinzione mosaica”. Con questo, un dato è stato visto in modo certamente esatto: la questione del vero e la questione del bene non possono essere separate. Se non si può più riconoscere il vero, né lo si può più distinguere dal non-vero, anche il bene diventa irriconoscibile; la distinzione tra bene e male perde il suo fondamento.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.224-227)

    G.Elisabeth M.Anscombe ha riassunto la concezione del suo maestro (Wittgenstein) al riguardo in due tesi: “1. Non esiste nulla del genere dell’essere-vero di una religione. Si allude a questo quando si dice: “Questo enunciato religioso non assomiglia a un enunciato della scienza”. 2. La fede religiosa può essere paragonata all’innamoramento di un essere umano, piuttosto che alla sua convinzione che qualcosa sia vero oppure falso”. Coerente con questa logica, Wittgenstein ha annotato in uno dei suoi numerosi taccuini che per la religione cristiana non avrebbe alcuna importanza se Cristo abbia effettivamente compiuto in un certo modo una delle opere a lui attribuite o addirittura se egli sia semplicemente esistito. A ciò corrisponde la tesi di Bultmann: credere in un Dio, creatore del cielo e della terra, non significa credere che Dio abbia realmente creato cielo e terra, ma unicamente considerare se stessi come creature e, grazie a ciò, vivere una vita più sensata.

    Nelle sue comunicazioni Seifert osserva al riguardo: “Per Wittgenstein l’uomo religioso e quello non religioso vivono, per così dire, in due mondi in cui giocare, e si muovono su piani diversi senza contraddirsi reciprocamente...”. In enunciazioni religiose, secondo Wittgenstein in fondo non si darebbe nulla... “proprio così come in un gioco di scacchi o di dama non si afferma nulla sulle dame o regine all’infuori di questi giochi. La religione perciò dovrebbe essere interpretata non nella modalità di proposizione dotate di senso con pretese di verità, ma in dimensione puramente antropologica e del tutto soggettiva, come un gioco preferito in senso meramente personale”.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.228-229)

    Innanzi tutto, già le religioni politeiste sono molto diverse fra di loroNon poche intuiscono in qualche modo sullo sfondo l’unico Dio, che è realmente Dio. Nel buddhismo ed in alcune correnti dell’induismo, come anche in forme tarde del platonismo, gli dèi appaiono come potenze di un mondo che nella sua totalità non è che apparenza, o che, in ogni caso, non è la realtà ultima, e che dev’essere superato se si vuole accedere alla salvezza piena. La tesi secondo cui gli dèi politeisti sono tra loro perfettamente interscambiabili, e quindi sono mezzi di comprensione interculturale, può appoggiarsi sulla politica religiosa dell’Impero Romano, ma non corrisponde affatto alla storia del politeismo in generale. Basta leggere Omero per ricordarsi delle guerre tra gli dèi e del fatto che le guerre tra gli uomini sono considerate come il riflesso e la conseguenza delle guerre tra gli dèi.

    La questione della verità non è stata inventata da “Mosè”. Essa insorge immancabilmente quando la coscienza raggiunge una certa maturazione.

    Nel suo importante libro Chrêsis, Christian Gnilka ha descritto in maniera approfondita l’irrompere della questione della verità nel mondo degli antichi dèi, e l’incontro del cristianesimo con questa situazione. Emblematica di questo procedimento è la figura, descritta da Cicerone, del pontefice massimo romano C.Aurelio Cotta, che, nella sua funzione di augure e capo del Collegium Pontificum, rappresentava la religione pagana di allora. Conformemente alla sua funzione, Cotta era garante dell’osservanza scrupolosa dei riti del culto pubblico e dichiarava che avrebbe difeso le “concezioni” (opiniones) sugli dèi ereditate dagli antenati e che non se ne sarebbe lasciato distinguere. Ma, lo stesso Cotta, a casa tra gli amici, si rivela uno scettico accademico che pone l’interrogativo sulla verità. Egli vorrebbe essere convinto, non sulla base di una semplice supposizione, ma secondo la verità e giunge alla conclusione che c’è da temere che gli dèi non esistano affatto. “Il criterio della verità, introdotto nel mondo antico degli dèi, agisce come una carica esplosiva”, constata Gnilka. Assmann stesso ha mostrato come questa schizofrenia abbia condotto ad una finzione difesa dallo Stato: per i non-iniziati gli dèi continuano a esistere come necessità di Stato, mentre gli iniziati riescono a scorgere la loro inconsistenza.

    Ora risulta inevitabile che la dialettica del progresso, messa in pratica, esiga le sue vittime: affinché i progressi addotti dalla Rivoluzione Francese potessero essere realizzati, era necessario mettere in conto le sue vittime – così ci si dice. Ed affinché il marxismo potesse produrre la società riconciliata erano per l’appunto necessarie le ecatombi di vittime umane, non c’era altro modo: qui la dialettica mitologica è stata tradotta in fatti. L’uomo diventa materiale per il gioco del progresso; come singolo egli non conta nulla; poiché è solo materiale per il crudele Dio Deus sive natura. La teoria dell’evoluzione ci insegna la stessa cosa: che i progressi, appunto, hanno un determinato costo. E gli esperimenti odierni sull’uomo, che viene trasformato in una “banca di organi”, ci mostrano l’applicazione del tutto pratica di queste idee – in cui l’uomo stesso prende in mano l’ulteriore evoluzione.

    La questione della verità è inevitabile. Essa è indispensabile all’uomo e riguarda proprio le decisioni ultime della sua esistenza: esiste Dio? Esiste la verità? Esiste il bene? La “distinzione mosaica” è anche la distinzione socratica, potremmo dire. Qui si rendono visibili la motivazione interiore e la necessità interiore dell’incontro storico tra la Bibbia e l’Ellade. Ciò che le unisce è appunto l’interrogativo sulla verità e sul bene in quanto tale che pongono alle religioni, ossia, come noi ora potremmo chiamarla, la distinzione mosaico-socratica. Questo incontro ha preso avvio ben prima dell’inizio della sintesi tra fede biblica e pensiero greco della quale si preoccuparono i Padri della Chiesa.

    C.Gnilka, op.cit., pp. 9-55. Ancora una volta, un ulteriore passo dell’incontro fra cristianesimo e platonismo si produsse quando il cosiddetto Pseudo-Dionigi al declino del V secolo o all’inizio del VI trasformò in senso cristiano l’interpretazione di Proclo, mutò il suo politeismo nella dottrina dei cori degli angeli e con la sua teologia negativa divenne uno dei padri della mistica cristiana.

    Ma l’Asia non ci indica forse la via d’uscita? Una religione che si regge senza dover elevare una rivendicazione di verità? Tale questione diventerà senza dubbio uno dei temi principali nei dialoghi futuri. Qui solo un accenno. Anche il buddhismo ha il suo modo specifico di porsi la questione della verità. Esso chiede la liberazione dal dolore, il quale è provocato dalla sete di vita. Dov’è il luogo della salvezza? Il buddhismo giunge al risultato che esso non si trova nel mondo, nella totalità dell’essere che appare. Nella sua totalità l’essere è dolore, è un ciclo di reincarnazioni e di sempre nuovi intrecci di legami. La via dell’illuminazione è la via che porta dalla sete dell’essere a ciò che a noi appare come un non-essere, il Nirvana. Vale a dire: nel mondo stesso non c’è la verità. La verità “accade” nell’uscita da esso. In questo senso la questione della verità si risolve nella questione della liberazione o redenzione, o anche: si toglie e si sublima in essa. Ci sono gli dèi, ma essi fanno parte del mondo della provvisorietà, non della salvezza definitiva. Solo nell’Hinayana questa visione viene rigorosamente mantenuta. Il Mahayana conosce in modo molto più marcato la dimensione sociale, l’aiuto per la liberazione dell’altro e colui che aiuta. Ma l’attesa fondamentale dell’estinguersi dell’esistenza e della persona del singolo, è mantenuta, sebbene essa sia rinviata molto lontano. Qui non si può parlare di Deus sive natura. Il mondo come tale è dolore – e quindi anche assenza di verità – e infine solo il distacco dal mondo può essere la salvezza. Qui si tratta di atteggiamenti esistenziali che racchiudono in sé un’immagine del mondo lontanissima dalle visioni occidentali ed anche da quelle “egizie”, politeiste, e che si pone come alternativa alla comprensione cristiana del mondo con la sua accettazione del mondo in linea di principio in quanto creazione. Anche questa via non ci dispensa però dalla questione della verità.

    Ora, è esatto che il Dio unico è un “Dio geloso”, come lo chiama l’Antico Testamento. Egli smaschera gli dèi perché nella sua luce si vede che gli “dèi” non sono Dio, che il plurale di Dio è di per sé una menzogna. La menzogna è sempre non libertà e non è un caso, soprattutto però non è falso, che nel ricordo di Israele l’Egitto appaia come una casa di schiavi, come un luogo di non-libertàSolo la verità rende liberi. Dove l’utilità viene anteposta alla verità – come accade nel caso della doppia verità, di cui abbiamo parlato in precedenza - l’uomo diventa schiavo dell’utilità e di coloro che possono decidere quale sia l’utile. In questo senso è indispensabile anzitutto la “demitizzazione” che spogli gli dèi del loro falso splendore e quindi del loro falso potere, per poi mettere in luce la loro “verità”, ossia per spiegare quali siano i veri poteri e le vere realtà che stanno dietro di loro. Detto altrimenti: una volta avvenuta questa “demitizzazione”, questo smascheramento, anche la loro verità relativa può e deve venire alla luce. Conformemente a questo, vi sono all’interno dell’atteggiamento cristiano nei confronti delle religioni “pagane” due fasi, che tuttavia devono necessariamente concatenarsi l’una con l’altra e non possono essere nettamente distinte in una successione temporale. La prima fase è l’alleanza del cristianesimo con la ragione, alleanza che predomina negli scritti dei Padri, da Giustino ad Agostino ed oltre: coloro che annunciano il cristianesimo si pongono dalla parte dei filosofi, della ragione, contro le religioni, contro la doppia verità di un C.Aurelio Cotta. Essi vedono i semi del Logos, della ragione divina, non nelle religioni, ma nel movimento della ragione che ha dissolto queste religioni. Ma sempre più chiaramente appare anche un secondo punto di vista, con il quale vengono alla luce anche il legame con le religioni ed i limiti della ragione.

    “Non appena sarete arrivati – con la grazia di Dio – presso il nostro reverendissimo fratello, il vescovo Agostino, ditegli che tra me e me ho riflettuto a lungo su una questione degli Inglesi. Non si dovrebbero cioè distruggere i templi degli idoli di quel popolo, ma unicamente annientare i simulacri degli dèi che vi si trovano [...]. Vedendo che non si distruggono i suoi templi, non solo abbandonerà l’errore, ma si recherà con gioia ancora più grande a riconoscere e ad adorare il vero Dio nei luoghi abituali”. Inoltre Gregorio in questa circostanza propone che le cerimonie ed i sacrifici animali vengano trasformati in feste per onorare i santi ed i martiri, nel corso delle quali venga mangiato l’animale macellato per il sacrificio. Qui appare dunque quella che noi chiamiamo la continuità del culto. Il luogo sacro rimane sacro e la precedente intenzione di onorare il divino viene ripresa e trasformata, acquistando un nuovo significato. A Roma lo si può constatare ovunque. Un nome come Santa Maria sopra Minerva lascia riconoscere allo stesso modo trasformazione e continuità. Gli dèi non sono più dèi. Come tali sono caduti: la questione stessa sulla verità ha tolto loro la divinità e provocato la loro caduta. Ma al contempo è venuta alla luce la loro verità: essi erano il riverbero del divino, presentimenti di figure, in cui il loro senso nascosto, purificato, trovava compimento. In questo modo esiste ora anche una “traducibilità” degli dèi, che in quanto presentimenti, in quanto gradini della ricerca del vero Dio e del suo rispecchiarsi nella creazione, possono diventare ambasciatori dell’unico Dio.

    Una cosa tuttavia mi sembra importante ai fini del nostro discorso: i temi del vero e del bene effettivamente non sono separabili. Platone aveva ragione identificando il punto più alto del divino con l’idea del Bene. Inversamente: se non possiamo conoscere la verità riguardo a Dio, allora anche la verità riguardo a quel che è bene e a ciò che è male resta inaccessibile.

    Il concetto biblico di Dio riconosce Dio come il Bene, come il Buono (cfr. Mc 10,18). Questo concetto di Dio raggiunge il suo culmine nell’affermazione giovannea: “Dio è amore” (1Gv 4,8). Verità e amore sono identici. Questa affermazione – se ne si coglie tutto quanto esso rivendica – è la più alta garanzia della tolleranza; di un rapporto con la verità, la cui unica arma è essa stessa e quindi l’amore.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.230-240)


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    Lo Spirito Santo non porta mai oltre Gesù Cristo (2Gv 9)

    12. C'è anche chi prospetta l'ipotesi di una economia dello Spirito Santo con un carattere più universale di quella del Verbo incarnato, crocifisso e risorto. Anche questa affermazione è contraria alla fede cattolica, che, invece, considera l'incarnazione salvifica del Verbo come evento trinitario. Nel Nuovo Testamento il mistero di Gesù, Verbo incarnato, costituisce il luogo della presenza dello Spirito Santo e il principio della sua effusione all'umanità non solo nei tempi messianici (cf. At 2,32-36; Gv 7,39; 20,22; 1 Cor 15,45), ma anche in quelli antecedenti alla sua venuta nella storia (cf. 1 Cor 10,4; 1 Pt 1,10-12).
    Il Concilio Vaticano II ha richiamato alla coscienza di fede della Chiesa questa verità fondamentale. Nell'esporre il piano salvifico del Padre riguardo a tutta l'umanità, il Concilio connette strettamente sin dagli inizi il mistero di Cristo con quello dello Spirito. Tutta l'opera di edificazione della Chiesa, da parte di Gesù Cristo Capo, nel corso dei secoli, è vista come una realizzazione che egli fa in comunione col suo Spirito.
    Inoltre, l'azione salvifica di Gesù Cristo, con e per il suo Spirito, si estende, oltre i confini visibili della Chiesa, a tutta l'umanità. Parlando del mistero pasquale, nel quale Cristo già ora associa a sé vitalmente nello Spirito il credente e gli dona la speranza della risurrezione, il Concilio afferma: «E ciò non vale solamente per i cristiani ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale».
    È chiaro, quindi, il legame tra il mistero salvifico del Verbo incarnato e quello dello Spirito, che non fa che attuare l'influsso salvifico del Figlio fatto uomo nella vita di tutti gli uomini, chiamati da Dio ad un'unica mèta, sia che abbiano preceduto storicamente il Verbo fatto uomo, sia che vivano dopo la sua venuta nella storia: di tutti loro è animatore lo Spirito del Padre, che il Figlio dell'uomo dona liberalmente (cf. Gv 3,34).
    Per questo il recente Magistero della Chiesa ha richiamato con fermezza e chiarezza la verità di un'unica economia divina: «La presenza e l'attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma anche la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni [...]. Il Cristo risorto opera nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito [...]. È ancora lo Spirito che sparge i “semi del Verbo”, presenti nei riti e nelle culture, e li prepara a maturare in Cristo». Pur riconoscendo la funzione storico-salvifica dello Spirito in tutto l'universo e nell'intera storia dell'umanità, esso, tuttavia, ribadisce: «Questo Spirito è lo stesso che ha operato nell'incarnazione, nella vita, morte e risurrezione di Gesù e opera nella Chiesa. Non è, dunque, alternativo a Cristo, né riempie una specie di vuoto, come talvolta si ipotizza esserci tra Cristo e il Logos. Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l'azione dello Spirito, “per operare lui, l'Uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale”».
    In conclusione, l'azione dello Spirito non si pone al di fuori o accanto a quella di Cristo. Si tratta di una sola economia salvifica di Dio Uno e Trino, realizzata nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio, attuata con la cooperazione dello Spirito Santo ed estesa nella sua portata salvifica all'intera umanità e all'universo: «Gli uomini non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito».
    (Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione "Dominus Iesus" circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa)

