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DIFENDERE LA VERA FEDE

RIFLESSIONI sulla Vita del sacerdote, sui Consacrati religiosi e i riflessi sui fedeli

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    Caterina63
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    00 08/06/2009 12:56
    I cambiamenti della vita consacrata

    La profezia
    dell'interculturalità


    di Pascual Chávez Villanueva
    Rettore maggiore dei salesiani
    e presidente dell'Unione superiori generali



    La crescita del divario tra Nord e Sud con i suoi accelerati processi di trasformazione, la drastica diminuzione demografica in alcune parti, l'ondata inarrestabile del fenomeno migratorio, il progresso tecnico e scientifico, la nuova sensibilità verso la cura del creato e la difesa della dignità della persona sono i nuovi orizzonti entro i quali si muove e va considerata la vita consacrata oggi.
    A questi cambiamenti geografici e culturali ha dedicato tre giorni di riflessione - dal 27 al 29 maggio - l'Unione superiori generali con l'obiettivo di avviare in ogni comunità religiosa un cambio di mentalità che aiuti gli istituti a risplendere nella qualità della testimonianza al Vangelo.
    In particolare, ci siamo concentrati sull'interculturalità, vista nelle dimensioni che caratterizzano la vita consacrata stessa:  l'esperienza spirituale, la missione, il carisma, la comunione e la comunità, il governo.

    Il cardinale Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, partendo dalla constatazione che l'incarnazione del Figlio di Dio e la nascita della Chiesa sono avvenute in un contesto storico, geografico e culturale ben preciso, caratterizzato da luci e ombre, ha elencato alcuni cambiamenti geografici e culturali di questi anni. In questo tempo perdurano alcuni concetti classici della vita socio-politica, quali cittadinanza, democrazia, autoritarismo, tirannia; d'altra parte sorgono nuove realtà come le megalopoli, l'interdipendenza economica, l'ingiusta distribuzione dei beni e le migrazioni delle popolazioni, che sono da considerarsi come "segni dei tempi" necessari per capire Cristo e la Chiesa di oggi. 

    vita consacrata La Chiesa va compresa alla luce del suo impegno permanente a superare le frontiere e a raggiungere tutti in ogni luogo e tempo. "Fin dal momento in cui san Pietro lascia Gerusalemme e si stabilisce ad Antiochia, la geografia cattolica comincia a modificarsi" - ha detto il cardinale. E guardando al presente ha affermato:  "Per molto tempo, noi cristiani abbiamo vissuto con un'immagine assai statica della geografia. Questa immagine è cambiata, nel senso che il centro di gravità della Chiesa non si trova più a nord, bensì a sud, poiché il 75 per cento dei cristiani vive in Asia, Africa e America".

    Accanto alla geopolitica e alla geo-economia, è necessario che la Chiesa e la vita consacrata considerino la nuova geo-evangelizzazione e la nuova geo-vita religiosa. L'universalità e la globalizzazione, che caratterizzano la dimensione sociale e culturale del mondo attuale, si riversano inevitabilmente sulla vita consacrata. Si constata anche la scristianizzazione di alcune zone e la cristianizzazione di vari continenti. In particolare, è aperto il problema della presenza della vita consacrata in Europa e del suo apporto all'evangelizzazione. Raccogliendo queste sfide, la vita consacrata, che continua a essere sempre attuale e viva, è chiamata ad essere una "lettera di Cristo", cioè una testimonianza reale e autentica del Signore Gesù e del suo Vangelo.

    In un mondo marcato dalla globalizzazione e dagli eccessi del mercato, anche la vita consacrata sta diventando sempre più multiculturale, non solo per i diversi contesti di evangelizzazione dove opera, ma anche per la sua stessa fisionomia interna. È cambiata infatti notevolmente la sua geografia vocazionale. Questa apertura sempre più diffusa alle tante realtà culturali e la nuova composizione interna degli istituti interpellano i religiosi e le religiose a dare risposte concrete, perché il loro modo di vivere insieme nelle comunità continui a essere segno e testimonianza di comunione per la stessa missione e lo stesso carisma.

    In questa nuova situazione multiculturale della vita consacrata si aprono sfide per la missione, il carisma, la comunione e la vita di comunità, il governo e l'esercizio del servizio di autorità di ogni istituto. Le realtà fondamentali della vita consacrata richiedono di essere ripensate in prospettiva interculturale, al fine di prospettare un impegno consapevole e intenzionale a realizzare la convivialità delle differenze e la convergenza all'unità.

    La missione ci spinge oggi all'incontro dialogico, al rispetto e alla comprensione delle differenze, alla riconciliazione, all'integrazione e alla convergenza verso l'unità. La vita consacrata può svolgere il compito di global player, con attenzione alla molteplicità culturale e al rispetto delle storie personali e locali, evitando il rapporto di dominio e la tentazione dell'esclusione. Essa è chiamata a essere presente nei luoghi delle fratture e dei conflitti, a essere segno di riconciliazione, ad andare oltre le frontiere per costruire ponti e aprire cammini.

    Oggi ci si accorge che la convivenza tra persone consacrate di culture diverse non è più un fatto accidentale, legato ai nuovi campi di azione pastorale oppure alla carenza di vocazioni, ma è una realtà che caratterizza il modo d'essere della vita consacrata, che impegna ciascuno a scoprire ciò che c'è di positivo nel mondo culturale dell'altro e riconoscerlo come dono di Dio. Per questo occorre avere consapevolezza che la comunità ci è data insieme alla vocazione consacrata, anzi ne è una sua parte costitutiva, e che la costruzione della vita fraterna è una esigenza imprescindibile.
    L'interculturalità nelle comunità ha come punto di partenza la centralità della comune testimonianza fondata sull'unica Parola, che convoca i consacrati e le consacrate e l'invia secondo il carisma specifico del proprio istituto.

    È questa Parola che permette a persone così diverse, nei caratteri, nella formazione, nell'età, nelle aspettative e, non ultimo nelle culture, di professare la stessa fede e di condividere lo stesso carisma apostolico, condividendo il comune linguaggio dell'amore fondato sul Vangelo e la comune cultura dell'istituto. Infatti, anche dinanzi a differenze molto visibili e marcate, come appunto quelle culturali, ciò che riunisce i membri di una stessa comunità non è soltanto la buona volontà o la simpatia reciproca, ma è lo stesso Vangelo, principio di ogni testimonianza e predicazione, sorgente di ogni spiritualità cristiana (cfr Vita consecrata, 94).

    L'annunzio di questa Parola, che chiama a rendere visibile l'amore di Cristo, è quindi la chiave d'interpretazione per leggere le tante esperienze di vita fraterna, che testimoniano come la comunione tra culture diverse è possibile.

    Infatti, l'amore fraterno in comunità non è il risultato della simpatia reciproca, ma è frutto di un cammino di kenosi e di conversione, in cui le persone consacrate apprendono ad amare il Signore sopra ogni cosa attraverso i segni visibili della comunione fraterna.

    Ciò interpella la vita consacrata a un lavoro di mediazione tra i grandi orientamenti carismatici e istituzionali e le situazioni concrete in cui le persone operano, vivono, si rapportano, per ricominciare quotidianamente a integrare le differenze a un livello di comunione più profonda e autentica, fondata non tanto sul proprio punto di vista, sui propri obiettivi o sulle proprie aspettative, ma sulla comune vocazione ad amare Dio, i fratelli e le sorelle che vivono accanto e l'umanità intera. Questo è un compito del governo centrale, ma anche provinciale e locale. Un tale lavoro diventa ancora più specifico nelle comunità multietniche, perché qui le differenze sono ancora più incarnate nei vissuti di ciascuno, riguardano i diversi sistemi culturali, l'ambiente d'origine, la propria lingua, le proprie tradizioni, e sembrano più connaturali alle esigenze dei singoli.

    È proprio quando si riconosce il valore dell'alterità che l'integrazione delle differenze diventa una strada maestra verso la santità e la missione. Diversamente si rischia di richiudersi in una visione di parte o negli individualismi delle proprie necessità istituzionali oppure dei progetti vocazionali o ancora nell'infelice gestione d'opere divenute pesanti fardelli. In effetti, quando ci si accorge che gli altri che vivono nella stessa comunità non sono secondo le proprie aspettative, non parlano la stessa lingua, non pensano allo stesso modo, non valutano le cose come noi, si corre il rischio di ripiegarsi nei tanti estremismi che, oggi più che mai, sono presenti nell'attuale epoca caratterizzata dal fascino della mondializzazione e dalla paura di perdere i privilegi dei tanti etnocentrismi.

    Ecco allora l'importanza di guardare alle diversità come qualcosa di positivo, per riscoprirne il valore e per collocarle all'interno della stessa sinfonia comunitaria e apostolica.

    Di fronte a tante sfide e a queste promettenti prospettive si apre la necessità di formare a questo nuovo modo d'essere della vita consacrata, che intende realizzarsi oggi con modalità interculturale. Questo è il suo modo di essere profezia in una Chiesa sempre più decentrata e policentrica e in un mondo sempre più globalizzato e frammentato.




    (©L'Osservatore Romano - 7 giugno 2009)


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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 08/06/2009 12:57
    Un'inchiesta su religiose e religiosi in Italia

    La sfida del «per sempre»


    di Silvia Guidi

    "Per sempre", due parole che suscitano un misto di paura e desiderio, il bisogno di appartenere stabilmente a qualcosa e insieme il terrore di restare imprigionati in una situazione non più gradita che chiede la fatica quotidiana della fedeltà; una frase talmente "scottante" che l'autore del libro, Fabrizio Mastrofini, giornalista di Radio Vaticana, ha dovuto attenuarne l'impatto con un punto interrogativo per poterla usare come titolo del suo reportage (Siena, Cantagalli, 2009, pagine 111, euro 13,50). Perché di un reportage si tratta, o meglio, di un'"inchiesta vecchio stile" un genere sempre più raro perché richiede vasta documentazione, verifica dei dati raccolti, un lungo lavoro di valutazione che raramente porta a clamorose scoperte e quasi mai procura titoli a effetto sulle prime pagine dei giornali.

    Mastrofini si è scelto un tema particolarmente difficile:  raccontare come sono cambiati frati e suore in Italia, cercando di non cadere nelle trappole che rendono dimenticabile il lavoro di tanti suoi colleghi. Libri in cui i preconcetti e i malintesi nell'affrontare l'argomento sono tanti e tali che domande e risposte a volte sembrano un dialogo tra sordi:  il giornalista è sconcertato dalla "stranezza" della verginità, mentre il consacrato è sconcertato dalla superficialità del giornalista. Diffidenza - giustificata o meno - e luoghi comuni sono il maggiore ostacolo a un dialogo autentico, come pure un eccesso di diplomazia, da ambo le parti.

    Il cronista non ha il coraggio di fare l'unica domanda che gli interessa ("perché vivere così?") e nasconde a stento la sua insofferenza perché gli sembra che i religiosi rispondano sostanzialmente sempre le stesse cose:  che il centro della vita (di ogni cristiano, dei consacrati in particolare) è la preghiera. "Perché questa scelta vocazionale?". "Nessuna "scelta"; la vocazione la decide Dio" risponde il consacrato, venendo meno alle aspettative del suo intervistatore.


    Per evitare questo empasse, nel suo libro Mastrofini cerca di far parlare il più possibile i religiosi, ad esempio chiedendo loro di visualizzare cos'è per loro il convento (una palestra a più livelli, un alveare, una porta aperta, un distributore di benzina, una pianta di ortica da maneggiare con cura, per citare qualcuna delle immagini raccolte) rendendosi conto che in ogni vocazione la fatica è parte integrante della gioia, come sanno le madri che educano i loro figli, come sa chiunque prende sul serio la sua vita.

    E cerca di far parlare i numeri:  se "le claustrali sono un esercito, 7.650, sparse da nord a sud, in aumento, mentre altre congregazioni si trovano a fare i conti con il calo numerico" forse è proprio vero che il segreto di una vita così "strana" è la preghiera, il rapporto quotidiano, personale con Cristo curato, approfondito e alimentato dall'"eterno presente" della liturgia.


    (©L'Osservatore Romano - 7 giugno 2009)
    Fraternamente CaterinaLD

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    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 10/06/2009 08:20
    ANNO SACERDOTALE - Le due fedeltà

    Dal 19 giugno sulla traccia di san Giovanni Maria Vianney


    Marco Doldi

    “Una circostanza da non perdere per rinvigorire lo smalto del dono ricevuto con l'imposizione delle mani, e così rinvigorire quella apostolica vivendi forma che è traguardo persuasivo di ogni dinamismo apostolico”.

    Così il card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, ha spiegato ai suoi preti, riuniti al Santuario della Guardia, il significato del prossimo
    Anno Sacerdotale.
    Indetto da Benedetto XVI in occasione del 150° anniversario della morte di San Giovanni Maria Vianney, avrà come tema: “Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote”.
     
    Secondo quanto ha spiegato il card. Claudio Hummes, prefetto della Congregazione per il clero, sarà “un anno positivo e propositivo in cui la Chiesa vuole dire, soprattutto ai sacerdoti, ma anche a tutti i cristiani e alla società mondiale mediante i mezzi di comunicazione globale, che è orgogliosa dei suoi sacerdoti, che li ama e li venera, che li ammira e riconosce con gratitudine il loro lavoro pastorale e la loro testimonianza di vita”. Se, purtroppo, alcuni sono stati coinvolti in gravi problemi e situazioni delittuose “la stragrande maggioranza dei sacerdoti è costituita da persone molto degne, dedite al ministero, uomini di preghiera e di carità pastorale”. Persone, che consumano tutta la loro esistenza per mettere in pratica la propria vocazione e missione, spesso con grandi sacrifici personali, ma sempre con un amore autentico per Gesù Cristo, la Chiesa e il popolo, solidali con i poveri e con chi soffre.
     
    L'Anno Sacerdotale inizierà il 19 giugno, solennità del Sacro Cuore di Gesù, con la celebrazione, presieduta da Benedetto XVI, dei Vespri di fronte alle reliquie di San Giovanni Maria Vianney, portate a Roma dal vescovo di Belley-Ars.

    La chiusura si celebrerà esattamente un anno dopo con un “incontro mondiale sacerdotale” in piazza San Pietro.

    Nelle preoccupazioni del Papa c’è quella della giusta comprensione del sacerdozio ministeriale, come ha ricordato alla plenaria della Congregazione del clero nel marzo scorso.
    Il presbitero è configurato sacramentalmente a Cristo Capo: da questa verità scaturisce un’adesione cordiale e totale del ministro a quella che la tradizione ecclesiale ha individuato come la “apostolica vivendi forma”. Questa “consiste nella partecipazione ad una vita nuova spiritualmente intesa, a quel nuovo stile di vita”, che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli.

    Per l’imposizione delle mani del vescovo e la preghiera consacratoria della Chiesa, i candidati divengono uomini nuovi, divengono “presbiteri”, partecipi della grandezza di Cristo Profeta, Sacerdote e Re.

    Il dono ricevuto genera nel sacerdote una tensione di somigliare sempre più a Cristo, di cui porta indelebilmente l’immagine. Per questo l’Anno Sacerdotale vedrà in ogni diocesi iniziative, innanzitutto, spirituali e pastorali. Durante l'Anno giubilare è prevista la pubblicazione di un “Direttorio per i confessori e direttori spirituali” e di una raccolta di testi del Sommo Pontefice sui temi essenziali della vita e della missione sacerdotale nell’epoca attuale.

    Di pari passo, la Chiesa si sente impegnata nella formazione dei futuri presbiteri. La consapevolezza dei radicali cambiamenti sociali degli ultimi decenni deve muovere le migliori energie ecclesiali a curare la formazione dei candidati al ministero. In particolare, “deve stimolare la costante sollecitudine dei Pastori verso i loro primi collaboratori, sia coltivando relazioni umane veramente paterne, sia preoccupandosi della loro formazione permanente, soprattutto sotto il profilo dottrinale”. La missione sacerdotale ha le sue radici in special modo in una buona formazione, sviluppata in comunione con l’ininterrotta Tradizione ecclesiale, senza cesure né tentazioni di discontinuità.

    In tal senso, è importante favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa. Urgente appare anche il recupero di quella consapevolezza che spinge i sacerdoti “ad essere presenti, identificabili e riconoscibili sia per il giudizio di fede, sia per le virtù personali sia anche per l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore della missione della Chiesa”.

    © Copyright Sir

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 19/06/2009 13:47
    Così fa eco il Card Caffarra
    Anno Sacerdotale - Solennità del Sacro Cuore
    Basilica del Sacro Cuore

    In occasione dell'apertura dell'Anno Sacerdotale (19 giugno 2009-19 giugno 2010) proclamato il 16 marzo scorso da S.S. il Papa Benedetto XVI in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney


    1. L’autore della lettera agli Efesini ci apre le porte dell’Anno sacerdotale.
    Anno di grazia, poiché in esso il Signore che ci ha chiamati, purificherà la nostra coscienza sacerdotale perché possa vivere in noi e noi in Lui. Ed infatti la lectio brevis appena proclamata ci rivela quale sia la dimora della nostra esistenza sacerdotale, il terreno in cui radicarsi e da cui trarre nutrimento, il fondamento su cui rimanere solidamente fondati: l’auto-donazione di Cristo alla Chiesa.
    Cristo ha amato la Chiesa e ha donato se stesso per essa: è questo l’evento fondatore del nostro sacerdozio. Amore ed autodonazione sono inscindibilmente connessi. La verità, la serietà dell’amore di Cristo per la Chiesa è provata dal fatto che egli si è donato per essa. L’amore si è dimostrato nell’offerta che Cristo ha fatto per la Chiesa.
    Possiamo solo accostarci cum timore et tremore al mistero che le divine parole ascoltate racchiudono, partendo dalla debole analogia dell’amore creato: non abbiamo altra strada.
    Chi ama può donare ciò che ha: il suo tempo, il suo denaro, la sua competenza. Ma il dono dell’avere non esprime l’intera verità dell’amore, poiché lascia la persona di chi ama estranea al dono.
    Solo quando la persona dona se stessa, realizza la verità intera dell’amore. «Ha dato Se stesso», dice l’autore ispirato. E il “Se stesso” di cui si parla è una persona divina. La dimostrazione dell’amore non è “qualcosa di Dio”; è Lui stesso. Inoltre il dono di ciò che si ha è quantificabile, è misurabile: ammette un più e un meno. Il dono di sé non è quantificabile, non è misurabile: o uno dona se stesso o non dona se stesso. Non datur tertium. È Dio stesso che è donato all’uomo.
    Cari fratelli sacerdoti, in forza della nostra ordinazione sacerdotale noi siamo stati piantati dentro al dono che Cristo ha fatto di se stesso per la Chiesa. Siamo il segno visibile di questa divino-umana autodonazione. Non ci apparteniamo più; non misuriamo più il dono secondo il metro di un’onesta professionalità: è la nostra persona che è stata donata da Cristo alla sua Chiesa.
    E' alla luce dell’amore e dell’auto-donazione di Cristo alla Chiesa che possiamo comprendere la ragione teologica del nostro celibato.
    Configurati a Cristo Sposo della Chiesa, questa merita di essere amata dal sacerdote con amore fedele, totale ed esclusivo: come l’ha amata Cristo.
    Abbiamo davanti a noi ora un intero anno per radicarci sempre più in questo grande mistero; per liberare la nostra coscienza sacerdotale da altre logiche che non siano quella dell’autodonazione alla Chiesa.
    Ci risulta subito chiara allora la centralità della celebrazione eucaristica nella nostra vita sacerdotale. Essa è la chiave interpretativa unica di tutta la nostra esistenza; essa è la scuola, l’unica, in cui impariamo la scientia libertatis perché impariamo la scientia amoris.
    Tocchiamo un punto nevralgico, forse il punto nevralgico della nostra vita, dal quale dipende in misura completa la nostra felicità: felicità indistruttibile anche nelle più grandi tribolazioni.
    Non sono necessarie molte riflessioni per renderci conto che nella costruzione del nostro io concorre in maniera determinante la qualità e il contenuto della nostra auto-coscienza.
    La qualità: una forte auto-coscienza ci impedirà di essere condotti da altri/da altro. Di un auto-coscienza priva di qualità ci ha dato una descrizione insuperabile Manzoni nel primo capitolo de I promessi sposi quando presenta don Abbondio: una vita senza soggetto che la viva, senza un “io” che la gestisca. Ma è più importante il contenuto della propria autocoscienza: la sua costruzione. La costruzione dell’auto-coscienza coincide colla costruzione del proprio io.
    La coscienza di sé nasce dal prendere coscienza della propria origine: del rapporto meglio colla propria origine. Pensate alla vocazione di Geremia; alla vocazione di Paolo; alla chiamata di Pietro: in quel momento Geremia, Paolo, Pietro hanno “visto” che cosa definiva il loro io. È stato l’incontro con l’origine che ha generato la loro auto-coscienza.
    Essa poi è maturata attraverso l’impatto colla realtà: si leggano da questo punto di vista tutte le pagine autobiografiche di Geremia; si rilegga il Testamento di Paolo ad Efeso oppure la commovente pagina di 2Tim 4,6-8; si ripercorra tutta la commovente vicenda di Pietro nel Vangelo.
    Proviamo ora a chiederci: che “ruolo” ha la celebrazione dell’Eucarestia nella costruzione del proprio io? Ho sempre più viva la convinzione che o l’io del pastore trova nella celebrazione eucaristica la sua radice permanente o è un io che poco o tanto vive nella menzogna e nel male.

    2. La divine parole ispirate ci rivelano anche un altro aspetto dell’amore di Cristo per la Chiesa: Egli si è donato allo scopo di santificarla, e quindi per presentarla a se stesso come splendida sposa.
    Il tempo non ci consente ora di meditare sul contenuto cristologico di quelle parole. Dobbiamo, presupponendo questo, ascoltare l’eco che esse fanno risuonare nella nostra coscienza sacerdotale.
    Cari fratelli sacerdoti, nelle divine parole ispirate viene indicata la finalità ultima della nostra autodonazione alla Chiesa, e quindi l’orientamento del nostro ministero sacerdotale.
    Il nostro ministero è in ordine alla santificazione della comunità. Come vi è ben noto la semantica biblica del termine “santificazione” non è dominata dal significato morale, ma da quello ontologico. La santificazione è il trasferimento dell’uomo nella sfera di Dio. S. Paolo scrivendo ai Romani lo dice in modo stupendo: «a causa della grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere un ministro di Cristo Gesù tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del Vangelo di Dio perché i pagani divengano un’oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» [Rom 15,15-16]. La Bibbia di Gerusalemme commenta: “l’apostolato è una liturgia (cfr 1,9) in cui l’apostolo – più esattamente il Cristo per mezzo di lui – offre gli uomini a Dio”.
    Cari fratelli sacerdoti, quanto lungamente, quanto profondamente dovremo meditare lungo l’Anno sacerdotale queste divine parole! L’Apostolo non fa che riecheggiare le parole di Gesù: «per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» [Gv 17,19].
    La nostra predicazione del Vangelo ha lo scopo e la forza di strappare le persone dal mondo e trasferirle nella sfera di Dio.
    Non cerchiamo di essere legittimati dal mondo nel nostro servizio apostolico. La nostra passione per l’uomo è la passione per la gloria di Dio: introdurre l’uomo nell’alleanza con Dio.
    Il nostro ministero in Cristo è in ordine a presentare la nostra comunità a Cristo splendente di bellezza. Siamo rimandati al destino finale della Chiesa, a cui dobbiamo guidarla. S. Tommaso commenta il testo ora proclamato nel modo seguente: «et ideo sibi exhibet immaculatam, hic per gratiam, sed in futuro per gloriam». Noi esistiamo per introdurre l’uomo nella vita eterna: hic per gratiam, sed in futuro per gloriam.

    La consapevolezza della nostra miseria, dell’inadeguatezza della nostra persona deve sempre accompagnarci: ma nel modo dovuto. Non in modo tale da ritagliare il nostro ministero sulla misura delle nostre capacità; non in modo tale da generare nel cuore quella tristezza che ci fa sembrare ai nostri occhi dei falliti. Ma nel modo che essa (consapevolezza) è sempre accompagnata dalla certezza di essere stati costituiti «ministri adatti di una Nuova Alleanza» dall’imposizione delle mani che ci ha dato lo Spirito.

    Ecco, cari fratelli sacerdoti: iniziamo questo Anno sacerdotale accompagnati dai grandi santi pastori, in particolare dal santo parroco di Ars; dai sacerdoti santi che hanno reso glorioso il nostro presbiterio. Sia docile il nostro cuore perché Gesù che ci ha prediletti, grandi cose desidera compiere in mezzo a noi. Così sia.

    + Card. Carlo Caffarra



    ***************************************

    RICORDIAMO:

    ATTENZIONE: LETTERA DEL PAPA AI SACERDOTI




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 21/03/2011 23:39

    Viviamo in un'epoca che ha paura di parlare chiaro

    «Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole! […] Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. […] Si ha vergogna di Dio».

    ***

    Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole.
    Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati.

    Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa.
    Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo».
    Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito.
    Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.

    1. Essere indipendenti dalla logica teologica

    Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi.
    Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»?
    Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.
    Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini.

    Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.
    La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contraddittorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.
    La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.
    Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
    Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico!
    Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato.
    Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia.
    Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultmann, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.
    Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica.
    Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.
    Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!

    Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.
    In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
    Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.
    Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre e con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».
     
    2. Il «sociologismo»

    Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia.
    Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo.
    La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.
    Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perché il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.
    Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole!

    Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
    Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi!

    Ma si sa dove vanno i tempi?
    Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
    Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?

    3. La nuova storiografia

    Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui!
    Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.

    La parte maggiore della produzione - ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni - pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:
     
    — la società ecclesiastica è la prima causa dei guai che hanno colpito i popoli;
    — la Chiesa - detta per l’occasione postcostantiniana - avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;
    — le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione;
    — tutta la storia ecclesiastica fino al 1962 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione - tutti lo vedono - costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;
    — le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;
    — il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate.
    Si potrebbe continuare.

    Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!
    Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse.
    È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!

    4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti

    Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno.
    Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo.
    Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune.

    Eccone i punti.

    — La filologia, l’archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.
    Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.
    — Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.
    — La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero.

    Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio.
    Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!
    Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».

    5. Le allegre «teologie»

    Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
    Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.
    Queste sono vere «teologie», anzitutto?
    È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio.
    In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie.

    Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.

    — Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente.
    — Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, derivando da un principio messo dal “cristianissimo” e “devoto” Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori.
    Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere - con altre cose - una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti.
    Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante.
    C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.
    E questo è grave. Infatti.

    La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.
    Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi principî del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.
    Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo.
    Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».
    La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
    La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire al numero seguente.

    6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie

    Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina.
    Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più.
    Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, sì da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica.

    Guardiamo bene in faccia questa faccenda.

    — Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade nel nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti.
    — Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.
    La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
    Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia!

    Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
    La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.

    7. Il rifiuto della apologetica

    Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
    Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.
    Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova.
    Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.

    Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo - come gli altri - ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva.
    Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere.

    Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.
    Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?

    8. La riabilitazione degli eretici

    Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.
    Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.

    Ma, è normale tutto questo?
    I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».
    Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto.
    Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici. e infatti essi non si sono minimamente schiodati dalle loro posizioni
    Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.

    Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori!
    Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause.
    Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.

    9. L’antigiuridicismo

    Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.
    Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge è l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.
    La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone perbene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.
    Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.
    Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Sì, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale.

    Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base».
    Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza.
    Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni».
    La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza.
    Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?
    E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?
    Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi.
    La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
    Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!

    10. La crociata antitrionfalistica

    Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
    È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
    La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.
    Vediamo questo fascio.
    L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo.
    La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.
    Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre!
    Se si porta rispetto al Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta.
    Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.

    Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti.
    Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservano — non le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
    Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.

    11. La indisciplina endemica

    Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo.
    Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente.
    In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione!
    In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.
    A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli.
    Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Cielo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie.

    Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo.
    Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pari passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!

    12. La bassa quota

    Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.
    Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco.
    Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso.

    Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo.

    Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.
     
    Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo.

    Animare gruppi detti magari «di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tamquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.

    Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia.

    Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito.
    Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso.
    Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio.
    Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
    Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.

    Conclusione

    Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori.
    Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.

     
    Cardinal Giuseppe Siri, «Rivista Diocesana Genovese», gennaio 1975


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 22/03/2011 00:02

    Se il prete si confonde coi mondani


    da Cordialiter:

    Guai se il sacerdote, dimentico di sì divine promesse, cominciasse a mostrarsi "avido di turpe lucro" e si confondesse con la turba dei mondani, su cui geme la Chiesa insieme con l'Apostolo: "Tutti pensano alle cose loro, non a quelle di Gesù Cristo".

    In tal caso, oltre il mancare alla sua vocazione, raccoglierebbe il disprezzo del suo stesso popolo, il quale riscontrerebbe in lui una deplorevole contraddizione tra la sua condotta e la dottrina evangelica così chiaramente espressa da Gesù e che il sacerdote deve annunziare: "Non cercate di accumulare tesori sopra la terra, dove la ruggine e il tarlo li consumano e dove i ladri li dissotterrano e li rubano; procurate invece di accumulare tesori nel cielo".

    Se si pensa che uno degli Apostoli di Cristo, uno dei Dodici, come mestamente notano gli Evangelisti, Giuda, fu condotto all'abisso dell'iniquità appunto dallo spirito di cupidigia delle cose terrene, ben si comprende come questo medesimo spirito abbia potuto arrecare tanti danni alla Chiesa attraverso i secoli: la cupidigia, che dallo Spirito Santo è detta "radice di tutti i mali", può trascinare a qualunque delitto; e quando anche non arrivi a tanto, di fatto un sacerdote infetto da tale vizio, consciamente o inconsciamente fa causa comune coi nemici di Dio e della Chiesa e coopera ai loro iniqui disegni.