    L'offerta di queste religioni orientali si muove su diversi livelli. C'è uno yoga ridotto ad una specie di ginnastica: si offre qualche elemento che può dare un aiuto per il rilassamento del corpo. Bene, se lo yoga è ridotto realmente ad una ginnastica si può anche accettare, nel caso di movimenti che hanno un senso esclusivamente fisico. Ma deve essere realmente ridotto, ripeto, a un puro esercizio di rilassamento fisico, liberato da ogni elemento ideologico. Su questo punto si deve essere molto attenti per non introdurre in una preparazione fisica una determinata visione dell'uomo, del mondo, della relazione tra uomo e Dio. Questa purificazione di un metodo in sé logico di idee incompatibili con la vita cristiana, potrebbe essere paragonata per esempio con la "demitizzazione" delle tradizioni pagane sulla creazione del mondo, realizzata nel primo capitolo della Genesi, dove il sole e la luna, le grandi divinità del mito sono ridotte a "lampade" create da Dio, lampade che riflettono la luce di Dio, e ci fanno immaginare la vera Luce, che è il Creatore della luce. E cosi, anche nel caso dello yoga e delle altre tecniche orientali, sarebbe necessaria una trasformazione e uno spostamento radicale che realmente tolgano di mezzo ogni pretesa ideologica. Nel momento in cui compaiono elementi che pretendono di guidare ad una "mistica", diventano già strumenti che conducono in una direzione sbagliata.
    Questa trasformazione, o chiarimento, c'è stato?
    Generalmente no. Può darsi comunque che alcune persone abbiano cercato di escludere gli elementi religiosi e ideologici, mantenendo queste pratiche su un piano di puro esercizio fisico. Questo non si può escludere.
    Può esistere uno "yoga cristiano"?
    Nel momento in cui lo si chiama "yoga cristiano" è già ideologizzato e appare come una religione, e questo non mi piace tanto. Mentre sul piano puramente fisico, ripeto, alcuni elementi potrebbero anche sussistere. Occorre stare molto attenti riguardo al contesto ideologico, che lo rende parte di un potere quasi mistico. Il rischio è che lo yoga diventi un metodo autonomo di "redenzione", priva di un vero incontro tra Dio e la persona umana. E in quel caso, siamo già nel trascendente. E' vero che anche nella preghiera e nella meditazione cristiana la posizione del corpo ha la sua importanza, e sta a significare un atteggiamento interiore. che si esprime anche nella liturgia. Ma nello yoga i movimenti del corpo hanno una diversa implicazione di rapporto con Dio, che non è quella della liturgia cristiana. Occorre la massima prudenza perché dietro questi elementi corporali si nasconde una concezione dell'essere come tale, della relazione tra corpo e anima, tra uomo, mondo e Dio.
    Ritiene legittimo l'insegnamento della meditazione trascendentale e dello yoga nelle Chiese Cattoliche e nelle comunità religiose da parte di sacerdoti?
    Mi sembra molto pericoloso perché in questo contesto queste pratiche sono già offerte come un qualcosa, appunto, di religioso.
    E' possibile coniugare il mantra con la preghiera cristiana?
    Il mantra è una preghiera rivolta non a Dio, ma ad altre divinità che sono idoli.
    (da 30 domande al Cardinale J. Ratzinger, Intervista a cura di Ignazio Artizzu tratta dalla rivista "Una voce grida..." n°9, marzo 1999)

    Il problema della preghiera con persone di diversa religione

    Nell’epoca del dialogo e dell’incontro delle religioni è sorto inevitabilmente il problema se si possa pregare insieme gli uni con gli altri. A questo proposito oggi si distingue preghiera multireligiosa e interreligiosa. Il modello per la preghiera multireligiosa è offerto dalle due giornate mondiali di preghiera per la pace, nel 1986 e nel 2002, ad Assisi. Appartenenti a diverse religioni si radunano. Comune è la sofferenza per le angosce e le miserie del mondo e per la sua mancanza di pace, comune è l’anelito all’aiuto dall’alto contro le forze del male, affinché possano entrare nel mondo pace e giustizia. Da qui la volontà di porre un segno pubblico di questo anelito, che dovrebbe scuotere tutti gli uomini e rafforzare la buona volontà di porre un segno pubblico di questo anelito, che dovrebbe scuotere tutti gli uomini e rafforzare la buona volontà, che è condizione della pace. Tuttavia le persone radunate sanno pure che il loro modo di intendere il “divino” e quindi la loro maniera di rivolgersi a esso sono così diversi che una preghiera comune sarebbe una finzione, non sarebbe nella verità. Esse si raccolgono per dare un segno del comune anelito, ma pregano – anche se in contemporanea – in sedi separate, ciascuno a modo proprioNaturalmente “pregare”, nel caso di un modo impersonale di intendere Dio (legato spesso al politeismo), è qualcosa di completamente diverso dal pregare nella fede nel Dio unico e personale. La differenza si manifesta visibilmente, ma in modo tale che quel pregare possa essere anche un grido che implora il risanamento delle nostre divisioni.

    In riferimento ad Assisi – tanto nel 1986 quanto nel 2002 – ci si è chiesti ripetutamente e in termini molto seri se questo sia legittimo. La maggior parte della gente non penserà che si finge una comunanza che in realtà non esiste? Non si favorisce così il relativismo, l’opinione che in fondo siano solo differenze secondarie quelle che si frappongono fra le “religioni”? Non si indebolisce così la serietà della fede, non si allontana ulteriormente Dio da noi, non si consolida la nostra condizione di abbandono? Non si possono accantonare con leggerezza tali interrogativi. I pericoli sono innegabili, e non si può negare che Assisi, particolarmente nel 1986, da molti sia stato interpretato in modo errato. Sarebbe però altrettanto sbagliato rifiutare in blocco e incondizionatamente la preghiera multireligiosa così come l’abbiamo descritta.
    (da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.110-111)

    La ricerca teologica sul significato delle altre religioni nel piano salvifico di Dio

    14. Deve essere, quindi, fermamente creduto come verità di fede cattolica che la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio.
    Tenendo conto di questo dato di fede, la teologia oggi, meditando sulla presenza di altre esperienze religiose e sul loro significato nel piano salvifico di Dio, è invitata ad esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza. In questo impegno di riflessione la ricerca teologica ha un vasto campo di lavoro sotto la guida del Magistero della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, infatti, ha affermato che «l'unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione, che è partecipazione dell'unica fonte». È da approfondire il contenuto di questa mediazione partecipata, che deve restare pur sempre normata dal principio dell'unica mediazione di Cristo: «Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari». Risulterebbero, tuttavia, contrarie alla fede cristiana e cattolica quelle proposte di soluzione, che prospettassero un agire salvifico di Dio al di fuori dell'unica mediazione di Cristo.

    Innanzitutto, deve essere fermamente creduto che la «Chiesa pellegrinante è necessaria alla salvezza. Infatti solo Cristo è il mediatore e la via della salvezza; ed egli si rende presente a noi nel suo Corpo che è la Chiesa. Ora Cristo, sottolineando a parole esplicite la necessità della fede e del battesimo (cf. Mc 16,16; Gv3,5), ha insieme confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta». Questa dottrina non va contrapposta alla volontà salvifica universale di Dio (cf. 1 Tm 2,4); perciò «è necessario tener congiunte queste due verità, cioè la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini e la necessità della Chiesa in ordine a tale salvezza».
    La Chiesa è «sacramento universale di salvezza» perché, sempre unita in modo misterioso e subordinata a Gesù Cristo Salvatore, suo Capo, nel disegno di Dio ha un'imprescindibile relazione con la salvezza di ogni uomo. Per coloro i quali non sono formalmente e visibilmente membri della Chiesa, «la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo». Essa ha un rapporto con la Chiesa, la quale «trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre».

    21. Circa il modo in cui la grazia salvifica di Dio, che è sempre donata per mezzo di Cristo nello Spirito ed ha un misterioso rapporto con la Chiesa, arriva ai singoli non cristiani, il Concilio Vaticano II si limitò ad affermare che Dio la dona «attraverso vie a lui note». La teologia sta cercando di approfondire questo argomento. Tale lavoro teologico va incoraggiato, perché è senza dubbio utile alla crescita della comprensione dei disegni salvifici di Dio e delle vie della loro realizzazione. Tuttavia, da quanto fin qui è stato ricordato sulla mediazione di Gesù Cristo e sulla «relazione singolare e unica» che la Chiesa ha con il Regno di Dio tra gli uomini, che in sostanza è il Regno di Cristo salvatore universale, è chiaro che sarebbe contrario alla fede cattolica considerare la Chiesa come una via di salvezza accanto a quelle costituite dalle altre religioni, le quali sarebbero complementari alla Chiesa, anzi sostanzialmente equivalenti ad essa, pur se convergenti con questa verso il Regno di Dio escatologico.
    Certamente, le varie tradizioni religiose contengono e offrono elementi di religiosità, che procedono da Dio, e che fanno parte di «quanto opera lo Spirito nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni». Di fatto alcune preghiere e alcuni riti delle altre religioni possono assumere un ruolo di preparazione evangelica, in quanto sono occasioni o pedagogie in cui i cuori degli uomini sono stimolati ad aprirsi all'azione di Dio. Ad essi tuttavia non può essere attribuita l'origine divina e l'efficacia salvifica ex opere operato, che è propria dei sacramenti cristiani. D'altronde non si può ignorare che altri riti, in quanto dipendenti da superstizioni o da altri errori (cf. 1 Cor 10,20-21), costituiscono piuttosto un ostacolo per la salvezza.

    22. Con la venuta di Gesù Cristo salvatore, Dio ha voluto che la Chiesa da Lui fondata fosse lo strumento per la salvezza di tutta l'umanità (cf. At 17,30-31). Questa verità di fede niente toglie al fatto che la Chiesa consideri le religioni del mondo con sincero rispetto, ma nel contempo esclude radicalmente quella mentalità indifferentista «improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l'altra”». Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici. Tuttavia occorre ricordare «a tutti i figli della Chiesa che la loro particolare condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati». Si comprende quindi che, seguendo il mandato del Signore (cf. Mt 28,19-20) e come esigenza dell'amore a tutti gli uomini, la Chiesa «annuncia, ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose».
    La missione ad gentes anche nel dialogo interreligioso «conserva in pieno, oggi come sempre, la sua validità e necessità». In effetti, «Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4): vuole la salvezza di tutti attraverso la conoscenza della verità. La salvezza si trova nella verità. Coloro che obbediscono alla mozione dello Spirito di verità sono già sul cammino della salvezza; ma la Chiesa, alla quale questa verità è stata affidata, deve andare incontro al loro desiderio offrendola loro. Proprio perché crede al disegno universale di salvezza, la Chiesa deve essere missionaria». Il dialogo perciò, pur facendo parte della missione evangelizzatrice, è solo una delle azioni della Chiesa nella sua missione ad gentes.




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 11:23
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    L’ebraismo

    L’altro grande tema (N.d.C. oltre al dialogo tra le religioni del mondo) che acquista sempre più rilievo in ambito teologico è la questione del rapporto tra Chiesa e Israele. La consapevolezza di una colpa, a lungo rimossa, che grava sulla coscienza cristiana dopo i terribili eventi dei dodici funesti anni dal 1933 al 1945 è senza dubbio una delle ragioni primarie dell’urgenza con cui tale questione è oggi sentita, ma certamente non è la sua unica causa e il suo unico criterioIl metodo storico-critico fa apparire ampiamente discutibile l’interpretazione cristiana dell’Antico Testamento; d’altra parte l’esegesi del Nuovo Testamento ha notevolmente relativizzato la cristologia. Ambedue queste circostanze sembrano a prima vista favorire il dialogo ebraico-cristiano: diventa ora possibile, apparentemente, considerare l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento come l’unica storicamente fondata. facendo passare in secondo piano la cristologia, si può rimuovere il vero ostacolo che divide giudaismo e cristianesimo.
    Ma queste promesse sono ingannevoli. Infatti, se l’Antico Testamento non parla di Cristo, per i cristiani non è affatto Bibbia. Harnack ne aveva già tratto la conclusione che era finalmente giunto il momento di portare a termine il passo di Marcione, separando il cristianesimo dall’Antico Testamento. Ma ciò porterebbe appunto alla liquidazione dell’identità cristiana, che si fonda appunto sull’unità dei due Testamenti. E porterebbe al tempo stesso alla dissoluzione della parentela spirituale che ci lega a Israele e, quindi, alle conseguenze estreme già delineate da Marcione: il Dio di Israele apparirebbe come un Dio estraneo, che non è certo il Dio dei cristiani.
    La stessa cosa vale per la svalutazione della cristologia: se Cristo fu solo un rabbino ebreo incompreso o un ribelle messo a morte dai romani per motivi politici, che cosa avrebbe ancora da dire il suo messaggio? Mediante lui, il Gesù Cristo creduto dalla Chiesa figlio di Dio, il Dio di Israele è divenuto il Dio delle genti, si è compiuta la promessa secondo cui il servo di Dio porterà la luce di questo Dio a tutti i popoli. Se si spegne la luce di Cristo, si spegne anche la luce di Dio che noi abbiamo riconosciuto nel suo sguardo, dell’unico Dio in cui noi crediamo con “Abramo e la sua discendenza”, alla quale, noi, come cristiani, siamo convinti di poter appartenere proprio grazie a questa fede. Le false semplificazioni danneggiano il dialogo con le religioni e danneggiano il dialogo con l’ebraismo.
    (dalla Premessa del 1997 a La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.5-6)

    Per Natale ci scambiamo dei doni, per dare gioia gli uni agli altri e partecipare così alla gioia che il coro degli angeli annunziò ai pastori, richiamando alla memoria il regalo per eccellenza che Dio fece all'umanità donandoci suo Figlio Gesù Cristo. 
    Ma questo è stato preparato da Dio in una lunga storia, nella quale — come dice sant'Ireneo — Dio si abitua a stare con l'uomo e l'uomo si abitua alla comunione con Dio. Questa storia comincia con la fede di Abramo, Padre dei credenti, Padre anche della fede dei cristiani e per la fede nostro Padre. Questa storia continua nelle benedizioni per i patriarchi, nella rivelazione a Mosè e nell'esodo di Israele verso la terra promessa. 
    Una nuova tappa si apre con la promessa a Davide ed alla sua stirpe di un regno senza fine. I profeti a loro volta interpretano la storia, chiamano a penitenza e conversione e preparano così il cuore degli uomini a ricevere il dono supremo. Abramo, Padre del popolo di Israele, Padre della fede, è così la radice della benedizione, in lui "si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gen 12, 3). 
    Compito del popolo eletto è quindi donare il loro Dio, il Dio unico e vero, a tutti gli altri popoli, e in realtà noi cristiani siamo eredi della loro fede nell'unico Dio. La nostra riconoscenza va dunque ai nostri fratelli ebrei che, nonostante le difficoltà della loro storia, hanno conservato, fino ad oggi, la fede in questo Dio e lo testimoniano davanti agli altri popoli che, privi della conoscenza dell'unico Dio, "stavano nelle tenebre e nell'ombra della morte" (Lc 1, 79).
    Il Dio della Bibbia degli ebrei, che è Bibbia — insieme al Nuovo Testamento — anche dei cristiani, a volte di una tenerezza infinita, a volte di una severità che incute timore, è anche il Dio di Gesù Cristo e degli apostoli. 
    La Chiesa del secondo secolo dovette resistere al rifiuto di questo Dio da parte degli gnostici e soprattutto di Marcione, che opponevano il Dio del Nuovo Testamento al Dio demiurgo creatore, da cui proveniva l'Antico Testamento, mentre la Chiesa ha sempre mantenuto la fede in un Dio solo, creatore del mondo e autore di ambedue i testamenti. 
    La coscienza neotestamentaria di Dio che culmina nella definizione giovannea "Dio è amore" (1 Giov 4, 16) non contraddice il passato, ma compendia piuttosto l'intera storia della salvezza, che aveva come protagonista iniziale Israele. Perciò nella liturgia della Chiesa dagli inizi e fino ad oggi risuonano le voci di Mosè e dei profeti; il salterio di Israele è anche il grande libro di preghiera della Chiesa. Di conseguenza la Chiesa primitiva non si è contrapposta a Israele, ma credeva con tutta semplicità di esserne la continuazione legittima. 
    La splendida immagine di Apocalisse 12, una donna vestita di sole coronata di dodici stelle, incinta e sofferente per i dolori del parto, è Israele che dà la nascita a colui "che doveva governare tutte le nazioni con scettro di ferro" (Sal 2, 9); e tuttavia questa donna si trasforma nel nuovo Israele, madre di nuovi popoli, ed è personificata in Maria, la Madre di Gesù. Questa unificazione di tre significati — Israele, Maria, Chiesa — mostra come, per la fede dei cristiani, erano e sono inscindibili Israele e la Chiesa.
    Si sa che ogni parto è difficile. Certamente fin dall'inizio la relazione fra la Chiesa nascente ed Israele fu spesso di carattere conflittuale. La Chiesa fu considerata da sua madre figlia degenere, mentre i cristiani considerarono la madre cieca ed ostinata. Nella storia della cristianità le relazioni già difficili degenerarono ulteriormente, dando origine in molti casi addirittura ad atteggiamenti di antigiudaismo, che ha prodotto nella storia deplorevoli atti di violenza. 
    Anche se l'ultima esecrabile esperienza della shoah fu perpetrata in nome di un'ideologia anticristiana, che voleva colpire la fede cristiana nella sua radice abramitica, nel popolo di Israele, non si può negare che una certa insufficiente resistenza da parte di cristiani a queste atrocità si spiega con l'eredità antigiudaica presente nell'anima di non pochi cristiani. 
    Forse proprio a causa della drammaticità di quest'ultima tragedia, è nata una nuova visione della relazione fra Chiesa ed Israele, una sincera volontà di superare ogni tipo di antigiudaismo e di iniziare un dialogo costruttivo di conoscenza reciproca e di riconciliazione. Un tale dialogo, per essere fruttuoso, deve cominciare con una preghiera al nostro Dio perché doni prima di tutto a noi cristiani una maggiore stima ed amore verso questo popolo, gli israeliti, che "possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen." (Rom 9, 4-5), e ciò non solo nel passato, ma anche presentemente "perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rom 11, 29). Pregheremo egualmente perché doni anche ai figli d'Israele una maggiore conoscenza di Gesù di Nazareth, loro figlio e dono che essi hanno fatto a noi. Poiché siamo ambedue in attesa della redenzione finale, preghiamo che il nostro cammino avvenga su linee convergenti.
    È evidente che il dialogo di noi cristiani con gli ebrei si colloca su un piano diverso rispetto a quello con le altre religioni. La fede testimoniata nella Bibbia degli ebrei, l'Antico Testamento dei cristiani, per noi non è un'altra religione, ma il fondamento della nostra fede. Perciò i cristiani — ed oggi sempre più in collaborazione con i loro fratelli ebrei — leggono e studiano con tanta attenzione, come parte del loro stesso patrimonio, questi libri della Sacra Scrittura. 
    È vero che anche l'Islam si considera figlio di Abramo e ha ereditato da Israele e dai Cristiani il medesimo Dio, ma esso percorre una strada diversa, che ha bisogno di altri parametri di dialogo.
    (da L'eredità di Abramo, dono di Natale, articolo apparso il 29 Dicembre 2000 su l’Osservatore Romano)

    Al lettore medio verrà in mente il luogo comune secondo cui la Bibbia degli ebrei, l'«Antico Testamento», accomuna ebrei e cristiani, mentre la fede in Gesù Cristo come figlio di Dio e redentore li separa. Tuttavia si può facilmente vedere quanto sia superficiale una simile distinzione tra ciò che unisce e ciò che separa. Infatti va detto anzitutto che mediante Cristo la Bibbia di Israele è giunta ai non ebrei ed è divenuta anche la loro Bibbia.
    Quando la lettera agli Efesini dice che Cristo ha abbattuto il muro che divideva i giudei dalle altre religioni del mondo e ha ristabilito l'unità, non si tratta di vuota retorica teologica, ma di una constatazione del tutto empirica, anche se nel dato empirico non può essere compresa l'intera portata dell'affermazione teologica. Infatti mediante l'incontro con Gesù di Nazareth il Dio di Israele è divenuto il Dio di tutti i popoli della terra. Attraverso di lui si è di fatto adempiuta la promessa secondo cui i popoli avrebbero adorato il Dio di Israele come l'unico Dio, secondo cui il «monte del Signore» sarebbe stato innalzato al di sopra di tutti gli altri monti.

    Se Israele non può vedere in Gesù il figlio di Dio, come i cristiani, non gli è però assolutamente impossibile riconoscere in lui il servo di Dio, che porta ai popoli la luce del suo Dio. E, viceversa, anche se i cristiani desiderano che Israele possa un giorno riconoscere Cristo come il figlio di Dio, superando così la frattura che ancora li divide, essi dovrebbero comunque riconoscere il piano di Dio, che ha affidato chiaramente a Israele una sua missione nel «tempo dei pagani». I Padri la sintetizzano nel modo seguente: Israele deve restare di fronte a noi come il primo possessore della sacra Scrittura, per rendere proprio così testimonianza davanti al mondo.

    Anche qui è dunque vero che la figura di Cristo congiunge e divide allo stesso tempo Israele e la Chiesa: non è in nostro potere superare questa divisione, ma essa ci tiene insieme sulla via di colui che viene e non può essere quindi sentita come motivo di inimicizia.
    (da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.57-74)

    Indubbiamente dobbiamo vivere e pensare in modo completamente nuovo il nostro rapporto con l’ebraismo, ed è quanto già si sta facendo. La dif­ferenza non è stata eliminata e, anzi, in un certo modo la sentiremo forse perfino più forte. Ma de­ve essere vissuta sulla base del rispetto vicende­vole e della interiore affinità. In questa direzione siamo in cammino. Attraverso l’Antico Testamen­to, come parte della Bibbia cristiana, c’è sempre stato un profondo legame interiore tra cristiane­simo ed ebraismo. Ma proprio questo patrimonio comune ha sempre rappresentato un fattore di di­visione, perché gli ebrei avevano la sensazione che noi avessimo rubato loro la Bibbia, ma non la vi­vessimo, che solo loro ne fossero i legittimi pro­prietari. Al contrario, nella cristianità c’era, da una parte, la sensazione che gli ebrei leggessero l’An­tico Testamento in modo sbagliato, che esso ve­nisse letto correttamente solo se apertamente proiettato sulla figura di Cristo. Essi lo hanno rin­chiuso in se stesso, privandolo del suo vero orien­tamento. E così è avvenuto che i cristiani si rivol­gessero agli ebrei, dicendo: voi avete sì la Bibbia, ma non la usate nel modo giusto, dovete fare un passo avanti, il passo decisivo. L’altro aspetto era che a partire dal II secolo ci sono sempre stati nel cristianesimo dei movimenti che volevano liberarsi dell’Antico Testamento o co­munque ne sminuivano l’importanza. Anche se questa posizione non è mai stata accettata dal ma­gistero della Chiesa, nella cristianità si è comun­que fatta strada una certa svalutazione dell’Anti­co Testamento. Se naturalmente si prendono alla lettera, superficialmente, le singole prescrizioni della legge o certe storie crudeli, ci si potrebbe chiedere perché quella dovrebbe essere la nostra Bibbia. In questo modo si è sviluppato un antise­mitismo cristiano. Quando in epoca moderna i cri­stiani si sono allontanati dall’interpretazione al­legorica, con cui i Padri avevano «cristianizzato» l’Antico Testamento, si è cominciato a sperimen­tare un nuovo senso di estraneità verso questo li­bro; dobbiamo nuovamente imparare a leggerlo in modo corretto. Dobbiamo vivere ancora l’appartenenza recipro­ca attraverso la comune storia di Abramo, che è allo stesso tempo ciò che ci separa e ciò che ci uni­sce, rispettando il fatto che gli ebrei non leggono l’Antico Testamento a partire da Cristo, ma a par­tire da Colui che deve ancora venire e non è anco­ra conosciuto; e il fatto che essi, però, proprio in questo modo, si collocano nello stesso orientamen­to di fede. Per parte nostra, noi speriamo che gli ebrei possano a loro volta capire che noi, pur ve­dendo l’Antico Testamento sotto un’altra luce, cer­chiamo tuttavia di credere insieme con loro la fe­de di Abramo e possiamo così vivere in un comu­ne orientamento interiore rivolti gli uni verso gli altri.
    (da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag.275-278)

    La storia dei rapporti tra Israele e la cristianità è intrisa di lacrime e sangue, è una storia di diffidenza e di ostilità, ma anche - grazie a Dio - una storia sempre attraversata da tentativi di perdono, di comprensione, di accoglienza reciproca.

    Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell'accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità. Pur sapendo che Auschwitz è la terrificante espressione di un'ideologia che non si limitava a volere la distruzione dell'ebraismo, ma che odiava l'eredità ebraica anche nel cristianesimo e cercava di cancellarla, dinanzi a eventi di questo genere resta la domanda sulle ragioni della presenza nella storia di tanta ostilità tra coloro che, invece, avrebbero dovuto riconoscere la propria affinità in forza della fede nell'unico Dio e della professione della sua volontà.
    Questa ostilità proviene forse proprio dalla fede dei cristiani, dall'«essenza del cristianesimo», così che per giungere a una vera riconciliazione bisognerebbe di necessità astrarre da questo nucleo e negare il contenuto centrale del cristianesimo?
    Davvero le cose stanno così, quasi che il nucleo stesso della fede cristiana porti all'intolleranza, anzi all'ostilità nei confronti degli ebrei e che, al contrario, l'auto-considerazione degli ebrei, la difesa della loro dignità storica e delle loro convinzioni più profonde esiga da parte dei cristiani la rinuncia al centro stesso della propria fede, e dunque una rinuncia alla tolleranza? Il conflitto è insito nella natura più intima della religione e può essere superato solo con il suo abbandono?

    Si cerca spesso di sdrammatizzare il problema presentando Gesù come un maestro ebreo che, nella sostanza, non si è di molto scostato da quel che era concepibile nella tradizione giudaicaLa sua uccisione dovrebbe allora essere intesa nel quadro delle tensioni tra giudei e romani: in effetti, la sua condanna a morte fu eseguita secondo modalità che l' autorità romana riservava alla punizione dei ribelli politici. La sua esaltazione come figlio di Dio sarebbe quindi avvenuta in seguito, nel quadro del contesto culturale ellenistico, e la responsabilità della sua morte in croce sarebbe stata trasferita dai romani ai giudei proprio in considerazione della situazione politica dell'epoca.

    Tuttavia letture di questo genere non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù nuovo e differente; relegano nell'ambito mitico la fede storica della Chiesa in Cristo. Egli appare così come un prodotto della religiosità greca e di particolari interessi politici nell'impero romano. In tal modo, però, non si rende ragione della serietà della questione, semplicemente ci si ritrae da essa.

    In proposito il Catechismo scrive: «La venuta dei magi a Gerusalemme per adorare il re dei giudei (M t 2,2) mostra che essi, alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni. La loro venuta sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell' Antico Testamento. L'Epifania manifesta che "la grande massa delle genti" entra "nella famiglia dei patriarchi" e ottiene la dignitas israelitica - la dignità israelitica» (528).

    Potremmo dire: la missione di Gesù è dunque la riunione di giudei e pagani in un unico popolo di Dio, in cui si compiono le promesse universalistiche della Scrittura, che a più riprese affermano che tutti i popoli adoreranno il Dio di Israele, al punto che nel Terzo Isaia non si legge più solamente del pellegrinaggio dei popoli verso Sion, ma viene annunciato l'invio di messaggeri ai popoli “che non hanno udito la mia fama e non hanno visto la mia gloria [...]. Anche da essi mi prenderò dei sacerdoti e dei leviti, dice il Signore” (Is 66,19.21).
    Per spiegare la riunione di Israele e delle nazioni, il breve testo del Catechismo - sempre interpretando Mt 2 - ci presenta un insegnamento sul rapporto tra le religioni del mondo, la fede di Israele e la missione di Gesù: le religioni del mondo possono diventare la stella che guida gli uomini sulla via e li conduce alla ricerca del regno di Dio. La stella delle religioni indica Gerusalemme, si spegne e torna a splendere nella parola di Dio, nella Sacra Scrittura di Israele. La parola di Dio che vi è custodita si dimostra la vera stella, senza la quale e a prescindere dalla quale non è possibile giungere alla meta.

    Che significa tutto ciò? La missione di Gesù consiste dunque nel riunire tutti i popoli nella comunione della storia di Abramo, della storia di Israele. La sua missione è unione, riconciliazione, come si legge anche nella lettera agli Efesini (2,18-22). La storia di Israele deve diventare la storia di tutti, la figliolanza di Abramo deve dilatarsi fino a comprendere i «molti».

    Un'altra osservazione può qui essere utile. Se la storia dei magi, nell'interpretazione del Catechismo, presenta la risposta dei libri sacri di Israele come indicazione decisiva e irrinunciabile per tutti i popoli della terra, per ciò stesso essa non è altro che una variazione dello stesso tema che si incontra nella formula giovannea «La salvezza viene dai giudei» (Gv 4,22). Questa origine mantiene vivo il suo valore nel presente, nel senso che non vi può essere nessun accesso a Gesù e, dunque, nessun ingresso dei popoli nel popolo di Dio senza l'accettazione credente della rivelazione di Dio, che parla nelle sacre Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento.

    A dare di farisei, sacerdoti e giudei un'immagine generalmente negativa non sono state solo le prime interpretazioni della storia di Gesù. Proprio la letteratura liberale e moderna ha riportato in auge il cliché delle contrapposizioni: farisei e sacerdoti vi compaiono come sostenitori di un rigido legalismo, come rappresentanti della legge eterna del potere costituito, delle autorità religiose e politiche, che impediscono la libertà e vivono dell'oppressione altrui. In linea con queste interpretazioni ci si pone a fianco di Gesù e si ritiene di continuare la sua battaglia, impegnandosi contro il potere clericale nella Chiesa e contro l'ordine stabilito nello Stato. Le immagini del nemico di certe battaglie moderne per la libertà si confondono con le immagini della storia di Gesù e tutta la sua storia è in fondo interpretata, in tale prospettiva, come una battaglia contro il dominio dell'uomo sull'uomo mascherato dalla religione, come l'avvio di quella rivoluzione in cui egli ha sì dovuto soccombere, ma che proprio con la sua sconfitta ha trovato un inizio che ora deve portare alla vittoria definitiva. Se Gesù dev'essere visto così, se la sua morte va intesa in un contesto del genere, il suo messaggio non può essere la riconciliazione.

    La visione del Catechismo, tratta principalmente da Matteo ma in definitiva determinata dall'insieme della tradizione evangelica, porta logicamente a una prospettiva del tutto diversa, che desidero qui esporre in modo esauriente: «La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge [ = della Torah]. Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi dall'abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l'uomo sceglie tra il puro e l'impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità[...]. Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante l'imitazione della perfezione del Padre celeste[...]» (1968).

    Questa visione di una profonda unità tra l'annuncio di Gesù e l'annuncio del Sinai viene ancora una volta sintetizzata con riferimento a un'affermazione neotestamentaria, che non è solo comune alla tradizione sinottica, ma ha un carattere centrale anche negli scritti giovannei e paolini: dall'unico comandamento dell'amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la Legge e i Profeti (1970; Mt 7,12; 22,34-40; Mc 12,29-31; Lc 10,25-28; Gv 13,34; Rm 13,8-10). Per i popoli l'inclusione nella discendenza di Abramo si compie concretamente aderendo alla volontà di Dio, in cui precetto morale e confessione dell'unicità di Dio sono inseparabili, come risulta particolarmente chiaro nella versione marciana di questa tradizione, in cui il duplice comandamento è espressamente legato allo Shema' Isra'el, al sì all'unico Dio. All'uomo viene comandato di assumere come criterio la misura di Dio e la sua perfezione. Qui, al di là di tutte le discussioni storiche e strettamente teologiche, veniamo a trovarci proprio al cuore della responsabilità presente di ebrei e cristiani dinanzi al mondo contemporaneo. Questa responsabilità consiste precisamente nel sostenere la verità dell'unica volontà di Dio davanti al mondo e di porre così l'uomo davanti alla sua verità interiore, che è al tempo stesso la sua via.

    Con la presentazione appena esposta dell'intima continuità e coerenza tra Legge e vangelo, il Catechismo resta rigorosamente all'interno della tradizione cattolica, così come è stata formulata soprattutto da Agostino e Tommaso. In essa il rapporto fra Torah e annuncio di Gesù non è mai stato visto in chiave dialettica, per cui Dio apparirebbe nella Legge sub contrario, e dunque come avversario di se stesso. In essa non vigeva la dialettica, bensì l'analogia, lo sviluppo nell'intima corrispondenza, in conformità con la bella affermazione di sant'Agostino: nell' Antico Testamento è nascosto il Nuovo, nel Nuovo è manifesto l' Antico. Per illustrare la profonda connessione tra i due Testamenti che ne deriva, il Catechismo cita un testo molto bello di san Tommaso: «Ci furono [...], nel regime dell' Antico Testamento, anime ripiene di carità e della grazia dello Spirito Santo, le quali aspettavano soprattutto il compimento delle promesse spirituali ed eterne. Sotto tale aspetto, costoro appartenevano alla nuova legge. Al contrario, anche nel Nuovo Testamento ci sono uomini carnali [...]» (1964; Summa theologiae, I-II, 107, 1, ad 2).

    Questa frase è stata intesa dai miei uditori come un riferimento all'insegnamento di Lutero sui due Testamenti. In effetti avevo presenti alcuni aspetti del pensiero di Lutero, ma ovviamente ero anche consapevole che un'opera tanto complessa e variegata come quella del riformatore tedesco non poteva essere riassunta adeguatamente in una sola frase. Qui non si può e non si deve affrontare né, tanto meno, giudicare o addirittura condannare la teologia luterana dei due Testamenti. Si vuole semplicemente accennare a diversi modelli di trattazione del problema, per meglio evidenziare la linea agostiniano-tomistica scelta dal Catechismo.

    A questo punto si pone però una nuova domanda: come è potuto accadere? Come si concilia tutto ciò con il compimento della Legge fino all'ultimo iota? Poiché, in effetti, non si possono separare i principi morali generalmente validi e le disposizioni rituali e giuridiche transitorie senza distruggere la stessa Torah, la quale è di per sé una creazione unitaria, che come tale si sa debitrice della parola che Dio ha rivolto a Israele. L'idea secondo cui vi sarebbe da una parte la pura morale, che è razionale e universale, e dall'altra dei riti, che sono condizionati dalle circostanze storiche e a cui, in definitiva, si può rinunciare, misconosce del tutto la struttura interna dei cinque libri di Mosè. Il decalogo come nucleo del Pentateuco mostra in maniera sufficientemente chiara che in esso adorazione di Dio e morale, culto ed ethos sono del tutto inseparabili.

    Ci troviamo così davanti a un paradosso: la fede di Israele era indirizzata all'universalità; poiché si rivolgeva all'unico Dio di tutti gli uomini, portava in sé la promessa di divenire la fede di tutti i popoli. Ma la Legge in cui trovava espressione era particolare, riferita in maniera molto concreta a Israele e alla sua storia; in questa forma essa non poteva essere universalizzataNel punto nodale di tale paradosso si trova Gesù di Nazareth che, come ebreo, viveva lui stesso fino in fondo nella Legge d'Israele, ma che, al contempo, si sapeva mediatore dell'universalità di Dio.

    Gesù non ha agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un'interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte un liberale e una gerarchia chiusa e irrigidita nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica, tanto diffusa, misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù né di Israele.
    La sua apertura della Legge Gesù l'ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio.
    Solo Dio, infatti, poteva interpretare in modo tanto radicalmente nuovo la Legge e proclamare questa trasformazione e conservazione come il significato da lui realmente inteso. L'interpretazione della Legge data da Gesù ha senso solo se è un'interpretazione derivante da un mandato di Dio, se è Dio stesso a spiegare se stesso.
    Il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in definitiva questa o quella singola prescrizione legale, ma la pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di essere lui stesso questa auctoritas. «lo e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).