    E invece il sincero disinteresse concilia al sacerdote gli animi di tutti, tanto più che con questo distacco dai beni terreni, quando viene dall'intima forza della fede, va sempre congiunta quella tenera compassione verso ogni sorta d'infelici, che trasforma il sacerdote in un vero padre dei poveri, nei quali egli, memore di quelle commoventi parole del suo Signore: "Ogni volta che avete fatto qualche cosa per uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l'avete fatta a me", con affetto singolare vede, venera e ama Gesù Cristo stesso.

    [ Brano tratto dall'Enciclica “Ad catholici sacerdotii”, di Papa Pio XI ]

    Fraternamente CaterinaLD

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    00 12/01/2012 13:56

    Messaggio dei vescovi italiani per la Giornata mondiale della vita consacrata (O.R.)



    Per educarsi alla vita santa di Gesù


    Roma, 11. Riproporre la forma di vita che Gesù ha abbracciato e offerto ai discepoli che lo seguivano. In questo sta il proprium della vita consacrata.

    È quanto sottolineano i vescovi italiani nel messaggio diffuso oggi in vista della 16ª Giornata mondiale della vita consacrata del 2 febbraio prossimo.

    Il documento -- dal titolo «Educarsi alla vita santa di Gesù» -- si apre con un'espressione di stima e gratitudine a quanti, «in tempi non facili» con la loro «presenza carismatica e dedizione sono un segno profetico ed escatologico mai abbastanza apprezzato».

    In Italia i religiosi sono circa 140.000, dei quali 18.000 uomini e 122.000 donne. Essi rappresentano il 16 per cento del totale. A livello mondiale, infatti, i religiosi sono quasi 875.000, con 135.000 uomini e 740.000 donne.

    Nelle prime battute del testo -- elaborato dalla Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata -- anche la sottolineatura del particolare rapporto tra la vita religiosa e il cammino di questo decennio per la Chiesa italiana dedicato al tema dell'educazione. «“Educare alla vita buona del Vangelo” implica certamente l'educare alla vita santa di Gesù. È questo il dono e l'impegno di ogni persona che voglia farsi discepola di Gesù, specialmente di chi è chiamato alla vita consacrata».
    Nella parte centrale del messaggio, i vescovi indicano quattro «note» -- «primato di Dio», «fraternità», «zelo divino» e «stile di vita» -- che «mostrano la coerenza della vita con la vostra specifica vocazione» mostrando al tempo stesso la «fecondità di un assiduo cammino formativo».

    Quanto al «primato di Dio», i presuli ricordano come Benedetto XVI indichi spesso nella secolarizzazione «la sfida principale del tempo presente».
    Particolarmente i consacrati sono chiamati a riflettere sul fatto che «urge una nuova evangelizzazione, che metta al centro dell'esistenza umana il primo comandamento di Dio, la confessio Trinitatis e la Parola di salvezza, di cui voi avete profonda esperienza spirituale». Quanto alla «fraternità», i presuli osservano come «la dilagante conflittualità che deteriora le relazioni umane mostra la perenne attualità della missione di Cristo e dei suoi discepoli: raccogliere in unità i figli di Dio dispersi».

    In questo senso, «tocca alle comunità religiose essere scuole di fraternità che impegnano i propri membri alla formazione permanente alle virtù evangeliche: umiltà, accoglienza dei piccoli e dei poveri, correzione fraterna, preghiera comune, perdono reciproco, condividendo la fede, l'affetto fraterno e i beni materiali».

    Nella stessa prospettiva, i vescovi sottolineano l'esempio di Gesù e la «forza straordinaria» dello zelo da lui mostrato insieme agli apostoli, esortando i religiosi a preoccuparsi «non tanto della contrazione numerica delle vocazioni, quanto della vita tutto sommato mediocre di molti, in cui sembra persa la traccia dello zelo, della passione, del fuoco d'amore che animava Gesù e i santi». Mentre «oggi occorrono nuovi santi, appassionati di Gesù e dell'uomo, sentinelle che sanno intercettare gli orizzonti della storia».





    CELEBRAZIONE EUCARISTICA IN OCCASIONE DEL
    50° ANNIVERSARIO DI ORDINAZZIONE SACERDOTALE

    OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
    SEGRETARIO DI STATO D
    EL SANTO PADRE

    Basilica di San Pietro
    Lunedì, 6 luglio 2010

     

    Signori Cardinali,
    Eccellenze Reverendissime,
    Signor Rettor Maggiore dei Salesiani,
    Cari confratelli nel sacerdozio,
    Cari religiosi e religiose,
    Stimate Autorità,
    Cari fedeli e amici tutti.

    Vi sono molto grato, perché con la Vostra presenza e con la Vostra preghiera avete voluto unirvi ai miei sentimenti di gratitudine a Dio, nel cinquantesimo anniversario della mia Ordinazione sacerdotale. Vorrei che questa Messa fosse un inno di lode alla bontà e alla tenerezza del Signore.

    Nel coltivare questi atteggiamenti del cuore, siamo ispirati dalle letture bibliche, che abbiamo appena ascoltato. Esse suggeriscono tre motivi fondamentali, con i quali oggi possiamo declinare il nostro rendimento di grazie al Signore.

     

    1. Sono stato scelto per un ministero incomparabilmente bello: il Sacerdozio

    La prima lettura descrive la missione del profeta che, in realtà, è la missione di Gesù. Egli stesso, infatti, con la sua Incarnazione adempie la profezia del Testamento antico. Questa missione viene prolungata, lungo i secoli e i millenni della storia, da coloro che Egli stesso ha scelto e consacrato.

    In che cosa consiste questa missione? Lo abbiamo appena ascoltato: consiste nel dare speranza alla gente, nell’annunciare che Dio è buono, nell’alleviare le pene di chi è afflitto, nel richiamare il pensiero del Cielo a chi è rattristato dalle tribolazioni della terra.

    Come sacerdote e come vescovo, ho sperimentato tante volte la bellezza e la forza del Vangelo di Gesù, che davvero è capace di cambiare la vita delle persone. Il sacerdote, nell’esercizio dei suoi munera, ha questa missione, incomparabilmente unica: quella di far scendere il Cielo sulla terra, quella di mettere in comunione gli uomini e le donne con Dio.

    Io stesso ho avvertito perciò la medesima gioia, di cui parla il profeta nella parte finale della lettura: Dio, per grazia, mi ha chiamato a questa vocazione in mezzo al suo popolo, e mi ha circondato di tenerezza attraverso i doni che mi ha concesso, attraverso le persone che mi ha fatto incontrare, gli eventi che si sono succeduti nella mia vita di sacerdote, i compiti che mi sono stati affidati. Questa esuberante ricchezza di vita e di grazia popola oggi la mia mente e si traduce in sentimenti di lode e di riconoscenza. Dopo cinquant’anni, non posso non riconoscere che l’esercizio del mio ministero nasce dalla scelta misteriosa di Dio, che mi ha consacrato con il suo Spirito, e che incessantemente mi accompagna con la sua presenza.

    Dono e mistero è il sacerdozio! E anch’io, quest’oggi, esclamo con il profeta: “Gioisco pienamente nel Signore!”.

    2. Al servizio della Chiesa

    Nella seconda lettura l’Apostolo Paolo si rivolge alla comunità cristiana di Filippi e scioglie il suo cuore. È una lettera pervasa di letizia, al punto che alcuni esegeti la definiscono la lettera della gioia.

    Ma perché Paolo è tanto contento, benché scriva questa epistola dalla prigionia? Perché, rivolgendosi a quei credenti che gli erano particolarmente cari, egli contempla il mistero della Chiesa, della sua elezione, della sua diffusione e della sua santificazione. Paolo è felice di servire questa Chiesa, di consumarsi per essa, di soffrire per essa. Sappiamo bene che per Paolo la Chiesa è inseparabile da Cristo: per lui, Cristo e la Chiesa sono uniti indissolubilmente, come uno sposo a una sposa.

    Vi confido che anch’io, come Paolo, ringrazio Dio, che ha benedetto il mio ministero ponendomi al servizio della Chiesa, in un modo certamente da me inatteso. Quando, cinquant’anni fa, fui ordinato sacerdote, come ogni salesiano di don Bosco ero pronto a intraprendere la missione in mezzo ai giovani. Ciò avvenne in verità, ma in un contesto di vasto respiro ecclesiale: l’Università Pontificia Salesiana, nella quale ho speso con passione le mie energie. Poi sono arrivate altre responsabilità, che mi hanno indotto ad amare le Chiese particolari a cui sono stato mandato e, con esse, sempre di più la Chiesa universale: come membro del collegio episcopale e nei diversi incarichi che ho cercato di svolgere a totale e devoto servizio del Santo Padre. Sono state queste – e lo sono tuttora – opportunità straordinarie per sentire il mio sacerdozio nella Chiesa, rendendomi collaboratore dello Spirito, che dall’interno la anima, per renderla la bella Sposa di Cristo. Il luogo stesso in cui celebriamo questa Messa ci aiuta a sentire cum Ecclesia, come ci ha richiamato il Cardinale Sodano nella sua introduzione.

    Quando penso alla Chiesa, come fa Paolo nel testo che abbiamo ascoltato, mi vengono in mente volti e nomi di tante persone che ho conosciuto, apprezzato, e che mi sono sforzato di servire con il mio sacerdozio: vescovi amati – a cominciare dal compianto Mons. Albino Mensa, che mi ha ordinato sacerdote cinquant’anni fa, e che poi mi ha consacrato vescovo, circa trent’anni dopo –; e poi tanti sacerdoti esemplari, religiosi e suore fedeli, laici generosi e impegnati, famiglie unite che danno testimonianza dell’amore, giovani e anziani, umili e potenti della terra, uomini e donne in Italia e in ogni continente, felici di aver scelto Cristo e il Vangelo. Anche per coloro che non sempre brillano nella coerenza della fede – anche per essi ringrazio il Signore, e tutti associo in quella preghiera elevata con fervore da Paolo: “Vi porto nel cuore, e prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio” (Fil 1, 7-11); perché, a mano a mano che gli anni passano, ci rendiamo conto che solo una cosa dura per sempre: la carità, volerci bene, aiutarci, perdonarci, servirci gli uni gli altri. Deus caritas est!

    3. In intima amicizia con Gesù

    Il brano del Vangelo, infine, riporta le confidenze di Gesù ai suoi discepoli, i segreti che Egli rivela agli amici più intimi: l’unione strettissima con Lui, condizione di ogni fecondità nella vita dello spirito, il comandamento nuovo dell’amore, l’elezione da parte di Lui, come cifra per comprendere il senso della vocazione e l’efficacia della preghiera.

    Per capire la vita di un prete occorre chiedersi non tanto: “Che cosa fa il sacerdote?”; quanto piuttosto: “Chi è il sacerdote?”. E la risposta è sempre e solo una: il prete è un innamorato di Gesù Cristo, è il suo amico – l’Amico amato, atteso, incontrato, lodato ed implorato.

    Devo dire che anch’io ho sperimentato in questi cinquant’anni, in misura crescente, che il sacerdozio è un rapporto di intima amicizia con Gesù. Ogni giorno ho celebrato il santo Sacrificio della Messa come il momento culmine della mia giornata, e ogni giorno mi sono intrattenuto con il Signore nella celebrazione della Liturgia delle Ore. Questa divina presenza mi ha sempre accompagnato e protetto.

    In questa esperienza ci è di luminoso esempio il Santo Padre Benedetto XVI. Egli, nell’affannoso turbinìo del mondo odierno, malato spesso di superficialità, invita tutti, ma specialmente noi sacerdoti, alla riflessione, all’approfondimento della fede in un rapporto di amicizia con Gesù, e indica la comunione ecclesiale come fondamento per una incisiva testimonianza evangelica. Basta ascoltare con attenzione le sue parole, fare di esse una meditazione sapienziale, per provare la sazietà dell’anima e della mente. Durante l’anno sacerdotale, da poco concluso, Benedetto XVI ha proposto l’esempio del Santo Curato d’Ars e ci ha ricordato che l’intimità di un sacerdote con Gesù è il segreto che anima la sua esistenza e la sorgente di fecondità del suo ministero. Senza contare le numerose omelie e catechesi, che hanno costellato l’intero anno sacerdotale e tracciato il percorso della Chiesa, per certi versi difficile e glorioso, segnato da coraggiosi, santi e dotti sacerdoti.

    Sono certo di interpretare i sentimenti dei confratelli Cardinali, Vescovi e Sacerdoti, qui presenti intorno all’altare in un’unica e corale azione di grazie. Ancora una volta desideriamo lodare il Signore per il grande dono del sacerdozio. Quello del sacerdote, infatti, è e resterà sempre un servizio d’amore per tutta l’umanità, ministero unico ed insostituibile, capace di anticipare, già in questo nostro mondo, la gioia piena e la bellezza del Regno di Dio.

     

    4. Conclusione

    Cari amici, quando sono stato ordinato sacerdote, cinquant’anni fa, figlio di don Bosco e devoto di Maria Ausiliatrice, ho imparato ad affidare il mio sacerdozio alla Madonna. Lo faccio di nuovo anche oggi.

    A Lei, tenera Madre che ha accolto le mie primizie sacerdotali, che ha nutrito la mia spiritualità con l’esempio delle sue virtù, che mi ha accompagnato in ogni tappa del mio cammino – a Lei mi rivolgo oggi, per affidare alla sua intercessione il gravoso ma amato ministero ecclesiale che mi è stato affidato.

    Con le parole di Don Bosco, la invoco:

    O Maria, Vergine potente,
    Tu grande illustre presidio della Chiesa;
    Tu aiuto meraviglioso dei Cristiani;
    Tu terribile come esercito schierato a battaglia;
    Tu sola hai distrutto ogni eresia in tutto il mondo;
    Tu nelle angustie, nelle lotte, nelle strettezze
    difendici dal nemico e nell'ora della morte
    accogli l'anima nostra in Paradiso!
    Amen


    [SM=g1740738] 

     

    [Modificato da Caterina63 03/03/2012 22:08]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 26/03/2012 15:50
    La Chiesa veneta colpita nel segno ed un programma di ministero: monumentale Omelia nella Messa d'insediamento del Patriarca Moraglia.
    http://difenderelafede.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10174070&#idm116505646

        Eminentissimo Patriarca Marco,
        Eccellentissimo Rappresentante Pontificio,
        caro Monsignor Beniamino, Amministratore Apostolico,
        Venerati Confratelli, Autorità,
        carissimi presbiteri, diaconi, consacrati e consacrate, fedeli laici,
        carissimi Veneziani,


        è sotto lo sguardo materno della Nicopeia, nel giorno dell’Annunciazione del Signore, 25 marzo, natale della città, che la Chiesa di Dio che è in Venezia, attraverso la presa di possesso del nuovo Patriarca, viene ricostituita nella sua pienezza teologica, giuridica e pastorale; rivolgiamo il nostro umile grazie a Dio. In questo giorno la Chiesa che è in Venezia è chiamata in modo particolare ad innalzare la sua lode; tutto, infatti, esprime lo stupore e la gioia del popolo di Dio che, reso tale nel sangue di Cristo, celebra la prima Eucaristia presieduta dal nuovo Patriarca, il quarantottesimo successore di San Lorenzo Giustiniani. Così gli uomini passano, ma la Chiesa rimane.
    È proprio il vescovo - attraverso la successione apostolica - che, col suo ministero, “configura compiutamente” la Chiesa particolare e, tramite la comunione diacronica, si lega al ministero dei Dodici e, con loro, allo stesso Gesù e alla sua Pasqua.
        Significativa è, a metà del terzo secolo, la testimonianza di Cipriano, vescovo di Cartagine, sul ministero episcopale. Infatti, secondo Cipriano, la Chiesa particolare - per divino volere - è strutturalmente incentrata sul vescovo che tiene in essa il posto di Cristo sommo sacerdote; il vescovo è il sacerdote che, nel nome Cristo, guida la comunità ecclesiale. L’insegnamento del vescovo di Cartagine circa la comunione fra i vescovi è oltremodo chiara; infatti per Cipriano il vescovo di una chiesa particolare deve vivere in stretta comunione con gli altri vescovi ma, alla fine, è la comunione col vescovo di Roma a garantire la stessa collegialità episcopale (cfr. Cipriano, Lettera ad Antoniano, PL 3,787-788). È la realtà della collegialità che in seguito troverà compiuta e piena formulazione nell’ecclesiologia del Concilio Ecumenico Vaticano II. E in quest’anno, cinquantesimo anniversario della sua solenne inaugurazione, siamo invitati a cogliere sempre meglio il magistero di questa assise ecumenica secondo quell’ermeneutica del rinnovamento nella continuità che autorevolmente propone Benedetto XVI. Il Vaticano II è il grande evento ecclesiale che ha segnato profondamente la vita della Chiesa e al quale dobbiamo guardare con fiducia.

        È proprio in forza della collegialità episcopale che il vescovo di una chiesa particolare, in comunione col vescovo di Roma, ha un legame inscindibile con gli altri vescovi. Siamo nella logica del mistero, per cui non solamente il vescovo è coinvolto, ma ogni chiesa particolare è tale in forza del rapporto intrinseco con la chiesa di Roma. Ed è in questa chiave che i confratelli vescovi del Triveneto guardano, con speranza e realismo, all’imminente convegno di Aquileia 2, rinnovando anzitutto il vincolo collegiale tra loro e le loro Chiese, e tra loro e il vescovo di Roma, il vescovo dei vescovi.

        L’impegno comune è renderci disponibili, con le nostre Chiese, ad ascoltare ciò che lo Spirito vorrà suggerirci per una nuova evangelizzazione di queste terre, in vista del bene comune e nel dialogo con la cultura contemporanea. Si tratta, così, di ricentrare la vita delle nostre Chiese a partire dalla responsabilità personale dei pastori e, per la loro parte, dei fedeli, avendo di mira l’annuncio di Cristo. Per questo, anzitutto, ci si chiede come l’«educare alla vita buona del vangelo» possa avvenire in modo più efficace nelle chiese del Nordest; in una terra che, da sempre, svolge la funzione di ponte tra l’Est e l’Ovest, tra il Nord il Sud del mondo e, oggi, più che mai, è chiamata a svolgere tale missione.

    E in ragione di questo, la Chiesa che è in Venezia è chiamata a far proprio ciò che scrive l’autore della lettera agli Ebrei quando, esortando i discepoli a una reale vita di fede, così si esprime: «corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12, 2).

    La nuova evangelizzazione, per essere realmente tale, suppone che la comunità evangelizzante sia, prima di tutto, rigenerata nel proprio rapporto vitale con Cristo; ogni cammino d’evangelizzazione ha inizio non con l’elaborazione di piani pastorali o progetti accademici delle facoltà teologiche, e neppure attraverso un’auspicabile copertura del territorio da parte dei media.
    Certo questi strumenti, per quanto di loro competenza, concorrono all’opera evangelizzatrice in modo eccellente, ma non costituiscono ancora il fondamento dell’evangelizzazione
    .

    Sono infatti i discepoli, intesi personalmente e comunitariamente, che vengono prima degli uffici pastorali, prima delle facoltà teologiche, prima della rete mediatica; solo in un secondo momento tali strumenti diventano preziosi e, sul piano umano, oggi insostituibili per sostenere una reale missione evangelizzatrice; si tratta di strumenti a servizio di una comunità testimoniale di cui devono veicolare la tensione missionaria, esprimendola con i loro linguaggi e i loro approcci specifici. Prima di tutto, però, viene la comunità testimoniante che in nessun modo può essere surrogata o data per presupposta.
    In merito il libro degli Atti degli Apostoli è esplicito e già nella sua struttura offre una preziosa indicazione che va esattamente in tale direzione; questo libro, che contiene la prima narrazione della storia della Chiesa e insieme fa parte dei libri normativi della fede, non lo si può comprendere in senso pieno senza il presupposto teologico e spirituale da cui consegue l’impegno missionario della Chiesa.
    Tale presupposto, come sappiamo, è costituito dal dono dello Spirito Santo, ossia l’evento della Pentecoste; senza questo dono - compimento della promessa del Signore - noi non avremmo la Chiesa comunità evangelizzata ed evangelizzatrice.

    È proprio il dono dello Spirito Santo che costituisce la Chiesa, trasformando un gruppo di discepoli impauriti nella comunità del Signore risorto.

    Prima degli annunci cherigmatici e delle catechesi degli apostoli, prima dei viaggi missionari e della fondazione delle Chiese particolari, il libro degli Atti narra l’evento di Pentecoste, evento dal quale si può comprendere il significato di ciò che in seguito verrà scandito pagina dopo pagina.
    La Pentecoste è in tal modo l’inizio della Chiesa: non soltanto in senso cronologico, ma essenziale-valoriale; tutto ciò che era accaduto prima del vento impetuoso che si abbatte gagliardo e delle lingue di fuoco che si posano sui presenti - come narra il libro sacro (cfr. At 2, 2-3) - è semplice preparazione, sono soltanto fatti che precedono; la Pentecoste è il vero evento che costituisce ed inaugura la Chiesa alla quale, in Gesù, sono chiamati tutti gli uomini di buona volontà.

    Richiamo, a questo punto, la pagina lucana dei due discepoli di Emmaus perché in essa troviamo qualcosa che caratterizza la Chiesa di ogni tempo, quindi anche la nostra; è un’immagine estremamente significativa e, proprio per questo, va considerata fino in fondo, in tutte le sue implicanze teologiche, spirituali, pastorali e giuridiche. I due pellegrini - Cleopa e il compagno di strada - stanno camminando con Gesù risorto e sono tristi perché per loro è ancora morto; a un determinato momento pretendono addirittura di spiegare proprio a Lui che cosa era successo nei giorni precedenti in Gerusalemme a quel Gesù, profeta potente in parole e opere, di fronte a Dio e al popolo.

    Pare di intravedere, in questo goffo tentativo, l’immagine di certa teologia, più volenterosa che illuminata, tutta dedita all’ardua e improbabile impresa di salvare, attraverso le proprie categorie, Gesù Cristo e la sua Parola. Ma in questa immagine siamo rappresentati anche noi ogni qual volta, con i nostri piani pastorali, con i nostri progetti, convegni e dibattitti, avulsi da una vera fede, pretendiamo di spiegare a Gesù Cristo chi Egli è.

    Cleopa, il suo compagno di cammino e dopo di loro i discepoli di ogni tempo alla fine esprimono tutta la loro desolazione e la loro sfiducia nei confronti di Gesù e del suo operato; le parole dei due e l’uso del tempo imperfetto risultano inequivocabili: «noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni» (Lc 24, 21).
    Quando la fede viene meno, o non è più in grado di sostenere e fecondare la vita dei discepoli, allora ogni discorso teologico, ogni piano pastorale o copertura mediatica appaiono insufficienti. E noi ci troviamo nella stessa condizione dei due discepoli di Emmaus, incapaci d’andar oltre le loro logiche, i loro stati d’animo, scoprendosi prigionieri delle loro paure. Teniamo conto di tutto ciò alla vigilia di Aquileia 2 e dell’incipiente anno della fede. Ma l’evangelista Luca ci insegna ancora che spezzare il pane con Gesù - l’Eucaristia - è il gesto irrinunciabile e specifico del realismo cristiano, attraverso cui i discepoli andranno oltre le loro soggezioni, suggestioni e paure.

    In altre parole l’Eucaristia ci consegna - nel mistero - Gesù vivo e vero; quindi l’Eucaristia dev’essere, anche per noi, evento privilegiato del realismo cristiano. Luogo e momento in cui siamo chiamati ad andare oltre le nostre risorgenti incredulità e ad aprirci un varco alla “realtà intera” che non prescinde dalle vicende storiche ma va oltre di esse e, superando la parzialità della dimensione storica, ci consegna ad una prospettiva nuova, per cui si giunge ad un amore capace di verità e ad una verità sorretta dall’amore. Qui s’inserisce e acquista il suo senso vero il commiato liturgico che, fra poco, per la prima volta - attraverso la voce del diacono - ci scambieremo reciprocamente, vale a dire: «La messa è finita, andate in pace».

    Nella celebrazione liturgica assunta nella nostra vita si dà il senso e la realtà ultima dell’Eucaristia, ovverossia l’umanità nuova che nasce dal Corpo dato e dal Sangue effuso, senza con ciò prescindere dalla realtà storica del momento presente: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista» (Lc 24, 30-31).
    Impegnamoci come Chiesa che è in Venezia a ricordarci reciprocamente la ricchezza e la fecondità di tale realismo cristiano; il vescovo lo faccia in quanto vescovo, i presbiteri in quanto presbiteri, i diaconi in quanto diaconi, i consacrati come consacrati, gli sposi come sposi e spose. Realismo cristiano che, in quanto tale, è sempre e contestualmente rispettoso della molteplicità e delle distinzioni, ossia della sacralità come della laicità, e ciò, a scanso d’equivoci, sia detto e ripetuto. Il vero realismo cristiano promuove sempre l’umano come tale, ovunque lo incontra. Realismo che partendo da Gesù Cristo - unigenito del Padre e primogenito di una moltitudine di fratelli - ritorna a Cristo dopo aver incontrato e attraversato, in tutto il suo spessore e diversi gradi, la creaturalità dell’uomo.
    Nell’Eucaristia, che è la carità di Cristo donata qui e ora, si dà la possibilità di rinnovare l’umanità stessa a partire dal rispetto dovuto ad ogni uomo e a tutto l’uomo; non si dà, quindi, carità vera se si prescinde dal rispetto della giustizia effettiva - distributiva e contributiva -, oltre ogni facile aggiustamento. Vogliamo infine includerci e includere quanto accennato nello scenario dell’anno della fede indetto da Benedetto XVI e che presto prenderà avvio e vedrà impegnata con forza la Chiesa che è in Venezia attraverso la corresponsabilità di tutti i suoi membri e secondo il loro specifico ecclesiale. Ci limitiamo ad una sottolineatura riguardante l’evangelizzazione della Chiesa stessa che deve crescere nella consapevolezza della fede per educarsi e porsi, senza arroganza ma anche senza timori o complessi d’inferiorità, in una testimonianza dialogica con le culture dominanti.
    Ritorniamo, infine, al testo di Luca e vediamo come i due di Emmaus, senza frapporre indugio, fanno ritorno a Gerusalemme; e proprio loro che poco prima avevano liquidato come semplici fantasie di donne l’evento glorioso della Risurrezione, ora vogliono annunciare alla Chiesa nascente - Maria, gli Undici e gli altri con loro - che avevano niente di meno che incontrato il Signore Gesù lungo la strada e l’avevano riconosciuto nell’atto di spezzare il pane; ma loro malgrado sono preceduti da chi dice loro: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!» (Lc 24, 34).

        E il realismo cristiano si riflette su quanto appartiene all’uomo, innanzitutto include il rispetto della vita sempre, senza condizioni; poi l’accoglienza, l’integrazione, la promozione della famiglia, cellula fondamentale della società umana, l’educazione che mira alla pienezza della libertà, il lavoro come diritto e dovere che tocca la dignità stessa dei lavoratori e delle loro famiglie soprattutto oggi, il bene comune con il contributo specifico della dottrina sociale della Chiesa, anche questi valori umani entrano negli scenari della vita risorta, sono i valori che stanno a cuore a una ragione amica della fede, valori che vicendevolmente s’illuminano e sostengono.
        Pastore e fedeli, in un momento significativo per la vita della Chiesa di Venezia, si ritrovano oggi fiduciosi sotto il materno sguardo della Nicopeia, Colei che guida alla vittoria, e sono chiamati a dire il loro sì come Maria al momento dell’Annunciazione. Un sì pronunciato col cuore e la ragione, un sì personale e comunitario, un sì detto a Dio e agli uomini, nello spirito di Maria che si lascia condurre verso un Oltre che, fin d’ora, è tutta la nostra gioia.

        Amen, così sia.


        + Francesco Moraglia
        Patriarca di Venezia







    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 03/05/2012 14:20

    State et tenete traditiones (2 Thess. 2, 14)

    Sulla Tradizione Apostolica

    State et tenete traditiones (2 Thess. 2, 14): State fermi e mantenete le sante tradizioni.

    Il quale ricordo è specialmente necessario pei nostri tempi, nei quali sono tante le novità, cioè gli errori che si divulgano in mezzo al popolo degl’increduli. E dico novità, cioè errori, perché in religione tutto ciò che è nuovo è anche falso.
    Lo che si conferma dalle altre parole del Santo Apostolo: O Timothee depositum custodi, devitans profanas vocum novitates[1](I Tim. 6, 20) (…) Sì, novità ed errore in religione è la stessa cosa. (…) Le tradizioni apostoliche, tanto quelle che riguardano la fede come quelle che riguardano le pratiche religiose sono inalterabili (…) Tenetevi dunque sempre all’antico, che antica è la Chiesa fondata da N. S. Gesù Cristo sul fondamento dei SS. Apostoli e dei Profeti, essendo Egli la pietra angolare.

    Con questa ragione dell’antichità confondeva San Gerolamo i novatori dei suoi tempi. (…) Credete all’antica, operate all’antica: così devono fare i cristiani. “Retinenda est antiquitas, explodenda est novitas” gridava alto Vincenzo Lirinese[2] (A. Lap. In Ep. Ad Gal. c.1, v.8). L’antichità è da ritenersi, la novità si ha da rigettare (…).

    Teniamo il vecchio, cacciamo il nuovo, e siamo sicuri
    (Sac. GIUSEPPE FRASSINETTI Catechismo al popolo sopra il Simbolo Apostolico. Tipografia della Gioventù. Genova 1870. Pp. 26-28).

    [1]O Timòteo, custodisci il deposito della Fede, avendo in avversione le profane novità delle parole.
    [2]San Vincenzo di Lerins (Francia, V secolo). Passi della sua opera principale, Commonitorium, sono riportati nei testi del Concilio Vaticano I, Costituzione Dei Filius, cap. IV.

    Il venerabile Don Giuseppe Frassinetti (Genova, 15 dicembre 1804 – ivi, 2 gennaio 1868) fu il fondatore della Congregazione dei Figli di Santa Maria Immacolata, sacerdote, studioso e commentatore della teologia morale di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Nel 1916 fu avviato l’iter per la sua canonizzazione.


    **********************************************

    A seguito di questo articolo....

    Quando Gesù subisce nuovamente l’umiliazione della colonna : alcune iniziative musicali mirate a ridicolizzare il Sacrificio Eucaristico.



    ho riflettuto quanto segue:

    .... il problema è in una domanda: crediamo davvero nella Presenza Reale? I Sacerdoti, ci credono per davvero?  
     
    qualche settimana fa, dopo la Messa presa in trasferta visto che ero fuori sede, mi sono fermata a fare due domande al sacerdote, giovane, perchè ho visto e udito alcune cose nella Messa (NOM) che non mi quadravano... NESSUNA GENUFLESSIONE davanti al Santissimo posto di lato... mentre ho assistito per la prima volta ad una GENUFLESSIONE DAVANTI AL LEZIONARIO dopo la lettura del vangelo.... Surprised  
    nessuna genuflessione durante la Consacrazione... nessuna genuflessione alla fine della Messa... grazie a Dio non mi ha negato la Comunione alla bocca...  
    al termine sono entrata in Sagrestia, mi sono presentata, ed umilmente ho chiesto: "mi perdoni padre (che nel frattemo aveva ritratto la mano nel tentativo di riverirlo con un mezzo inchino e velato bacio, nel mentre mi guardava come se avesse davanti un fantasma),  come mai si è inginocchiato davanti al Lezionario dopo la lettura del Vangelo mentre, per tutta la Messa, non si è mai genuflesso davanti al Santissimo, neppure durante la Consacrazione sull'altare?"  
    la sua risposta:  
    "Durante la Messa IL TABERNACOLO NON ESISTE PIU'... Surprised attendiamo la sua manifestazione SPIRITUALE SULL'ALTARE, e lo ascoltiamo mentre si MANIFESTA ATTRAVERSO LA LETTURA DEL VANGELO.... NON CI SONO PRESENZE PRIVILEGIATE (??) è la comunità che riunita FA PROPRIA LA PRESENZA DEL SIGNORE RENDENDOLO VIVO E VERO IN UNO SCAMBIO RECIPROCO DI FEDE...."  
     
    ero senza parole.... ho chiesto al sacerdote dove avesse appreso questa NUOVA DOTTRINA, mi ha risposto" Signora, immagino che lei non conosce IL CONCILIO VATICANO II.... se lo studi!! Guardi che io ho fatto la tesi di teologia proprio sulla riforma della Messa, se sono qui è segno evidente che il Vescovo e la Chiesa intera mi ha confermato. Non è una nuova dottrina, cara signora, si tratta di evoluzione della dottrina, ne ha mai sentito parlare?"  
     
    con voce sommessa gli ho chiesto: " non mi risulta che il Papa nella Sacramentum Caritatis dica questa dottrina..."  
    e il sacerdote: " I PARERI DEL PAPA per quanto rispettabili SONO SOLO DEI CONSIGLI... a meno che non imponga qualcosa... e con la Riforma liturgica ogni comunità PUO' MANIFESTARE IL PROPRIO MODO DI VIVERE LA MESSA...."  
     
    a questo punto mi sono arresa! questo sacerdote giovane, e prete da 4 anni.... ha ricevuto il placet del suo vescovo e della Chiesa...  
    non ho altra risposta che la carenza di sacerdoti abbia spinto i vescovi  ad abilitare chiunque al sacerdozio, e che in definitiva, come sostiene lo stesso padre Amorth, è evidente che neppure i Vescovi CREDONO....  
    c'è una FEDE PERSONALE che non a caso il Papa stesso ha denunciato nella enciclica Spe Salvi.... ci vorranno i secoli per rimediare a certi gravi errori!


    [SM=g1740733]

    poi il blog ChiesaepostConcilio ha pubblicato questa mia riflessione e così ho contribuito ulteriormente alla riflessione:

    Ringraziando per il vostro contributo, a Hpoirot (leggo sempre qui ^__^ e benritrovato anche a te) e ringraziando soprattutto Dante Pastorelli, mi piace condividervi un passo dell'email che mi ha inviato Padre Giovanni Cavalcoli O.P. che, accogliendo il medesimo scritto per il quale chiedevo un consiglio, una parola di conforto nel mare dello sconforto, mi ha risposto:

    "(..).... Il Concilio Vaticano II non avalla per nulla gli errori di quel sacerdote e per il cattolico quanto insegna il Papa su queste materie è chiaramnte da accogliere con atteggiamnto di fede, perchè risponde alla sua missione di Vicario di Cristo.
    Che quel sacerdote abbia fatto la tesi sulla Messa e sia autorizzato dal Vescovo a celebrare non significa nulla, non lo giustifica affatto, anzi aggrava la sua colpa, perchè c'è da dubitare che la sua ignoranza sia un'ignoranza invincibile e non piuttosto un'ignoranza colpevole.
    Questi episodi incresciosissimi mi confermano sempre di più che la responsabilità di questo disastro è nei Vescovi che non ascoltano il Papa...(..)
    Preghiamo dunque per loro. Non perdiamoci d'animo. ... preghiamo per loro. Diamo il buon esempio e seguiamo i buoni preti che non mancano. Il Signore stesso penserà a correggere queste cose...(..)"

    e naturalmente condivido ogni virgola ^__^

    [SM=g1740733]


    [Modificato da Caterina63 12/05/2012 15:21]
    Fraternamente CaterinaLD

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    00 01/10/2012 23:04

    "Il Padre sempre ci precede"


    Omelia del cardinale Scola per l'ordinazione di 29 nuovi diaconi


    ROMA, lunedì, 1 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito lomelia tenuta sabato 29 settembre dal cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, nella Messa di ordinazione di 29 nuovi diaconi, di cui 19 sono della diocesi di Milano e studenti di Teologia presso il Seminario di Venegono.

    ***
    1. «O Dio, che chiami gli angeli e gli uomini a cooperare al tuo disegno di salvezza» (All’inizio dell’Assemblea liturgica). Le parole iniziali della preghiera dell’odierna Festa dei Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, ci introducono immediatamente alla verità del gesto sacramentale dell’Ordinazione diaconale.

    Esso viene definito, innanzitutto, dal dato, elementare ma a volte dimenticato o disatteso, che è Dio a chiamare. Nessuno di noi - neppure gli stessi Arcangeli - potrebbe pensare di adempiere qualsiasi missione o ministero, se non fosse perché il Padre ci ha preceduti, ci ha chiamati e ci manda attraverso lo Spirito del Risorto vivente nella Sua Sposa, la Chiesa. IlPadresempre ci precede: non solo perché è alla nostra origine, ma ci precede in ogni istante della nostra esistenza (cfr Epistola, Col 1-13-20).

    Carissimi, la voce dell’Arcivescovo che chiamerà ciascuno di voi personalmente, farà da eco, ecclesiale e storica, a questa chiamata del Padre. Questa sola è la fonte di certezza per la vostra vocazione: sei scelto, un Altro ti chiama, si prende cura del tuo cammino e del tuo ministero.

    A che cosa, insieme agli angeli, siamo chiamati? Risponde la liturgia: «A cooperare al tuo disegno di salvezza». Cerchiamo di cogliere insieme la profondità di quest’affermazione della liturgia.

    2. Col termine “cooperare” ci viene indicato il nucleo stesso del ministero. Esso scaturisce permanentemente dal rapporto che Cristo ha voluto istituire con ciascuno di voi carissimi ordinandi. Egli vi chiama a “co-operare”, non semplicemente ad operare. Il Signore, quindi, Vi invita a stare, vivere ed agire con Lui. È questo “con Lui” a definire la vostra persona ed il vostro ministero. Fino al punto che dobbiamo, per grazia, giungere a dire, con san Paolo, «io, ma non più io» (cfr Gal 2,20).

    Il Santo Vangelo che abbiamo ascoltato illumina la natura, ragionevole e libera, della vostra cooperazione diaconale al disegno del Padre. Il doppio annuncio di Gabriele a Zaccaria e alla Vergine ci indica come il Padre non cerchi, per così dire, dei “meri esecutori” della Sua volontà, quasi che Gli bastassero dei delegati o addirittura dei burattini. Egli, attraverso l’angelo, entra in dialogo con gli uomini e chiede loro libero assenso ed adesione. L’Angelo stesso sollecita il libero scambio con una solida proposta: «Non temere» (Vangelo, Lc 1,13.30). Quanto verrà domandato dal Signore è già stato anticipatamente da Lui garantito. Aderisci allora! Cooperare con il Signore fa, quindi, emergere il senso della vita come vocazione: la Vergine «si domandava che senso avesse un saluto come questo» (Vangelo, Lc 1,29). La natura della missione affidata deve sempre mantenere un carattere verginale. Cosa significa? Non deve dominare il compito affidato. È questa invece la pretesa di Zaccaria che l’Angelo sanziona: «Tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo» (Vangelo, Lc 1,20).

    Siamo solo cooperatori del «tuo disegno di salvezza», perché solo Tu, Signore, puoi salvare gli uomini. Per questo siamo chiamati “ministri”: perché presi a servizio dell’opera di salvezza di un Altro.

    Nella storia, questo disegno di salvezza ha un nome proprio: Gesù Cristo, la misericordia del Padre, «per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati» (Epistola, Col 1,14). Gesù, il Crocifisso Risorto, «è prima di tutte le cose e tute in lui consistono» (Epistola, Col 1,17). Ed «Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa» (Epistola, Col 1,18). Questo corpo è la Chiesa, il popolo cristiano, nella concretezza del suo camminare lungo le strade di questo mondo. Condividendo «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi» (GS 1) voi, carissimi candidati, per opera dello Spirito Santo incontrerete l’abbraccio di Gesù misericordia del Padre.

    3. Voi, diaconi permanenti, dovrete andare e riandare con l’aiuto dei superiori a quanto ebbe a dire il Servo di Dio Paolo VI col Motu proprio “Sacrum Diaconatus” 18 giugno 1967) che impartì le norme per il ristabilimento del diaconato permanente nella Chiesa latina. Di questo servizio particolare godela nostra Chiesa ambrosiana da ben venticinque anni: oggi è anche l’occasione per ringraziare il Signore per questo dono.

    La mia gratitudine va anche alle vostre mogli ed ai vostri figli che con libera decisione accompagnano questa vostra impegnativa scelta.

    4. Cari candidati al presbiterato che oggi sarete ordinati diaconi, l’elezione che oggi la Chiesa fa delle vostre persone domanda alla vostra libertà un’altra imprescindibile condizione. «Custodire per sempre l’impegno a vivere nel celibato» (Impegni degli eletti). In questo per sempre si trova il sigillo dell’amore vero. Questo dono che il Signore elargisce a ciascuno di voi, e che da voi domanda pieno e libero assenso è, forse ai giorni nostri più che in passato, testimonianza luminosa dell’amore di Dio e della Sua potenza di compiere il desiderio del cuore dell’uomo. «Non temere»: le parole dell’angelo sono le parole che la Chiesa vi rivolge oggi. E la Chiesa sa di cosa parla: sul volto di molti uomini e donne in tutto il mondo e lungo la storia, si può contemplare la verità e la bellezza dell’amore verginale che lo stesso Gesù volle vivere in prima persona.

    5. Al cuore del vostro servizio diaconale sta il richiamo del Salmo responsoriale: «Annuncerò il tuo Nome ai miei fratelli» (Sal 21). Così abbiamo cantato. Benedetto XVI descrive il contenuto di questo annuncio in termine di testimonianza. Dice il Papa: «La prima e fondamentale missione che ci viene dai santi Misteri che celebriamo è di rendere testimonianza con la nostra vita. Lo stupore per il dono che Dio ci ha fatto in Cristo imprime alla nostra esistenza un dinamismo nuovo impegnandoci ad essere testimoni del suo amore. Diveniamo testimoni quando, attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell'amore di Dio raggiunge l'uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell'uomo» (Sacramentum caritatis n. 85).

    6. Carissimi voi tutti figli della Chiesa ambrosiana, qui presenti o che ci seguite da casa, in questo Anno della fede la cui porta si apre ormai davanti a noi sosteniamoci vicendevolmente nella scoperta del Dio vicino. Preghiamo per tutta la Chiesa, per il Papa e i Vescovi in comunione con lui, per tutti i sacerdoti ed i diaconi, per i consacrati, per tutti i fedeli laici. Preghiamo, con rinnovato fervore, il Padrone della messe perché non manchino operai al servizio del popolo di Dio. E insieme aiutiamoci a seguire il Signore che ci chiama a cooperare al Suo disegno di salvezza per il bene dei nostri fratelli uomini.

    Ciò domanda l’umiltà della necessaria supplica «Credo, aiuta la mia incredulità» (Mc 9, 24). Potremo così far nostro l’invito dell’Arcangelo Raffaele: «Benedite Dio e proclamate davanti a tutti i viventi il bene che vi ha fatto, perché sia benedetto e celebrato il suo nome» (Tb 12,6).

    La Vergine, cui ci affidiamo abbandonati come bimbi, irrobustisca il “” di questi nostri fratelli diaconi. Amen.


    Fraternamente CaterinaLD

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    00 31/12/2012 15:21

    Circa lo zelo dei preti

     









    Un prete o in paradiso o all'inferno non va mai solo: vanno sempre con lui un gran numero di anime, o salvate col suo santo ministero e col suo buon esempio, o perdute con la sua negligenza nell'adempimento dei propri doveri e col suo cattivo esempio.
     
    (Pensiero di San Giovanni Bosco)








    intervista

    Può esistere uno “yoga cristiano“?

     

    - Nel momento in cui lo si chiama “yoga cristiano” è già ideologizzato e appare come una religione, e questo non mi piace tanto. Mentre sul piano puramente fisico, ripeto, alcuni elementi potrebbero anche sussistere. Occorre stare molto attenti riguardo al contesto ideologico, che lo rende parte di un potere quasi mistico. Il rischio è che lo yoga diventi un metodo autonomo di “redenzione”, priva di un vero incontro tra Dio e la persona umana. E in quel caso, siamo già nel trascendente. È vero che anche nella preghiera e nella meditazione cristiana la posizione del corpo ha la sua importanza, e sta a significare un atteggiamento interiore, che si esprime anche nella liturgia.
    Ma nello yoga i movimenti del corpo hanno una diversa implicazione di rapporto con Dio, che non è quella della liturgia cristiana. Occorre la massima prudenza perché dietro questi elementi corporali si nasconde una concezione dell’essere come tale, della relazione tra corpo e anima, tra uomo, mondo e Dio.

     

    - Ritiene legittimo l’insegnamento della meditazione trascendentale e dello yoga nelle Chiese Cattoliche e nelle comunità religiose da parte di sacerdoti?

    - Mi sembra molto pericoloso perché in questo contesto queste pratiche sono già offerte come un qualcosa, appunto, di religioso.

     

    - È possibile coniugare il mantra con la preghiera cristiana?

    - Il mantra è una preghiera rivolta non a Dio, ma ad altre divinità che sono idoli.



    Quale è, in termini spirituali, il prezzo di queste pratiche?


    - La perdita della fede e la perversione della relazione uomo - Dio, e un disorientamento profondo dell’essere umano, cosicché alla fine l’uomo si sposa con la menzogna.

     

    - Come deve realizzarsi concretamente il rispetto verso questi culti non cristiani, fermo restando anche il rispetto verso i valori imprescindibili della fede cristiana?

    - Il rispetto è dovuto soprattutto alle persone. Come dice S. Agostino dobbiamo avere amore per il peccatore e non per il peccato. Dobbiamo sempre vedere nell’uomo che è caduto in questi errori una persona creata e chiamata da Dio e che ha cercato anche, in un certo senso, di arrivare alla realtà divina per trovare le risposte al suo desiderio di elevarsi. Dobbiamo inoltre rispettare gli elementi ai quali ho accennato, chiarendo molto bene, però, quelle realtà che sono distruttive e che sono opposte non solo alla fede cristiana ma anche alla verità dell’essere umano stesso.


    ( Intervista a cura di Ignazio Artizzu tratta dalla rivista “Una voce grida...” n° 9 - marzo 1999. 30 domande a card. Ratzinger)







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    00 30/03/2013 19:04
    28/03/2013

    Bagnasco: "La parrocchia ha un valore insostituibile"

    BAGNASCO
    La missa cresimale del cardinale Arcivescovo di Genova e presidente della conferenza episcopale italiana
    MIRIANA REBAUDO
    GENOVA

    [SM=g1740758] I sacerdoti non sono dei «vinti della vita» o dei «malinconici perenni» e non devono essere tentati dal «confronto» con chi sembra raccogliere «consensi facili» e «numeri», a chi insomma nella Chiesa «fa tendenza» perché la «parrocchia è la fontana del villaggio», che abbevera tutti. La parrocchia come «valore insostituibile», tanto più in tempi di crisi è stato il messaggio che l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ha voluto inviare ai sacerdoti della sua diocesi in occasione della Messa crismale che si celebra nella mattina del Giovedì Santo.

    La messa dedicata a presbiteri e religiosi, definiti dal vescovo «servitori della vostra gioia». L’occasione, per Bagnasco, di sottolineare l’importanza «insostituibile» della funzione formativa, ma anche di quella sociale delle parrocchie.

    «La parrocchia - ha ricordato infatti nella sua omelia - conosce i problemi reali di tutti, gioie e preoccupazioni e specialmente in questi tempi magri e stentati, la comunità cristiana rappresenta un riferimento affidabile, prossimo e certo, che contribuisce a tenere insieme un tessuto sociale sempre più incerto, sfilacciato e fragile».

    Il presidente dei vescovi italiani ha anche invitato il suo clero a non cedere alla delusione e neppure, come detto, al confronto perché, ha sottolineato «il sacerdote non è un vinto della vita, un malinconico perenne ma il suo cuore canta perché «non si può essere ministri del Vangelo senza essere discepoli della gioia». E questo anche se il ruolo del parroco non è (o meglio, non dovrebbe) essere un ruolo «da prima pagina».

    «Forse - ha commentato Bagnasco - a volte siamo tentati di confrontare i nostri doveri quotidiani con esperienze pastorali che hanno ampia eco, che sembrano raccogliere consensi facili, entusiasmo e numeri. Forse siamo tentati di paragonare le nostre parrocchie con luoghi ed esperienze che non di rado fanno “tendenza”, come se le nostre comunità fossero troppo piccole, modeste, fredde, incapaci di offrire il Vangelo e la vita cristiana». Ma, ha aggiunto, è poi al parroco che la gente si rivolge in caso di necessità perché «se non c’è chi vive vicino alla gente, se non c’è qualcuno che ogni giorno si piega per arare il solco, per togliere la zizzania che sempre rinasce, per seminare a larghe mani il buon seme, la gente dove troverà il pastore e il padre?».

    «La parrocchia - ha ribadito - è la Chiesa vicina alla vita delle persone, è la “fontana del villaggio”, sempre pronta ad accogliere e generare grazia e ha un valore insostituibile». In chiusura, poi, il cardinale genovese ha anche ricordato che il presbitero è «un ponte verso gli uomini» non deve mai essere un ostacolo e che «tutto quello che minaccia o distrugge l’unità» è frutto del Diavolo, «divisore»; «non possiamo dimenticarlo» ha concluso.

    [SM=g1740733]



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 11/04/2013 14:28
    Riflessione del cardinale Burke al sodalizio Amicizia sacerdotale Summorum Pontificum

    Il prete trasparenza di Cristo

    L'eucaristia, la celebrazione dei sacramenti, il celibato, l'obbedienza: è stato dedicato alla riflessione e all'approfondimento delle peculiarità del sacerdozio ministeriale il corso di esercizi spirituali, giunto alla terza edizione, organizzato da Amicizia sacerdotale Summorum pontificum, il sodalizio che si richiama espressamente al motu proprio di Benedetto XVI, che, come è noto, nel 2007 ha ampliato l'uso del messale promulgato nel 1962 da Giovanni XXIII.

    «Tu es sacerdos in aeternum» è stato il tema della riflessione dettata dal cardinale prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Raymond Leo Burke. Oltre quaranta i chierici, tra cui due vescovi, che hanno partecipato alla settimana di esercizi che si è svolta a Roma presso la casa generalizia dei padri passionisti. Ogni giornata ha avuto inizio con la messa, secondo una precisa turnazione oraria che ha permesso a ciascun sacerdote di celebrare individualmente con il Vetus o il Novus Ordo.

    E il continuo riferimento alla Vergine Maria, madre dei sacerdoti, attraverso la preghiera del Rosario, ha fatto da cornice all'intensa esperienza spirituale. Infatti, per il sacerdote è di fondamentale importanza ritirarsi in disparte con Dio. Si tratta di tornare alla fonte della vocazione e della missione, considerando che le aspettative del sacerdote non consistono nella realizzazione di un programma personale, bensì nel compimento del progetto di amore di Dio.

    Il cardinale Burke, facendo leva anche sulla propria esperienza, ha enucleato le caratteristiche essenziali del sacerdozio: lo stretto legame con l'eucaristia, la configurazione al Sacro Cuore di Gesù, il dono del celibato, l'obbedienza, la misericordia, la guida morale. E non poteva mancare l'accostamento a Maria, quale faro vigile di ogni sacerdote. Una autentica dimensione spirituale della vita sacerdotale -- ha sottolineato il porporato -- trova fondamento nella carità pastorale di Cristo, anima del sacerdozio.
    Il sacerdote, infatti, agisce in persona Christi in ogni tempo e in ogni luogo, riceve un “potere spirituale” che rende la sua vita trasparenza di tutti quei comportamenti propri di Gesù Cristo.

    I presbiteri -- ha detto citando un passo della Pastores dabo vobis -- «sono chiamati a prolungare la presenza di Cristo, unico e sommo pastore, attualizzando il suo stile di vita e facendosi quasi una trasparenza in mezzo al gregge loro affidato».

    Così, se il sacerdote, con l'ordinazione, viene configurato a Cristo capo e pastore, la sua vita deve essere, come quella di Cristo, a esclusivo servizio della Chiesa. E il servizio di Cristo trova il suo culmine nel dono totale di sé sulla Croce. Quindi il sacerdote non solo deve fare rivivere ma deve anche ripresentare con la sua testimonianza, con la sua stessa vita, la carità incondizionata di Cristo. L'offerta del Sacrificio è l'espressione più piena della donazione di Cristo, della sua carità pastorale, e «l'eucaristia è la ripresentazione attualizzante del sommo Sacrificio».

    Per il sacerdote l'esercizio della carità pastorale non deve perciò essere relegato in un mero attivismo funzionale, bensì deve essere il frutto di una vita costantemente alimentata a quell'amore, che è donato, consumato e rinnovato in modo incruento nell'eucaristia.
    Se la carità pastorale di Cristo costituisce il riferimento assoluto e imprescindibile del sacerdote, ogni momento della sua vita deve essere un ritorno al mistero eucaristico. Soltanto con la devozione eucaristica, egli può approfondire il suo intimo rapporto con il Corpo e Sangue di Cristo.

    La celebrazione eucaristica, inoltre, unita all'adorazione quotidiana, non solo alimenta la devozione eucaristica, ma prepara il sacerdote a essere più pienamente coinvolto nel Sacrificio e intimamente unito a Cristo. Così, se il paradigma insostituibile del sacerdote è la carità pastorale di Cristo, la testimonianza dei santi sacerdoti rappresenta il modello a cui egli si può ispirare come ad autentici testimoni della fede, che hanno incarnato l'amore oblativo di Cristo. Il cardinale Burke ha perciò desiderato evidenziare, con particolare allusione alla spiritualità eucaristica, i tratti sacerdotali della figura di san Giovanni Maria Vianney.

    Il santo curato d'Ars si può definire modello di vera devozione eucaristica. Ha cercato sempre di attrarre i suoi fedeli a Cristo presente realmente nell'eucaristia. Infatti, la sua fede eucaristica era tale da riaccendere la devozione eucaristica dei fedeli al punto di avvicinarli al sacramento della penitenza. Questo lo conduceva dall'altare al confessionale.

    Un'altra tessera che il prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica ha aggiunto al prezioso mosaico del sacerdozio ministeriale è quella del celibato. La devozione al Sacro Cuore di Gesù aiuta i presbiteri a comprendere il celibato, non come rinuncia all'immenso dono del matrimonio bensì come offerta del cuore indiviso per il bene della Chiesa, amando i fratelli. Il celibato sacerdotale non significa repressione della sfera affettiva, ma offrire, con gioia nella perfetta continenza, tutte le inclinazioni sessuali e affettive per il bene del Regno dei cieli. Quale dono insito nella vocazione sacerdotale, l'amore celibe va rinnovato quotidianamente, altrimenti inizieranno ad affiorare delle carenze. Ogni dono di Dio va apprezzato attentamente, ma soprattutto curato, mantenuto e custodito nella sua integrità. Per questo la preghiera aiuterà il sacerdote a crescere nell'amore celibe per custodire la purità.

    Una delle virtù caratterizzanti la statura spirituale del sacerdote è l'obbedienza. Lo sguardo va sempre rivolto a Cristo, che è venuto per fare la volontà del Padre. Anche la vocazione di ogni sacerdote deve essere segnata dall'obbedienza al Padre, ovvero unire la propria volontà a quella di Cristo. Con l'obbedienza si serve la Chiesa intera, senza l'obbedienza c'è confusione e caos, poiché la promessa di obbedienza non è il rifiuto della libertà umana, ma il compimento di essa, attraverso un atto libero per l'adempimento di una particolare missione di origine divina.

    L'obbedienza alla volontà dei superiori è finalizzata a fare emergere nella vita sacerdotale non la propria persona ma soltanto Cristo unico protagonista di ogni azione pastorale, perché unico Salvatore. Ciò comporta obbedienza alla fede della Chiesa e al suo magistero, alla disciplina ecclesiastica, alla sacra liturgia.

    (girolamo casella)


    (L'Osservatore Romano 11 aprile 2013)




    Fraternamente CaterinaLD

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    00 10/01/2014 19:21

      Regula Pastoralis di San Gregorio Magno

    09.01.2014 20:38

     

     

     

    ( dalla Regula Pastoralis )

    La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati.

    Infatti, spesso, guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli uomini hanno gran timore di dire liberamente la verità; e, secondo la parola della Verità, non servono più alla custodia del gregge con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei mercenari (cf. Gv. 10, 13), poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se fuggissero all’arrivo del lupo.

    Per questo infatti, per mezzo del profeta, il Signore li rimprovera dicendo: Cani muti che non sanno abbaiare (Is. 56, 10). Per questo ancora, si lamenta dicendo: Non siete saliti contro, non avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele, per stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez. 13, 5).

    Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio?

    Ma chi si espone in difesa del gregge, oppone ai nemici un muro in difesa della casa di Israele. Perciò di nuovo viene detto al popolo che pecca: I tuoi profeti videro per te cose false e stolte e non ti manifestavano la tua iniquità per spingerti alla penitenza(Lam. 2, 14). È noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri che, mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano quelle che stanno per venire. Ora, la parola divina rimprovera costoro di vedere cose false, perché mentre temono di scagliarsi contro le colpe, invano blandiscono i peccatori con promesse di sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori perché si astengono col silenzio dalle parole di rimprovero. In effetti le parole di correzione sono la chiave che apre, poiché col rimprovero lavano la colpa che, non di rado, la persona stessa che l’ha compiuta ignora.

    Perciò Paolo dice: (Il vescovo) sia in grado di esortare nella sana dottrina e di confutare i contraddittori (Tit. 1, 9). Perciò viene detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote custodiscano la scienza e cerchino la legge dalla sua bocca,perché è angelo del Signore degli eserciti (Mal. 2, 7).

    Perciò per mezzo di Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida, non cessare, leva la tua voce come una tromba (Is. 58, 1). E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume l’ufficio del banditore perché, prima dell’avvento del Giudice che lo segue con terribile aspetto, egli lo preceda col suo grido.

    Se dunque il sacerdote non sa predicare, quale sarà il grido di un banditore muto? Ed è perciò che lo Spirito Santo, la prima volta, si posò sui Pastori in forma di lingue (Atti, 2, 3), poiché rende subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha riempiti.

    Perciò viene ordinato a Mosè che il sommo sacerdote entrando nel tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le parole della predicazione, per non andare con un colpevole silenzio incontro al giudizio di colui che lo osserva dall’alto. (…) I campanelli sono inseriti nelle sue vesti, perché insieme al suono della parola, anche le opere stesse del sacerdote proclamino la via della vita.