    In questo contesto è importante un passo del Catechismo che interpreta la speranza cristiana come prosecuzione della speranza di Abramo, ricollegandola al sacrificio di Isacco: la speranza cristiana ha cioè «la propria origine ed il proprio modello nella speranza di Abramo». Il testo prosegue ricordando che Abramo fu «colmato in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del sacrificio» (1819). Grazie alla sua disponibilità al sacrificio del figlio Abramo diventa in modo definitivo il padre delle moltitudini, benedizione per tutti i popoli della terra (cfr. Gn 22).
    Il Nuovo Testamento vede la morte di Cristo in questa prospettiva, come compimento di tale evento. Ciò significa inoltre che tutte le prescrizioni cultuali dell' Antico Testamento vengono assunte in questa morte e in essa condotte al loro significato più profondoTutti i sacrifici sono infatti azioni vicarie, che in questo grande atto di rappresentazione reale da simboli diventano realtà, così che i simboli possono venir meno senza che per ciò si sia rinunciato neppure a uno iotaL'universalizzazione della Torah da parte di Gesù, come la intende il Nuovo Testamento, non consiste nell'estrarre alcune prescrizioni morali universali dalla totalità viva della rivelazione di Dio. Essa mantiene l'unità di culto ed ethos. L'ethos resta fondato e ancorato nel culto, nell'adorazione di Dio, per il fatto che nella croce viene raccolto tutto il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale. Secondo la fede cristiana, sulla croce Gesù manifesta e adempie la totalità della Legge e la trasmette così ai pagani, che ora possono farla propria in questa sua totalità, divenendo con ciò figli di Abramo.
    Il Catechismo ricorda in proposito che, secondo la testimonianza degli evangelisti, alcune personalità giudaiche molto stimate erano seguaci di Gesù, anzi, che, secondo Giovanni, poco prima della morte di Gesù «molti dei capi credettero in lui» ( Gv 12,42). Il Catechismo ricorda anche che all'indomani della Pentecoste, stando agli Atti degli Apostoli, «un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede» (At 6,7). Viene inoltre citata l'affermazione di Giacomo secondo cui «parecchie migliaia di Giudei sono venuti alla fede,e tutti sono gelosamente attaccati alla Legge» (At 21,20 ). È così messo in chiaro che il racconto del processo di Gesù non può in alcun modo fondare la tesi di una colpa collettiva degli ebrei; il Vaticano II viene espressamente citato: «Quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo [...]. Gli Ebrei non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura» (597; Nostra Aetate 4).

    Coerentemente, l'analisi delle responsabilità viene conclusa con una sezione dal titolo «Tutti i peccatori furono gli autori della Passione di Cristo». In questo il Catechismopoteva appoggiarsi al Catechismo Romano del 1566. Vi si legge infatti: «Se alcuno cerchi quale sia stata la causa per cui il Figlio di Dio ha subito la dolorosissima passione, troverà che (oltre la macchia ereditaria dei progenitori) furono specialmente i vizi e i peccati commessi dagli uomini dall'origine del mondo sino ad oggi e quelli che si commetteranno in seguito sino alla consumazione dei secoli. [...] E questa colpa è da imputarsi a tutti quelli che troppo spesso cadono nel peccato. Infatti, avendo i nostri peccati determinato N.S. Gesù Cristo a subire il supplizio della croce, certamente quelli che si avvoltolano nei delitti e nelle scellerataggini, per quanto sta in loro, "un'altra volta crocifiggono in se stessi il Figlio di Dio e l'espongono all'ignominia" (Ebr. 6,6)».
    Il Catechismo Romano del 1566, citato dal nuovo Catechismo (598), aggiunge poi che gli ebrei, secondo la testimonianza dell'apostolo Paolo, «se l'avessero saputo, non avrebbero mai crocifisso il Re della gloria» (1Cor 2,8). Prosegue quindi: «noi invece professiamo di conoscerlo e poi, negandolo con i fatti, pare che leviamo la mani violente contro di lui» (Catech. R. 1,5,11).
    Per chi come cristiano credente vede nella croce non un semplice e casuale fatto storico, ma un vero evento teologico, queste non sono affatto superficiali esortazioni edificanti, di fronte alle quali si deve richiamare il reale svolgimento dei fatti storici; al contrario, solo queste affermazioni si spingono fino al vero nucleo di quell'evento. Tale nucleo consiste nel dramma del peccato umano e dell'amore divino; il peccato umano fa sì che l'amore di Dio per l'uomo prenda la forma della croce. Per questo da una parte il peccato è responsabile della croce, ma dall'altra la croce è la vittoria sul peccato da parte dell'amore, più forte, di Dio.
    Per questo, al di là di tutte le questioni di responsabilità, ciò che in definitiva e più propriamente conta a tale proposito è quanto espresso nella lettera agli Ebrei (12,24), secondo cui il sangue di Gesù ha una voce diversa - più eloquente - da quella del sangue di Abele, del sangue di tutti coloro che nel mondo sono morti ingiustamente. Non invoca punizione, ma è riconciliazione.
    Fin da bambino - benché naturalmente non sapessi nulla di tutte le nuove conoscenze che sono state riassunte nel Catechismo - mi risultava incomprensibile che alcuni volessero trarre dalla morte di Cristo una condanna dei giudei, perché questo concetto mi era già entrato nell'anima come qualcosa capace di donarmi una profonda consolazione: il sangue di Gesù non pretende alcuna vendetta, ma chiama tutti alla riconciliazione; come spiega la lettera agli Ebrei, è esso stesso divenuto il giorno permanente della riconciliazione di Dio.
    (da Israele, la Chiesa e il mondo. I loro rapporti e il loro compito secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, pagg.9-26)

    Intanto anche nella Chiesa è diventata patrimonio comune l’affermazione che Gesù era ebreo. Ma non si dovrebbe dire “Dio è diventato ebreo” invece di “Dio è diventato uomo”? La fede cristiana non deve dunque accettare l’ebraismo anche nella sua vocazione storica?
    Anzitutto è importante essere chiaramente consapevoli che Gesù è stato ebreo. Al riguardo vorrei riferire quanto segue. Sono andato a scuola durante il periodo nazista e ho conosciuto direttamente la tendenza dei “deutsche Christen” [i cristiani filonazisti] a fare di Cristo un “ariano”: in quanto originario della Galilea non sarebbe stato affatto ebreo. Nel nostro corso di religione, come anche nelle prediche, veniva invece detto con energia: questa è una falsificazione; Cristo era figlio di Abramo, figlio di Davide, è stato un ebreo, ciò fa parte delle promesse, è parte della nostra fede. Si tratta indubbiamente di un punto importante, al quale noi, come cristiani ed ebrei, siamo davvero reciprocamente legati. Ma rimane significativa e vera anche l’altra affermazione: Dio è diventato uomo. E’ interessante il fatto che nel Nuovo Testamento siano presenti due genealogie di Gesù: quella di Matteo risale ad Abramo e indica Gesù come figlio di Abramo, come figlio di Davide e quindi come realizzazione della promessa di Israele. Quella di Luca risale ad Adamo e indica Gesù soprattutto come l’Uomo. E’ decisamente un elemento importante che Gesù sia un uomo e che la sua vita e la sua morte siano state per tutti gli uomini. Proprio l’eredità di Abramo nella fede fa sì che l’eredità promessa si estenda a tutta l’umanità. Perciò la semplice asserzione originaria “egli è diventato un uomo” è sempre importante. Infine, in terzo luogo, si deve aggiungere che Gesù, come ebreo personalmente ossequiente alle leggi, ha anche superato l’ebraismo e ha voluto interpretare ex novo tutta l’eredità ebraica in una fedeltà più grande e nuova. Questo è proprio il punto di conflittualità. A riguardo esistono anche buoni spunti di dialogo. Penso soprattutto a un bel libro del rabbino americano Jacob Neusner, che è intervenuto con serietà e correttezza nel dibattito sul discorso della montagna. Qui egli evidenzia con grande franchezza i punti di contrasto, ma li assume con amore e mette infine in rilievo il sì comune al Dio vivente. Non dobbiamo dunque nascondere i contrasti. Sarebbe una via sbagliata, perché una via che lascia da parte la verità non è mai una vera via verso la pace. I contrasti esistono. Dobbiamo imparare a trovare amore e pace proprio nei contrasti.
    L’Olocausto avvenne non nell’epoca della Chiesa, bensì in un momento in cui la Chiesa aveva definitivamente perso la sua autorità sui cuori degli uomini. Oggi come ieri, però, ci si deve chiedere con onestà come sia stata possibile una simile tragedia in un contesto di tradizione cristiana. Ora, non sembra più tanto lontana l’ora in cui in Europa i cattolici saranno meno numerosi di quanto fossero prima della guerra gli ebrei, il cui genocidio essi non hanno saputo impedire.
    Come Lei ha giustamente osservato, si tratta di un grande e oscuro capitolo della storia. L’Olocausto non è stato commesso dai cristiani e non è stato commesso in nome di Cristo, ma di esso si sono resi responsabili forze ostili al cristianesimo ed è stato concepito come primo passo della distruzione del cristianesimo. Da bambino, io stesso ho vissuto personalmente quei tempi. Allora si parlava spessissimo del cristianesimo giudaizzato e della giudaizzazione dei germani attraverso il cristianesimo, specialmente in relazione alla Chiesa cattolica. A Monaco, il giorno dopo la notte dei cristalli si arrivò ad assalire il vescovado. Il motto era: “dopo gli ebrei, l’amico degli ebrei”. Nelle fonti, soprattutto nello “Stürmer”, si può leggere che il cristianesimo, soprattutto nella sua forma cattolica, veniva considerato come un tentativo dell’Ebraismo di impadronirsi del potere – l’ebraizzazione della razza germanica, come si diceva – e che, per superare l’Ebraismo, ci si sarebbe dovuti, un giorno, liberare definitivamente anche dell’attuale cristianesimo, per arrivare al cosiddetto cristianesimo positivo di Hitler. E’ importante e non si deve tacere, quindi, la circostanza che l’annientamento degli ebrei da parte di Hitler aveva un significato intenzionalmente anticristiano. Ma ciò non toglie che ne furono responsabili uomini battezzati. Anche se le SS furono un’organizzazione criminale di atei e anche se tra di loro non c’era quasi nessun cristiano credente, essi erano comunque battezzatiL’antisemitismo cristiano aveva in un certo senso preparato il terreno a tutto questo, non lo si può negare. C’era un antisemitismo cristiano in Francia, in Austria, in Prussia, in tutti i paesi, e da questa base si è potuto sviluppare il resto. E questo fatto deve essere occasione di un continuo esame di coscienza.
    (da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pagg.281-284)



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 11:25
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       sempre sull'Ebraismo
    La parola “Testamento” non è stata imposta dall’esterno alle Scritture, ma è stata tratta da esse: il titolo che i cristiani danno ai due libri non si propone solo di descrivere a posteriori il senso essenziale del libro, ma di mettere in evidenza il filo interiore della stessa Scrittura e di nominare esplicitamente il termine fondamentale che costituisce la chiave per il tutto. Abbiamo dunque in questa parola un certo tentativo di esprimere in maniera sintetica l’ “essenza del cristianesimo” con un termine derivato da una delle sue fonti fondamentali.

    Ma la scelta della parola latina Testamentum è stata davvero corretta? Questa traduzione rende in maniera appropriata i vocaboli usati nei testi ebraico e greco o porta in una direzione sbagliata? La problematica della traduzione emerga chiaramente dal contrasto tra la più antica versione latina e quella di san Girolamo. Mentre la prima usa il termineTestamentum, Girolamo ha optato per i termini foedus o pactumCome titolo del libro si è imposto “Testamento”, ma, quando parliamo di ciò che si intende sul piano del contenuto, seguiamo Girolamo e parliamo di antica e nuova alleanza, tanto nella teologia quanto nella liturgia. Ma che cosa è giusto? Sull’etimologia della parola ebraica berit non vi è unanimità tra gli esperti; il significato inteso dagli autori biblici può essere compreso solo dal contesto contenutistico dei testi. Un’importante indicazione per la comprensione della parola sta nel fatto che i traduttori greci della Bibbia ebraica, in 267 passi sui 287 in cui compare, hanno reso la parola berit con διαθήκη, dunque non con la parola σπονδή o συνθήκη, che in greco sarebbe l’equivalente di “patto” o “alleanza”. Partendo dalla loro visione teologica del testo, essi giunsero chiaramente alla conclusione che nella fattispecie non trattava di una syn-theke – un accordo reciproco – ma di una dia-theke, una disposizione, in cui non sono due volontà a mettersi d’accordo, ma vi è una volontà che stabilisce un ordinamento.

    Per quanto mi è dato a vedere, oggi la ricerca esegetica è concorde nella convinzione che in tal modo gli autori della Septuaginta hanno correttamente inteso il testo biblico. Ciò che noi chiamiamo “alleanza”, nella Bibbia non è concepito come un rapporto simmetrico tra due partner che stabiliscono fra loro una relazione contrattuale paritetica con obblighi e sanzioni reciproche: questa idea di relazione i cui partner si pongono sullo stesso piano è incompatibile con l’immagine biblica di Dio. Le Scritture presuppongono piuttosto che l’uomo non sia di per sé in grado di stabilire un rapporto con Dio, né tanto meno di dargli qualcosa e, in cambio, di ricevere da lui o, addirittura, di imporgli degli obblighi in relazione alle azioni dall’uomo stesso compiute. Se si giunge a un rapporto tra Dio e l’uomo, ciò può avvenire solo grazie a una libera scelta di Dio, la cui sovranità resta per questo intatta. Si tratta dunque di una relazione del tutto asimmetrica, dato che nel rapporto con la creatura Egli è e resta il totalmente altro: l’ “alleanza” non è un contratto che impegna a un rapporto di reciprocità, ma un dono, un atto creativo dell’amore di Dio. Certamente, con quest’ultima affermazione andiamo già oltre la pura questione filologica. Benché la struttura dell’alleanza abbia come modello i patti statuali ittiti e assiri, in cui il sovrano concedeva dei diritti al vassallo, l’alleanza di Dio con Israele è più di un contratto vassallatico: il re-Dio non riceve nulla dall’uomo, ma gli dà la via della vita nel dono della sua Legge.

    Se ora la vera sostanza di ciò che accade non è più vista a partire dall’idea di patto statuale, ma nell’immagine dell’amore sponsale, come avviene nei Profeti – nel modo più toccante in Ezechiele 16 -, se l’atto contrattuale appare come una storia d’amore tra Dio e il popolo eletto, continua ancora a sussistere l’asimmetria nella sua antica forma?
    Da una parte, rispetto all’infinita alterità di Dio, il concetto di Dio deve apparire come la più radicale esaltazione dell’asimmetria, dall’altra la vera natura di questo Dio sembra però realizzare un’inattesa reciprocità.

    Muovendo da un punto di partenza del tutto differente e di segno quasi opposto, il pensiero antico era consapevole che la relatio tra Dio e l’uomo poteva essere solamente asimmetrica. Dalla logica del pensiero metafisico nella filosofia greca si deduceva che il Dio immutabile non poteva stabilire delle relazioni mutevoli, che la relazione era caratteristica dell’uomo in quanto essere mutevole. Nel rapporto tra Dio e l’uomo si poteva quindi parlare solo di una relatio non mutua, di un volgersi dell’uno all’altro senza reciprocità: l’uomo si relaziona a Dio, ma non Dio all’uomo. La logica pare inoppugnabile. L’eternità esige l’immutabilità, l’immutabilità esclude relazioni che si collocano nel tempo e si riferiscono.

    La contrapposizione più netta tra i due Testamenti si trova in 2Cor 3,4-18 e in Gal 4,21-31. Mentre l’espressione “nuova alleanza” deriva dalle promesse profetiche (Ger 31,31) e lega pertanto tra loro le due parti della Bibbia, l’espressione “antica alleanza” si trova solo in 2Cor 3,14; la lettera agli Ebrei parla invece di “prima alleanza” (9,15) e chiama la nuova alleanza – oltre che con questa definizione classica – anche alleanza “eonica”, cioè “eterna” (13,20) con una terminologia che è ripresa dal canone romano nel racconto dell’istituzione, laddove si parla di “nuova ed eterna alleanza”.

    La rigida antitesi tra le due alleanze, l’antica e la nuova, sviluppata da Paolo nel terzo capitolo della seconda lettera ai Corinzi ha da allora segnato profondamente il pensiero cristiano, e in ciò si è prestata scarsa attenzione al sottile rapporto di lettera e Spirito che si annuncia nell’immagine del velo. Soprattutto, però, si è dimenticato che in altri passi paolini il dramma della storia di Dio con gli uomini è presentato in modo molto più articolato. Nell’elogio di Israele fatto da Paolo nel nono capitolo della lettera ai Romani, tra i doni che Dio ha elargito al suo popolo figura anche questo: sue sono le “alleanze”, i patti che Dio ha concluso con lui. Il termine “alleanza” appare qui al plurale, conformemente alla tradizione sapienziale. E in effetti l’Antico Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’arcobaleno, la circoncisione; esse corrispondono ai tre gradi dell’alleanza o alle tre alleanze. L’Antico Testamento conosce l’alleanza con Noè, quella con Abramo, quella con Giacobbe-Israele, quella stabilita sul Sinai, quella di Dio con Davide. Tutte queste alleanze hanno una loro caratteristica specifica, su cui occorrerà ritornare. Paolo sa quindi che la parola alleanza, a partire dalla storia della salvezza prima di Cristo, dev’essere pensata e detta al plurale; delle diverse alleanze ne pone in evidenza due in maniera particolare, mettendole a confronto e riferendole, ciascuna a suo modo, all’alleanza stabilita da Cristo: l’alleanza con Abramo e quella con Mosè. L’alleanza con Abramo la vede come l’alleanza vera e propria, fondamentale e permanente, mentre quella con Mosè è “sopraggiunta in seguito” (Rm 5,20), 430 anni dopo quella con Abramo (Gal 3,17), e non ha affatto privato quest’ultima del suo valore, rappresentando piuttosto uno stadio intermedio nel piano di Dio.

    D’altra parte l’alleanza con i patriarchi è considerata eternamente valida. Mentre l’alleanza come obbligo legale riproduce il patto vassallatico, l’alleanza della promessa ha come modello la donazione regale. In questo senso Paolo, con la sua distinzione tra alleanza abramitica e alleanza mosaica ha interpretato in maniera del tutto corretta il testo della Bibbia. Nello stesso tempo, con questa distinzione viene meno la rigida contrapposizione tra antica e nuova alleanza e si esplicita l’unità carica di tensione della storia della salvezza, in cui nelle diverse alleanze si realizza l’unica alleanza.

    Un dato incontestato è che i quattro racconti dell’istituzione dell’eucaristia (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-26) possono essere suddivisi in due gruppi, in base alla redazione del testo e alla teologia che vi esprime: la tradizione marciano-matteana e quella che troviamo in Paolo e Luca. La differenza principale tra di esse si trova nelle parole sul calice. In Matteo e Marco, a proposito del contenuto del calice, si dice: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”; Matteo aggiunge inoltre: “in remissione dei peccati”. In Luca e Paolo, invece, il contenuto del calice è così indicato: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”; Luca aggiunge: “che è versato per voi”. “Alleanza” e “sangue” sono grammaticalmente correlati in forma antitetica. In Matteo e Marco il dono del calice è “il sangue”,subito descritto come “sangue dell’alleanza”. In Paolo e Luca il calice è “la nuova alleanza”, di cui si dice che è fondata “nel mio sangue”. Una seconda differenza che possiamo registrare è che solo Luca e Paolo parlano di nuova alleanza. Una terza importante differenza va ricordata: solo Matteo e Marco contengono l’espressione “per molti”. Ambedue le linee si basano su tradizioni dell’Antico Testamento relative all’alleanza, ma scelgono ciascuna un differente approccio. In tal modo nell’insieme dei racconti dell’istituzione dell’eucaristia confluiscono tutte le idee fondamentali sull’alleanza, fondendosi in una nuova unità.

    Di quali tradizioni si tratta? Le parole sul calice di Matteo e Marco sono tratte direttamente dal racconto della stipulazione dell’alleanza sul Sinai. Con il sangue del sacrificio Mosè asperge anzitutto l’altare, che rappresenta il Dio nascosto, poi il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole” (Es 24,8). Antichissimi modi di pensare vengono qui accolti ed elevati a un piano superiore.
    G. Quell ha così definito l’idea arcaica dell’alleanza, come appare nelle storie dei patriarchi: “[...] stipulare un’alleanza significa tanto entrare a far parte di un clan estraneo, quanto introdurre il partner nel proprio, stabilendo così una relazione giuridica con lui”. La fittizia parentela di sangue così realizzata “fa di coloro che vi partecipano dei fratelli carnali”. “L’alleanza produce una totalità che è pace” – ShalomIl rito di sangue del Sinai significa che Dio compie con questi uomini, durante il cammino nel deserto, la stessa cosa che fino a quel momento hanno fatto tra loro solo dei gruppi tribali diversi: entra con gli uomini in una misteriosa parentela di sangue, così che ora egli appartiene a loro ed essi a lui. Indubbiamente la parentela qui stabilita, che nasce paradossalmente tra Dio e l’uomo, è caratterizzata, dal punto di vista del contenuto, dalla parola letta, dal libro dell’alleanza. Mediante l’appropriazione di questa parola, la vita da lui e con lui, nasce la parentela rappresentata cultualmente nel rituale del sangue. Quando Gesù, porgendo il calice, dice ai discepoli: “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, le parole del Sinai sono portate a un realismo estremo e, al contempo, ne viene dischiusa una profondità che prima non poteva essere colta. Quel che accade qui è insieme spiritualizzazione e supremo realismo. Infatti la comunione di sangue sacramentale, che ora diviene possibile, lega coloro che la ricevono a quest’uomo Gesù, fatto di carne, e insieme al suo mistero divino, in una comunione concretissima, che arriva fino alla corporeità.

    Paolo ha descritto questa nuova “parentela di sangue” con Dio, che sorge mediante la comunione con Cristo, per mezzo di un ardito e crudo paragone: “O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? Infatti è detto: i due saranno una sola carne [Gn 2,24]. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito [pneuma]” (1Cor 6,17). In queste parole si chiarisce certamente anche la natura del tutto differente della parentela: la comunione sacramentale con Cristo e quindi con Dio estrae l’uomo dal mondo materiale e transitorio a lui proprio e lo innalza fin dentro l’essere stesso di Dio, che l’apostolo descrive con il termine “pneuma”. Il Dio che è disceso trae l’uomo in alto, in ciò che gli è proprio e che è nuovo. La parentela con Dio significa per l’uomo un nuovo e profondamente diverso livello esistenziale.

    Per la nostra ricerca dell’essenza dell’alleanza è importante questo: la Cena è intesa come conclusione dell’alleanza, cioè come prolungamento dell’alleanza sinaitica, che qui non viene messa da parte, ma appare rinnovata. Il rinnovamento dell’alleanza, che pure fin dalle origini è stato un elemento essenziale nella liturgia di Israele, raggiunge qui la sua forma più alta possibile.

    Al posto della Legge subentra la grazia. La riscoperta della teologia paolina nella Riforma ha posto particolarmente l’accento su questo aspetto: non le opere, ma la fede; non ciò che l’uomo fa, ma il libero disporre della bontà di Dio. Conseguentemente essa ha sottolineato con forza che non si tratta di “alleanza”, ma di “testamento”, di una pura disposizione di Dio. Le espressioni riferite all’esclusività dell’azione di Dio, vale a dire quelle contenenti l’aggettivo solus (solus Deus, solus Christus), sono da intendere in questo contesto. Che cosa dobbiamo dire in proposito, alla luce di quanto osservato finora? Due dati mi sembrano ormai chiari, che compensano l’unilateralità di queste antitesi e rendono evidente l’unità intrinseca della storia di Dio con gli uomini, così come è rappresentata in tutta la Bibbia, dall’Antico Testamento e dal Nuovo Testamento.

    Anzitutto va ricordato che l’alleanza fondamentalmente nuova, quella con Abramo, mostra un indirizzo universalistico e guarda ai molti che dovranno essere dati ad Abramo come discendenza. Paolo ha quindi colto nel segno osservando che l’alleanza con Abramo unisce in sé ambedue gli elementi dell’universalità intenzionale e del libero dono. In questo senso la promessa fatta ad Abramo garantisce fin dall’inizio l’intrinseca continuità della storia della salvezza, dai padri di Israele fino a Cristo e alla Chiesa dei giudei e dei pagani. Per quanto riguarda l’alleanza sinaitica, bisogna operare ulteriori distinzioni. Essa è strettamente legata al popolo di Israele; dà a questo popolo un ordinamento giuridico e cultuale (i due aspetti sono inseparabili), che come tale non può essere semplicemente esteso a ogni popolo. Dal momento che per Israele questo ordinamento giuridico è costitutivo, il “se” della Legge da rispettare è parte integrante della sua essenza e, di conseguenza, è condizionato, cioè legato al tempo, uno stadio delle disposizioni di Dio che ha una sua durata. Paolo ha messo chiaramente in luce tutto ciò e nessun cristiano può prescindere da tale fatto; la storia stessa conferma questa visione. Ma con ciò non si è detto tutto sull’alleanza mosaica né sull’ “Israele secondo la carne”. Infatti la Legge non è solo un peso che viene imposto, come noi pensiamo dando un’unilaterale accentuazione alle antitesi paoline. Nella prospettiva dei credenti dell’Antico Testamento la Legge stessa è la forma concreta della grazia. Infatti la grazia è conoscere la volontà di Dio. Conoscere la volontà di Dio significa conoscere se stessi, significa comprendere il mondo, significa sapere dove si va. Significa anche che veniamo liberati dall’oscurità delle nostre domande senza fine, che è giunta la luce, senza la quale non possiamo vedere e procedere. “A nessun altro popolo hai manifestato la tua volontà”: per Israele, almeno nei suoi migliori rappresentanti, la Legge è il manifestarsi della verità, il manifestarsi del volto di Dio e, quindi, la possibilità di vivere rettamente.

    E’ a partire di qui che dobbiamo comprendere ciò che Paolo intende quando in Gal 6,2 – seguendo la speranza messianica giudaica – parla della Torah del Messia, della Torah di Cristo: anche secondo Paolo il Messia, Cristo, non lascia l’uomo senza legge, senza diritto. Caratteristico del Messia, come nuovo e più grande Mosè, è piuttosto il fatto che egli porta l’interpretazione definitiva della Torah, in cui la stessa Torah viene rinnovata, perché la sua vera essenza ora si svela completamente e il suo carattere di grazia appare indubitabilmente come realtà. Afferma in proposito H.Schlier nel suo commento alla lettera ai Galati: “La Torà del Messia Gesù è in effetti una “interpretazione” della legge mosaica [...] una “interpretazione” mediante la croce del Messia Gesù”. La sua autorità “svela la legge nella sua parola essenziale, come appello originario, suscitatore di vita, di colui che l’ha adempiuta”.

    La Torah del Messia è il Messia stesso, è Gesù. A lui si riferisce dunque l’invito: “lui dovete ascoltare”. Così la “Legge” diventa universale, così essa è grazia, così fonda un popolo, che diventa popolo proprio mediante l’ascolto e la conversione. In questa Torah, che è Gesù stesso, ciò che delle tavole di pietra del Sinai è davvero essenziale e permanente appare ora iscritto nella carne vivente: il duplice comandamento dell’amore, che trova espressione nei “sentimenti” che furono in Gesù (Fil 2,5). Imitarlo, seguirlo, è dunque osservare la Torah, che proprio in lui ha trovato la sua pienezza definitiva.

    Questa idea dell’unilateralità del testamento corrisponde senza dubbio al concetto della grandezza e della sovranità di Dio; essa è certamente condizionata anche da una struttura sociale. I monarchi dell’antico Oriente agivano solo unilateralmente, da sovrani; nessuno poteva porsi al loro stesso livello. Ma è proprio questo sfondo sociologico dello schema asimmetrico a venire lacerato e rifiutato nella Bibbia; così anche l’immagine di Dio viene delineata in modo nuovo. Dio dispone, ma c’è comunque – praticamente fin dall’inizio – un impegno che Dio stesso si prende, grazie al quale si sviluppa qualcosa di simile a una relazione tra partner. Agostino ha messo molto bene in evidenza questo aspetto, affermando: “[...] è fedele Dio, il quale si è fatto nostro debitore, non perché ha ricevuto qualcosa da noi, ma perché a noi ha promesso cose tanto grandi. Gli parve poco la promessa, ed allora volle obbligarsi anche per iscritto e ci rilasciò, per così dire, il documento autografo di queste sue promesse”.

    Prima di tutti questi testi sta la misteriosissima storia della conclusione dell’alleanza con Abramo, in cui il patriarca, secondo il costume orientale, divide a metà gli animali sacrificali. I partner dell’alleanza usano passare in mezzo agli animali divisi, rito che ha valore di giuramento imprecatorio: se rompo l’alleanza, accada a me come a questi animali. In una visione Abramo vede come un forno fumante e una fiaccola ardente – ambedue immagini della teofania – passare tra le carni degli animali divisi. Dio suggella l’alleanza garantendo lui stesso la fedeltà ad essa con un inequivocabile simbolo di morte. Ma Dio può morire? Può punire se stesso? L’esegesi cristiana dovette vedere in questo testo un misterioso e prima di allora indecifrabile segno della croce, in cui Dio, con la morte di suo figlio, si fa garante della indistruttibilità dell’alleanza e si consegna radicalmente all’uomo (Gn 15,1-21). Fa parte dell’essenza di Dio l’amore per la creatura, e da questa essenza discende la sua libera scelta di legarsi, che si spinge fino alla croce. Proprio dal carattere incondizionato dell’agire di Dio sorge così, nella prospettiva della Bibbia, una vera bilateralità; il testamento diventa alleanza. I padri della Chiesa hanno espresso questa nuova bilateralità, che scaturisce dalla fede in Cristo come Colui che adempie le promesse, con i due concetti di incarnazione di Dio e divinizzazione dell’uomo. Il legame che Dio si autoimpone passa quindi attraverso il dono della Scrittura come parola vincolante della promessa e arriva al punto che Dio si lega, nella sua stessa esistenza, alla creatura umana assumendo la natura di uomo. Ciò significa, viceversa, che il sogno originale dell’uomo si realizza e l’uomo diventa “come Dio”: in questo scambio delle nature, che costituisce l’immagine cristologica fondamentale, il carattere incondizionato dell’alleanza divina si è trasformato in una bilateralità definitiva.

    Abbiamo osservato che nella concezione antica l’uomo poteva entrare in rapporto con Dio riconoscendolo e amandolo, ma che, per contro, una relazione del Dio eterno con l’uomo temporale era considerata contraddittoria e, dunque, impossibile. Il monoteismo filosofico del mondo antico aveva aperto la porta alla fede biblica in Dio e al suo monoteismo religioso, che pareva rendere nuovamente possibile l’accordo smarrito tra ragione e religione. I padri, che partivano da questa corrispondenza tra filosofia e rivelazione biblica, dovettero però constatare che dell’identità dell’unico Dio della Bibbia si poteva parlare essenzialmente per mezzo di due predicati: creazione e rivelazione, creazione e redenzione. Ambedue, però, sono concetti relazionali. Il Dio biblico è dunque un Dio-in-relazione e, quindi, nell’essenza della sua identità, si contrappone al Dio chiuso in sé della filosofia.

    Una categoria preesistente, quella di relazione, mutò radicalmente il suo significato. Nella tavola aristotelica delle categorie la relazione si colloca nel gruppo degli accidenti, che rinviano alla sostanza e da essa dipendono; in Dio non vi sono dunque accidenti. Attraverso la riflessione cristiana sulla Trinità, la relatio esce dallo schema sostanza-accidente. Dio stesso viene ora descritto come trinitaria realtà relazionale, come relatio subsistens. Se dell’uomo si dice che è immagine di Dio, ciò significa che egli è l’essere costruito come relazione; che egli, attraverso e dentro tutte le sue relazioni, cerca la relazione che è il fondamento del suo esistere. Allora l’alleanza è la risposta all’uomo come immagine e somiglianza di Dio; in essa si chiarisce chi e che cosa noi siamo e chi è Dio: per lui, che è fino in fondo relazione, l’alleanza non sarebbe allora qualcosa che si colloca al di fuori della storia, lontano dalla sua essenza, ma il farsi manifesto di ciò che lui stesso è, “lo splendore del suo volto”.

    Anche se tutta la portata di questo processo non è ancora chiara, tuttavia la fusione delle categorie tradizionali è del tutto evidente in Agostino, De Trin., V,V,6 (PL 42,914): “Quamobrem nihil in eo [=in Deo] per accidens dicitur, quia nihil ei accidit; nec tamen omne quod dicitur, secundum substantiam dicitur [...] hoc non secundum substantiam dicuntut, sed secundum relativum; quod tamen relativum non est accidens, quia non est mutabile”.
    (La nuova alleanza. Sulla teologia dell’alleanza nel Nuovo testamento
    da J.Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.27-48)




    Lo studio della Bibbia è come l’anima della teologia; lo dice il Concilio Vaticano II (Dei Verbum 24), rifacendosi a una espressione del Papa Leone XIII. Tale studio non è mai finito; ogni epoca deve di nuovo, a modo suo, cercare di capire i Libri Sacri. Nella storia dell’interpretazione, l’uso del metodo storico-critico ha segnato l’inizio di una nuova era. Grazie a questo metodo sono apparse nuove possibilità di capire il testo biblico nel suo senso originario. Come ogni realtà umana, questo metodo nasconde in sé, con le sue possibilità positive, alcuni pericoli. La ricerca del senso originario può portare a confinare la Parola esclusivamente nel passato, di modo che la sua portata presente non è più percepita. Il risultato può essere che soltanto la dimensione umana della Parola appaia reale; il vero autore, Dio, sfugge alle prese di un metodo che è stato elaborato in vista della comprensione di realtà umane. L’applicazione alla Bibbia di un metodo “profano” era necessariamente soggetta a discussione.
    Tutto ciò che aiuta a conoscere meglio la verità e a disciplinare le proprie idee offre alla teologia un contributo valido. In questo senso, era giusto che il metodo storico-critico fosse accettato nel lavoro teologico. Però tutto ciò che restringe il nostro orizzonte e ci impedisce di portare lo sguardo e l’ascolto al di là di quanto è meramente umano, deve essere rigettato affinché un’apertura sia mantenuta. Perciò l’apparizione del metodo storico-critico ha subito suscitato un dibattito circa la sua utilità e la sua giusta configurazione, un dibattito che non è concluso finora in nessun modo.