    Ma quando la guida delle anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a farlo con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti dalla ferita dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi sapiente non spezzi stoltamente la compagine dell’unità.

    Perciò infatti la Verità dice: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc. 9, 49). Col sale è indicata la sapienza del Verbo. Pertanto chi si sforza di parlare sapientemente, tema molto che il suo discorso non confonda l’unità degli ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non sapienti più di quanto è opportuno, ma sapienti nei limiti della sobrietà (Rom. 12, 3). 

    Perciò nella veste del sacerdote, secondo la parola divina, ai campanelli si uniscono le melagrane (Es. 28, 34). E che cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede?

    Infatti, come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono protetti da un’unica buccia esterna, così l’unità della fede protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli che costituiscono la Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la diversità dei meriti. Così, affinché la guida delle anime non si butti a parlare da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi discepoli: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi, come se attraverso la figura della veste del sacerdote dicesse: Aggiungete melagrane ai campanelli affinché, in tutto ciò che dite abbiate a conservare con attenta considerazione l’unità della fede.

    Inoltre, le guide delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il valore delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e inopportuna.

    (…)  Perciò anche Paolo, quando esorta il discepolo ad insistere nella predicazione dicendo: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i morti, per il suo avvento e il suo regnopredica la parola, insisti opportunamente, importunamente (2 Tim. 4, 1-2); prima di dire importunamente premise opportunamente, perché è chiaro che nella considerazione di chi ascolta, l’importunità appare in tutta la sua qualità spregevole se non sa esprimersi in modo opportuno.

     

    Dal sito

    http://oblatiorationabilis.blogspot.it/2014/01/il-parlare-e-il-tacere-secondo-un.html



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    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 09/06/2014 21:02

    Bisogna che l'uomo renda onore al Creatore offrendo, con atto di ringraziamento e di lode, tutto ciò che da Lui ha ricevuto. L'uomo non può smarrire il senso di questo debito, che egli soltanto, tra tutte le altre realtà terrestri, può riconoscere e saldare come creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio. (..)
    La verità sul sacerdozio di Cristo mi ha parlato sempre con straordinaria eloquenza attraverso le Litanie che si usava recitare nel seminario di Cracovia, in particolare alla vigilia dell'Ordinazione presbiterale. Alludo alle Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima. Quali pensieri profondi esse suscitavano in me!

    Nel sacrificio della Croce, ripresentato e attualizzato in ogni Eucaristia, Cristo offre se stesso per la salvezza del mondo.

    Le invocazioni litaniche passano in rassegna i vari aspetti del mistero. Esse mi tornano alla memoria con il simbolismo evocatore delle immagini bibliche di cui sono intessute. 
    Me le ritrovo sulle labbra nella lingua latina in cui le ho recitate durante il seminario e poi tante volte negli anni successivi...

     

    Vista la situazione grave di apostasia in cui verte - non tutto - il Clero, come anche i religiosi-sacerdoti (per non parlare di noi laici spesso "istruiti" da sacerdoti incompetenti), consigliamo la meditazione tratta dal libro di Giovanni Paolo II sul Mistero del Sacerdozio, con un bellissimo riferimento a delle Litanie che, a quanto pare, non solo non vengono più insegnate nei seminari, ma che sono quasi del tutto scomparse.

    Giovanni Paolo II ci invita e ci sollecita a riscoprirle.

     

    VIII

    CHI È IL SACERDOTE?

     

    Non posso fare a meno, in questa mia testimonianza, di andare oltre il ricordo degli eventi e delle persone, per fissare lo sguardo più in profondità, quasi per scrutare il mistero che da cinquant'anni mi accompagna e mi avvolge.

    Che significa essere sacerdote? Secondo San Paolo significa soprattutto essere amministratore dei misteri di Dio: «Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele» (1 Cor 4, 1-2). Il termine «amministratore» non può essere sostituito con nessun altro. Esso è radicato profondamente nel Vangelo: si ricordi la parabola sull'amministratore fedele e su quello infedele (cfr Lc 12, 41-48). L'amministratore non è il proprietario, ma colui al quale il proprietario affida i suoi beni, affinché li gestisca con giustizia e responsabilità. Proprio così il sacerdote riceve da Cristo i beni della salvezza, per distribuirli nel modo dovuto tra le persone alle quali viene inviato. Si tratta dei beni della fede. Il sacerdote, pertanto, è uomo della parola di Dio, uomo del sacramento, uomo del «mistero della fede». Attraverso la fede egli accede ai beni invisibili che costituiscono l'eredità della Redenzione del mondo operata dal Figlio di Dio. Nessuno può ritenersi «proprietario» di questi beni. Tutti ne siamo destinatari. In forza, però, di ciò che Cristo ha stabilito, il sacerdote ha il compito di amministrarli.

     

    Admirabile commercium!

     

    La vocazione sacerdotale è un mistero. E il mistero di un «meraviglioso scambio» — admirabile commercium — tra Dio e l'uomo. Questi dona a Cristo la sua umanità, perché Egli se ne possa servire come strumento di salvezza, quasi facendo di quest'uomo un altro se stesso. Se non si coglie il mistero di questo «scambio», non si riesce a capire come possa avvenire che un giovane, ascoltando la parola «Seguimi!», giunga a rinunciare a tutto per Cristo, nella certezza che per questa strada la sua personalità umana si realizzerà pienamente.

    C'è al mondo una realizzazione della nostra umanità che sia più grande del poter ripresentare ogni giorno in persona Christi il Sacrificio redentivo, lo stesso che Cristo consumò sulla croce? In questo Sacrificio, da una parte è presente nel modo più profondo lo stesso Mistero trinitario, dall'altra è come «ricapitolato» tutto l'universo creato (cfr Ef 1, 10). Anche per offrire «sull'altare della terra intera il lavoro e la sofferenza del mondo», secondo una bella espressione di Teilhard de Chardin, si compie l'Eucaristia. Ecco perché, nel ringraziamento dopo la Santa Messa, si recita anche il Cantico dei tre giovani dell'Antico Testamento: Benedicite omnia opera Domini Domino... In effetti, nell'Eucaristia tutte le creature visibili e invisibili, e in particolare l'uomo, benedicono Dio come Creatore e Padre, lo benedicono con le parole e l'azione di Cristo, Figlio di Dio.

     

    Sacerdote ed Eucaristia

     

    «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli (...) Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Lc 10, 21-22). Queste parole del Vangelo di San Luca, introducendoci nell'intimo del mistero di Cristo, ci consentono di accostarci anche al mistero dell'Eucaristia. In essa il Figlio consostanziale al Padre, Colui che soltanto il Padre conosce, Gli offre in sacrificio se stesso per l'umanità e per l'intera creazione. Nell'Eucaristia Cristo restituisce al Padre tutto ciò che da Lui proviene. Si realizza così un profondo mistero di giustizia della creatura verso il Creatore. Bisogna che l'uomo renda onore al Creatore offrendo, con atto di ringraziamento e di lode, tutto ciò che da Lui ha ricevuto. L'uomo non può smarrire il senso di questo debito, che egli soltanto, tra tutte le altre realtà terrestri, può riconoscere e saldare come creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio. Nello stesso tempo, dati i suoi limiti di creatura e il peccato che lo segna, l'uomo non sarebbe capace di compiere questo atto di giustizia verso il Creatore, se Cristo stesso, Figlio consostanziale al Padre e vero uomo, non intraprendesse questa iniziativa eucaristica.

    Il sacerdozio, fin dalle sue radici, è il sacerdozio di Cristo. E Lui che offre a Dio Padre il sacrificio di se stesso, della sua carne e del suo sangue, e con il suo sacrificio giustifica agli occhi del Padre tutta l'umanità e indirettamente tutto il creato. Il sacerdote, celebrando ogni giorno l'Eucaristia, scende nel cuore di questo mistero. Per questo la celebrazione dell'Eucaristia non può non essere, per lui, il momento più importante della giornata, il centro della sua vita.

     

    In persona Christi

     

    Le parole che ripetiamo a conclusione del Prefazio — «Benedetto colui che viene nel nome del Signore...» — ci riportano ai drammatici avvenimenti della Domenica delle Palme. Cristo va a Gerusalemme per affrontare il cruento sacrificio del Venerdì Santo. Ma il giorno precedente, durante l'Ultima Cena, ne istituisce il sacramento. Pronuncia sul pane e sul vino le parole della consacrazione: «Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi.(...) Questo è il calice del mio Sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me».

    Quale «memoria»? Sappiamo che a questo termine occorre dare un senso forte, che va ben oltre il semplice ricordo storico. Siamo qui nell'ordine del biblico «memoriale», che rende presentel'evento stesso. E memoria-presenza! Il segreto di questo prodigio è l'azione dello Spirito Santo, che il sacerdote invoca, mentre impone le mani sopra i doni del pane e del vino: «Santifica questi doni con l'effusione del tuo Spirito, perché diventino per noi il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo nostro Signore». Non è dunque solo il sacerdote che ricorda gli avvenimenti della Passione, Morte e Risurrezione di Cristo; è lo Spirito Santo che fa sì che essi si attuino sull'altare attraverso il ministero del sacerdote. Questi agisce veramente in persona Christi. Quello che Cristo ha compiuto sull'altare della Croce e che prima ancora ha stabilito come sacramento nel Cenacolo, il sacerdote lo rinnova nella forza dello Spirito Santo. Egli viene in questo momento come avvolto dalla potenza dello Spirito Santo e le parole che pronuncia acquistano la stessa efficacia di quelle uscite dalla bocca di Cristo durante l'Ultima Cena.

     

    Mysterium fidei

     

    Durante la Santa Messa, dopo la transustanziazione, il sacerdote pronuncia le parole: Mysterium fidei, Mistero della fede! Sono parole che si riferiscono, ovviamente, all'Eucaristia. In qualche modo, tuttavia, esse concernono anche il sacerdozio. Non esiste Eucaristia senza sacerdozio, come non esiste sacerdozio senza Eucaristia. Non soltanto il sacerdozio ministeriale è legato strettamente all'Eucaristia; anche il sacerdozio comune di tutti i battezzati si radica in tale mistero. Alle parole del celebrante i fedeli rispondono: «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta». Nella partecipazione al Sacrificio eucaristico i fedeli diventano testimoni di Cristo crocifisso e risorto, impegnandosi a vivere quella sua triplice missione — sacerdotale, profetica e regale — di cui sono investiti fin dal Battesimo, come ha ricordato il Concilio Vaticano II.

     

    Il sacerdote, quale amministratore dei «misteri di Dio», è al servizio del sacerdozio comune dei fedeli. E lui che, annunziando la Parola e celebrando i sacramenti, specie l'Eucaristia, rende sempre più consapevole tutto il popolo di Dio della sua partecipazione al sacerdozio di Cristo, e contemporaneamente lo spinge a realizzarla pienamente. Quando, dopo la transustanziazione, risuonano le parole: Mysterium fidei, tutti sono invitati a rendersi conto della particolare densità esistenziale di questo annuncio, in riferimento al mistero di Cristo, dell'Eucaristia, del Sacerdozio.

     

    Non trae forse di qui la sua motivazione più profonda la stessa vocazione sacerdotale? Una motivazione che è già tutta presente al momento dell'Ordinazione, ma che attende di essere interiorizzata e approfondita nell'arco dell'intera esistenza. Solo così il sacerdote può scoprire in profondità la grande ricchezza che gli è stata affidata. A cinquant'anni dall'Ordinazione, posso dire che ogni giorno di più in quel Mysterium fidei si ritrova il senso del proprio sacerdozio. E lì la misura del dono che esso costituisce, e lì è pure la misura della risposta che questo dono richiede. Il dono è sempre più grande! Ed è bello che sia così. E bello che un uomo non possa mai dire di aver risposto pienamente al dono. E un dono ed è anche un compito: sempre! Avere consapevolezza di questo è fondamentale per vivere appieno il proprio sacerdozio.

     

    Cristo, Sacerdote e Vittima

     

    La verità sul sacerdozio di Cristo mi ha parlato sempre con straordinaria eloquenza attraverso le Litanie che si usava recitare nel seminario di Cracovia, in particolare alla vigilia dell'Ordinazione presbiterale. Alludo alle Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima. Quali pensieri profondi esse suscitavano in me! Nel sacrificio della Croce, ripresentato e attualizzato in ogni Eucaristia, Cristo offre se stesso per la salvezza del mondo. Le invocazioni litaniche passano in rassegna i vari aspetti del mistero. Esse mi tornano alla memoria con il simbolismo evocatore delle immagini bibliche di cui sono intessute.

    Me le ritrovo sulle labbra nella lingua latina in cui le ho recitate durante il seminario e poi tante volte negli anni successivi:

    Iesu, Sacerdos et Victima,

    Iesu, Sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech, ...

    Iesu, Pontifex ex hominibus assumpte,

    Iesu, Pontifex pro hominibus constitute, ...

    Iesu, Pontifex futurorum bonorum, ...

    Iesu, Pontifex fidelis et misericors, ...

    Iesu, Pontifex qui dilexisti nos et lavisti nos a peccatis in sanguine tuo, ...

    Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum Deo oblationem et hostiam, ... 

    Iesu, Hostia sancta et immaculata, ...

    Iesu, Hostia in qua habemus fiduciam et accessum ad Deum, ...

    Iesu, Hostia vivens in saecula saeculorum...*

     

    Quale ricchezza teologica in queste espressioni! Sono litanie profondamente radicate nella Sacra Scrittura, soprattutto nella Lettera agli Ebrei. Basti rileggerne questo brano: «Cristo (...) come sommo sacerdote dei beni futuri (...) entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli (...) sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente?» (Eb 9, 11-14). Cristo è sacerdote perché Redentore del mondo. Nel mistero della Redenzione si inscrive il sacerdozio di tutti i presbiteri. Questa verità sulla Redenzione e sul Redentore si è radicata nel centro stesso della mia coscienza, mi ha accompagnato per tutti questi anni, ha impregnato tutte le mie esperienze pastorali, mi ha svelato contenuti sempre nuovi.

     

    In questi cinquant'anni di vita sacerdotale mi sono reso conto che la Redenzione, prezzo che doveva essere pagato per il peccato, porta con sé anche una rinnovata scoperta, quasi una «nuova creazione», di tutto ciò che è stato creato: la riscoperta dell'uomo come persona, dell'uomo creato da Dio maschio e femmina, la riscoperta, nella loro verità profonda, di tutte le opere dell'uomo, della sua cultura e civiltà, di tutte le sue conquiste e attuazioni creative.

    Dopo l'elezione a Papa, il mio primo impulso spirituale fu di volgermi verso Cristo Redentore. Ne nacque l'Enciclica Redemptor Hominis. Riflettendo su tutto questo processo, vedo sempre meglio lo stretto legame tra il messaggio di questa Enciclica e tutto ciò che si iscrive nell'animo dell'uomo mediante la partecipazione al sacerdozio di Cristo.

     

    * Il testo completo delle Litanie è riportato in Appendice.

     

    IX

    ESSERE SACERDOTE OGGI

     

    Cinquant'anni di sacerdozio non sono pochi. Quante cose sono avvenute in questo mezzo secolo di storia! Si sono affacciati alla ribalta nuovi problemi, nuovi stili di vita, nuove sfide. Viene spontaneo chiedersi: cosa comporta essere sacerdote oggi, in questo scenario in grande movimento, mentre si va verso il terzo Millennio?

    Non v'è dubbio che il sacerdote, con tutta la Chiesa, cammina col proprio tempo, e si fa ascoltatore attento e benevolo, ma insieme critico e vigile, di quanto matura nella storia. Il Concilio ha mostrato come sia possibile e doveroso un autentico rinnovamento, nella piena fedeltà alla Parola di Dio ed alla Tradizione. Ma al di là del dovuto rinnovamento pastorale, sono convinto che il sacerdote non deve avere alcun timore di essere «fuori tempo», perché l'«oggi» umano di ogni sacerdote è inserito nell'«oggi» del Cristo Redentore. Il più grande compito per ogni sacerdote e in ogni tempo è ritrovare di giorno in giorno questo suo «oggi» sacerdotale nell'«oggi» di Cristo, in quell'«oggi» del quale parla la Lettera agli Ebrei. Questo «oggi» di Cristo è immerso in tutta la storia — nel passato e nel futuro del mondo, di ogni uomo e di ogni sacerdote. «Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e sempre» (Eb 13, 8). Quindi, se siamo immersi con il nostro umano, sacerdotale «oggi» nell'«oggi» di Gesù Cristo, non esiste il pericolo che si diventi di «ieri», arretrati... Cristo è la misura di tutti i tempi. Nel suo divino-umano, sacerdotale «oggi», si risolve alla radice tutta l'antinomia — una volta così discussa — tra il «tradizionalismo» e il «progressismo».

     

    Le attese profonde dell'uomo

     

    Se si analizzano le attese che l'uomo contemporaneo ha nei confronti del sacerdote, si vedrà che, nel fondo, c'è in lui una sola, grande attesa: egli ha sete di Cristo. Il resto — ciò che serve sul piano economico, sociale, politico — lo può chiedere a tanti altri. Al sacerdote chiede Cristo! E da lui ha diritto di attenderselo innanzitutto mediante l'annuncio della Parola. I presbiteri — insegna il Concilio — «hanno come primo dovere quello di annunziare a tutti il Vangelo di Dio» (Presbyterorum ordinis, 4). Ma l'annuncio mira a far sì che l'uomo incontri Gesù, specie nel mistero eucaristico, cuore pulsante della Chiesa e della vita sacerdotale. E un misterioso, formidabile potere quello che il sacerdote ha nei confronti del Corpo eucaristico di Cristo. In base ad esso egli diventa l'amministratore del bene più grande della Redenzione, perché dona agli uomini il Redentore in persona. Celebrare l'Eucaristia è la funzione più sublime e più sacra di ogni presbitero. E per me, fin dai primi anni del sacerdozio, la celebrazione dell'Eucaristia è stata non soltanto il dovere più sacro, ma soprattutto il bisogno più profondo dell'anima.

     

    Ministro della misericordia

     

    Come amministratore del sacramento della Riconciliazione, il sacerdote adempie il mandato trasmesso da Cristo agli Apostoli dopo la sua risurrezione: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23). Il sacerdote è testimone e strumento della misericordia divina! Come è importante il servizio del confessionale nella sua vita! Proprio nel confessionale la sua paternità spirituale si realizza nel modo più pieno. Proprio nel confessionale ogni sacerdote diventa testimone dei grandi miracoli che la misericordia divina opera nell'anima che accetta la grazia della conversione. E necessario però che ogni sacerdote al servizio dei fratelli nel confessionale sappia fare egli stesso esperienza di questa misericordia di Dio, attraverso la propria regolare confessione e la direzione spirituale.

    Amministratore dei misteri divini, il sacerdote è uno speciale testimone dell'Invisibile nel mondo. E infatti amministratore di beni invisibili e incommensurabili, che appartengono all'ordine spirituale e soprannaturale.

    Un uomo a contatto con Dio

     

    Quale amministratore di simili beni, il sacerdote, è in permanente, particolare contatto con la santità di Dio. «Santo, Santo, Santo, il Signore Dio dell'universo! I cieli e la terra sono pieni della tua gloria». La maestà di Dio è la maestà della santità. Nel sacerdozio l'uomo è come innalzato alla sfera di questa santità, in qualche modo arriva alle altezze alle quali fu una volta introdotto il profeta Isaia. E proprio di quella visione profetica si fa eco la liturgia eucaristica: Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pleni sunt caeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis.

    Contemporaneamente il sacerdote vive ogni giorno, in continuazione, la discesa di questa santità di Dio verso l'uomo: Benedictus qui venit in nomine Domini. Con queste parole le folle di Gerusalemme salutavano Cristo che arrivava in città per consumare il sacrificio per la redenzione del mondo. La santità trascendente, in qualche modo «fuori del mondo», diventa in Cristo la santità «dentro il mondo». Diventa la santità del Mistero pasquale.

     

    Chiamato alla santità

     

    A costante contatto con la santità di Dio, il sacerdote deve lui stesso diventare santo. E il medesimo suo ministero ad impegnarlo in una scelta di vita ispirata al radicalismo evangelico. Questo spiega la specifica necessità, in lui, dello spirito dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza. In questo orizzonte si comprende anche la speciale convenienza del celibato. Da qui il particolare bisogno di preghiera nella sua vita: la preghiera sorge dalla santità di Dio e nello stesso tempo è la risposta a questa santità. Ho scritto una volta: «La preghiera crea il sacerdote e il sacerdote si crea attraverso la preghiera». Sì, il sacerdote dev'essere innanzitutto uomo di preghiera, convinto che il tempo dedicato all'incontro intimo con Dio è sempre il meglio impiegato, perché oltre che a lui giova anche al suo lavoro apostolico.

    Se il Concilio Vaticano II parla della universale vocazione alla santità, nel caso del sacerdote bisogna parlare di una speciale vocazione alla santità. Cristo ha bisogno di sacerdoti santi! Il mondo di oggi reclama sacerdoti santi! Soltanto un sacerdote santo può diventare, in un mondo sempre più secolarizzato, un testimone trasparente di Cristo e del suo Vangelo. Soltanto così il sacerdote può diventare guida degli uomini e maestro di santità. Gli uomini, soprattutto i giovani, aspettano una tale guida. Il sacerdote può essere guida e maestro nella misura in cui diventa un autentico testimone!

     

    La cura animarum

     

    Nella mia ormai lunga esperienza, tra tante situazioni diverse, mi sono confermato nella convinzione che soltanto dal terreno della santità sacerdotale può crescere una pastorale efficace, una vera «cura animarum». Il segreto più vero degli autentici successi pastorali non sta nei mezzi materiali, ed ancor meno nei «mezzi ricchi». I frutti duraturi degli sforzi pastorali nascono dalla santità del sacerdote. Questo è il fondamento! Naturalmente sono indispensabili la formazione, lo studio, l'aggiornamento; una preparazione insomma adeguata, che renda capaci di cogliere le urgenze e di definire le priorità pastorali. Si potrebbe tuttavia asserire che le priorità dipendono anche dalle circostanze, e ogni sacerdote è chiamato a precisarle e a viverle d'intesa col suo Vescovo e in armonia con gli orientamenti della Chiesa universale. Nella mia vita ho individuato queste priorità nell'apostolato dei laici, in special modo nella pastorale familiare — campo nel quale gli stessi laici mi hanno aiutato tanto —, nella cura per i giovani e nel dialogo intenso con il mondo della scienza e della cultura. Tutto questo si è rispecchiato nella mia attività scientifica e letteraria. E nato così lo studio «Amore e responsabilità» e, tra l'altro, un'opera letteraria: «La bottega dell'orefice» con il sottotitolo: Meditazioni sul sacramento del matrimonio.

     

    Una ineludibile priorità oggi è costituita dall'attenzione preferenziale per i poveri, gli emarginati, gli immigrati. Per essi il sacerdote deve essere veramente un «padre». Indispensabili sono certo anche i mezzi materiali, come quelli che ci offre la tecnologia moderna. Il segreto tuttavia rimane sempre la santità di vita del sacerdote che s'esprime nella preghiera e nella meditazione, nello spirito di sacrificio e nell'ardore missionario. Quando ripercorro con il pensiero gli anni del mio servizio pastorale come sacerdote e come vescovo, mi convinco sempre più di quanto ciò sia vero e fondamentale.

     

    Uomo della Parola

     

    Ho già accennato che, per essere autentica guida della comunità, vero amministratore dei misteri di Dio, il sacerdote è chiamato ad essere anche uomo della parola di Dio, generoso ed infaticabile evangelizzatore. Oggi se ne vede ancor più l'urgenza di fronte ai compiti immensi della «nuova evangelizzazione».

    Dopo tanti anni di ministero della Parola, che specie da Papa mi hanno visto pellegrino in tutti gli angoli del mondo, non posso fare a meno di dedicare ancora qualche considerazione a questa dimensione della vita sacerdotale. Una dimensione esigente, giacché gli uomini di oggi si aspettano dal sacerdote, prima che la parola «annunciata», la parola «vissuta». Il presbitero deve «vivere della Parola». Al tempo stesso, però, egli si sforzerà di essere anche preparato intellettualmente per conoscerla a fondo ed annunciarla efficacemente.

    Nella nostra epoca caratterizzata da un alto grado di specializzazione in quasi tutti i settori della vita, la formazione intellettuale è quanto mai importante. Essa rende possibile intraprendere un dialogo intenso e creativo con il pensiero contemporaneo. Gli studi umanistici e filosofici e la conoscenza della teologia sono le strade per giungere a tale formazione intellettuale, che dovrà poi essere approfondita per tutta la vita. Lo studio, per essere autenticamente formativo, ha bisogno di essere costantemente affiancato dalla preghiera, dalla meditazione, dall'implorazione dei doni dello Spirito Santo: la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio. San Tommaso d'Aquino spiega in che modo, con i doni dello Spirito Santo, tutto l'organismo spirituale dell'uomo venga sensibilizzato alla luce di Dio, alla luce della conoscenza e anche all'ispirazione dell'amore. La preghiera per i doni dello Spirito Santo mi ha accompagnato fin dalla giovinezza e le sono tuttora fedele.

     

    Approfondimento scientifico

     

    Ma certamente, come insegna lo stesso San Tommaso, la «scienza infusa», che è frutto di speciale intervento dello Spirito Santo, non esonera dal dovere di procurarsi la «scienza acquisita».

    Per quanto mi concerne, come già ho detto, subito dopo l'ordinazione sacerdotale fui inviato a Roma a perfezionare gli studi. Più tardi, per volontà del mio Vescovo, dovetti occuparmi di scienza come professore di etica alla Facoltà Teologica di Cracovia e all'Università Cattolica di Lublino. Frutto di questi studi fu il dottorato su San Giovanni della Croce e poi la tesi per la libera docenza su Max Scheler: specificamente, sul contributo che il suo sistema etico di tipo fenomenologico può dare alla formazione della teologia morale. A questo lavoro di ricerca devo veramente molto. Sulla mia precedente formazione aristotelico-tomista si innestava così il metodo fenomenologico, cosa che mi ha permesso di intraprendere numerose prove creative in questo campo. Penso soprattutto al libro «Persona e atto». In questo modo mi sono inserito nella corrente contemporanea del personalismo filosofico, studio che non è stato privo di frutti pastorali. Spesso constato che molte delle riflessioni maturate in questi studi mi aiutano durante gli incontri con singole persone e durante gli incontri con le folle dei fedeli in occasione dei viaggi apostolici. Questa formazione nell'orizzonte culturale del personalismo mi ha dato una più profonda consapevolezza di quanto ciascuno sia persona unica e irripetibile, e ritengo tale consapevolezza molto importante per ogni sacerdote.

     

    Il dialogo con il pensiero contemporaneo

     

    Grazie ad incontri e discussioni con naturalisti, fisici, biologi ed anche storici ho imparato ad apprezzare l'importanza delle altre branche del sapere riguardanti le discipline scientifiche, alle quali pure è dato di poter giungere alla verità sotto angolature diverse. Bisogna quindi che lo splendore della verità — Veritatis splendor — le accompagni continuamente, permettendo agli uomini di incontrarsi, di scambiarsi le riflessioni e di arricchirsi reciprocamente. Ho portato con me da Cracovia a Roma la tradizione di periodici incontri interdisciplinari, che si svolgono regolarmente nel periodo estivo a Castel Gandolfo. Cerco di essere fedele a questa buona consuetudine.

     

    «Labia sacerdotum scientiam custodiant...» (cfr Ml 2, 7). Mi piace richiamare queste parole del profeta Malachia, riprese dalle Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima, perché hanno una sorta di valore programmatico per chi è chiamato ad essere ministro della Parola. Egli deve essere davverouomo di scienza nel senso più alto e religioso di questo termine. Deve avere e trasmettere quella «scienza di Dio» che non è solo un deposito di verità dottrinali, ma esperienza personale e viva del Mistero, nel senso indicato dal Vangelo di Giovanni nella grande preghiera sacerdotale: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3).

     

    X

    Ai Fratelli nel sacerdozio

     

    Concludendo questa testimonianza sulla mia vocazione sacerdotale, desidero rivolgermi a tutti i Fratelli nel sacerdozio: a tutti senza eccezione! Lo faccio con le parole di San Pietro: «Fratelli, cercate di render sempre più sicura la vostra vocazione e la vostra elezione. Se farete questo non inciamperete mai» (2 Pt 1, 10). Amate il vostro sacerdozio! Siate fedeli fino alla fine! Sappiate vedere in esso quel tesoro evangelico per il quale vale la pena di donare tutto (cfr Mt 13, 44).

    In modo particolare mi rivolgo a quelli tra voi che vivono un periodo di difficoltà o addirittura di crisi della loro vocazione. Vorrei che questa mia testimonianza personale — testimonianza di sacerdote e Vescovo di Roma, che festeggia il giubileo d'oro dell'Ordinazione — fosse per voi aiuto e invito alla fedeltà. Ho scritto queste parole pensando a ognuno di voi, ognuno di voi abbracciando con la preghiera.

     

    Pupilla oculi

     

    Ho pensato anche a tanti giovani seminaristi che si preparano al sacerdozio. Quante volte un vescovo torna con il pensiero e con il cuore al seminario! Esso è il primo oggetto delle sue preoccupazioni. Si suol dire che il seminario costituisce per un vescovo la «pupilla dell'occhio». L'uomo difende la pupilla del suo occhio, perché essa gli consente di vedere. Così, in qualche modo, il vescovo vede la sua Chiesa attraverso il seminario, giacché dalle vocazioni sacerdotali dipende tanta parte della vita ecclesiale. La grazia di numerose e sante vocazioni sacerdotali gli permette di guardare con fiducia al futuro della sua missione.