    La parola biblica ha la sua origine in un passato che è reale, ma non soltanto in un passato, viene anche dall’eternità di Dio. Ci conduce nell’eternità di Dio, passando però attraverso il tempo, che comprende il passato, il presente e il futuro. Credo che il documento rechi veramente un prezioso aiuto per rischiarare la questione della giusta via verso la comprensione della Sacra Scrittura e apra nuove prospettive.
    (dalla Prefazione al Documento della Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa del 1993)



    Nella teologia dei Padri della Chiesa la questione dell'unità interiore dell'unica Bibbia della Chiesa composta di Antico e Nuovo Testamento era un tema centrale. Che questo non fosse certamente solo un problema teorico, lo si può percepire quasi con mano nell'itinerario spirituale di uno dei più grandi maestri della cristianità — Sant'Agostino d'Ippona

    Per il giovane africano, che come fanciullo aveva ricevuto il sale, che lo rendeva catecumeno, era chiaro che la svolta verso Dio doveva essere una svolta verso Cristo, che senza Cristo egli non poteva trovare veramente Dio. Così egli passò da Cicerone alla Bibbia e sperimentò una terribile delusione: nelle difficili determinazioni giuridiche dell'Antico Testamento, nei suoi intricati e talvolta anche crudeli racconti egli non poteva riconoscere la sapienza, alla quale voleva aprirsi. Nella sua ricerca si imbatté così in persone, che annunciavano un nuovo cristianesimo spirituale — un cristianesimo, nel quale si disprezzava l'Antico Testamento come non spirituale e ripugnante; un cristianesimo, il cui Cristo non aveva bisogno della testimonianza dei profeti ebraici. Queste persone promettevano un cristianesimo della semplice e pura ragione, un cristianesimo nel quale Cristo era il grande illuminato, che conduceva gli uomini ad una vera autoconoscenza. Erano i manichei.

    La grande promessa dei manichei si dimostrò ingannevole, ma il problema non era per questo risolto. Al cristianesimo della Chiesa cattolica Agostino poté convertirsi solo quando, per mezzo di Sant'Ambrogio, ebbe imparato a conoscere un'interpretazione dell'Antico Testamento, che rendeva trasparente nella direzione di Cristo la Bibbia di Israele e così rendeva visibile in essa la luce della sapienza ricercata. Così fu superato non solo lo scandalo esteriore della forma letteraria insoddisfacente della Bibbia «vetus latina», ma soprattutto lo scandalo interiore di un libro, che si manifestava ora più che come documento della storia della fede di un determinato popolo, con tutti i suoi disordini ed errori, come voce di una sapienza proveniente da Dio e che concerneva tutti. Una tale lettura della Bibbia di Israele, che riconosceva nelle sue vie storiche la trasparenza di Cristo e così la trasparenza del Logos, dell'eterna sapienza stessa, non fu fondamentale solo per la decisione di fede di Agostino: essa fu e rimane il fondamento della decisione di fede nella Chiesa nel suo insieme. 
    Ma è vera? È ancora oggi giustificabile e realizzabile? Dal punto di vista della esegesi storico-critica — almeno a prima vista — tutto sembra argomentare contro. Così si è espresso nel 1920 l'eminente teologo liberale Adolf von Harnack: «Rifiutare l'Antico Testamento nel secondo secolo (allude a Marcione) fu un errore, che la grande Chiesa giustamente ha respinto; conservarlo nel 16° secolo fu un destino, al quale la Riforma ancora non poté sottrarsi; conservarlo però ancora nel protestantesimo a partire dal 19° secolo, come documento canonico, dello stesso valore del Nuovo Testamento, è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiale».

    Ha ragione Harnack? A prima vista molti elementi sembrano dargli ragione. Se l'esegesi di Ambrogio aprì la via verso la Chiesa per Agostino e divenne nel suo orientamento di fondo — anche se nei particolari naturalmente del tutto variabile — il fondamento della fede nella Parola di Dio della Bibbia bipartita ma pur sempre unitaria, si può subito così controbattere: Ambrogio aveva imparato questa esegesi nella scuola di Origene, che l'ha praticata per primo in modo coerente. Ma Origene — così si dice — in proposito avrebbe solo trasportato nella Bibbia metodi di interpretazione allegorica usati nel mondo greco per gli scritti religiosi dell'antichità — soprattutto Omero, quindi non solo avrebbe realizzato un'ellenizzazione profondamente estranea alla parola biblica, ma si sarebbe servito di un metodo, che in se stesso era privo di credibilità, poiché mirante in definitiva a conservare come sacrale ciò che in realtà rappresentava la testimonianza di una cultura non più attualizzabile. Ma le cose non sono così semplici. Origene ancor più che sull'esegesi di Omero da parte dei greci poteva fondarsi sull'esegesi dell'Antico Testamento, che era nata in ambito giudaico, sopratutto in Alessandria e con Filone come capofila, e che in un modo del tutto proprio cercava di dischiudere la Bibbia di Israele ai greci, i quali ben al di là degli dei cercavano l'unico Dio, che potevano trovare nella Bibbia. 

    Egli inoltre ha imparato dai rabbini. Infine egli ha elaborato principi cristiani del tutto specifici: l'interiore unità della Bibbia come criterio di interpretazione, Cristo come punto di riferimento di tutte le vie dell'Antico Testamento.

    Ma prescindendo dal giudizio che si voglia dare sui particolari dell'esegesi di Origene e di Ambrogio, il suo fondamento ultimo non era né l'allegoresi greca né Filone né i metodi rabbinici. Il suo vero fondamento — al di là dei particolari dell'interpretazione — era il Nuovo Testamento stesso. Gesù di Nazareth ha avanzato la pretesa di essere il vero erede dell'Antico Testamento — della «Scrittura» — e di darle l'interpretazione definitiva, interpretazione certamente non alla maniera degli scribi, ma per l'autorità dell'autore stesso: «Egli insegnava come uno che ha autorità (divina), non come gli scribi» (Mc 1,22). Il racconto dei discepoli di Emmaus riassume ancora una volta questa pretesa: «E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27).

    Gli autori del Nuovo Testamento hanno cercato di fondare questa pretesa nei particolari, sopratutto Matteo, ma non meno Paolo, il quale utilizzò in proposito i metodi di interpretazione rabbinici e cercò di mostrare che proprio questa forma di interpretazione sviluppata dagli scribi conduce a Cristo come chiave delle «Scritture». Per gli autori ed i fondatori del Nuovo Testamento l'Antico Testamento è anzi molto semplicemente la «Scrittura»; solo la Chiesa nascente poteva lentamente formare un canone neotestamentario, che ora allo stesso modo costituiva Sacra Scrittura, ma pur sempre in quanto presuppone come tale la Bibbia di Israele, la Bibbia degli Apostoli e dei loro discepoli, che soltanto ora riceve il nome di Antico Testamento, e le fornisce la chiave di interpretazione. 

    In questo senso i Padri della Chiesa con la loro interpretazione cristologica dell'Antico Testamento non hanno creato nulla di nuovo, ma solo sviluppato e sistematizzato, ciò che già trovavano nel Nuovo Testamento stesso. Questa sintesi fondamentale per la fede cristiana doveva però diventare problematica nel momento in cui la coscienza storica sviluppò criteri di interpretazione, a partire dai quali l'esegesi dei Padri doveva apparire come priva di fondamento storico e pertanto come oggettivamente insostenibile. Lutero, nel contesto dell'umanesimo e della sua nuova coscienza storica, soprattutto però nel contesto della sua dottrina della giustificazione, ha sviluppato una nuova formulazione del rapporto fra le due parti della Bibbia cristiana, che non si fonda più sull'armonia interiore di Antico e Nuovo Testamento, ma sulla sua antitesi sostanzialmente dialettica dal punto di vista storico-salvifico ed esistenziale di legge e vangelo.

    Bultmann ha espresso in modo moderno questo approccio di fondo con la formula, secondo cui l'Antico Testamento si sarebbe adempiuto in Cristo nel suo fallimento
    . Più radicale è la proposta sopra menzionata di Harnack, che — per quanto io possa vedere — praticamente non è stata ripresa da nessuno, ma era perfettamente logica a partire da un'esegesi, per la quale i testi del passato possono avere di volta in volta solo quel senso che volevano dar loro i rispettivi autori nel loro momento storico. Alla moderna coscienza storica però appare più che inverosimile che gli autori dei secoli prima di Cristo, che si esprimono nei libri dell'Antico Testamento, intendessero alludere anticipatamente a Cristo e alla fede del Nuovo Testamento. In questo senso con la vittoria dell'esegesi storico-critica l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento iniziata dal Nuovo Testamento stesso appariva finita. Ciò, come abbiamo visto, non è una questione storica particolare, ma i fondamenti stessi del Cristianesimo sono qui in discussione. Così diviene anche chiaro perché nessuno ha voluto seguire la proposta di Harnack, di realizzare finalmente quel congedo dall'Antico Testamento intrapreso solo troppo presto da Marcione. Ciò che a quel punto resterebbe, il nostro Nuovo Testamento, non avrebbe senso in se stesso. Il documento della Pontificia Commissione Biblica che qui presentiamo dice in proposito: «Senza l'Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi» (n. 84). 

    A questo punto diventa visibile la complessità del compito, davanti al quale si trovò la Pontificia Commissione Biblica, quando si decise ad affrontare il tema del rapporto fra Antico e Nuovo Testamento. Se esiste una via di uscita dal vicolo cieco descritto da Harnack, deve essere ampliato ed approfondito, rispetto alla visione degli studiosi liberali, il concetto di un'interpretazione oggi sostenibile dei testi storici, soprattutto però del testo della Bibbia considerato come Parola di Dio. In questa direzione negli ultimi decenni è accaduto qualcosa di importante. La Pontificia Commissione Biblica ha presentato il contributo essenziale di questi studi nel suo Documento pubblicato nel 1993 «L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa». L'approfondimento della pluridimensionalità del discorso umano, che non è legato ad un unico punto storico, ma si protende verso il futuro, era un ausilio per comprendere meglio come la Parola di Dio può servirsi della parola umana, per dare un senso ad una storia che progredisce, che rimanda al di là del momento attuale e nondimeno proprio così crea l'unità dell'insieme. La Commissione Biblica riprendendo questo suo precedente documento e fondandosi su accurate riflessioni metodologiche ha approfondito i singoli grandi complessi tematici di entrambi i Testamenti nella loro relazione ed ha potuto in conclusione dire che l'ermeneutica cristiana dell'Antico Testamento, che senza dubbio è profondamente diversa da quella del giudaismo, «corrisponde tuttavia ad una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi» (n. 64). È questo un risultato, che mi sembra essere di grande importanza per la continuazione del dialogo, ma sopratutto anche per i fondamenti della fede cristiana. 
    La Commissione Biblica tuttavia non poteva nel suo lavoro prescindere dal contesto del nostro presente, nel quale il dramma della Shoah ha collocato tutta la questione in un'altra luce. 

    Due problemi principali si ponevano: possono i cristiani dopo tutto quello che è successo avanzare ancora tranquillamente la pretesa di essere gli eredi legittimi della Bibbia di Israele? Possono continuare con una interpretazione cristiana di questa Bibbia, o non dovrebbero piuttosto rispettosamente ed umilmente rinunciare ad una pretesa, che alla luce di ciò che avvenuto non può non apparire come presunzione? E qui si connette la seconda questione: Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare una ostilità nei confronti di questo popolo, che ha favorito l'ideologia di coloro che volevano sopprimerlo? 

    La Commissione ha affrontato entrambe le questioni. È chiaro che un congedo dei cristiani dall'Antico Testamento non solo, come prima mostrato, avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile ad un rapporto positivo fra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune. Ciò che però deve conseguire dagli eventi accaduti è un rinnovato rispetto per l'interpretazione giudaica dell'Antico Testamento. Al riguardo il documento dice due cose. Innanzitutto afferma che la lettura giudaica della Bibbia « è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell'epoca del secondo tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa » (n. 22). A ciò aggiunge che i cristiani possono imparare molto dall'esegesi giudaica praticata per 2000 anni; a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell'esegesi cristiana (ibidem). Io penso che queste analisi saranno utili per il progresso del dialogo giudeo-cristiano, ma anche per la formazione interiore della coscienza cristiana. 

    Della questione della presentazione dei giudei nel Nuovo Testamento si occupa l'ultima parte del documento, nel quale vengono accuratamente esaminati i testi «antigiudaici». Qui vorrei solo sottolineare un'intuizione che per me appare particolarmente importante. Il documento mostra che i rimproveri rivolti nel Nuovo Testamento agli ebrei non sono più frequenti né più aspri delle accuse contro Israele nella legge e nei profeti, quindi all'interno dello stesso Antico Testamento (n. 87). Essi appartengono al linguaggio profetico dell'Antico Testamento e quindi devono essere interpretati come le parole dei profeti. Essi mettono in guardia da deviazioni presenti, ma per loro natura sono sempre temporanei e presuppongono quindi anche sempre nuove possibilità di salvezza. 
    (dalla Prefazione al documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana, del 2001)

    [Modificato da Caterina63 15/01/2018 11:29]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 11:30
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    L’Islam

    Quante pagine di storia registrano le battaglie e le guerre affrontate invocando, da una parte e dall’altra, il nome di Dio, quasi che combattere il nemico e uccidere l’avversario potesse essere cosa a Lui gradita. Il ricordo di questi tristi eventi dovrebbe riempirci di vergogna, ben sapendo quali atrocità siano state commesse nel nome della religione. Le lezioni del passato devono servirci ad evitare di ripetere gli stessi errori. Noi vogliamo ricercare le vie della riconciliazione e imparare a vivere rispettando ciascuno l’identità dell’altro. La difesa della libertà religiosa, in questo senso, è un imperativo costante e il rispetto delle minoranze un segno indiscutibile di vera civiltà.
    (dal discorso tenuto da Benedetto XVI a Colonia, durante la Giornata Mondiale della gioventù ad alcuni rappresentanti delle comunità musulmane il 20 agosto 2005)

    Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione (dinanzi alla sfida del terrorismo)? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza.
    Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti.
    Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza.
    Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’“occhio per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo.
    E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suol dire, dall’altra parte della barricata.
    Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche.

    Ma nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’Occidente e l’Islam.
    E tuttavia, che cos’è l’Occidente? E che cos’è l’Islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e Islam. C’è chi tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione.

    E’ vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Kung, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono.
    Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione - sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera.

    Guardiamo le cose più da vicino: Dio, o la divinità, possono essere trasformati nell’assolutizzazione di una determinata potenza, di un determinato interesse. Se l’immagine di Dio diventa talmente faziosa da identificare l’assolutezza di Dio con una comunità particolare o con certe sue aree di interesse, ciò distrugge il diritto e la morale: il bene, in questo quadro, è ciò che sta al servizio della mia potenza, e la differenza tra bene e male svanisce.
    La morale e il diritto diventano di parte. E tutto questo peggiora ulteriormente quando la volontà di impegnarsi per fini particolaristici si carica di tutto il peso del fanatismo religioso, e diventa così totalmente cieca e brutale. Assistiamo a qualcosa del genere nel caso dei terroristi e della loro ideologia del martirio, un’ideologia che per la verità in certi casi particolari può essere semplicemente un’espressione di disperazione di fronte all’ingiustizia del mondo.
    Del resto anche fra noi, nelle sette presenti nel mondo occidentale, troviamo esempi di un irrazionalismo e di una deviazione della dimensione religiosa che mostrano come possa diventare pericolosa una religione quando perde il suo centro d’orientamento.

    Ma esiste anche la patologia della ragione interamente separata da Dio. L’abbiamo vista nelle ideologie totalitarie che avevano negato ogni legame con Dio e intendevano così costruire l’uomo nuovo, il mondo nuovo. Hitler merita indubbiamente la qualifica di irrazionalista. I grandi profeti e i realizzatori del marxismo non sono meno segnati dalla pretesa di costruire il mondo animati unicamente dalla ragione. Forse l’espressione più drammatica di questa patologia della ragione si incarna in Pol Pot: è in lui che si è manifestata con un’evidenza totale la crudeltà di una simile “ricostruzione” del mondo.
    Ma è lo stesso sviluppo spirituale dell’Occidente a tendere sempre di più verso patologie distruttive della ragione. In fondo la bomba atomica - con la quale la ragione, invece di essere forza costruttiva, intendeva rafforzarsi attraverso la capacità di distruzione - non era già un superamento dei limiti?
    E quando, attraverso la ricerca del codice genetico, la ragione si impossessa delle radici della vita, essa tende sempre più a non vedere nell’uomo un dono del Creatore (o della “natura”) e a trasformarlo in un prodotto. L’uomo viene “fatto”, e ciò che si può fare si può anche disfare. La dignità umana scompare. E dove mai troveranno più un fondamento i diritti dell’uomo? Come potrà ancora sussistere il rispetto per l’uomo anche quando è vinto, debole, sofferente, handicappato? In questo quadro la nozione di ragione si appiattisce sempre di più. E’ ovvio che, se la realtà è unicamente il prodotto di processi meccanici, come tale non comporta nessuna morale.
    Il bene in sé, che stava tanto a cuore ancora a Kant, non esiste più. Ed è proprio su queste basi che hanno agito di fatto le dittature ideologiche: in una determinata situazione può darsi che sia bene uccidere degli innocenti, se questo serve alla costruzione del futuro mondo della ragione. In ogni modo la loro dignità assoluta non esiste più.

    La ragione malata e la religione manipolata finiscono con l’incontrarsi nel medesimo esito. Ogni riconoscimento di valori ultimativi, ogni asserzione di verità da parte della ragione finisce con l’apparire alla ragione malata come fondamentalismo. E non resta altro che la dissoluzione, la decostruzione, come da tempo ci insegna Jacques Derrida, che ha “decostruito” l’ospitalità, la democrazia, lo Stato e infine anche la nozione di terrorismo, per ritrovarsi poi atterrito dagli avvenimenti dell’11 settembre. Una ragione che sappia riconoscere solo se stessa e ciò che è empiricamente certo si paralizza e si autodistrugge.
    Se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi noi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. Il filosofo polacco Leszek Kolakowski, partendo dall’esperienza di una società agnostica atea, ha mostrato in maniera convincente che, in assenza di un punto di riferimento assoluto, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza ed è ineluttabilmente in balia delle forze del male.
    E’ specifico compito nostro, di cristiani del tempo presente, quello di inserire la nozione di Dio nella lotta per la difesa dell’uomo.

    Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica.
    Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia.
    La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall’interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini.
    In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze. Questo carattere secolare, “laico” dello Stato include nella sua essenza quell’equilibrio tra ragione e religione che ho cercato di illustrare in precedenza.
    Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che vorrebbe stabilire qualcosa come uno “Stato della pura ragione”, uno Stato separato dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest’ultimo risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici.
    Se gli Stati d’Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato, anche se laico, ha il diritto e persino l’obbligo di trovare sostegno nelle radici morali che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.

    Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le origini e le armonizza con l’insieme della sua vita. Ma per far sì che simili convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace e eserciti la sua forza interiore di persuasione nell’insieme della società.
    Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hübner, che illustrano limpidamente questo intento: “Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio, tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben vedere, si alimenta naturalmente”. E’ un fatto: se non siamo fedeli alla memoria del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non troveremo la strada della pace.
    (dal Discorso tenuto in Normandia il 4 giugno 2004 in occasione del 60° anniversario dello sbarco degli Alleati in Normandia; la traduzione dal francese, non rivista dall’autore, è stata pubblicata su “Vita e Pensiero” n. 5 , settembre-ottobre 2004)

    Anzitutto, si deve ricordare che l’Islam non è una grandezza unitaria, non ha nemmeno un’istanza unitaria, perciò il dialogo con l’Islam è sempre un dialogo con determinati gruppi. Nessuno può parlare a nome di tutto l’Islam, che non ha un magistero dottrinale comune. Indipendentemente dalle divisioni tra Sunniti e Sciiti, esso si presenta anche in diverse varianti. C’è un Islam “nobile”, rappresentato ad esempio dal re del Marocco, e c’è quello estremista e terrorista, che però non deve neppure essere identificato con l’Islam in generale, poiché gli si farebbe comunque torto.
    Come ricordava anche Lei, è importante chiarire che l’Islam pensa e organizza in maniera completamente diversa i rapporti tra società, politica e religione. Se oggi si discute in Occidente della possibilità di facoltà teologiche islamiche o del concetto di Islam come ente di diritto pubblico, si presuppone allora che tutte le religioni siano ovunque strutturate in modo uguale; che esse si adattino tutte a un sistema democratico, con i suoi ordinamenti e i suoi spazi di libertà, garantiti proprio da questi stessi ordinamenti. Tutto questo, però, appare in contraddizione con l’essenza stessa dell’Islam, che non conosce affatto la separazione tra la sfera politica e quella religiosa, che il Cristianesimo portava in sé fin dall’inizio. Il Corano è una legge religiosa che abbraccia tutto, che regola la totalità della vita politica e sociale e suppone che tutto l’ordinamento della vita sia quello dell’Islam. La ŠarÄ«’a plasma una società da cima a fondo. Di conseguenza l’Islam può sfruttare tali libertà, concesse dalle nostre costituzioni, ma non può porre tra le sue finalità quella di dire: sì, ora siamo anche noi ente di diritto pubblico, ora siamo presenti come i cattolici e i protestanti. A questo punto esso non ha ancora raggiunto pienamente il suo vero scopo, si trova ancora in una fase di alienazione. Diversamente dai nostri modelli, l’Islam pensa la realtà della vita e della società in maniera assolutamente totalizzante, esso abbraccia tutto e il suo ordinamento della vita è diverso dal nostro. Esiste un chiaro assoggettamento della donna all’uomo, come anche un ordinamento del diritto penale e delle relazioni sociali molto rigido e opposto ai nostri moderni concetti di società. Deve esserci chiaro che non si tratta di una confessione come tante altre, e non si inserisce nello spazio di libertà della società pluralistica. Se si presenta così, come oggi talvolta capita, l’Islam è declinato secondo un modello cristiano e non è visto nella sua vera essenza. Perciò il problema del dialogo con l’Islam è naturalmente molto più complicato di quanto avvenga nel dialogo tra cristiani...

    Cosa può significare per il cristianesimo il rafforzamento mondiale dell’Islam?
    Questo rafforzamento è un fenomeno che presenta vari aspetti. Da una parte vi concorrono degli aspetti finanziari. Il potere finanziario raggiunto dai paesi arabi permette loro di costruire dappertutto grandi moschee e di assicurare una presenza di istituzioni culturali musulmane. Questo però è sicuramente solo un fattore.
    L’altro è una identità rafforzata ed una nuova autocoscienza.
    Nella situazione culturale del secolo XIX e del­l’inizio del secolo XX, dunque fino agli anni Ses­santa, la superiorità dei paesi cristiani era mili­tarmente, politicamente, industrialmente e culturalmente così significativa, che l’Islam era confi­nato in secondo piano e le civiltà di tradizione cri­stiana si potevano configurare come la potenza vit­toriosa della storia mondiale. Poi è sopravvenuta la grande crisi morale del mondo occidentale, che è poi il mondo cristiano. Di fronte alle profonde contraddizioni dell’Occidente e alla sua confusione interiore — di fronte alla quale contemporanea­mente si sviluppava una nuova potenza economi­ca dei paesi arabi — si è risvegliata l’anima isla­mica: siamo noi che abbiamo una identità miglio­re, la nostra religione resiste, voi non ne avete più nessuna.
    Oggi sono proprio questi i sentimenti del mon­do musulmano: i paesi occidentali non sono più in grado di portare nessun messaggio di caratte­re morale, hanno da offrire al mondo solo know-­how; la religione cristiana ha abdicato, non esiste più come religione; i cristiani non hanno più mo­rale né fede, ci sono solo i resti di qualche moder­na idea illuministica; noi abbiamo la religione che resiste.
    Così i musulmani hanno ora la consapevolezza che l’Islam, alla fine, è davvero rimasto sulla sce­na come la religione più vitale, che essi hanno da dire al mondo qualcosa e che sono dunque la ve­ra forza religiosa del futuro. Prima la Sari’a e tutto il resto erano usciti di scena, ora c’è il nuovo or­goglio. Così si è risvegliato un nuovo entusiasmo,
    una nuova intensità nel voler vivere l’Islam. Que­sta è la sua grande forza: abbiamo un messag­gio morale, che è ininterrotto dall’epoca dei pro­feti, e diremo al mondo come si può vivere, i cri­stiani non lo possono più fare. Con questa forza interiore dell’Islam, che sta affascinando anche gli ambienti accademici, dobbiamo sicuramente con­frontarci.
    (da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag.275-278)

    La moderna idea di libertà è perciò un legittimo prodotto dello spazio vitale cristiano; essa non poteva svilupparsi in nessun altro ambito se non in esso. Bisogna anzi aggiungere: essa non è affatto impiantabile in qualsiasi altro sistema, come si può oggi constatare con chiara evidenza nella rinascita dell’islam. Il tentativo di innestare i cosiddetti criteri occidentali, staccati dal loro fondamento cristiano, nelle società islamiche, misconosce la logica interna dell’islam come la logica storica cui appartengono i criteri occidentali.
    Un tale tentativo era perciò destinato al fallimento in questa forma. La costruzione sociale dell’islam è teocratica, quindi monistica, non dualistica. Il dualismo che è la condizione previa della libertà presuppone a sua volta la logica cristiana. Dal punto di vista pratico, ciò sta a significare: solo lì dove è preservato il dualismo di Chiesa e Stato, di istanza sacrale e politica, vi è la condizione fondamentale per la libertà. Dove la Chiesa diviene essa stessa Stato, la libertà va perduta. Ma anche lì dove la Chiesa viene soppressa come istanza pubblica e pubblicamente rilevante, viene a cadere la libertà, perché lì lo Stato reclama di nuovo per sé la fondazione dell’etica. Nel mondo profano, post-cristiano lo Stato avanza questa istanza non nella forma di autorità sacrale, ma come autorità ideologica, cioé lo stato si fa partito e dato che non gli si può contrapporre nessuna altra istanza con un suo proprio ruolo, esso stesso diventa nuovamente totalitario. Lo stato ideologico è totalitario; esso deve diventare ideologico quando non si dà nei suoi confronti una autorità libera e pubblicamente riconosciuta.
    (da Teologia e politica della Chiesa in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pag.156)

    Naturalmente dobbiamo rispettare gli stati islamici, la loro religione, ma tuttavia anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi cristiani e con coraggio dobbiamo anche assistere queste persone, proprio se siamo convinti che hanno trovato qualcosa che è la risposta vera. Non dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perché possano in libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana.
    (dal sito www.chiesa.espressonline.it, Fede, verità, tolleranza. Un´intervista di Ratzinger sul suo ultimo libro a cura di Antonio Socci. Parti di questa intervista sono state trasmesse in "Excalibur" del 20 novembre 2003 e pubblicate in "Il Giornale" del 26 novembre 2003)

    L'islam non esiste come un blocco. Non c'è un magistero dell'islam, né delle costituzioni centralizzate dell'islam. Il Corano fornisce certo un riferimento comune al mondo islamico. Ma da luogo a interpretazioni differenti, e l'islam si incarna in contesti culturali diversi, dall'Indonesia all'India, dal Medio-Oriente all'Africa. Quindi il mondo islamico non è un blocco e non cancella i caratteri nazionali: ci sono dei paesi a maggioranza islamica che sono molto tolleranti e altri che escludono più o meno il cristianesimo.
    Oggi, l'islam è molto presente in Europa. E sembra che si manifesti un certo disprezzo presso coloro che sostengono che l'Occidente ha perso la sua coscienza morale. Per esempio, se il matrimonio e l'omosessualità sono considerati come equivalenti, se l'ateismo si trasforma in diritto alla bestemmia, notoriamente nell'arte, questi fatti sono orribili per i musulmani. Perciò, c'è l'impressione diffusa nel mondo islamico, che il cristianesimo è morente, che l'Occidente è decadente. E il sentimento che solo l'islam porta la luce della fede e della moralità. Una parte dei musulmani vede in questo caso una opposizione fondamentale tra il mondo occidentale, e il suo relativismo morale e religioso, e il mondo islamico.
    Parlare di un confronto di culture, è in certi casi vero: nel disprezzo verso l'Occidente troviamo le conseguenze del passato durante il quale l'islam ha subito il dominio dei paesi europei. Ci si può allora imbattere in un fanatismo terribile. È una delle facce dell'islam, non è tutto l'islam. Esistono anche dei musulmani che desiderano un dialogo pacifico con i cristiani. Di conseguenza, è importante giudicare i differenti aspetti di una situazione che è preoccupante per tutte le parti in questione.
    (intervista rilasciata a Jean Sévilla per LE FIGARO del 17.11.2001)



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 15/01/2018 11:33
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    Come una sintesi: il cristianesimo oggi

    Si è detto che il 1989 non portò nuove risposte, bensì si limitò ad acuire le perplessità e ad alimentare lo scetticismo nei confronti dei grandi ideali. Qualcosa accadde, tuttavia. La religione tornò a essere un fenomeno moderno.
    Non solo si cessò di auspicarne la scomparsa, ma si assistette addirittura a una sua proliferazione in forme diverse. Nell’opprimente solitudine di un mondo rimasto privo di Dio, nella sua monotonia, la ricerca della mistica, di una relazione con il divino, tornò a sbocciare
    . Dovunque si parli di visioni e messaggi dal mondo ultraterreno e dovunque si senta pronunciare la parola ‘apparizione’, si dirigono migliaia di persone, forse nella speranza di scoprire nel mondo uno spiraglio attraverso cui guardare al cielo e trovare conforto. Si lamenta il fatto che questo nuovo bisogno di religiosità ignori le chiese cristiane tradizionali. L’istituzione fa problema, il dogma fa problema. Si cerca l’esperienza vissuta, l’esperienza del totalmente altro. Personalmente non vorrei aderire senza riserve a questa lamentela. Nelle grandi giornate mondiali della gioventù, come l’ultima a Parigi, la fede diventa esperienza e regala la gioia di sentirsi comunità. Qualcosa di estatico, nel senso buono del termine, viene condiviso. All’estasi tetra e distruttiva della droga, dei ritmi martellanti della musica moderna, del frastuono e dell’ebbrezza si oppone l’estasi splendente della luce, del gioioso incontro nel sole di Dio. Non si direbbe un fenomeno passeggero, sebbene i fenomeni passeggeri siano senza dubbio abbastanza frequenti. Oppure potrebbe trattarsi di un momento destinato a farsi cammino, a indicare un percorso. Lo stesso accade per i movimenti che sono emersi numerosi negli ultimi decenni: anche in questi casi la fede si sperimenta come forma di vita, gioia di mettersi in cammino e di partecipare del mistero del lievito che tutto penetra e rinnova dall’interno.

     Alla fine anche i luoghi delle apparizioni potrebbero, purché intrinsecamente sani, diventare occasioni per iniziare una ricerca nuova e sobria di Dio. Chi si aspettava che il cristianesimo si sarebbe trasformato in un movimento di massa ha capito di essersi sbagliato: non sono i movimenti di massa a racchiudere in sé promesse per il futuro. Il futuro nasce quando delle persone si incontrano su convinzioni comuni, capaci di dar forma all’esistenza. E il futuro cresce positivo se queste convinzioni scaturiscono dalla verità e alla verità conducono.

    La riscoperta della religione, tuttavia, mostra un’altra faccia della medaglia. Si è detto che questa riscoperta tende alla religione come esperienza di vita, che un aspetto considerato importante è il lato ‘mistico’ della religione, la religione intesa come incontro tangibile con il totalmente Altro. Nel contesto storico in cui viviamo ciò significa che le religioni mistiche dell’Asia (parte dell’induismo e del buddismo) sembrano più adatte, per il loro rifiuto del dogmatismo e la loro struttura limitatamente istituzionalizzata, ad un’umanità illuminata rispetto al cristianesimo, organizzato com’è in forme istituzionali e ben definito da contenuti dogmatici.

    È anche vero che un po’ ovunque le religioni sono sottoposte oggigiorno a una relativizzazione, per cui, al di là delle differenze o delle contraddizioni, sotto le varie figure a interessare la gente in fin dei conti è soltanto l’aspetto interiore di tutte le diverse forme, l’incontro con l’indicibile, con il mistero nascosto. E vi è accordo sul fatto che questo mistero non si mostra totalmente in nessuna forma di rivelazione, ma rimane piuttosto sparso e frammentario, e tuttavia come unico e medesimo è ricercato e agognato. Che sia impossibile per l’uomo conoscere Dio e che tutto quanto è detto e rappresentato non possa essere che un simbolo è una delle certezze di fondo dell’uomo moderno, da lui in qualche modo intesa anche come atteggiamento di umiltà di fronte all’infinito. A questa relativizzazione si ricollega l’idea della grande armonia delle religioni, che reciprocamente si riconoscono come modi diversi di rappresentare l’unico Eterno e che dovrebbero lasciare all’uomo la libertà di scegliere quali vie percorrere per raggiungere ciò che le unisce tutte. In questo processo di relativizzazione sono decisamente sottoposti a una modificazione soprattutto due aspetti fondamentali della fede cristiana, vale a dire:


    1. La figura del Cristo viene spiegata in termini completamente diversi non solo rispetto al dogma, ma rispetto agli stessi vangeli. A essere accantonata, cioè, è la fede che Cristo sia il figlio unico di Dio, che in lui Dio si sia realmente fatto uomo tra gli uomini e che l’uomo Gesù sia eternamente in Dio, sia Dio stesso, quindi non una forma di manifestazione di Dio, bensì il Dio unico e insostituibile. Cristo, cioè, da uomo che è Dio diventa uomo che ha sperimentato Dio in modo speciale. Egli è un illuminato e, in quanto tale, non più sostanzialmente diverso rispetto ad altri illuminati, come il Buddha. Con questa interpretazione, però, la figura di Gesù viene a perdere la sua logica intrinseca. Strappata alle sue radici storiche, essa viene compressa in uno schema che le è estraneo. Il Buddha, in ciò paragonabile tra l’altro a Socrate, allontana da sé le attenzioni: non è la sua persona a essere importante, ma solo ed esclusivamente la via da lui mostrata. Chi trova la via può dimenticare il Buddha. Al contrario, nel caso di Gesù è la sua persona a essere importante. Nel suo «Io sono» riecheggia l’«Io sono» pronunciato da Dio sul monte Oreb. La via consiste proprio nel seguire Gesù, poiché: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).

    Egli stesso è la via; non esiste alcuna via indipendentemente da lui; non esiste un cammino lungo il quale egli non conti più nulla. Se il messaggio lasciato da Gesù non è una dottrina, bensì la sua stessa persona, non si può non riconoscere in questo Io di Gesù un rimando al Tu del Padre; quindi un Io importante in quanto realmente ‘via’, non in quanto Io in sé. «La mia dottrina non è mia» (Gv 7,16). «Io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 5,30). L’Io è importante perché coinvolge l’uomo nella dinamica della missione, perché porta l’uomo a superare se stesso e a unirsi con colui per il quale è stato creato. Se la figura di Gesù viene sottratta a questo ordine di grandezza, che certamente provoca sempre scandalo, se viene separata dall’essere Dio, essa diventa allora contraddittoria: rimarrebbero solo dei frammenti che ci lascerebbero perplessi o si tradurrebbero in pretesti per indulgere nell’autoaffermazione.