    Lo dico sulla base dei molti anni della mia esperienza episcopale. Sono divenuto vescovo dopo dodici anni dall'Ordinazione sacerdotale: buona parte di questo cinquantennio è stata segnata proprio dalla preoccupazione per le vocazioni. Grande è la gioia del vescovo quando il Signore dona vocazioni alla sua Chiesa; la loro assenza invece provoca preoccupazione e inquietudine. Il Signore Gesù ha paragonato questa preoccupazione a quella del mietitore: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9, 37).

     

    Deo gratias!

     

    Non posso chiudere queste riflessioni, nell'anno del mio giubileo d'oro sacerdotale, senza esprimere al Signore della messe la più profonda gratitudine per il dono della vocazione, per la grazia del sacerdozio, per le vocazioni sacerdotali in tutto il mondo. Lo faccio in unione con tutti i vescovi, che condividono la stessa preoccupazione per le vocazioni e vivono la stessa gioia quando il loro numero aumenta. Grazie a Dio, è in via di superamento una certa crisi delle vocazioni sacerdotali nella Chiesa.

    Ogni nuovo sacerdote porta con sé una benedizione speciale: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore». In ciascun sacerdote infatti è Cristo stesso che viene. Se San Cipriano ha detto che il cristiano è un «altro Cristo» — Christianus alter Christus — a maggior ragione si può dire: Sacerdos alter Christus.

     

    Voglia Iddio tener desta nei sacerdoti la coscienza grata ed operosa del dono ricevuto e suscitare in molti giovani una risposta pronta e generosa alla sua chiamata a spendersi senza riserve per la causa del Vangelo. Ne trarranno vantaggio gli uomini e le donne del nostro tempo, così bisognosi di senso e di speranza. Ne gioirà la Comunità cristiana, che potrà guardare con fiducia alle incognite e alle sfide del terzo Millennio, ormai alle porte.

     

    La Vergine Maria accolga come un omaggio filiale questa mia testimonianza, a gloria della Santa Trinità. La renda feconda nel cuore dei fratelli nel sacerdozio e di tanti figli della Chiesa. Ne faccia un seme di fraternità anche per quanti, pur non condividendo la stessa fede, mi fanno spesso dono del loro ascolto e del loro dialogo sincero.

    APPENDICE

     

    Litanie di Nostro Signore Gesù Cristo

    Sacerdote e Vittima

     

    Kyrie, eleison Kyrie, eleison

    Christe, eleison Christe, eleison

    Kyrie, eleison Kyrie, eleison

     

    Christe, audi nos Christe, audi nos

    Christe, exaudi nos Christe, exaudi nos

     

    Pater de cælis, Deus, miserere nobis

    Fili, Redemptor mundi, Deus, miserere nobis

    Spiritus Sancte, Deus, miserere nobis

    Sancta Trinitas, unus Deus, miserere nobis

     

    Iesu, Sacerdos et Victima, miserere nobis

    Iesu, Sacerdos in æternum

    secundum ordinem Melchisedech, miserere nobis

    Iesu, Sacerdos quem misit Deus

    evangelizare pauperibus, miserere nobis

    Iesu, Sacerdos qui in novissima cena

    formam sacrificii perennis instituisti, miserere nobis

    Iesu, Sacerdos semper vivens

    ad interpellandum pro nobis, miserere nobis

    Iesu, Pontifex quem Pater unxit

    Spiritu Sancto et virtute, miserere nobis

    Iesu, Pontifex ex hominibus assumpte, miserere nobis

    Iesu, Pontifex pro hominibus

    constitute, miserere nobis

    Iesu, Pontifex confessionis nostræ, miserere nobis

    Iesu, Pontifex amplioris

    præ Moysi gloriæ, miserere nobis

    Iesu, Pontifex tabernaculi veri, miserere nobis

    Iesu, Pontifex futurorum bonorum, miserere nobis

    Iesu, Pontifex sancte,

    innocens et impollute, miserere nobis

    Iesu, Pontifex fidelis et misericors, miserere nobis

    Iesu, Pontifex Dei et animarum

    zelo succense, miserere nobis

    Iesu, Pontifex in æternum perfecte, miserere nobis

    Iesu, Pontifex qui per proprium

    sanguinem cælos penetrasti, miserere nobis

    Iesu, Pontifex qui nobis

    viam novam initiasti, miserere nobis

    Iesu, Pontifex qui dilexisti nos

    et lavisti nos a peccatis in sanguine tuo, miserere nobis

    Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum

    Deo oblationem et hostiam, miserere nobis

    Iesu, Hostia Dei et hominum, miserere nobis

    Iesu, Hostia sancta et immaculata, miserere nobis

    Iesu, Hostia placabilis, miserere nobis

    Iesu, Hostia pacifica, miserere nobis

    Iesu, Hostia propitiationis et laudis, miserere nobis

    Iesu, Hostia reconciliationis et pacis, miserere nobis

    Iesu, Hostia in qua habemus fiduciam

    et accessum ad Deum, miserere nobis

    Iesu, Hostia vivens in sæcula

    sæculorum, miserere nobis

    Propitius esto! parce nobis, Iesu

    Propitius esto! exaudi nos, Iesu

    A temerario in clerum ingressu, libera nos, Iesu

    A peccato sacrilegii, libera nos, Iesu

    A spiritu incontinentiæ, libera nos, Iesu

    A turpi quæstu, libera nos, Iesu

    Ab omni simoniæ labe, libera nos, Iesu

    Ab indigna opum ecclesiasticarum

    dispensatione, libera nos, Iesu

    Ab amore mundi eiusque vanitatum, libera nos, Iesu

    Ab indigna Mysteriorum tuorum

    celebratione, libera nos, Iesu

    Per æternum sacerdotium tuum, libera nos, Iesu

    Per sanctam unctionem, qua a Deo Patre

    in sacerdotem constitutus es, libera nos, Iesu

    Per sacerdotalem spiritum tuum, libera nos, Iesu

    Per ministerium illud, quo Patrem tuum

    super terram clarificasti, libera nos, Iesu

    Per cruentam tui ipsius immolationem

    semel in cruce factam, libera nos, Iesu

    Per illud idem sacrificium

    in altari quotidie renovatum, libera nos, Iesu

    Per divinam illam potestatem, quam in

    sacerdotibus tuis invisibiliter exerces, libera nos, Iesu

    Ut universum ordinem sacerdotalem

    in sancta religione conservare

    digneris, Te rogamus, audi nos

    Ut pastores secundum cor tuum populo tuo

    providere digneris, Te rogamus, audi nos

    Ut illos spiritus sacerdotii tui implere

    digneris, Te rogamus, audi nos

    Ut labia sacerdotum scientiam custodiant, Te rogamus, audi nos

    Ut in messem tuam operarios fideles mittere

    digneris, Te rogamus, audi nos

    Ut fideles mysteriorum tuorum dispensatores

    multiplicare digneris, Te rogamus, audi nos

    Ut eis perseverantem in tua voluntate

    famulatum tribuere digneris, Te rogamus, audi nos

    Ut eis in ministerio mansuetudinem,

    in actione sollertiam et in oratione

    constantiam concedere digneris, Te rogamus, audi nos

    Ut per eos sanctissimi Sacramenti

    cultum ubique promovere digneris, Te rogamus, audi nos

    Ut qui tibi bene ministraverunt,

    in gaudium tuum suscipere digneris, Te rogamus, audi nos

     

    Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, parce nobis, Domine

    Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, exaudi nos, Domine

    Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis, Domine

     

    Iesu, Sacerdos, audi nos

    Iesu, Sacerdos, exaudi nos

     

    Oremus

     

    Ecclesiæ tuæ, Deus, sanctificator et custos, suscita in ea per Spiritum tuum idoneos et fideles sanctorum mysteriorum dispensatores, ut eorum ministerio et exemplo christiana plebs in viam salutis te protegente dirigatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

     

    Deus, qui ministrantibus et ieiunantibus discipulis segregari iussisti Saulum et Barnabam in opus ad quod assumpseras eos, adesto nunc Ecclesiæ tuæ oranti, et tu, qui omnium corda nosti, ostende quos elegeris in ministerium. Per Christum Dominum nostrum.

    Amen.


     

    Pubblicato nel 1996 in occasione del suo Giubileo sacerdotale, Dono e Mistero rappresenta una parte essenziale della vita di Papa Giovanni Paolo II. E' infatti la storia di un uomo che risponde alla chiamata di Dio: la vocazione sacerdotale. Seguendolo dagli anni dell’università, subito interrotta a causa della guerra, lo troviamo poi operaio nella fabbrica Solvay. Seguiamo la sua passione per il teatro, viviamo nella Polonia dell’occupazione gli anni del seminario clandestino... Lungo un cammino fatto di incontri, il mistero prende forma fino a condurlo lontano dalla sua terra, per prendere il posto che fu di Pietro. E' questa sì l’autobiografia di un prete, ma è soprattutto la storia di un uomo di fronte a Dio e ai suoi fratelli, pagine lungo le quali il mistero e il dono della fede prendono forma, attraverso il dialogo ininterrotto con la realtà.

     

    Il testo integrale, offerto dal sito Vaticano, è scaricabile anche nella nostra area Download



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.989
    Sesso: Femminile
    00 19/07/2014 08:09




    "Si deve chiarire che i periodi di crisi del celibato corrispondono sempre a periodi di crisi del matrimonio. Infatti oggi non viviamo solo la crisi del celibato, lo stesso matrimonio viene sempre più messo in discussione come fondamento della nostra società.
    (...) Infatti, prima dell’ordinazione si deve confermare con una promessa solenne che lo si fa e lo si vuole in tutta libertà. Ho sempre una brutta sensazione, quando in seguito si dice che si è trattato di un celibato forzato, che è stato imposto. Ciò va contro la parola che si è data all’inizio. Nell’educazione dei sacerdoti si deve far attenzione che questa promessa sia presa sul serio".

     

    II. Problemi della Chiesa cattolica

     

    Il celibato

     

    D. Stranamente niente provoca più rabbia nella gente che il problema del celibato. Anche se questo riguarda solo una minima parte della popolazione della Chiesa. Perché esiste il celibato?

     

    R. Esso è legato a una frase di Cristo: Ci sono coloro - si legge nel Vangelo- che per amore del regno dei cieli, rinunciano al matrimonio e, con tutta la loro esistenza, rendono testimonianza al regno dei cieli.

    La Chiesa è arrivata molto presto alla convinzione che essere sacerdoti significa dare questa testimonianza per il regno dei cieli. Essa poteva riallacciarsi analogamente a un parallelo veterotestamentario di altra natura. Israele entra nella terra promessa, undici tribù ricevono ciascuna la propria porzione di territorio; solo la tribù di Levi, quella dei sacerdoti, non riceve territorio né eredità; la sua eredità è solo Dio.

    Praticamente ciò significa che i suoi membri vivono solo dei doni del culto e non, come le altre famiglie, della coltivazione della terra. Il punto essenziale è che essi non hanno alcuna proprietà. Il salmo 16 dice: tu sei la mia parte di eredità e il mio calice, ti ho ricevuto in sorte, Dio è la mia terra. Questa figura, che cioè nell’Antico Testamento il sacerdote non ha terra e vive, per così dire, di Dio – e perciò lo testimonia davvero –in seguito, in riferimento alla parola di Gesù è stata interpretata così: la porzione di terra in cui vive il sacerdote è Dio stesso.

    Oggi possiamo capire con difficoltà questa rinuncia, poiché il rapporto con il matrimonio e i figli si è modificato. Dover morire senza figli, un tempo voleva dire aver vissuto senza scopo: una volta dispersa la traccia della mia vita, io sono morto del tutto. Se invece ho dei figli, continuerò a vivere in loro, grazie a una specie di immortalità, ottenuta attraverso la discendenza. Perciò è una superiore condizione di vita l’aver eredi e restare, attraverso di loro, nella terra dei viventi.

    La rinuncia al matrimonio e alla famiglia è quindi da intendersi nella seguente prospettiva: rinuncio a ciò che per gli uomini non solo è l’aspetto più normale, ma il più importante. Rinuncio a generare io stesso vita dall’albero della vita, ad avere una terra in cui vivere e vivo con la fiducia che Dio è davvero la mia terra. Così rendo credibile anche agli altri che c’è un regno dei cieli.

    Non solo con le parole, ma con questo tipo di esistenza sono testimone di Gesù Cristo e del Vangelo e gli metto così a disposizione la mia vita.

    Il celibato ha dunque un significato contemporaneamente cristologico e apostolico. Non si tratta solo di risparmiare tempo - ho un po’ di tempo a disposizione perchè non sono un padre di famiglia – il che sarebbe troppo banale e pragmatico. Si tratta di un’esistenza che punta tutto sulla carta di Dio, e tralascia proprio quanto normalmente rende matura e promettente un’esistenza umana.

     

    D. D’altra parte qui non si tratta di un dogma. Il problema sarà forse, un giorno, aperto al dibattito, nel senso di una libera scelta tra una forma di vita celibataria e una non celibataria?

     

    R. Si, certo, non si tratta di un dogma. E’ una consuetudine venutasi a creare assai presto nella Chiesa, a seguito di sicuri riferimenti biblici. Ricerche più recenti dimostrano che il celibato risale a molto prima di quanto permettono di riconoscere le fonti del diritto di solito conosciute, fino al secondo secolo.

    Anche in Oriente era molto più diffuso di quanto potevamo sapere finora. Qui solo nel secolo VII le due strade si separano. Da sempre in Oriente il monachesimo rappresenta la base portante del sacerdozio e della gerarchia e, per questo, aanche lì il celibato ha davvero grande importanza.

    Non è un dogma, è un modo di vivere che è cresciuto nella Chiesa e che naturalmente comporta sempre il pericolo di una caduta. Se si punta così in alto, ci possono essere delle cadute. Penso che ciò che oggi irrita la gente nei confronti del celibato è che essa vede quanti preti non sono interiormente d’accordo e lo vivono ipocritamente, male, o non lo vivono affatto o solo con tormento e dicono…

    …che distrugge gli uomini…

    Quanto più un’epoca è povera di fede, tanto più frequenti sono le cadute.

    Così il celibato perde di credibilità e il suo vero messaggio non viene alla luce. Si deve chiarire che i periodi di crisi del celibato corrispondono sempre a periodi di crisi del matrimonio. Infatti oggi non viviamo solo la crisi del celibato, lo stesso matrimonio viene sempre più messo in discussione come fondamento della nostra società.

    Nelle legislazioni degli Stati occidentali esso è sempre più messo allo stesso livello di altri stili di vita e viene così dissolto anche come forma giuridica. La fatica di vivere veramente il matrimonio non è in fondo da meno. In pratica, con l’abolizione del celibato assisteremmo solo alla nascita di un nuovo tipo di problematica, quella dei preti divorziati. La Chiesa evangelica conosce bene questo problema. Se ne deduce che le forme elevate di esistenza umana sono sempre soggette a qualcosa che le minaccia. La conseguenza che ne trarrei, non è, però, di perdere la speranza e dire: “non ci riusciamo più”, ma dobbiamo tornare a credere, ad avere più fede. E, ovviamente, dobbiamo essere ancora più cauti nella scelta degli aspiranti sacerdoti. L’importante è che uno scelga davvero liberamente e non dica: “ si, voglio diventare prete, e allora mi carico anche di questo”, oppure; “in fondo le ragazze non mi interessano più di tanto, quindi non sarà un gran problema”. Questo non è un corretto punto di partenza. L’aspirante sacerdote deve riconoscere nella sua vita la forza della fede e deve sapere che solo in essa può vivere il celibato. Allora il celibato può diventare una testimonianza che dice qualcosa agli uomini e che riesce anche a dar loro coraggio in relazione al matrimonio. Entrambe le istituzioni sono strettamente legate l’una all’altra. Se una fedeltà non è più possibile, anche l’altra non ha più senso: l’una sostiene l’altra.

     

    D. Suppone quindi che esista una relazione tra la crisi del celibato e quella del matrimonio

     

    R. Mi sembra molto evidente.

    In entrambi i casi la persona singola si trova di fronte al problema di una scelta di vita definitiva: a 25 anni posso già disporre di tutta la mia vita? E’ qualcosa di commisurato all’uomo? C’è la possibilità di farcela, di crescere e di maturare in modo vivo oppure devo tenermi costantemente aperto per nuove possibilità? La domanda fondamentale è la seguente: può l’uomo prendere una decisione definitiva per quel che riguarda l’aspetto centrale della sua vita? Può egli sostenere per sempre un legame nella decisione circa il modo della sua vita? Al riguardo mi permetto due osservazioni: lo può solamente se è ancorato saldamente alla fede; secondo: solo in questo caso egli perviene alla piena dimensione dell’amore e della maturazione umana. Tutto ciò che resta al di sotto del matrimonio monogamico è comunque troppo poco per l’uomo.

     

    D. Ma se i numeri sulle infrazioni del celibato sono esatti, allora, de facto, esso è già fallito da molto tempo. Per ripeterlo ancora una volta: forse un giorno si arriverà ad aprire il dibattito circa la possibilità di una libera scelta?

     

    R. Libera deve esserlo in ogni caso. Infatti, prima dell’ordinazione si deve confermare con una promessa solenne che lo si fa e lo si vuole in tutta libertà. Ho sempre una brutta sensazione, quando in seguito si dice che si è trattato di un celibato forzato, che è stato imposto. Ciò va contro la parola che si è data all’inizio. Nell’educazione dei sacerdoti si deve far attenzione che questa promessa sia presa sul serio. Questo è il primo punto. Il secondo è che dove vive la fede e nella misura in cui una Chiesa vive la fede, allora vien fuori anche la forza di sostenere queste scelte.

    Credo che, rinunciando a questa convinzione, non migliori nulla, ma si finisca per passare sopra a una crisi della fede. Naturalmente si tratta di una tragedia per una Chiesa, quando molti conducono, più o meno, una doppia vita.

    Non sarebbe, purtroppo, la prima volta che accade. Nel tardo medioevo abbiamo avuto una situazione simile, che poi fu una delle cause che portarono alla Riforma protestante. Si tratta di un avvenimento tragico sul quale bisogna riflettere, anche per amore degli uomini che poi soffrono davvero molto profondamente. Ma credo, e stando ai risultati dell’ultimo sinodo questo è anche il convincimento della grande maggioranza dei vescovi, che il vero problema sia la crisi della fede, e che non si hanno preti migliori e più numerosi dissociando il ministero e lo stato di vita, perché in tal modo si finisce solo per ignorare una crisi di fede e per farsi ingannare da soluzioni solo apparenti.

     

    D. Ritorniamo ancora alla mia domanda: crede che i preti forse un giorno potranno scegliere liberamente tra una vita celibataria ed una non celibataria?

     

    R. Questo l’avevo già capito. Dovevo solo chiarire che, comunque, secondo quel che ciascuno dice prima di essere ordinato sacerdote, non ci sono persone costrette al celibato. Si viene accettati come prete solo se lo si vuole spontaneamente.

    La domanda è allora: quanto profondamente sono legati tra loro sacerdozio e celibato? La volontà di optare soltanto per uno solo dei due termini non implica già di per sé una minore considerazione del sacerdozio? Credo che su questo punto non ci si possa richiamare semplicemente alle Chiese ortodosse e alla cristianità protestante. Quest’ultima ha una visione completamente diversa del ministero: è una funzione, un servizio derivato dalla comunità, ma non è un sacramento, non è il sacerdozio in senso proprio.

    Nella Chiesa ortodossa, abbiamo, da un lato, la forma perfetta di sacerdozio, cioè i preti-monaci, gli unici che possono diventare vescovi. Accanto a loro ci sono i preti secolari che, se vogliono sposarsi, devono farlo prima della loro consacrazione; essi si occupano poco della cura delle anime, ma propriamente, sono solo ministri del culto.

    Per questo aspetto è quasi un’altra concezione di sacerdozio. Noi, invece , riteniamo che chiunque sia sacerdote, deve esserlo nella maniera di un vescovo e che non deve esistere una tale divisione.

    Nessuna consuetudine di vita della Chiesa deve essere interpretata come un assoluto, per quanto sia profondamente radicata e fondata. Sicuramente la Chiesa si dovrà porre ancora il problema, lo ha già fatto recentemente in due sinodi. Ma penso che a partire da tutta la storia della cristianità occidentale e anche dall’intima concezione che sta alla base di tutto ciò, la Chiesa non deve credere di ottenere molto orientandosi verso la dissociazione di sacerdozio e celibato; se lo facesse, finirebbe comunque per perdere qualcosa.

     

    D. Si può quindi concludere che Lei non crede che un giorno ci saranno preti sposati nella Chiesa cattolica?

     

    R. Comunque non in un futuro prevedibile. Per essere sincero, devo dire che abbiamo già dei preti sposati, arrivati a noi come convertiti dalla Chiesa anglicana o da diverse comunità evangeliche. Quindi, in casi eccezionali, questo è possibile, ma si tratta, appunto, di eccezioni. E penso che anche in futuro rimarranno tali.

     

    D. Ma l’obbligo del celibato non dovrebbe venire meno, anche solo in considerazione del fatto che la Chiesa, diversamente, non avrà più preti?

     

    R. Non credo che quest’argomento sia veramente adeguato.

    Il problema delle vocazioni sacerdotali va visto sotto molti aspetti. Ha prima di tutto a che fare con il numero di bambini. Quando oggi il numero medio di bambini per famiglia è 1,5, il problema dei candidati al sacerdozio si pone in modo ben diverso dai periodi in cui le famiglie erano notevolmente più numerose.

    Nelle famiglie, poi, ci sono ben altre aspettative. Oggi sperimentiamo che i maggiori ostacoli al sacerdozio frequentemente vengono dai genitori, che hanno ben altre attese per i loro figli. Questo è il primo punto. Il secondo è che il numero di cristiani praticanti è molto diminuito e perciò si è ridotta anche la base di selezione. Considerato il numero dei bambini e il numero dei praticanti, probabilmente il numero dei nuovi sacerdoti non è affatto diminuito. Quindi bisogna tener conto di questa proporzione. La prima domanda allora è: ci sono credenti? Solo dopo viene la seconda domanda: da essi escono dei sacerdoti?

     

    Da Joseph Ratzinger, "Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo" – Un colloquio con Peter Seewald, Edizioni San Paolo 2005

     

    Ricordiamo che il sito offre un ricco Dossier sull'argomento, cliccare qui


     




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 11/10/2014 12:31

    Card. Ouellet: divorziati risposati restano membri della Chiesa




    Il card. Marc Ouellet





    10/10/2014



    Evitare di dare un giudizio morale sui divorziati risposati: la non ammissione al Sacramento dell’Eucaristia non elimina del tutto la possibilità della grazia in Cristo: questa una delle riflessioni emerse dal Sinodo straordinario sulla famiglia, in corso in Vaticano. Al microfono di Paolo Ondarza, ascoltiamo ilcard. Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi:


    R. - Credo prima di tutto che si deve ripetere che i divorziati risposati rimangono membri della Chiesa; non devono allontanarsi dalla Chiesa per il fatto che non possono ricevere la Comunione: il legame con la comunità è molto importate, la partecipazione all’offerta della Santa Eucarestia è fondamentale. Credo anche che dobbiamo favorire degli incontri con le persone che soffrono in queste situazioni affinché possano essere ascoltate. Qualcuno ha detto che l’ascolto è terapeutico; credo profondamente che sia vero.


    D. - Queste persone si sentono giudicate dalla Chiesa?


    R. - Credo che dobbiamo curare il nostro linguaggio nei loro confronti per evitare di dichiarare che non sono ammessi perché sono in peccato mortale permanente e non possono ritrovare lo stato di grazia. Questo è un linguaggio offensivo e che non tiene conto della vita spirituale della persone che, probabilmente, in tanti casi, hanno chiesto cento volte perdono nel loro cuore per il primo matrimonio fallito, ma, oggettivamente si trovano da dieci anni con un altro coniuge, con altri figli e quindi non possono mettere fine a questa nuova unione. Quindi c’è molto da fare per aiutarli a rimanere in contatto con la Chiesa, a sentirsi non giudicati dal punto di vista morale e a capire che rimane comunque un ostacolo al ricevimento della Comunione sacramentale.


    D. - Perché c’è questo ostacolo?


    R. - Perché il mistero della Santa Eucarestia, è un mistero nuziale: è il mistero della donazione che Cristo fa del suo Corpo - Lui, il Corpo del Signore risorto - alla Chiesa sua sposa. Questo dono è l’espressione della sua fedeltà fino alla morte. Allora, dal momento in cui il primo matrimonio viene considerato sacramentale - quindi il primo vincolo nuziale non è stato cancellato -, se una persona si trova in una seconda unione nasce una contraddizione oggettiva con il mistero che sta per ricevere. Dobbiamo aiutarli a capire che la Comunione con Cristo è possibile anche per loro, ma è una Comunione spirituale che non arriva fino al punto della comunione sacramentale.


    D. - Ma la comunione spirituale prevede un rito? C’è chi suggerisce per esempio di benedire i divorziati e i risposati al momento della Comunione …


    R. - Sì, questo certamente può essere anche espresso ritualmente: una persona può venire al momento della comunione e incrociare le braccia al petto: in questo modo avverte il sacerdote che non può ricevere la comunione, ma è disponibile per una benedizione. Bisogna dire alla gente che è possibile ritrovare la comunione con Cristo, cioè lo stato di grazia.




     

    FACCIAMO UN PO DI ECCLESIALITA' FRA DI NOI 
    Premesso che concordo con le risposte del cardinale Marc Ouellet, ecco finalmente centrato il problema, il cuore del problema, dice il cardinale nella risposta:

    D. - Queste persone si sentono giudicate dalla Chiesa?

    R. - Credo che dobbiamo curare il nostro linguaggio nei loro confronti per evitare di dichiarare che non sono ammessi perché sono in peccato mortale permanente e non possono ritrovare lo stato di grazia. Questo è un linguaggio offensivo e che non tiene conto della vita spirituale della persone che, probabilmente, in tanti casi, hanno chiesto cento volte perdono nel loro cuore per il primo matrimonio fallito, ma, oggettivamente si trovano da dieci anni con un altro coniuge, con altri figli e quindi non possono mettere fine a questa nuova unione. Quindi c’è molto da fare per aiutarli a rimanere in contatto con la Chiesa, a sentirsi non giudicati dal punto di vista morale e a capire che rimane comunque un ostacolo al ricevimento della Comunione sacramentale.

    Osservo   
    capisco che il linguaggio vada mitigato ma.... se uno è in uno stato di peccato mortale non è perchè ora ha famiglia o ha fatto figli il peccato gli viene rimosso  premesso che solo Dio giudica il cuore, resta palese che sono in peccato mortale perchè vivono in adulterio ed infatti il cardinale, alla domanda dopo dice:

    D. - Perché c’è questo ostacolo?

    R. - Perché il mistero della Santa Eucarestia, è un mistero nuziale: è il mistero della donazione che Cristo fa del suo Corpo - Lui, il Corpo del Signore risorto - alla Chiesa sua sposa. Questo dono è l’espressione della sua fedeltà fino alla morte. Allora, dal momento in cui il primo matrimonio viene considerato sacramentale - quindi il primo vincolo nuziale non è stato cancellato -, se una persona si trova in una seconda unione nasce una contraddizione oggettiva con il mistero che sta per ricevere. Dobbiamo aiutarli a capire che la Comunione con Cristo è possibile anche per loro, ma è una Comunione spirituale che non arriva fino al punto della comunione sacramentale.

     è quello che infatti cerchiamo di difendere..... mitigare quanto si vuole il linguaggio - ed infatti io mi batto da anni nell'insegnamento della COMUNIONE SPIRITUALE , nonostante venga derisa dai parroci  ma resta chiaro che queste coppie, appunto, vivono in uno stato di peccato mortale e nasconderglielo non è amare il prossimo...


     


    Un sacerdote risponde

    Che dire ad un giovane seminarista in crisi e tentato di volgersi indietro?

    Caro Padre Angelo, 
    ho scoperto di parecchio tempo questo sito, e sono contento che offre la sua disponibilità per la gente! 
    Io sono un religioso straniero che sto facendo tappa dell'tirocinio in una congregazione! Non riesco avvolte a capire quello che succede con me perché spesso mi viene a fare atti impuri, ho la età di 22 ani, mi lascio influenzare spesso di quello che gira intorno a me!
    Voglio uscire in discoteca come fanno i giovani della mia età, di sentirmi libero in quello che faccio, ecc.
    Mi potrebbe dare un consiglio come posso educare il corpo?
    Voglio veramente vivere in purezza, e sono riuscito a farlo già, ti potrei dire che ero contentissimo, ma ora non riesco più a vivere così! Sono in attesa della sua risposta! Grazie di cuore! Gli assicuro la mia preghiera!


    Risposta del sacerdote

    Carissimo, 
    1.non mi stupisco che un giovane religioso come te possa avere un momento di affievolimento nell’andare insieme col Signore e sia tentato di volgersi indietro.
    Che fare in tale situazione?