    2. Il concetto di Dio cambia in maniera sostanziale. Il problema se Dio debba essere concepito come persona o in modo apersonale passa in secondo piano. Viene a cadere anche l’ultima fondamentale differenza tra le religioni teisti che e non teistiche. E questa prospettiva si sta diffondendo con una rapidità sorprendente.Anche i cattolici credenti e formati nella tradizione teologica, che desiderano condividere la vita della chiesa, chiedono con molta spontaneità: È davvero così importante pensare Dio come persona o pensarlo in modo impersonale? L’idea di fondo è che l’uomo dovrebbe essere il più possibile di larghe vedute, poiché il mistero di Dio sfugge comunque a tutti i concetti e a tutte le rappresentazioni. In questo modo, tuttavia, si colpisce il cuore stesso della fede biblica. Lo ‘Shema’, ossia l’«Ascolta Israele» del Deuteronomio (Dt 6,4-9), è e rimane l’autentico fulcro dell’identità religiosa non soltanto di Israele, ma dell’intera cristianità. Con questa parola muore l’ebreo credente, i martiri ebrei hanno esalato l’ultimo respiro con essa e per essa: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo». Che poi questo Dio ci mostri in Gesù Cristo il suo volto (Gv 14,9), che Mosè non poteva vedere (Es 33,20), nulla cambia di questa professione di fede, nulla cambia della sostanza di tale identità. 

    Nella Bibbia ovviamente non vi è un riferimento esplicito a Dio come persona nella forma del concetto, ma nella forma che Dio ha un nome. L’esistenza di un nome presuppone la possibilità di chiamare qualcuno, la possibilità di parlare, di ascoltare, di rispondere. 

    Per l’immagine biblica di Dio questo aspetto è essenziale; eliminarlo equivarrebbe ad allontanarsi dalla fede della Bibbia. È indubbio che sono esistiti ed esistono tutt’oggi modi sbagliati e superficiali di concepire Dio come persona. Ogniqualvolta associamo a Dio l’idea di persona, la differenza tra la nostra idea di persona e la realtà di Dio è sempre infinitamente più grande di quanto esse hanno in comune, come ebbe modo di spiegare il IV concilio Lateranense a proposito del parlare di Dio. Gli abusi del concetto di persona si verificano sempre e immancabilmente quando Dio viene sfruttato per il proprio tornaconto e così il suo nome viene profanato: il secondo comandamento, che vieta di pronunciare invano il nome di Dio, non è la conseguenza diretta del primo, che ci insegna ad adorare Dio. A tale riguardo c’è sempre e continuamente da imparare dal discorso di Dio proprio delle religioni ‘mistiche’, con la loro teologia puramente negativa; per questo, inoltre, esistono cammini diversi per raggiungere Dio. Ma, quando scompare ciò che si intende con ‘nome di Dio’, ossia quando Dio è privato del suo essere persona, il suo nome viene pronunciato invano e cessa di essere onorato: esso, in sostanza, viene abbandonato.

    Che cosa si intende con le espressioni ‘nome di Dio’ e ‘essere persona’? Questo, per l’appunto: non solo che è possibile fare esperienza di Dio al di là di ogni altra esperienza, ma che Dio stesso può manifestarsi, può comunicarsi. Nelle religioni, come il buddismo, dove Dio è concepito in maniera del tutto impersonale, ossia come nulla assoluto rispetto a quel tutto che l’uomo è in grado di cogliere come reale, non può esservi una relazione positiva ‘di Dio’ con il mondo. E il mondo diventa una valle di lacrime non più a cui dar forma, bensì da superare. In questi casi, anziché fornire dei criteri per poter vivere nel mondo, dei modelli di responsabilità sociale a cui ispirarsi, la religione suggerisce la via per travalicare il mondo terreno, la via della liberazione dal fardello delle apparenzeNell’induismo il discorso è diverso. L’essenziale è l’esperienza dell’identità: nel mio intimo io sono tutt’uno con il fondamento nascosto della realtà stessa, il celebre tat tvam asi delle Upanishad. La redenzione consiste nella liberazione dall’individuazione, dall’essere persona, nel superamento della distinzione, fondata sull’essere- persona, rispetto a tutto ciò che esiste: è necessario, cioè, eliminare l’illusione del Sé oltre se stesso. Il problema di questa prospettiva dell’essere è percepito molto acutamente nel neoinduismo. Se viene a mancare il concetto di unicità delle persone, non è più possibile fondare e difendere l’inviolabilità della dignità di ogni singola persona. Alla luce del cammino di riforma intrapreso in India (soppressione della legge sulle caste, abolizione del sacrificio della vedova, ecc.) era necessario prendere le distanze da questo punto di vista e riportare nella compagine del pensiero indiano il concetto di persona, così come esso si è sviluppato nella dottrina cristiana a partire dall’incontro con il Dio personale. In questo caso la ricerca della ‘prassi’ corretta, del retto agire, ha dato le mosse a una correzione della ‘teoria’: non è difficile, allora, guardare un po’ oltre e capire quanto sia ‘pratica’ la fede cristiana e quanto sia sbagliato liquidare come irrilevanti i grossi interrogativi sulle differenze.
    Queste riflessioni portano fino al punto in cui viene oggi a inserirsi questa Introduzione al cristianesimo. Prima di tentare di sviluppare ulteriormente la prospettiva indicata, è forse necessario fare riferimento ancora alla situazione attuale della fede in Dio e in Cristo. Oggi si teme un ‘imperialismo’ cristiano e si professa una nostalgia per la splendida molteplicità delle religioni, per la serenità e la libertà che queste presumibilmente manifestavano all’origine. Il colonialismo sarebbe strettamente legato all’essenza del cristianesimo storico, che si dice non disposto ad accettare l’altro nella sua alterità e propenso a prendere tutto sotto la propria custodia. Le religioni e le culture dell’America Latina, quindi, sarebbero state calpestate e schiacciate, e sarebbe stata fatta violenza all’anima dei popoli che non si ritrovavano nel nuovo e a cui era stato estorto il vecchio. La gamma di possibili interpretazioni oscilla dalle più clementi alle più severe. Secondo il giudizio più moderato, bisognerebbe accordare alle culture sommerse il diritto ad avere una loro patria nella fede cristiana e lasciare che si sviluppi una forma di cristianesimo autoctono. Secondo l’interpretazione più radicale, al contrario, il cristianesimo sarebbe per i popoli indigeni una forma di alienazione, da cui scaturirebbe un bisogno di affrancamento. Per quanto riguarda la promozione di un cristianesimo autoctono, questa deve essere intrapresa, beninteso, come un compito di vitale importanza. Tutte le grandi culture sono aperte l’una all’altra. Tutte hanno un contributo da dare al vestito di «gemme e tessuto d’oro» della figlia del re a cui accenna il Salmo 44, in cui i Padri riconoscono la chiesa. Senz’altro qualcosa è andato perduto e deve essere ricostruito. Non va dimenticato, tuttavia, che quei popoli hanno già trovato nella devozione popolare una propria espressione di fede cristiana. Il fatto che immagini chiave della fede, capaci di aprire le porte al Dio della Bibbia, siano diventate per loro il Dio sofferente e la Madre benevola deve suggerire qualcosa anche a noi e anche ai nostri giorni. Ovviamente, molto rimane ancora da fare.

    Torniamo alla questione di Dio e di Cristo come fulcro di un’introduzione alla fede cristiana. Una cosa, ormai, è chiara: la dimensione mistica del concetto di Dio, che dalle religioni dell’Asia perviene a noi come appello, deve contraddistinguere nettamente anche il nostro pensiero e la nostra fede. Dio si è fatto concreto in Cristo e in questo modo anche il suo mistero è diventato più profondo. Dio è sempre infinitamente più grande di qualsiasi nostra definizione e di qualsiasi nostro tentativo di dargli un’immagine o un nome. Il fatto di riconoscere Dio come trino non significa sapere tutto di lui, al contrario: questa è la dimostrazione di quanto sia limitata la nostra conoscenza e di quanto sia povera la nostra capacità di comprendere o abbracciare la natura divina. Se oggi, dopo gli orrori dei regimi totalitari (penso al monumento commemorativo di Auschwitz), su noi tutti grava la cocente questione della teodicea, ancora una volta è evidente quanto sia modesta la nostra capacità di definire Dio, se non addirittura di scrutarlo. La risposta di Dio a Giobbe non serve a spiegare, bensì soltanto a correggere la nostra illusione di poter giudicare tutto e di poter sentenziare su tutto, e a ricordarci i nostri limiti. Essa esorta i fedeli a credere al mistero divino nella sua incomprensibilità.
    A questo punto è bene anche mettere in evidenza, attraverso le tenebre, la luminosità di Dio. Il prologo di Giovanni presenta l’idea del Lógos come centrale alla fede cristiana in Dio. Il termine lógos significa ragione, senso, ma anche parola; quindi, un senso che è parola, che è relazione, che è creativo. Dio, che è Lógos, assicura all’uomo la sensatezza del mondo, la sensatezza dell’esistere, la corrispondenza di Dio alla ragione e la corrispondenza della ragione a Dio, sebbene la sua ragione travalichi continuamente la nostra e spesso possa sembrarci oscura. Il mondo nasce dalla ragione e questa ragione è persona, amore: è questo il messaggio della fede biblica in Dio. La ragione può parlare di Dio, deve anzi parlare di Dio, se non vuole amputare se stessa. Alla ragione è legata l’idea della creazione. Il mondo non è soltanto maya, apparenza, che l’uomo deve, da ultimo, lasciarsi alle spalle. Il mondo non si riduce all’infinita ruota delle sofferenze, a cui l’uomo deve cercare di sottrarsi. Il mondo è positivo. Nonostante tutto il male in esso contenuto e nonostante tutte le pene sofferte, il mondo è buono ed è cosa buona viverci. Dio, che è creatore e che si esprime attraverso la sua creazione, dà un orientamento e una misura anche all’operare umano. Oggi l’umanità vive la crisi dell’etica, che da tempo ha smesso di essere mera questione accademica per diventare una questione del tutto pratica. Che l’etica sia, in fin dei conti, ingiustificabile è un concetto che si sta diffondendo e che inizia ad avere un certo impatto. Sul tema dell’etica si sprecano fiumi di inchiostro, un fenomeno che, da un lato, testimonia dell’attualità del problema e, dall’altro, dimostra la confusione imperante attorno a noi in questo momento. Nel suo percorso filosofico Kolakowski ha richiamato molto energicamente l’attenzione sul fatto che la cancellazione della fede in Dio, gira e rigira, finisce per togliere fondamento all’etica. Se il mondo e l’essere umano non derivano da una ragione creatrice che in sé ne racchiude la misura e che la iscrive nell’esistenza umana, non rimangono che le regole del comportamento umano, che vengono ideate e giustificate in base alla loro utilità. Non rimane che il calcolo degli effetti, ciò che viene denominato proporzionalismo o etica teleologica. Ma chi può veramente giudicare gli effetti del momento? Non c’è il rischio che una nuova classe dominante si appropri della chiave dell’esistenza, della gestione dell’essere umano? Se tutto si riduce al calcolo degli effetti, la dignità umana non ha più senso di esistere, perché niente è più in se stesso buono o cattivo. Il problema dell’etica è all’ordine del giorno e deve essere affrontato con la massima urgenza. La fede nel Lógos, nella parola originaria, concepisce l’etica come re-sponsabilità, come capacità di rispondere alla parola, e conferisce alla parola la sua razionalità come suo orientamento fondamentale. In questo modo essa si impegna anche a ricercare una comune comprensione della responsabilità con una ragione investigativa e con le grandi tradizioni religiose dell’umanità. Non esiste soltanto la vicinanza interiore delle tre grandi fedi monoteistiche; esistono anche le significative convergenze con un’altra matassa della religiosità asiatica, che porta al confucianesimo e al taoismo.
    Se per l’immagine cristiana di Dio il termine lógos – inteso come parola originaria, ragione creatrice e amore – è determinante e se il concetto di lógos costituisce al tempo stesso il fulcro della cristologia, della fede in Cristo, ancora una volta non resta che confermare l’inscindibilità tra fede in Dio e fede nel suo figlio Gesù Cristo fattosi uomo. Racchiudere tra parentesi la fede nella divinità di Gesù non serve a capire meglio Gesù e ad avvicinarsi di più a lui. Al giorno d’oggi è alquanto diffuso il timore che la fede nella sua divinità ce lo renda estraneo. E, tuttavia, non è soltanto per far piacere alle altre religioni che si vorrebbe scrivere questa convinzione a caratteri minuscoli. Tali timori sono, innanzitutto, tipici della nostra società occidentale. È come se tutto ciò non si addicesse alla moderna visione del mondo. Potrebbe trattarsi soltanto di mitizzazioni, trasformate in metafisica dallo spirito greco. Ma, se separiamo Cristo da Dio, diventa lecito dubitare che Dio possa esserci così vicino, che possa chinarsi tanto verso di noi. Sembra un atto di umiltà il fatto di non volere questo. Tuttavia, a buon diritto Romano Guardini ha richiamato l’attenzione sul fatto che, invece, la forma più alta di umiltà consiste nel lasciare a Dio la libertà di fare anche ciò che all’uomo appare inopportuno e nell’inchinarsi dinanzi a ciò che Dio compie e non a ciò che l’uomo si immagina oltre lui e al suo posto. Dall’idea della lontananza di Dio dal mondo, sottesa a questo nostro realismo apparentemente umile, scaturisce una perdita della presenza di Dio. Se Dio non è in Cristo, egli ritorna a dimorare in una lontananza incommensurabile; e se Dio cessa di essere un Dio in mezzo agli uomini, egli diventa un Dio assente e, per conseguenza, un non-Dio: giacché un Dio privato della capacità di agire non è Dio. Per quanto concerne il timore che Gesù, a causa della fede nella sua figliolanza divina, si allontani da noi uomini, in realtà è vero il contrario: e, cioè, se Gesù è stato un semplice uomo, egli appartiene irrevocabilmente al passato e può essere percepito, con maggiore o minore chiarezza, solo attraverso un lontano ricordo. Se, al contrario, Dio si è realmente fatto uomo e, quindi, in Gesù Cristo è al tempo stesso vero uomo e vero Dio, Gesù partecipa come uomo del presente di Dio, che abbraccia tutti i tempi. Allora e soltanto allora Dio non è mero passato, ma è presente tra gli uomini, nostro contemporaneo nel nostro oggi. Perciò, e di questo sono assolutamente convinto, un rinnovamento della cristologia deve avere il coraggio di concepire il Cristo in tutta la sua grandezza, così come ce lo mostrano i quattro vangeli presi assieme, nella loro unità carica di tensione.
    (da Introduzione al cristianesimo. Ieri, oggi, domani, nuova prefazione dell’aprile 2000 al volume Introduzione al cristianesimo)

    Desidero fare tre osservazioni.

    La prima: l'incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. Ambedue le posizioni non fanno che aprire la porta alle ideologie che, poi, si presentano in maniera ancor più sicura di sé.
    La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l'uomo, ma lo consegna al calcolo dell'utile, privandolo della sua grandezza.
    Vanno incoraggiati invece il rispetto profondo per la fede dell'altro e la disponibilità a cercare, in ciò che incontriamo come estraneo, la verità che ci può concernere e può correggerci e farci progredire. Va incoraggiata la disponibilità a cercare, dietro alle manifestazioni che ci possono sembrare strane, il significato più profondo che si cela in esse.

    Seconda osservazione: se le cose stanno così, se bisogna cioè cercare sempre il positivo anche nell'altro e se, quindi, anche l' altro deve diventare per me un aiuto sulla strada verso la verità, non può e non deve mancare però l'elemento critico. La religione custodisce la preziosa perla della verità, ma al tempo stesso la occulta ed è sempre esposta al rischio di perdere la propria natura. La religione può ammalarsi e divenire un fenomeno distruttivo. Essa può e deve portare alla verità, ma può anche allontanare l'uomo da essa. La critica della religione presente nell' Antico Testamento oggi non ha affatto perso la sua fondatezza. Può risultare relativamente facile porsi in un atteggiamento critico nei confronti di un'altra religione, ma dobbiamo anche essere pronti ad accogliere critiche rivolte a noi stessi, alla nostra stessa religione.

    Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d'altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.

    Terza osservazione: significa questo che la missione deve venir meno ed essere sostituita dal dialogo, in cui ciò che conta non è la verità ma l'aiutarsi reciprocamente a diventare migliori cristiani, ebrei, musulmani, induisti o buddhisti? Rispondo di no. Questa sarebbe infatti la completa assenza di convinzioni, in cui - con il pretesto di convalidare ciò che ciascuno ha di meglio - non prenderemmo sul serio né noi né gli altri e rinunceremmo definitivamente alla verità. La risposta mi sembra essere piuttosto che missione e dialogo non devono più essere forme contrapposte, ma compenetrarsi reciprocamente.
    Il dialogo non è un intrattenimento senza scopo, ma ha di mira la persuasione, la scoperta della verità, altrimenti è senza valore. Dall' altro canto la missione in futuro non può più essere compiuta come se si comunicasse con un soggetto fino a quel momento privo di qualunque conoscenza di Dio, a cui deve credere.

    Per questo l'annuncio deve necessariamente diventare un processo dialogico. All'altro non si dice qualcosa di completamente ignoto, ma si dischiude la profondità nascosta di ciò che egli ha già sperimentato nella sua fede.
    (da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.71-73)




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)