    2. Il Signore ha detto: “Vegliate e pregate per non cadere in tentazione” (Mc 14,38).
    Il consiglio che ti do è di vivere in grande comunione col Signore. Sei stato chiamato a questo. 
    Non basta entrare in un istituto religioso per sentirsi al sicuro.
    Il rapporto col Signore va rivissuto momento per momento, giorno dopo giorno e in maniera sempre più intensa.
    La pratica della meditazione, l’unione col Signore, la preghiera, l’Eucaristia devono costituire la porzione principale della tua giornata.
    Ti porto la mia esperienza.

    3. Quando io ero giovane seminarista, soprattutto durante il tempo della meditazione, per quello che provavo, per i lumi che si affacciavano alla mente, per i moti all’interno del cuore, per le aspirazioni che tacitamente esprimevo, per la pace e la serenità che sperimentavo mi sentivo il ragazzo più felice di questo mondo. 
    Durante la meditazione sentivo i rumori delle macchine, degli autobus e delle moto. La gente andava e veniva. Ognuno andava certo per le proprie necessità, ma anche per le proprie aspirazioni e per il proprio desiderio di essere felice.
    Ma io, inginocchiato sul quel pancone, accanto ad altri confratelli che in silenzio facevano la meditazione, mi sentivo il ragazzo più felice di tutti. Non provavo alcuna invidia per quelli che erano per strada, Anzi avrei desiderato che tutti si sentissero pieni della presenza di Dio, di luce e di gioia come ero io.
    Questa gioia mi rimaneva dentro anche dopo la meditazione. Mi accompagnava in refettorio, dove subito dopo si andava, nello studio, nelle ricreazioni, nel rapporto con gli altri.
    Era una conseguenza dell’unione col Signore. 
    Quello che si legge in Geremia era la mia esperienza quotidiana: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome (la tua presenza), Signore, Dio degli eserciti” (Ger 15, 16).

    4. La purezza, più che un obiettivo da raggiungere, era un frutto di questa esperienza, di quest’unione.
    Per questo non costituiva un problema. Era naturale vivere così. 
    Ho capito più tardi, ormai già sacerdote, che si trattava di un frutto dello Spirito Santo, come ce lo presenta la Sacra Scrittura sotto il termine di dominio di sé (Gal 5,22). La Volgata (la versione tradizionale) invece insieme col Catechismo della Chiesa Cattolica lo esprime con tre parole: “modestia, continenza e castità”. 
    Quando ho studiato queste cose le ho riviste nella mia esperienza di giovane seminarista. Senza saperlo, ne vivevo la realtà, che cresceva in me, come del resto cresceva anche nei miei confratelli.
    La vita religiosa, con le sue regole e i suoi ritmi, ci consentiva di vivere così, come un gruppo di giovani che stavano insieme col Signore per seguirlo dovunque egli ci portasse.
    Era una riedizione del collegio apostolico unito a Gesù, con Gesù al centro.

    5. Il segreto dunque sta qui: nell’unione col Signore, nell’ascolto della sua parola, nel ricevere i lumi e gli affetti che solo Lui sa dare.
    La Samaritana era andata per attingere acqua presso la fonte. Ma dopo aver incontrato il Signore è stata così presa da quella esperienza che, quasi dimentica del motivo per cui si era recata lì, lasciò la brocca e corse in città a dire alla gente: ho visto uno che mi ha raccontato tutta la mia vita. Che non sia lui il Messia?
    Se non vivi questa esperienza dell’incontro col Signore e dello stare con Lui, che è l’esperienza più bella e affascinante di tutte, è inevitabile che si senta attrattiva per le cisterne screpolate che non danno la felicità se non nell’attimo in cui la si riceve.
    Le cisterne screpolate non conservano la felicità. E per questo, lasciando interiormente vuoti, fanno sentire il desiderio di riprovare l’esperienza precedente. Esperienza però che non si può rivivere in ogni momento.

    6. Rinnova a Gesù quello che gli hai detto quando ti ha chiamato a seguirlo.
    Papa Giovanni, all’età di 21 anni, in occasione del suddiaconato che a quei tempi era l’ordine in cui si faceva la promessa di celibato, si rivolge a Gesù con queste parole: “Vedete, o Gesù, abbandono patria, parenti, le mie povere reti, tutto; io vengo con voi. Ricevetemi come accoglieste Pietro, Giovanni, Matteo e gli altri. (…). Una cosa sola desidero: che rimanga costante nel vostro santo amore, uno con voi, come voi siete uno col Padre vostro” (Giornale dell’anima, 1-10 aprile 1903, n. 8).
    Anche tu non anelare ad altro che ad essere uno con Gesù, come Gesù è uno col Padre.

    7. Oggi inizia il mese di maggio.
    Chiedi a Maria che ti dia un poco dell’amore che Lei ha avuto per Gesù. Qui c’è tutto.
    Sarebbe già sufficiente questo per sentire ravvivare la grazia della chiamata.
    Papa Giovanni, all’età di 16 anni, iniziando il mese di maggio chiese due grazie alla Madonna. Si impegnò a vivere bene quell’esperienza e verso il termine del mese si sentì esaudito.
    Auguro anche te la stessa cosa. 

    Ti assicuro al mia preghiera e ti benedico. 
    Padre Angelo


    Pubblicato 20.11.2014





    [Modificato da Caterina63 20/11/2014 15:18]
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    00 21/11/2014 14:16

     Alluvioni al Nord Italia: in processione sulle rive del Po per chiedere protezione





    Don Evandro Gherardi, parroco di Brescello, guida la processione sulle rive del Po - RV



    20/11/2014 03:49


    "Quando ho avuto la notizia che una frazione del nostro paese sarebbe stata sgomberata dei suoi 250 abitanti proprio per il pericolo di straripamento del Po, forse ispirato dal Signore, ho pensato di organizzare una cerimonia straordinaria di benedizione del fiume, nell'ambito di una giornata intera di preghiera". Così don Evandro Gherardi, parroco di Brescello (Reggio Emilia) racconta com'è nata la processione di circa 300 fedeli sulle rive del Po per scongiurare l'alluvione. Il sacerdote guidava il corteo portando il celebre crocifisso ligneo creato per le vicende cinematografiche di 'Peppone e Don Camillo', oggi conservato proprio nella chiesa di Brescello, set di quelle indimenticabili pellicole.


    "Qui non abbiamo avuto paura, ma preoccupazione che le cose potessero peggiorare, essendo gli argini intrisi d'acqua, temevamo altri cedimenti. Le motivazioni erano tre: chiedere la protezione del Signore per le nostre zone, pregare per le vittime del maltempo di questi giorni e infine riflettere su come l'uomo stia utilizzando l'ambiente. Spesso dietro le catastrofi naturali c'è anche il mancato rispetto del Creato da parte dell'uomo: iquinamento, eccessiva urbanizzazione. E proprio la vicinanza di questo fiume con la sua bellezza, e al tempo stesso la sua pericolosità, ci porta a riflettere e a pensare". "Il crocefisso che abbiamo portato in processione - rivela infine don Evandro - non faceva parte dell'arredo liturgico della nostra chiesa. Era stato realizzato per i film di 'Peppone e don Camillo', girati qui, e poi era rimasto nei magazzini di Cinecittà. Il paese l'ha chiesto, l'abbiamo pulito, restaurato e sistemato in chiesa e oggi è oggetto di grande venerazione anche da parte dei turisti che visitano Brescello". 



    (Fabio Colagrande)

     

    Don Camillo torna a Brescello: Crocefisso in processione per fermare il Po
    di Rino Cammilleri20-11-2014
    Il Crocefisso e don Camillo

    Brescello (Reggio Emilia) è la cittadina in cui Giovannino Guareschi ambientò le storie di Don Camillo e Peppone. In una di queste la piena del Po allagava tutto e il parroco guidava una processione di barche per implorare l’aiuto di Dio. Don Camillo reggeva il Crocifisso della sua chiesa, quello con cui usava parlare e da cui riceveva ironiche risposte. Questo racconto diede spunto a uno dei tanti film con Fernandel e Gino Cervi. Ora, proprio l’altro ieri, l’attuale parroco, don Evandro Gherardi, ha deciso di ripetere il gesto di don Camillo per cercare l’aiuto divino contro il solito Po, che ha già superato di ben nove metri il livello di guardia. Processione fino al fiume e una giornata di preghiera davanti al «Crocifisso parlante». 

    L’iniziativa è stata definita dai media «un gesto suggestivo e curioso». Folklore, insomma. In effetti, non sono più i tempi di Guareschi, e altre divinità hanno preso il posto del Dio cattolico: la Scienza e la Politica. Così, quando il terremoto ci inghiotte, mandiamo a processo gli scienziati che non hanno saputo prevederlo. E, quando l’alluvione ci spazza via, agitiamo il capestro contro i politici che hanno permesso il dissesto del territorio. Magari è anche vero che gli scienziati non sono infallibili e i politici avrebbero potuto far meglio. Ma, a disastro avvenuto, è magra consolazione la vendetta contro i «responsabili» e il dover mettersi in fila (dall’avvocato) per un risarcimento che non si sa se e quando arriverà. Forse, chissà, un giorno arriveranno scienziati e politici competenti e onesti. Ma ci sarà sempre un errore umano, un evento imprevisto, una calamità più forte di qualunque preparazione. 

    La processione di Brescello

    Di cose del genere ne abbiamo viste fin troppe, anche in quei Paesi che hanno scienziati e politicivirtuosi. Questa, ahimè, è e resterà Valle di Lacrime. Lo è anche quando preghiamo il Creatore di risparmiarci qualche croce. Figuratevi cosa diventa quando non facciamo nemmeno questo. Già, perché la preghiera serve innanzitutto per avere scienziati e politici competenti e onesti. Poi, ammesso di averli ottenuti, per scamparci da errori in buona fede o eventi imprevedibili. Infine, per ringraziare dello scampato pericolo o di esserne usciti con poche ossa rotte. L’unica preghiera che il Dio cattolico ci ha insegnato termina infatti con queste precise parole: «sed libera nos a malo», «ma liberaci dal male». Il male: c’è, è ineliminabile, spunta sempre quando o da dove non te l’aspetti. 

    Come proteggersi? Restando il più possibile appiccicati a Cristo. Al di fuori del Suo alone di luce c’è il regno del Principe di Questo Mondo. Il quale, per esempio, può anche scatenare gli elementi (così un tempo la Chiesa insegnava). E ci vuole Cristo che, opportunamente svegliato, ordini loro: «Taci! Calmati!» (Mt 8, 23). Certo, non tutte le calamità vengono dal Diavolo e non tutte vengono dalla Natura. Ma da tutte quante può liberarci la preghiera, se ci crediamo e se Dio concede. Per questo un tempo la Chiesa aveva composto preghiere e riti per ogni genere di guaio, dalle cavallette alla carestia. A flagello fulminis libera nos Dominea flagello terraemotusa flagello tempestatis… C’erano Santi appositi da invocare contro la siccità o contro la pioggia, c’erano i cosiddetti «Santi del gelo» e i Quattordici Ausiliatori. Ogni necessità era coperta. Infine, c’erano le c.d. Rogazioni: Te rogamus, audi nos; Ti chiediamo di ascoltarci. E sant’Annibale Maria Di Francia (1851-1927) fondò addirittura una congregazione, i Rogazionisti. Fu san Mamerto, vescovo di Vienne nel Delfinato, a idearle, perché nell’anno 474 una serie di disastri (tra cui un terremoto) aveva messo alla fame quel pezzo di Gallia. 

    La processione sugli argini del Po a Brescello

    Processioni, preghiere e digiuno per sollecitare (in latino rogare) il soccorso divino. Finiti i secolicristiani, tali preghiere si affievolirono fino a spegnersi. Non possiamo dire quanti guai dette preghiere abbiano risparmiato all’umanità (anche se un censimento in tal senso si può fare, basta contare gli ex-voto nei santuari). Ce ne sono comunque tracce qua e là, come la statua di San Michele che rinfodera la spada (della peste) su Castel Sant’Angelo, per esempio. Ma possiamo senz’altro dire che, agli shakespeariani «mille flagelli naturali ereditati dalla nostra carne», nei secoli post-cristiani si aggiunsero quelli delle guerre di sterminio e dei totalitarismi. Sogghignino pure quelli che discendono dal Caso e dalla Scimmia: noi credenti sappiamo che una sola preghiera pubblica al Cuore Immacolato di Maria ha fatto crollare l’impero sovietico; figurarsi se non può fermare il Po. 

     





    [Modificato da Caterina63 21/11/2014 21:12]
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    00 22/11/2014 23:39

     Servizio vigili del fuoco. Il Santo Padre Francesco ed il nuovo incendio mediatico: le offerte ai preti





    «SERVIZIO VIGILI DEL FUOCO»

    IL SANTO PADRE FRANCESCO ED IL NUOVO INCENDIO MEDIATICO: LE OFFERTE AI PRETI


    […] a tutti i non pochi sacerdoti con funzione di parroci che vivono certe situazioni di disagio economico, vorrei lanciare sia un’idea sia un appello: quando vi arriva una bolletta della luce o del gas che non riuscite a pagare, mandatela alla Domus Sanctae Martae, indirizzata direttamente a Sua Santità il Sommo Pontefice Francesco, Città del Vaticano, accompagnata da questo biglietto: «Siamo i preti della Chiesa povera per i poveri e non abbiamo i soldi per pagare la bolletta della luce e del gas della chiesa parrocchiale, quindi rimettiamo il pagamento direttamente alla Sede Apostolica».

     

    Autore Padre Ariel
    Autore
     Padre Ariel S. Levi di Gualdo da l'Isola di Patmos - vedi qui -

     

    Nella sua omelia mattutina il Santo Padre ha detto: «Quante volte vediamo che entrando in una chiesa ancora oggi c’è lì la lista dei prezzi: per il battesimo, la benedizione, le intenzioni per la messa. E il popolo si scandalizza».

    Chi desidera leggere tutto il resoconto può collegarsi direttamente al sito de La Repubblica [vedere qui] divenuta ormai organo ufficioso della Santa Sede, non ultimo anche per avere un saggio di come certi discorsi finiscono poi riportati dalla grande stampa.

    Pare che il Santo Padre tenda ad una certa parzialità che lo induce a vedere le cose da destra ma non da sinistra. A questo si aggiunga che appena l’audience tende a calare, il Santo Padre se ne esce fuori con qualche frase ad effetto che fa subito il giro del mondo; e per giorni e giorni sono garantite le prime pagine dei giornali, che delle sue parole espresse non di rado con scarsa chiarezza prendono di prassi ciò che vogliono e con tutto il possibile beneficio d’inventario, specie quando il Santo Padre dice cose sacrosante e giuste, ma espresse però in modo sbagliato, creando così non pochi problemi di comunicazione e di recezione dei suoi stessi messaggi, perché i media finiscono col fargli dire ciò che lui non ha neppure mai pensato.

    Vigili del fuoco vaticano 3
    I Vigili del Fuoco dello Stato della Città del Vaticano montano il comignolo sul tetto della Cappella Sistina prima del conclave dei cardinali

    Siccome ciò non può essere casuale, c’è da chiedersi: chi è il regista di certe strategie pubblicitarie, visto che di tali si tratta?

    E “spara” oggi che ti “sparo” domani, se le sparate non dovessero più sortire effetto nei media assuefatti a tutte le peggiori droghe, tanto da richiedere dosi sempre maggiori di stupefacenti sempre più potenti, a che cosa dobbiamo prepararci?

    Ripeto: ancora una volta il Santo Padre ha detto una cosa giusta espressa però nel modo sbagliato; ancora una volta ha puntato lo sguardo a destra senza però cogliere minimamente tutti i risvolti che si trovano a sinistra. Proprio come quel famoso «Chi sono io per giudicare?» lasciato tronco a metà, grazie al quale abbiamo potuto assistere per la prima volta nel corso della storia all’esaltazione di un pontefice sulle copertine delle riviste gay di tutto il mondo, mentre sacerdoti e teologi presto costretti a calarsi nel ruolo di pompieri, spiegavano ciò che di giusto il Santo Padre intendesse dire con quella frase; e ciò spiegandolo non solo ai devoti fedeli, ma soprattutto ad un esercito di tracotanti ed aggressivi sodomiti impenitenti fieri ed orgogliosi d’essere tali, che su quella frase male compresa ci venivano a fare lezioni di ecclesiologia e di nuova morale cattolica [solo un esempio tra i tanti, qui] E lo abbiamo spiegato, il tutto, procacciandoci in risposta gli sberleffi dei laicisti e le aggressioni verbali di certi cattolici intransigenti o presunti tali che ci accusavano invece di «arrampicarci sugli specchi», di «difendere l’indifendibile» o di giocare ai «sofismi».

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    Vigili del fuoco dello Stato della Città del Vaticano

    Inoltre, questo nuovo sport pontificio di prendersela periodicamente con i preti, stride parecchio col fatto che poi, al tempo stesso, egli parta senza esitare da Roma per andare a Caserta ad abbracciare gli eretici pentecostali, meritevoli peraltro del progressivo svuotamento delle chiese cattoliche nei paesi del Latino America, dove in alcune regioni, Argentina inclusa, si sono registrati cali di fedeli che sfiorano anche la percentuale del 30% … 
    … mi verrebbe voglia di affermare in tono grave che tutto questo grida quasi vendetta al cospetto di Dio, specie se consideriamo che per traghettare la barca di Pietro il Romano Pontefice Vescovo di Roma ha bisogno di noi preti brutti, sporchi e cattivi, non certo dei pastori pentecostali verso i quali è corso sorridente con l’abbraccio aperto ed il sorriso stampato in faccia, tra l’altro soprassedendo del tutto sul fatto che i membri di questa sètta sono degli straordinari procacciatori di quattrini e di ricchi creduloni da spennare come tacchini americani prima della grande Festa del Ringraziamento.

    Non so né posso sapere con quale genere di angelici fedeli il Santo Padre abbia avuto pastoralmente a che fare prima come sacerdote poi come vescovo; potrei presumere che non abbia avuto a che fare con quelli della Gerusalemme Terrena ma piuttosto con quelli della Gerusalemme Celeste, dove non c’è bisogno di pane, visto che in essa si vive di solo spirito nella beatifica contemplazione della eterna gloria di Dio.

    Io che invece ho sempre svolto i miei ministeri pastorali con gli uomini e le donne della Gerusalemme Terrena, mi sono ritrovano di fronte a tali forme di ingratitudine e di insensibilità verso la figura del sacerdote che benedico tutt’oggi Dio per avermi colmato dei necessari doni di grazia in virtù dei quali, se devo correre, mi prodigo a farlo soprattutto per ingrati, avari, egoisti … che dopo avere spremuto il prete come un limone ne gettano via la buccia, perché come ci insegna il Signore: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori» [Mc 2, 17]. E per un pastore in cura d’anime, tentare di curare certi malati comporta spesso dolori, amarezze e delusioni che lasciano talvolta dolorosi segni addosso come marchi a fuoco, perché non pochi sono i malati che rifiutano il medico e qualsiasi cura, o che sfruttano il medico solo quando hanno bisogno.

    Ho trascorso ore ed ore ad ascoltare ed a raccattare i pezzi di mogli umiliate e abbandonate da mariti sulla via dei sessant’anni che fatti quattro soldi hanno preso il largo con la segretaria di venticinque; a raccogliere i pianti di genitori con figli ingestibili dediti ai peggiori vizi; a confortare famiglie colpite dalla una grave malattia di un loro congiunto ed a visitare e confortare il malato periodicamente in ospedale. Ho fatto alcune centinaia di chilometri per andare a visitare qualche ergastolano in un carcere di massima sicurezza, dopo avere impiegato tempo ed energie a chiedere il permesso di visita al magistrato di sorveglianza, non essendo cappellano di quel carcere e non avendo quindi per legge diritto di accesso. Ho dedicato giorni e giorni alla preparazione di certe omelie e catechesi per il conforto e la edificazione del Popolo di Dio. Sono sceso dal letto in piena notte per portare i Sacramenti ad un morente, ho fatto cinquanta chilometri all’andata e cinquanta al ritorno per andare a celebrare una Messa — senza che alcun buon fedele si domandasse se forse non era il caso di pagare le spese della benzina al prete — trascorrendo poi gran parte della giornata ad amministrare le confessioni ed infine, quasi di prassi, tornando a casa mi sono messo a lavorare fino alle due della notte, per poi alzarmi il mattino alle 7 e non certo a mezzogiorno. Non ho mai detto di no a nessuno che mi abbia cercato per un proprio problema impellente, ed a quanto mi è dato sapere non sono poche le persone che —  grazie a Dio e bontà loro — vanno dicendo in giro che sono un buon prete affermando in tal senso di averlo sperimentato per loro esperienza personale …

    … c’è però un dato di fatto triste: quando nel bisogno mi ci trovo io, quando devo pagare delle bollette per dei costi di fornitura che non riesco a pagare, quando devo provvedere alle mie dignitose necessità e non certo ai miei vizi e lussi, due sole sono le porte alle quali posso andare a battere cassa: quella di mia madre e quella di mio fratello. Mi domando e vi domando: è giusto che una madre di 75 anni che riesce a vedere il figlio prete due o tre volte all’anno di sfuggita, debba arrotondare tutti i mesi le mie entrate consentendomi così di dedicarmi pastoralmente a persone che a fronte di qualsiasi bisogno umano e spirituale ritengono che per loro sia tutto quanto un diritto dovuto, ma che verso il cosiddetto “prete-limone” da spremitura ritengono però di non avere alcun genere di dovere? Penso che solo per questo mia madre — donna dura e dal carattere non facile — si guadagnerà il paradiso, avendomi dato tutto senza mai chiedermi niente; ma gli altri, quelli che dal prete pretendono e prendono tutto senza mai nulla dare in cambio, beneficeranno della stessa sorte felice, in quel loro sommo egoismo che genera una incorreggibile mancanza di generosità? O per dirla in altre parole: è giusto che io assista dei veri e propri eserciti di ingrati privi di riconoscenza verso il sacerdote, grazie ai soldi dell’onesto e duro lavoro dei miei familiari che me lo permettono? 
    Questo il motivo per il quale mi piacerebbe tanto chiedere al predicatore di Santa Marta — sempre ammesso che non sia troppo impegnato a parlare con l’ateo Eugenio Scalfari o con gli eretici della sètta pentecostale — se per caso sono diventato prete per risultare una tassa a vita per mia madre e per mio fratello, anziché per servire con i necessari mezzi la Chiesa universale ed il Popolo che Dio le ha affidato; quel popolo che da sempre servo senza alcun risparmio di me stesso, fino a non facile prova contraria. O più semplicemente vorrei chiedergli: in che modo si può vivere nel 2014 con 750 euro al mese di stipendio percepiti dall’Ente Sostentamento Clero, con tutte le spese vive da pagare per il proprio mantenimento e con i cosiddetti fedeli sempre a mano tesa per i loro bisogni umani e spirituali, che però non hanno la minima bontà di remunarare il gravoso servizio pastorale del sacerdote, sempre sulla base del principio che a loro tutto è dovuto mentre invece al prete non è dovuto niente? 
    Perchè casomai non fosse chiaro: il fatto che io non abbia mai tempo per visitare o per dedicarmi ad una madre ormai anziana che pure mi mantiene, pur avendo sempre tempo per dedicarmi invece ad un fitto esercito formato anche e soprattutto di devoti e fedeli ingrati, per me me è stato ed è un problema oggettivo che più volte si è mutato in gravoso e doloroso quesito per la mia coscienza soggettiva, io che una coscienza ce l’ho e che la mia vita di prete la vivo sulla mia pelle e sul mio sangue e non certo sulle frasi popolari ad effetto pronunciate da un Sommo Pontefice che ha scelto di vivere dentro un albergo per essere più a contatto con la realtà, ma che dal rapporto con la realtà — stando fedelmente a certi suoi discorsi — sembra essere più distaccato di quanto invece non lo sono mai stati i suoi recenti predecessori che vivevano nel tradizionale appartamento a loro riservato nel Palazzo Apostolico.

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    Vigili del fuoco all’opera

    E siccome esercito da sempre anche il delicato ministero di confessore e direttore spirituale di numerosi sacerdoti sparsi per l’Italia, lo so bene io, nel segreto inviolabile del foro interno e nella segretezza del foro esterno, i dolori a volte lancinanti che vivono molti miei confratelli che oggi si sentono sempre di più bastonati e trascurati da chi invece dovrebbe seguirli e sostenerli … lo so io, quel che mi hanno detto molti di loro, quanto appunto il Santo Padre correva ad abbracciare gli eretici pentecostali, dopo avere ripetutamente bacchettato il proprio clero e dato ai preti degli untuosi, cosa vera ma come sempre vera solo parzialmente, perché ormai la parzialità sembra divenuta un presupposto della pastorale di questo pontificato [vedere qui]. Anche in questo caso una domanda al Santo Padre sarebbe di rigore: posto che i peggiori untuosi sono da sempre a bivaccare dentro la curia romana e sino al più alto livello dentro il vicariato di Roma, in un anno e mezzo, lui che ha potere di legare e di scogliere, quanti ne ha sbattuti fuori da casa sua, di untuosi? Perchè prima di dire ai preti sparsi per il mondo che certi preti sono untuosi, buon gusto ed equilibrio pastorale vorrebbero che fossero eliminati anzitutto gli untuosi di lusso che lui stesso si ritrova in casa propria e che ad oggi non sono stati ancora toccati, anzi, sotto il suo pontificato, non pochi dei più untuosi in assoluto hanno fatto anche strepitose carriere, altri si sono affacciati direttamente con lui alla loggia centrale di San Pietro divenendo dei veri intoccabili.

    E non tocchiamo il tasto dolente dei “poveri” tanto cari alla omiletica del Santo Padre,perché sono convinto che egli ignori totalmente di quanto spesso, alla fine delle Sante Messe, appena giunti in sacrestia, siamo presi d’assalto e molestati con pianti da attori professionisti da parte di “poveri” che vengono a chiederci danaro con in tasca i telefoni cellulari che noi non abbiamo, che nelle proprie case hanno mega maxi schermi al plasma che noi non abbiamo, che fumano le sigarette di marca che noi non possiamo permetterci, che ci vengono a chiedere di pagargli la bolletta della luce mentre nelle loro case trionfano tutti gli strumenti elettronici di ultima generazione che noi non possediamo, o che perlomeno sia io sia molti miei confratelli non abbiamo perché non possiamo assolutamente permetterci. E vuole sapere, il Santo Padre, questo genere di arroganti accattoni che rivendicano il diritto ad avere tutto il superfluo, che si acquistano il voluttuario e che poi vanno alla Caritas ad esigere rifornimenti di generi di prima necessità, in che modo ci bacchettano quando giustamente gli diciamo di no? Sbattendoci in faccia che … «Papa Francesco non è una bestia come voi preti, lui ama i poveri!». E da me, più di uno, si è sentito rispondere: «Bene, allora vai in Vaticano ed i soldi per comprarti le sigarette e per rifarti la carica del tuo nuovo telefono cellulare da 500 euro, chiedili al Santo Padre, perché io uso da due anni un telefono cellulare che a suo tempo ho comprato in un discount e che ho pagato 48 euro».

    Tutt’altra cosa i veri poveri che vivono con tale disagio e vergogna la propria situazione che dobbiamo essere noi a capire che hanno bisogno, perché non sono neppure capaci a chiedere aiuto; e dinanzi a quelle persone, ripetutamente, mi onoro in sacerdotale coscienza di essere rimasto io senza i soldi per poter poi provvedere al mio necessario, nella ferma convinzione di non avere compiuto nulla di eroico ma fatto solo il mio dovere di prete.

    In fede e verità posso e debbo dire che purtroppo, non una sola delle non poche persone che io ho aiutato nel corso degli anni, si è mai premurata di domandarmi se avevo bisogno di qualche cosa; perché come poc’anzi dicevo il prete è un limone dal quale spesso si prende tutto il succo e si getta poi via la buccia, perché il prete è colui che «deve» e basta, ed al quale nulla è invece dovuto.

    Il Santo Padre, così premurosamente toccato dalla sensibilità di un popolo riguardo il quale andrebbe anzitutto stabilito se è veramente il Popolo di Dio oppure se è semplicemente popolo e basta, se non peggio popolo giacobino, è informato di quanto alto sia il numero di preti che hanno trascorso la propria vita a servire gli altri, spesso privando se stessi pure del necessario, che nella vecchiaia si sono ritrovati ammalati, soli e totalmente abbandonati? E quale popolo ha gridato allo scandalo, dinanzi a vecchi preti morti senza che fosse neppure tutelata la loro umana dignità?

    Qualcuno ha spiegato al Santo Padre come mai la Conferenza Episcopale Italiana ha destinato una parte del cospicuo importo dell’Otto per Mille che percepisce dallo Stato attraverso il gettito fiscale dei contribuenti, per coprire tutti i preti con una polizza sanitaria stipulata con la Cattolica Assicurazione? La Conferenza Episcopale lo ha fatto per un motivo molto semplice: perché nel tempo sono stati non pochi i preti che navigando in situazioni economiche tutt’altro che floride, sono morti prima di riuscire ad avere una visita specialistica o prima di fare delle analisi cliniche. E coloro che non avevano fratelli o sorelle di buon cuore che li hanno assistiti, sono andati incontro ad una brutta morte dimenticati nella corsia di un reparto di geriatria dall’esercito di persone che per tutta la vita loro hanno assistito come dei veri padri premurosi.

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    Vigili del Fuoco dello Stato della Città del Vaticano nel cortile di San Damaso

    Ma veniamo ai “tariffari” per i quali si è levato solenne da Santa Marta l’ennesimo grido di disappunto che ha sortito l’effetto di far passare il Santo Padre per giusto castigatore dei cattivi costumi del clero, ed i suoi preti per degli irredimibili sporcaccioni. È vero: molte diocesi hanno stabilito non dei prezzari, ma delle offerte minime da lasciare alle parrocchie in occasione di certe celebrazioni, ad esempio per i matrimoni. E sulla parola “matrimoni” apriamo adesso il capitolo dolente …

    … il Santo Padre lo sa che cosa è, specie da Roma in giù, un matrimonio? Il Santo Padre, così preoccupato di un non meglio precisato popolo che si scandalizza, è informato che nessuno si scandalizza invece che una sposa spenda di media non meno di 1.000 euro solo per l’acconciatura del parrucchiere, che il servizio del fotografo costa di media sui 1.500 euro, stampa delle foto ed album del matrimonio escluse, che la ripresa filmica del matrimonio ammonta a circa 3.000 euro? È informato, il Santo Padre, che certe spose entrano in chiesa con un vestito che costa 10.000 euro e che sarà indossato solo quella volta e poi mai più? È informato il Santo Padre che certi sposi spendono tra i 5.000 ed i 10.000 euro per le sole bomboniere da regalare a invitati ed amici e che organizzano pranzi di nozze per una media di 150/250 invitati al costo di 80/100 euro a persona, ammontanti all’incirca a 15.000/25.000 euro per il solo pranzo di nozze? È informato il Santo Padre che certi sposi spendono 5.000 euro solo per cinque minuti di fuochi artificiali?

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    Un mezzo dei Vigili del Fuoco dello Stato della Città del Vaticano davanti al Papazzo del Governatorato

    Ma soprattutto, il Santo Padre, è mai stato informato da qualche esponente di questo popolo scandalizzato dai preti, che le persone che fanno queste spese folli, che dentro le chiese facevano attaccare ai cineoperatori fari a giorno che succhiavano corrente a vortice, al povero parroco sottoposto tra l’altro a spese e consumi, non dicevano neppure «grazie!»? E lo sa, il Santo Padre, perché molti degli esponenti di questo popolo scandalizzato dai preti, che pure per un matrimonio hanno speso l’equivalente del costo d’acquisto di un appartamento, non dicevano neppure «grazie!»? Semplice il motivo: ma perché … «la Chiese deve!» e «i preti non devono chiedere niente», anzi «dovrebbero essere poveri».

    Ecco perché giustamente molte diocesi hanno stabilito delle quote minime di offerta da lasciare alla parrocchia in occasione della celebrazione di certi Sacramenti, soprattutto per i battesimi ed i matrimoni. E non l’hanno fatto perché i preti sono assatanati di soldi ma per evitare che certi parroci, dinanzi a persone che per un matrimonio hanno bruciato 100.000 euro di spese, non riconoscessero al prete neppure la dignità riconosciuta anche all’ultimo parrucchiere gay che gioca a fare il grande stilista acconciatore, lasciando al primo anche la mancia per il ragazzo di bottega, ed al secondo, ossia al brutto e sporco prete, cattivo e affamato di soldi, la bolletta della luce della chiesa da pagare, ed ancora ripeto: senza neppure un «grazie», perché «la Chiesa deve» e perché «i preti dovrebbero essere poveri».

    Domandi il Santo Padre a molti parroci, quante volte è accaduto che gli sposi hanno dato 1.000 euro in compenso a organista, violinista e soprano, mentre al parroco o al rettore della chiesa che ha osato dirgli: «Ma una piccola offerta per le spese di mantenimento della chiesa, la volete lasciare?», hanno risposto andando a dire in giro per mezzo mondo che «il prete ha osato chiedere persino i soldi». E chiudiamo qua il discorso, senza toccare neppure la voce spese dei fioristi per l’addobbo della chiesa.

    Queste le persone, questo il popolo che si scandalizza e che ancora una volta ha trovato autorevole voce di protesta e di condanna verso i preti da parte del Santo Padre che pare davvero intenzionato a piacere a tutti, soprattutto ai non cattolici, meno che ai suoi devoti e fedeli servitori, ai quali dispensa periodiche frustate che non hanno né la profondità, né l’amore, né lo spessore pastorale di una enciclica scritta in toni decisi e duri, ma veramente e profondamente amorevoli, come la Ad catholici sacerdotiidel Sommo Pontefice Pio XI [vedere qui]. Certe “pastorali” del Santo Padre Francesco sembrano fatte più per piacere e compiacere tutti gli irriducibili anticlericali di questo mondo, anziché risultare preziose ed efficaci per la correzione del clero, che specie di questi tempi non è affatto esente da inadeguatezze, errori e vizi d’ogni mala sorta, avarizia e attaccamento al danaro inclusi.

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    Cari Parroci, indirizzate le bollette della luce e del gas delle vostre chiese al Sommo Pontefice Francesco,Domus Sanctae Martae, Città del Vaticano

    Alla fine dello scorso inverno un mio confratello, parroco di una chiesa del nord dell’Italia, dove il clima invernale è particolarmente duro, mi disse con grande preoccupazione: «… ad aprile ho chiesto un prestito alla banca per pagare il gas del riscaldamento». Questo santo uomo di Dio, con una temperatura spesso al di sotto dello zero, nella propria canonica teneva il riscaldamento spento ed aveva messo una brandina nella grande cucina dove c’era una vecchia stufa a legna; e lì in pratica viveva d’inverno, bruciando la legna da lui stesso raccolta in giro con le sue mani. Però teneva acceso il riscaldamento della chiesa per riscaldare i fedeli e quello delle due sale parrocchiali dove facevano il catechismo i bambini. Anche i genitori di quei bambini che andavano al catechismo facevano parte del popolo scandalizzato di cui parla il Santo Padre nella sua nuova omelia ad effetto; ed anche loro, per festeggiare la Prima Comunione dei loro bimbi, hanno speso tanto e quanto hanno voluto, ma nessuno si è però domandato se il parroco aveva o no i soldi per pagare la bolletta del gas, sempre sulla base del solito principio: «La Chiesa non deve chiedere ma solo dare» … «i preti devono essere poveri» … e poi, è lo stesso Santo Padre che animato da grande anelito ha detto subito: «Ah, come vorrei una Chiesa povera per i poveri» [vedere qui] …

    … e lo stesso Santo Padre concedeva poco tempo dopo “in affitto” la Cappella Sistina in uso alla Porsche per un evento di beneficienza a favore dei poveri [vedere qui]. Anche in questo caso sorge però una domanda: i parroci delle parrocchie povere che non hanno a loro disposizione una Cappella Sistina da dare in affitto a ricchi privati per scopi benefici al fine di ricavarne danaro per le mense dei poveri, potrebbero ricavare qualche cosa affittando le loro chiese, per esempio a …

    A questo mio confratello che domandò un prestito alla banca per pagare il gas usato in inverno per riscaldare i fedeli ed i loro figli ed a tutti i non pochi sacerdoti che vivono certe situazioni di disagio economico, vorrei lanciare sia un’idea pertinente sia un appello: quando vi arriva una bolletta della luce o del gas che non riuscite a pagare, mandatela alla Domus Sanctae Martae indirizzata a Sua Santità il Sommo Pontefice Francesco accompagnata da questo biglietto: «Siamo i preti della Chiesa povera per i poveri e non abbiamo i soldi per pagare la bolletta della luce e del gas della chiesa, quindi rimettiamo il pagamento direttamente alla Sede Apostolica».

    Copertina - Ariel S. Levi di Gualdo - prete disoccupato
    Prete disoccupato, omelie sul Vangelo [chi lo desidera può anche richiederlo scrivendo a isoladipatmos@gmail.com]

    Chi legge certi miei scritti e certi miei libri, vi troverà indicato e spiegato, ed in modo anche molto severo, quanto sia per sua natura devastante un prete attaccato al danaro, un prete avido e avaro, un prete non generoso, un prete nato in una famiglia povera entrato in seminario con le pezze attaccate addosso e mantenuto agli studi dal buon cuore della diocesi e dei benefattori, che alla sua morte lascia eredità milionarie agli amati nipoti; e chi vuole approfondire questo discorso può procurarsi il mio libro «Prete disoccupato, omelie sul Vangelo» [vedere qui], ed andare a leggere l’omelia nella quale parlo dell’obolo della vedova e nella quale le mie critiche a certi malcostumi economici e finanziari del clero sono precise e severe, ma con una differenza: sono fatte con spirito pastorale e mirate a indurre certi miei confratelli alla riflessione ed alla salvezza delle proprie anime, non sono mirate a far sì che la anticlericale Repubblica o che la massonica Stampa esaltino certe sparate a zero fini purtroppo a se stesse. Detto questo devo però vedere, analizzare e parlare di tutti i risvolti della situazione, senza sorvolare sulla mancanza di generosità da parte di certi fedeli o presunti tali, che per organizzare le feste che seguono alla celebrazione di certi Sacramenti spendono somme di danaro davvero scandalose e che al tempo stesso, se non sono richiamati od obbligati a farlo, non lasciano neppure un centesimo alla chiese parrocchiale per le molte spese che questa deve sostenere, anzi, come già ho detto: con rara strafottenza non ti dicono neppure grazie … 
    … ebbene mi domando e domando, a questi fedeli o pseudo tali, il Santo Padre non intende proprio tirare le orecchie, impegnato com’è a tagliarle invece direttamente a noi preti?

    Esercitando la libertà riconosciuta ai figli di Dio e concessa anche ai sacerdoti, in questo mio articolo ho sollevato tutte le perplessità del caso sul Sommo Pontefice che si esprime a mezze frasi od attraverso frasi non sempre felici come dottore privato; e che come tale è criticabile con tutto il più profondo e devoto rispetto, senza che mai la sua apostolica autorità sia messa minimamente in discussione, ed in specie quando parla come supremo custode del deposito della fede, che è naturalmente tutt’altra cosa, rispetto ai predicozzi confezionati per la gioia ed il gaudio della stampa laicista, anticlericale e massonica, forse per la presumibile opera ed il devastante suggerimento di qualche “stratega” gesuita che lo consiglia a dir poco male?






    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.989
    Sesso: Femminile
    00 11/03/2015 13:38

      Reggente Penitenzieria: preti stiano più nel confessionale




    Papa Francesco si confessa in San Pietro - AFP





    09/03/2015 



    Presso il Palazzo della Cancelleria, a Roma, si svolge dal 9 al 13 marzo il 26.mo Corso sul foro interno della Penitenzieria Apostolica. Il 12 marzo, alle ore 12.00 è prevista l’udienza con il Papa. Tra i temi in esame, la corretta amministrazione del Sacramento della Penitenza, i suoi aspetti canonici, morali e liturgico-pastorali, ma anche i doveri e diritti dei penitenti, etica e genetica. A questo proposito, Fabio Colagrande ha intervistato mons. Krzysztof  Nykiel, reggente della Penitenzieria Apostolica:


    R. - Da più di un quarto di secolo durante il periodo quaresimale, che è propriamente il tempo liturgico della riconciliazione e della conversione, la Penitenzieria Apostolica organizza questo Corso perché siamo profondamente convinti che la valorizzazione del ministero penitenziale, soprattutto della confessione, dipende in gran misura anche dai sacerdoti e dalla loro consapevolezza di essere depositari di un ministero prezioso e insostituibile. Il nostro Dicastero, accogliendo i continui inviti che ci vengono da Papa Francesco ad essere misericordiosi e a non avere paura di confidare  nella divina misericordia, intende sottolineare l’importanza che ha per la vita di ogni cristiano il Sacramento della Riconciliazione che, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, “offre una nuova possibilità di convertirsi e di recuperare la grazia della giustificazione. I Padri della Chiesa presentano questo sacramento come “la seconda tavola [di salvezza] dopo il naufragio della grazia perduta”(cfr. CCC., n. 1446). In questa prospettiva, costituisce senz’altro una delle priorità pastorali, specialmente per i presbiteri in cura d’anime, quella di trascorrere sempre più tempo nel confessionale perché, mediante l’amministrazione di questo sacramento, si hanno tante opportunità per formare rettamente la coscienza dei credenti aiutandoli ad accogliere Cristo nei loro cuori e ad aprirsi alla Sua Presenza sempre capace di trasformare, convertire e fare nuove tutte le cose.
    Ogni attività pastorale deve saper orientare al confessionale, nel quale, prima e meglio di ogni azione umana, agisce la potenza della grazia che, liberandoci da ogni male, ci restituisce sempre di nuovo la dignità di figli di Dio e membri della Chiesa.
    Pertanto, destinatari del Corso sono i novelli sacerdoti, i diaconi e i candidati al sacerdozio che frequentano l’ultimo anno del curriculum formativo degli studi in vista del presbiterato.
    Oggetto particolare del corso sono temi di teologia morale e di diritto canonico, aspetti pastorali e liturgici, condizioni e situazioni particolari di penitenti … Alcune conferenze, altresì, saranno dedicate alle informazioni necessarie per redigere e inviare le domande o i ricorsi da sottoporre alla Penitenzieria Apostolica circa le materie esclusivamente a essa riservate o che utilmente possono essere a essa inoltrate. Ogni giorno i partecipanti possono pur sempre presentare domande di approfondimento ai diversi relatori che si avvicenderanno durante i giorni del Corso.

    D. - Lei ha poc’anzi che “ogni attività pastorale deve orientare al confessionale” … ma oggi in diversi paesi soprattutto della nostra Europa cristiana molti fedeli disertano il confessionale. Ci può spiegare quale, secondo Lei, il motivo?

    R. - E’ vero. In molti paesi europei pochi sono i fedeli che si accostano con frequenza al sacramento della confessione. Il motivo, secondo me, è da ricercarsi nella diffusione - soprattutto tra i giovani - della perdita del senso del peccato. La causa principale di tale perdita è da individuare fondamentalmente nell’estromissione di Dio dall’orizzonte culturale moderno. Molte persone non mettono più Dio al centro della loro vita.
    Non gli riconoscono il primato che gli spetta. Le diverse correnti del pensiero moderno (relativismo, ateismo, idealismo, materialismo), proclamando l’assolutizzazione della ragione umana, hanno portato ad una cancellazione di ogni responsabilità morale ed etica. Tutto è lecito. Tutto è permesso. La “mia personale opinione” è la sola verità.
    Siamo come avvolti da un atmosfera amorale, non esistendo più la frontiera tra vizio e virtù, tra ciò che è buono e ciò che non lo è, tra bene e male. A tal proposito, vorrei ricordare ciò che il Papa emerito Benedetto XVI ha affermato durante la recita dell’Angelus del 13 marzo 2011: “se si elimina Dio dall’orizzonte del mondo, non si può parlare di peccato. Come quando si nasconde il sole, spariscono le ombre; l’ombra appare solo se c’è il sole; così l’eclissi di Dio comporta necessariamente l’eclissi del peccato. Perciò il senso del peccato – che è cosa diversa dal “senso di colpa” come lo intende la psicologia – si acquista riscoprendo il senso di Dio” (cfr. Benedetto XVI, Angelus del 13 marzo 2011).
    Davvero allora possiamo affermare che la colpa più grave di oggi è quella di non sentirsi peccatori e, quindi, non sentire il bisogno di ritornare a Dio, di convertirsi a Lui, di sperimentare la bellezza del Suo perdono. E’ questa difficoltà dell’uomo moderno a riconoscere il peccato e il perdono che spiega, alla radice, anche le difficoltà della pratica cristiana della confessione o riconciliazione. La Chiesa, allora, oggi più che mai è chiamata a rilanciare la remissione dei peccati e l’annuncio della Divina Misericordia, sempre più grande di ogni peccato, come parte fondamentale della sua azione pastorale e missionaria. Questa riscoperta non può non avvenire  attraverso il sacramento della Penitenza che più di ogni altro sacramento rivela la grandezza, la sublimità e la bellezza dell’amore misericordioso di Dio che è un amore, come ha scritto San Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dives in misericordia, “più potente della morte, più potente del peccato e di ogni male, che solleva l'uomo dalle abissali cadute e lo libera dalle più grandi minacce” (n. 13).

    D. - Ma in che modo il Corso sul Foro interno, che è indirizzato soltanto ai sacerdoti, può aiutare tutti anche e soprattutto i christifideles laici nella riscoperta e valorizzazione del sacramento della penitenza?

    R. - Grazie per questa domanda che mi consente di precisare un obiettivo molto importante che ogni anno la Penitenzieria si prefigge di raggiungere mediante il Corso che è, appunto, quello di formare sacerdoti che siano sempre più apostoli e missionari della misericordia di Dio. Il nostro Corso ha come fine spirituale e pastorale quello di suscitare nei sacerdoti la consapevolezza di quanto il sacramento della confessione sia indispensabile per il cammino di santificazione personale e per quello dei fedeli laici che sono affidati alle loro cure pastorali.
    Se un sacerdote ha coscienza della sublimità del sacramento della penitenza, se egli stesso sa riconoscersi peccatore e bisogno continuamente della misericordia di Dio, allora Egli saprà trasmettere questa medesima convinzione a tutti coloro che il Signore ha affidato al suo cuore di pastore e di guida delle anime. La valorizzazione del ministero penitenziale, soprattutto della confessione, dipende molto dai sacerdoti e dalla loro consapevolezza di essere depositari di un ministero prezioso e insostituibile. I sacerdoti sono principalmente gli strumenti della Divina Misericordia. E’ Dio stesso, infatti, che perdona la colpa quando il confessore assolve il fedele che con animo sinceramente contrito si accosta al confessionale. Ogni confessore, dunque, è “educatore di misericordia” perché deve essere capace di aiutare i penitenti a fare una concreta esperienza della Misericordia di Dio. Il Corso sul Foro intende aiutare i sacerdoti ad essere “buoni educatori” di misericordia, degli ottimi pedagoghi che conducono a Cristo! Educare alla misericordia è uno degli aspetti più significativi della vita cristiana che si inserisce nell’orizzonte più ampio, non solo della pastorale della Chiesa, ma delle sfide che caratterizzano il nostro tempo.

    D. - Eccellenza, ci pare di capire dalle Sue risposte che il confessionale è un “passaggio obbligatorio” nel cammino di santificazione personale ed ecclesiale … Ci spieghi meglio il perché …

    R. - Certamente.  Come sappiamo, l’uomo può scegliere di commettere il male, ma da solo non se ne può liberare. Solo Dio ha il potere di eliminare il peccato del mondo. Solo Lui ci può redimere e salvare. E Dio esercita questo “Suo potere di perdono e di misericordia” attraverso il Sacramento della Penitenza  che “Cristo ha istituito” – come ricorda sempre il già citato Catechismo della Chiesa Cattolica -  «per tutti i membri peccatori della sua Chiesa, in primo luogo per coloro che, dopo il Battesimo, sono caduti in peccato grave e hanno così perduto la grazia battesimale e inflitto una ferita alla comunione ecclesiale (cfr. CCC., n. 1446).
    Per i cristiani battezzati l’unico modo per ricevere l’assoluzione dei peccati ed avere così la certezza che Dio ci ha veramente perdonato passa attraverso il Sacramento della Riconciliazione. Infatti, coloro che “si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui; allo stesso tempo si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l'esempio e la preghiera” (cfr. Lumen Gentium, n. 11). Come ha ribadito Papa Francesco durante l’udienza generale del 19 febbraio 2014, tutta incentrata sul sacramento della riconciliazione, “Io non posso dire: mi perdono i peccati. Il perdono si chiede, si chiede a un altro e nella Confessione chiediamo il perdono a Gesù.
    Il perdono non è frutto dei nostri sforzi, ma è un regalo, è un dono dello Spirito Santo, che ci ricolma del lavacro di misericordia e di grazia che sgorga incessantemente dal cuore spalancato del Cristo crocifisso e risorto” (cfr. Papa Francesco, Udienza generale del 19 febbraio 2014). Ecco spiegato in questo passaggio del discorso del Papa la vera motivazione per cui senza sacramento della confessione non ci può essere vera conversione e santificazione. Anzi aggiungo di più: senza sacramento della confessione non ci può essere vera carità. Solo chi ha sperimentato la misericordia di Dio può provare compassione e carità nei confronti del prossimo.

    D. - Eccellenza, il Corso si conclude anche quest’anno con la celebrazione penitenziale presieduta dal Santo Padre nella Basilica di san Pietro che inaugura l’iniziativa pastorale “24 con il Signore” … ci può illustrare brevemente come si svolgerà la celebrazione?

    R. - E’ una grande gioia per la Penitenzieria Apostolica concludere il Corso sul Foro interno con la Celebrazione Penitenziale presieduta da Papa Francesco venerdì 13 marzo p. v. nella Basilica Vaticana e che darà l’avvio all’iniziativa “24 ore per il Signore” che prevede per tutta la notte la confessione e l’adorazione eucaristica in alcune chiese del centro di Roma e che è stata estesa a tutte le diocesi e le parrocchie del mondo perché si dedicassero momenti particolari per promuovere il Sacramento della Riconciliazione. Siamo davvero grati al Santo Padre per i suoi continui richiami a non aver paura di accostarsi al sacramento della riconciliazione perché Dio è felice di perdonarci e di accoglierci come suoi veri figli. La Penitenzieria Apostolica metterà a disposizione per l’amministrazione del Sacramento della Confessione, durante la suddetta celebrazione penitenziale, ben 60 confessori di cui la maggior parte sono costituiti dai Penitenzieri ordinari e straordinari delle Basiliche Papali dell’Urbe, ai quali si aggiungono lo stesso Cardinale Penitenziere Maggiore, il Reggente e gli officiali sacerdoti del Dicastero. Sarà un forte momento di grazia e un occasione favorevole per riflettere la nostra chiamata alla conversione, a cambiare vita e mettere l’amore di Dio al centro del nostro cuore.


    Celebrazione della Penitenza [13 marzo 2015]: Libretto



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 19/03/2015 14:29

      Un sacerdote risponde

    Fra i dispiaceri che fanno parte della nostra vita di sacerdoti vi è l’incomprensione (che poi degenera nel disprezzo, nella calunnia ecc) e ora anche la figura di Papa Francesco diventa pretesto per accusarci

    Quesito

    Sono un parroco di un piccolo paese.
    Fra i dispiaceri che fanno parte della nostra vita di sacerdoti vi è l’incomprensione (che poi degenera nel disprezzo, nella calunnia ecc) a causa di alcuni “No” che in coscienza si devono devo dare. 
    Mi riferisco alla solita questione dei sacramenti agli irregolari. Questo diventa a volta drammatico e fonte di discussioni e di litigi in occasione della celebrazione della prima Comunione, dove alcuni genitori divorziati risposati, sposati civilmente, ecc. “pretendono” di ricevere a loro volta la comunione in quel giorno, perché si sentono discriminati rispetto agli altri. La comunione forse non sanno che sia, non ci credono neppure,  e in altre situazioni non avrebbe nessuna attrattiva per loro, ma in quel caso diventa una “rivendicazione” e una fonte di litigi e incomprensioni a non finire. 
    Chiaro che tu lo spieghi in bei modi, motivi il perché del tuo ‘no’... Tutto inutile. Ora ci si mette pure papa Francesco che predica “apertura” “disponibilità” “accoglienza” a questi fratelli (quanto mai è stato il contrario?) … ma non chiarisce che non è in potere di nessun uomo, fosse anche papa, cambiare la volontà di Cristo nel vangelo  che a riguardo dell’indissolubilità del matrimonio è netta e non ammette dubbi. Il fatto che, certa gente ti sbatta sul muso “Papa Francesco” così grande, così aperto, così innovativo e non come te: “chiuso, ottuso, retrogrado, incapace” è stato avvertito da altre confratelli, in confessionale e non. E’ un equivoco, è chiaro, ma farne le spese siamo noi parroci che quotidianamente dobbiamo affrontare e sostenere queste situazioni che ci portano a dire dei sofferti ‘no’ controcorrente in nome della verità e della fedeltà al Signore. Forse sarebbe bene che qualcuno lo facesse sapere al papa di questo disagio di noi parroci e di questi equivoci che si stanno creando, e forse lui stesso dica una parola chiarificatrice. 
    Mi aiuti padre, sono davvero stanco e avvilito. Ho pensato talvolta, per evitare questo spiacevole inconveniente, in quel giorno, di dare la comunione solo ai bambini e a nessun altro (“Muoia Sansone e tutti i filistei”) ma non so se è la soluzione migliore…. Grazie saluti. 
    Don  P.


    Risposta del sacerdote

    Caro don P.,
    1. comprendo bene l’amarezza di tanti sacerdoti che oltre alla sofferenza per molti che si allontanano dalla casa del Signore ne ricevono anche il disprezzo, come se da loro dovessero imparare a fare il sacerdote, a fare il parroco.
    E in maniera molto sommaria accusano di non essere conformi all’insegnamento e al comportamento di Papa Francesco, che è aperto, va incontro alla gente, ecc…
    La tua non è un’esperienza isolata, ma abbastanza comune.

    2. Che dire di questa situazione?
    Benedetto XVI, prima di lasciare il governo della Chiesa e salutando i parroci di Roma, aveva fatto un grande discorso, che valeva un’enciclica. Aveva distinto tra Concilio reale e Concilio virtuale.
    Il Concilio reale è quello che è stato celebrato ed è quello il cui spirito trasuda dai testi emanati e che sono a disposizione di tutti.
    Il Concilio virtuale è quello fatto dai media, che hanno imposto un’altra immagine del Concilio, un’altra dottrina e un altro magistero che non corrispondono al Concilio reale. Ma alla fine, proprio per la potenza dei media, si è imposto il Concilio virtuale su quello reale.
    Mi pare che si possa dire più o meno la stessa cosa tra il papa Francesco vero e il papa Francesco virtuale e che di fatto presso la gente, soprattutto presso i più fragili e più lontani che dell’insegnamento di Papa Francesco non ne ascoltano e non ne mettono in pratica una parola (l’unica cosa che sanno dire è questa: “è il papa che dice buona sera, buon pranzo!”), si sia imposto papa Francesco virtuale.

    3. Ma Papa Francesco diverse volte ha detto che anche lui “è figlio della Chiesa” e cioè che è obbediente al deposito della fede e al Magistero della Chiesa, a quel deposito che ha ricevuto perché lo custodisca e lo trasmetta intatto.
    Quando gli è capitato, ha avuto occasione di dire che la dottrina della Chiesa non muta.
    Su questo punto non dobbiamo avere alcun timore per un duplice motivo: primo, perché ha manifestato pubblicamente questa sua volontà.
    Secondo, perché siamo certi che Colui che ha detto “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli…. insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20) continuerà ad assistere la sua Chiesa anche nel suo Magistero perché trasmetta in maniera fedele agli uomini le verità che Egli ci ha insegnato e ci ha comandato di osservare.
    È interessante quell’insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato, perché qui il Signore in maniera molto chiara fa riferimento non solo alle verità di fede, ma anche alle verità di morale, che sono le vie che di fatto e concretamente ci conducono a Lui, al cielo.

    4. Nel frattempo ci stiamo abituando a conoscere Papa Francesco, che nel suo modo di presentarsi, di parlare e di agire è certamente diverso dai suoi predecessori.
    Anche i suoi predecessori avevano ognuno una personalità e un carisma proprio. 
    Certamente erano marcatamente diversi l’uno dall’altro.
    Ma rimanevano tutti entro un certo stile o filone al quale eravamo assuefatti e che inconsapevolmente eravamo portati a identificare con l’essere Papa.
    Papa Francesco è al di fuori di questo stile e col suo comportamento, con i fatti più ancora che con le parole, distingue bene ciò che è Magistero e ciò che è connotazione personale.

    5. Di papa Francesco è evidente il fervore evangelico e l’ansia di andare a ricuperare le molte pecore perdute.
    Vuole che tutti gli uomini – soprattutto i più lontani - non si sentano respinti da Dio, che si è incarnato proprio per accoglierli, per curarne le ferite e portarli alla comunione con Sé.
    Conseguentemente vuole che non si sentano respinti neanche dalla Chiesa, che è il prolungamento di Cristo, della sua opera evangelizzatrice e della sua misericordia.
    Questo tutti l’hanno capito e di questo tutti siamo contenti.

    6. Rimane il problema pastorale degli irregolari, acuito dal “Papa Francesco virtuale”, e cioè da quello presentato dai media, come il papa che dice di dare la Comunione a tutti quelli che la chiedono, anche se come dici tu, “la comunione forse non sanno che sia, non ci credono neppure,  e in altre situazioni non avrebbe nessuna attrattiva per loro, ma in quel caso diventa una “rivendicazione” e una fonte di litigi e incomprensioni a non finire”.
    Mi dici che sei tentato da un’opzione radicale, ma della quale avverti subito che forse che non è la strada giusta: dare la Comunione solo ai bambini e non agli adulti.

    7. Secondo me sarebbe necessario percorrere una duplice strada.
    La prima è a livello catechetico: non tanto in riferimento ai bambini (di cui si presuppone o si spera che abbiano imparato la dottrina), quanto piuttosto per gli adulti, per i genitori e i parenti dei bambini della prima Comunione.
    In genere tutti i parroci si preoccupano di fare almeno un incontro con loro per prendere accordi per tanti problemi pratici relativi alla festa.
    Bisognerebbe cogliere l’occasione per far capire ai genitori di che cosa si tratta, partendo dai primi due requisiti che il Catechismo indica per poter fare bene la Santa Comunione.

    8. Il primo di questi requisiti consiste nell’essere in grazia di Dio.
    Molti genitori “irregolari” che rivendicano di poter fare la Santa Comunione almeno in quel giorno non sanno che cosa sia la grazia.
    Allora è necessario spiegare che cosa è la grazia santificante e che per godere della presenza della grazia è necessario osservare i comandamenti del Signore secondo le parole di Gesù: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (Gv 14,23).
    E che prima di mangiare di quel “Pane” è necessario esaminare se stessi secondo le parole della Sacra Scrittura: “Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti” (1 Cor 11,27-30).
    Credo che sia necessario avere il coraggio di ripetere anche queste parole di San Paolo: non per privarli di qualcosa, ma per premunirli, per il loro bene.

    9. Il secondo di questi requisiti è il seguente: “sapere e pensare chi si va a ricevere”.
    Si richiede pertanto di vivere bene la Comunione col Signore, di stare insieme con Lui nel raccoglimento e nella preghiera.
    In particolare si richiede di ringraziare il Signore per il grande dono che ci fa per mezzo della Santa Comunione e dell’occasione privilegiata di domandare grazie per sé, per i propri cari vivi o defunti, per la Chiesa, per il mondo intero.

    10. La seconda strada da percorrere è a livello pratico.
    Se una volta si poteva dire ai bambini della prima Comunione che il più bel regalo che i genitori avrebbero potuto fare loro in quella  circostanza sarebbe stata la Santa Comunione (e per molti genitori era un’occasione opportuna per riavvicinarsi alla confessione e alla Comunione), adesso, a motivo dello stragrande numero di irregolari, questo invito non si può e non si deve fare.
    In riferimento a questo in alcune parrocchie si era presa l’abitudine di comunicare prima il figlio e subito dopo i genitori che gli stavano accanto (o dietro) e poi passare al successivo bambino.
    Questa prassi di fatto metteva in risalto chi non poteva fare la Comunione. Anzi, che era necessario “saltarlo”.
    E così agli occhi altrui - in riferimento ai bambini - emergeva quella che poteva sembrare una discriminazione e un’offesa o dispiacere recato ai bambini proprio in quel giorno indimenticabile.
    Ricordo invece che quando io ho fatto la prima Comunione i bambini stavano davanti in semicerchio e i genitori stavano confusi tra la gente. Nessuno poteva verificare se l’uno o l’altro si accostava al Sacramento e così la possibile e odiosa discriminazione era del tutto neutralizzata.

    11. Ecco, caro don P., quello che mi sono sentito di suggerire.
    Come vedi, aveva ragione San Paolo a dire: “noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28).
    Tutto è disposto dal Signore sempre per il meglio.
    Ti assicuro la mia preghiera perché il Signore ti sostenga nelle fatiche, nelle delusioni, nelle incomprensioni e nella mancanza di sostegni umani.

    Ti auguro ogni bene e un fruttuoso lavoro nella vigna del Signore.
    Padre Angelo





    Comunicato della Conferenza Episcopale dei vescovi polacchi sulla comunione ai divorziati "risposati"

     
    Riprendiamo da Toronto Catholic witness [qui] by Rorate Caeli.
    In relazione all'articolo precedente sull'eco internazionale delle dichiarazioni dei Cardinale Burke e Tagle in Inghilterra, registriamo anche le posizioni pubbliche di distanza formale dalla tesi sinodale del Card. Kasper da parte dei Vescovi polacchi.
    I fronti si vanno delineando. Non dimentichiamo che la problematica del matrimonio e della famiglia non è l'unica questione in discussione, ma è quella attorno alla quale e dalla quale sono stati lanciati segnali rivoluzionari di portata ben più ampia e generale.
    Aggiungo alle informazioni che ricaviamo dal testo tradotto che la plenaria dei vescovi polacchi tocca la questione di cui stiamo parlando al punto 3. mentre negli altri punti esamina anche svariati problemi non solo di etica (eutanasia, fecondazione in vitro, aborto) ma anche la persecuzione dei cristiani in tante parti del mondo, la situazione al loro confine orientale (l'Ucraina), le migliaia di sacerdoti polacchi vittime a Dachau, verso cui preparano un Pellegrinaggio in occasione dei 70 anni dalla liberazione del campo. (M.G.)


    I Vescovi della Conferenza Episcopale polacca nella riunione plenaria annuale (368) hanno respinto formalmente la "proposta-Kasper" di dare la comunione ai cattolici sposati sacramentalmente, che vivono seconde "unioni" illecite e peccaminose.
    Nell'affermare formalmente la loro posizione, i Vescovi polacchi rifiutano totalmente il Partito in favore dell'adulterio di cui alla scandalosa ed eretica relatio di medio-termine dello scorso ottobre 2014, e si pongono dalla parte di Nostro Signore Gesù Cristo e della sua dottrina della indissolubilità del santo matrimonio.

    In tal modo, i Vescovi rimangono fedeli alla Familiaris Consortio che si limita a ribadire l'immutata e immutabile verità sul matrimonio cristiano che nessun uomo, anche se si tratti del Papa può cambiare. San Giovanni Paolo II ha ribadito in un discorso alla Rota Romana[cito per esteso in nota 1 per comodità di chi legge] che nessun Papa ha l'autorità di modificare la dottrina della Chiesa. Il Papa è il Pastore universale, tenuto solennemente sotto pena di peccato grave a sostenere gli insegnamenti dell'Unico Cristo e dell'unica Chiesa.

    Dal Comunicato della Conferenza episcopale polacca [qui]: 
    [...] 3. In vista del prossimo Sinodo straordinario dei vescovi a Roma, i vescovi si sono assunti l'impegno di una riflessione sul matrimonio e sulla famiglia. Questa riflessione ha dimostrato l'importanza della famiglia dal punto di vista delle questioni filosofiche, teologiche e giuridiche.
    Una volta l'imprescindibile importanza del sacramento del matrimonio e della famiglia era collegata alla crescita della vita cristiana nella Chiesa.
    Essi hanno sottolineato la necessità di promuovere la pastorale delle famiglie, per rafforzare i fedeli nella comprensione e nell'attuazione del matrimonio sacramentale, inteso come unione sacra e indissolubile tra un uomo e una donna.
    L'insegnamento e la tradizione della Chiesa dimostra che le persone che vivono in unione non-sacramentale si privano della possibilità di ricevere la Santa Comunione.
    A chi vive in tali unioni deve essere garantita la cura pastorale perché possano essere in grado di mantenere la fede e rimanere nella comunità della Chiesa. La cura pastorale per le persone che vivono unioni non-sacramentali dovrebbe tener conto anche dei bambini, che hanno il diritto di partecipare pienamente alla vita e alla missione della Chiesa. [...]
    [Traduzione di Chiesa e post-concilio] 
    _____________________________
    1. Giovanni Paolo II, Discorso alla Rota Romana, 21 gennaio 2000, in AAS, 92 (2000), pp. 350-355 
    [...] Tuttavia, va diffondendosi l’idea secondo cui la potestà del Romano Pontefice, essendo vicaria della potestà divina di Cristo, non sarebbe una di quelle potestà umane alle quali si riferiscono i citati canoni [1099 - 1057], e quindi potrebbe forse estendersi in alcuni casi anche allo scioglimento dei matrimoni rati e consumati. Di fronte ai dubbi e turbamenti d’animo che ne potrebbero emergere, è necessario riaffermare che il matrimonio sacramentale rato e consumato non può mai essere sciolto, neppure dalla potestà del Romano Pontefice. L’affermazione opposta implicherebbe la tesi che non esiste alcun matrimonio assolutamente indissolubile, il che sarebbe contrario al senso in cui la Chiesa ha insegnato ed insegna l’indissolubilità del vincolo matrimoniale.

    7. Questa dottrina, della non estensione della potestà del Romano Pontefice ai matrimoni rati e consumati, è stata proposta molte volte dai miei Predecessori [Cfr. ad esempio, Pio IX, Lett. Verbis exprimere, 15 agosto 1859: Insegnamenti Pontifici, Ed. Paoline, Roma 1957, vol. I, n. 103; Leone XIII, Lett. Enc. Arcanum, 10 febbraio 1880: ASS 12 [1879-1880], 400; Pio XI, Lett. Enc. Casti connubii, 31 dicembre 1930: AAS 22 [1930], 552; Pio XII, Allocuzione agli sposi novelli, 22 aprile 1942: Discorsi e Radiomessaggi di S.S. Pio XII, Ed. Vaticana, vol. IV, 47]. Vorrei citare, in particolare, un’affermazione di Pio XII: “Il matrimonio rato e consumato è per diritto divino indissolubile, in quanto che non può essere sciolto da nessuna autorità umana [Can. 1118]; mentre gli altri matrimoni, sebbene intrinsecamente siano indissolubili, non hanno però una indissolubilità estrinseca assoluta, ma, dati certi necessari presupposti, possono (si tratta, come è noto, di casi relativamente ben rari) essere sciolti, oltre che in forza del privilegio Paolino, dal Romano Pontefice in virtù della sua potestà ministeriale” [Allocuzione alla Rota Romana, 3 ottobre 1941: AAS 33 [1941], 424-425.].
    Con queste parole Pio XII interpretava esplicitamente il canone 1118, corrispondente all’attuale canone 1141 del Codice di Diritto Canonico, e al canone 853 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, nel senso che l’espressione “potestà umana” include anche la potestà ministeriale o vicaria del Papa, e presentava questa dottrina come pacificamente tenuta da tutti gli esperti in materia. In questo contesto conviene citare anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, con la grande autorità dottrinale conferitagli dall’intervento dell’intero Episcopato nella sua redazione e dalla mia speciale approvazione. Vi si legge infatti: “Il vincolo matrimoniale è dunque stabilito da Dio stesso, così che il matrimonio concluso e consumato tra battezzati non può mai essere sciolto. Questo vincolo, che risulta dall’atto umano libero degli sposi e dalla consumazione del matrimonio, è una realtà ormai irrevocabile e dà origine ad un’alleanza garantita dalla fedeltà di Dio. Non è in potere della Chiesa pronunciarsi contro questa disposizione della sapienza divina” [N. 1640].

    8. Il Romano Pontefice, infatti, ha la “sacra potestas” di insegnare la verità del Vangelo, amministrare i sacramenti e governare pastoralmente la Chiesa in nome e con l’autorità di Cristo, ma tale potestà non include in sé alcun potere sulla Legge divina naturale o positiva. Né la Scrittura né la Tradizione conoscono una facoltà del Romano Pontefice per lo scioglimento del matrimonio rato e consumato; anzi, la prassi costante della Chiesa dimostra la consapevolezza sicura della Tradizione che una tale potestà non esiste. Le forti espressioni dei Romani Pontefici sono soltanto l’eco fedele e l’interpretazione autentica della convinzione permanente della Chiesa.
    Emerge quindi con chiarezza che la non estensione della potestà del Romano Pontefice ai matrimoni sacramentali rati e consumati è insegnata dal Magistero della Chiesa come dottrina da tenersi definitivamente, anche se essa non è stata dichiarata in forma solenne mediante un atto definitorio. Tale dottrina infatti è stata esplicitamente proposta dai Romani Pontefici in termini categorici, in modo costante e in un arco di tempo sufficientemente lungo. Essa è stata fatta propria e insegnata da tutti i Vescovi in comunione con la Sede di Pietro nella consapevolezza che deve essere sempre mantenuta e accettata dai fedeli.
    In questo senso è stata riproposta dal Catechismo della Chiesa Cattolica. Si tratta d’altronde di una dottrina confermata dalla prassi plurisecolare della Chiesa, mantenuta con piena fedeltà e con eroismo, a volte anche di fronte a gravi pressioni dei potenti di questo mondo.
    È altamente significativo l’atteggiamento dei Papi, i quali, anche nel tempo di una più chiara affermazione del primato Petrino, mostrano di essere sempre consapevoli del fatto che il loro Magistero è a totale servizio della Parola di Dio [474] e, in questo spirito, non si pongono al di sopra del dono del Signore, ma si impegnano soltanto a conservare e ad amministrare il bene affidato alla Chiesa.

    9. Queste sono, illustri Prelati Uditori ed Officiali, le riflessioni, che, in materia di tanta importanza e gravità, mi premeva parteciparvi. Le affido alle vostre menti e ai vostri cuori, sicuro della vostra piena fedeltà e adesione alla Parola di Dio, interpretata dal Magistero della Chiesa, e alla legge canonica nella più genuina e completa interpretazione.





    LE AVVENTURE DI GHEDDO
    Piero Gheddo
     

    Io ormai appartengo alla “terza o quarta età” e ho anche la fortuna di poter scrivere. Vi racconto tre esperienze che documentano, come dice il Papa, che «gli anziani sono una ricchezza». Ecco adesso che anch’io lo sono, posso dire di essere stato un uomo e un prete molto fortunato. Per almeno tre motivi.

    di padre Piero Gheddo

    Nell’udienza generale del 4 marzo scorso, papa Francesco ha parlato a lungo degli anziani e ha detto: «Gli anziani sono una ricchezza. Una civiltà si giudica dal come tratta gli anziani… andrà avanti se saprà rispettare la saggezza degli anziani. Una civiltà in cui non c’è posto per gli anziani, porta con sé il virus della morte». Io ormai appartengo alla “terza o quarta età” e ho anche la fortuna di poter scrivere. Lasciatemi dire tre esperienze della mia vita.

    A Tronzano Vercellese, una domenica del marzo 1929, mentre amezzogiorno rintoccavano le campane dell’Angelus, la maestra Rosa Franzi, moglie del geometra Giovanni Gheddo, dava alla luce il suo primogenito, Piero. Non è una notizia da internet, ma la comunico per condividere con gli amici lettori i sentimenti di un uomo che, sentendosi ancora giovane, compie 86 anni ritenendosi fortunato. Per tre motivi: 1) perché mamma e papà, e poi tutta la nostra “grande famiglia”, mi hanno trasmesso la fede e con i loro esempi lo spirito e la vita cristiana. Ho poi scoperto il valore salvifico della fede in Gesù Cristo, unico Salvatore dell’uomo e dell’umanità: la fede cambia il cuore, cambia la vita, comunica la gioia di vivere, anche nelle situazioni più difficili e dolorose; insomma, se la fede è autentica e porta all’imitazione di Gesù, diventa davvero il motore della vita umana. Perché Gesù Cristo è l’uomo nuovo secondo la volontà di Dio, che realizza tutte le aspirazioni umane e dell’umanità.

    Nel 1985 sono stato la prima volta in Giappone e mi è capitato di visitare la sede centrale della SokaGakkai, una setta derivata dal buddismo che pare abbia un buon seguito anche in Italia, con l’ex arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, il suo segretario e il mio confratello padre Pino Cazzaniga, allora in Giappone da circa vent’anni. La maestosa e imponente sede centrale della Soka Gakkai (che significa “Società creatrice di valori”), espressione del buddismo moderno, è una specie di Vaticano molto esteso con palazzi, giardini, case di abitazione, strutture per lo studio, la riflessione, gli incontri di massa. Tutto ricco e moderno, direi impressionante. I due dirigenti che accolgono e accompagnano il cardinale spiegano cosa è la Soka Gakkai ed esprimono concetti in gran parte condivisibili. Ma al termine della visita Martini ci diceva:«Il buddismo è interessante come tutto il mondo non cristiano al quale le missioni cattoliche annunziano Cristo, ma la sfida al cristianesimo e alla Chiesa cattolica si gioca soprattutto di fronte alla secolarizzazione, al relativismo, individualismo e ateismo consumistico della modernità. Tutti i popoli cercano Dio e anche i giapponesi, come gli altri popoli, faranno scelte come noi occidentali: saranno atei o cristiani». Per noi che abbiamo ricevuto la fede in Gesù Cristo, la nostra vita ha uno scopo preciso, impegnamoci a mantenerla con la preghiera e l’aiuto di Dio, perché è l’unica e vera ricchezza che abbiamo.

    2) Mi ritengo un uomo fortunato perché, quando i miei genitori si sono sposati nel 1928, hannopregato per avere tanti figli (papà diceva che ne volevano 12) e che almeno un figlio si facesse prete e una figlia suora; che poi non è venuta perché mamma Rosetta, dopo tre figli maschi (Piero, Francesco e Mario), è morta nel 1934 di polmonite e di parto: con i due gemellini di cinque mesi che in un paese, a quel tempo, non potevano essere salvati.  Dio mi ha chiamato fin da bambino e lo ricordo bene. Quando avevo 8-9 anni, a chi mi chiedeva cosa avrei fatto da grande rispondevo deciso: il prete! Gli adulti si stupivano, ma non ho mai avuto altra aspirazione nella vita e ne ringrazio Dio e i genitori. Oggi, a 86 anni e 62 di sacerdozio, posso dire che è bello fare il prete e quando mi capita dico ai ragazzi, ai giovani: se Dio ti chiama, non dirgli di no. Devi rinunziare a te stesso e darti tutto a lui. E ne ricevi in cambio la vita eterna e cento volte tanto tutto quello che hai lasciato per seguire il Signore.

    Perché è bello fare il prete? Perché sei nella condizione migliore per innamorarti di Gesù. Non hai piùproblemi di carriera, di soldi, diciamo anche di salute e di età che avanza: il prete non va mai in pensione, si sente sempre utile a tanti che cercano Dio. La fede non è solo intellettuale, è passione, innamoramento per Gesù Cristo e la Chiesa, per le persone che incontri alle quali porti la maggior ricchezza che abbiamo: la fede! Quanti santi preti ho incontrato nella mia vita che mi hanno aiutato a superare le mie passioni, le mie crisi e le mie sofferenze, perché quando sbagli e cadi nel peccato, il Signore ti fa sentire la sofferenza di essere lontano da Dio e ti perdona! Un esempio. Una delle peggiori crisi della mia vita è stata quando, nel 1994, dopo 40 anni di giornalismo missionario a Milano, il superiore generale del Pime, padre Franco Cagnasso, mi ha chiamato a Roma per scrivere la storia del Pime, che nel 2000 compiva 150 anni dalla fondazione. Cioè abbandonare Milano (le riviste, i viaggi, la rubrica di spiegare il Vangelo in Tv che avevo in RaiUno, ecc.) per andare a chiudermi in un archivio a Roma! 

    La richiesta del superiore, anche ai miei amici giornalisti, pareva un assurdo e ho avuto la fortetentazione di rispondere di no. Mi svegliavo di notte, mi son venuti un po’ di capelli bianchi e mi sono confidato col mio confessore, che mi ha detto deciso: «Ai superiori bisogna obbedire sempre». Poco dopo sono andato in Birmania, invitato dal vescovo mons. Abramo Than che voleva iniziare la Causa di beatificazione di padre Clemente Vismara e ho scoperto che anche lui aveva avuto una forte crisi per lo stesso motivo: nel 1955, dopo 32 anni di missione a Monglin, dove partendo da zero aveva fondato una cittadella cristiana e decine di villaggi di battezzati, il vescovo di Kengtung, mons. Ferdinando Guercilena, gli chiedeva di andare a Mong Ping, per ricostruire una missione partendo ancora quasi da zero. In una lettera al fratello esprimeva tutta la sua sofferenza e scriveva:« Però debbo obbedire, perché capisco che se faccio di testa mia, sbaglio». Questo mi ha convinto e ho poi sperimentato che iniziare un lavoro nuovo a 65 anni è stata la mia fortuna, sono ringiovanito!

    3) Mi ritengo un uomo fortunato per un terzo motivo. Durante l’ultima guerra mondiale (1940-1945), facevo le cinque classi del ginnasio nel seminario diocesano di Vercelli a Moncrivello. Attraverso le riviste missionarie (e le lettere di padre Vismara), ho scoperto le missioni. Dio mi ha chiamato a portare il Vangelo di Gesù a tutti i popoli della terra. Nel settembre 1945 sono venuto al Pime di Milano e ordinato sacerdote nel 1953 dal Beato cardinale Ildefonso Schuster. Ho poi visitato poco meno di 100 paesi nel Sud del mondo, incrociando guerre, terremoti, pericoli di vita (in Vietnam, Angola, Uganda, Somalia, Ruanda); ho sofferto la fame e la sete, dormito in capanne africane e indiane, con i topi che mi saltavano sulla brandina; ho passato una notte da solo nella foresta, chiuso nell’auto e circondato da animali feroci che si strusciavano contro quel mostro di ferro, immobile perché le ruote della pesante Bentley erano affondate nella sabbia e il mio taxista africano era corso in un villaggio vicino, ritornando però il mattino dopo con una decina di uomini.

    La mia vita è stata un’avventura che ho vissuto con passione, tante rinunzie ma anche soddisfazioniperché ho visto dove e come nasce la Chiesa, con le meraviglie dello Spirito Santo come negli Atti degli Apostoli.  Mi sono reso conto della verità di quanto diceva la grande Madre Teresa: «I popoli hanno fame di pane e di giustizia, ma soprattutto hanno fame e sete di Gesù Cristo». E aggiungeva: «La più grande disgrazia dell'India è di non conoscere Cristo». Giornali e televisioni non lo dicono, ma questa è la verità: il più grande dono che possiamo fare ai popoli è l'annunzio della salvezza in Cristo e testimoniarlo nella nostra vita. Ecco perché sono pieno di gioia: mi sento utile agli uomini perché ho scelto di testimoniare e annunziare Gesù Cristo, di cui tutti hanno bisogno. Quando ero giovane, chiedevo a Dio di darmi l'entusiasmo per la vocazione sacerdotale e missionaria, e il dono della commozione fino alle lacrime quando parlavo o scrivevo del sacerdozio, della missione, della vocazione alla vita consacrata. Adesso sono ormai nella terza età e chiedo a Dio di non far diminuire in me la passione per il Regno di Dio che ho sperimentato fino ad oggi.

    Sono pienamente d’accordo con don Primo Mazzolari, l'indimenticabile «tromba d'argento delloSpirito Santo nella Pianura padana» (così Giovanni XXIII), che ha scritto: «Se io non porto Cristo agli uomini sono un prete fallito. Posso fare molte cose buone nella vita, ma l'unica veramente indispensabile nella mia missione di prete è questa, comunicare il Salvatore agli uomini, che hanno fame e sete di Lui».






    [Modificato da Caterina63 20/03/2015 16:57]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 30/03/2015 14:04

      Il neo-clero


     


     Analisi da Traditio Liturgica 

    Il clero ha una grande responsabilità all'interno della Chiesa: è in grado di stimolare e far lievitare una realtà o, al contrario, di deprimerla e necrotizzarla.
     
    In Occidente, il concilio di Trento aveva certamente in mente questo quando istituì i seminari, luoghi deputati alla formazione intellettuale e spirituale del clero.
     
    Non sono di quelle persone che pensano ai seminari come a luoghi ideali. Come ogni scelta umana, anche questo tipo d'istituzioni risentono di limiti e problematiche di varia natura emerse nel corso del tempo.
    Ammetto, però, che la loro istituzione aveva un fine positivo: formare un clero di alta qualità. Che ci sia riuscito o meno, poi, è un altro paio di maniche e dipende da luoghi, tempi e persone. La caricatura con la quale si apre questo post ci indica che, nonostante tutto, nella Francia dell'Ancien Règime, il clero non era visto nel modo migliore e che i buoni esempi continuavano a rimanere una minoranza.
    Nel tempo attuale, tuttavia, è successo qualcosa di totalmente nuovo, che solo in parte il mondo tradizionalista cattolico ha notato: la nascita di un neo-clero. Questo neo-clero è in rottura più o meno apertamente palese con il passato religioso ed è composto da uomini che, francamente, potremo definire "né carne né pesce".
     
    Non li si può qualificare laici, poiché appartengono ad uno status differente, distinto e appartato da quello laicale. Non li si può definire chierici, poiché hanno profonda idiosincrasia verso tutto quello che definisce il chierico in senso proprio (il dedicarsi alla preghiera, alla riflessione quotidiana sui misteri della fede, al santuario, alla cura delle realtà ecclesiastiche, ad un'istruzione tradizionale...).
    Sono sostanzialmente dei chierici desacralizzati che, appena possono, preferiscono il bar all'oratorio, la piazza al presbiterio, la festa e la danza alla compostezza ieratica. Nei casi più tristi, finiscono per avere una doppia vita nella quale manifestano una grande scioltezza e una tranquilla indifferenza, cosa impensabile fino a sessant'anni fa. In questa doppia vita essi si sentono veramente loro stessi!
    Non sono "né carne né pesce" ma desiderano la libertà dei laici, pur non essendo tali, e i privilegi dei chierici, pur essendo contro la figura tradizionale del chierico. In questo modo tengono i piedi su due staffe.
     
    Man mano che nell'ambito di una Chiesa vengono meno le vecchie generazioni, emerge sempre più la presenza di questo neo-clero un po' adolescenziale, un po' semplicista, in spessi casi sans souci e superficiale, molto vitalista, sempre animato da una viscerale avversione alle forme religiose tradizionali.
     
    La gente di una certa età che ha ancora il ricordo di uno stile più impegnato e riservato, denomina questi chierici in modo gentile ma serio come “preti moderni”. In realtà, questa definizione significa semplicemente “non preti”.
     
    Già nei lontani anni '80 ricordo uno studente cattolico di teologia che mi confidava: “In seminario ci danno un'istruzione ma non abbiamo alcun modello da seguire. Chi devo seguire io? A chi mi devo ispirare?”. Costui come tutti i suoi compagni di classe finì per divenire un “prete fai da te”, ossia si ritagliò un'immagine di prete come pensava o credeva fosse meglio. L'istituzione non voleva o non aveva il coraggio di fornigli alcun modello, men che meno un modello sacrale, cosa aborrita già da allora. Oggi, che pure un papa sta desacralizzando la sua figura, le cose sono ancor più precipitate verso l'improvvisazione e la secolarizzazione.
     
    Non si creda che questo sia un problema precipuo al mondo cattolico. Anche altre realtà ecclesiastiche lo vivono da tempo, seppure in forma e modalità diversa.
    Ad esempio in Grecia esiste il fenomeno dei “ preti signorini”. Costoro, che tendono ad aumentare sempre più, sono preti non sposati che non vivono in monastero. Sono iscritti nel numero dei monaci di un monastero in modo puramente formale, per giustificare il fatto d'essere celibi, ma non sono in grado di condurre una vita religiosa sotto l'obbedienza di una regola. Ricordo uno di essi che molto sinceramente mi disse: “Non sono in grado e non voglio vivere in monastero!”.
     
    Questi “signorini” sono simili al clero latino con la differenza che mentre in Occidente il clero si è ritagliato un suo preciso status, in Oriente il “signorino” si fa uno status a suo uso e consumo con il rischio di divenire molto individualista e, in fin dei conti, di obbedire solo a se stesso. Queste persone, sottoposte ad un maggior rischio  d'individualimo, sono gli episcopabili odierni!
     
    Per essere più chiaro ancora: un vescovo scelto da questi “signorini” e con queste caratteristiche invece di pensare al bonum ecclesiae, finirà per attingere ai soldi della Chiesa e rimpinguare il suo conto corrente sottoponendo la Chiesa stessa ai suoi capricci e promuovendo gente incapace e cortigiana, punendo ed isolando le persone più degne. Sta succedendo e succederà sempre più ...
     
    Ricordo un monaco atonita di una certa responsabilità che mi ripeteva: "Stanno saccheggiando la Chiesa, la Chiesa è piena di ladri". Si riferiva a questo. E non si creda che questo sia solo un problema orientale. È un problema universale!
     
    Per aliam viam, ci troviamo sempre dinnanzi alla stessa problematica posta dall'esistenza del neo-clero. Nel caso greco il neo-clero bizantino non può mostrare aperta antipatia per le tradizioni ma le svitalizza rendendole pura formalità, cose da farsi per poi sbarazzarsi di paramenti sacri e simboli religiosi e correre al caffé del paese per parlare di amenità. Un appartenente al neo-clero greco, così, non s'immerge nella liturgia come in un mistero con il quale riempire di grazia se stesso e i fedeli (prospettiva spirituale-monastica, misterica e mistica) ma la tratta come il palcoscenico di un teatro nel quale mostra se stesso e per questo solo fatto cerca lodi e consensi. Invece di succedere il contrario come dovrebbe, Dio, come in Occidente, diviene lo sfondo e l'uomo emerge in primo piano col rischio di oscurare tutto.
     
    Il neo-clero è un flagello per la Chiesa ovunque esso appaia. Purtroppo questo flagello è quanto si merita l'uomo attuale, raramente in grado di poter offrire una qualità migliore a se stesso e agli altri. Ecco, quindi, una delle ragioni dell'implosione del Cristianesimo in se stesso: quando il neo-clero diviene sempre più prevalente, Dio è spinto sempre più sullo sfondo e l'uomo, con il pretesto di Dio, mette in mostra se stesso. Alla fine è la Chiesa stessa che cambia natura e diviene qualcos'altro. Da questa neo-chiesa i cristani fedeli non potranno che appartarsi o fuggire, essendo oramai divenuta una realtà tossica. Ecco in parte spiegata la fuga dalla pratica religiosa, in questi ultimi decenni.





    Fraternamente CaterinaLD

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    00 12/04/2015 01:42

    Corso di esorcismo. Fra Palilla: i sacerdoti non parlano del diavolo




    Gesù caccia satana





    11/04/2015 



    Prenderà il via questo lunedì, presso l’Università Europea di Roma, la decima edizione del corso ‘Esorcismo e preghiera di liberazione’. Ricco di conferenze e tavole rotonde, l’evento ha l’obiettivo non solo di far conoscere l’esorcismo dal punto di vista teologico e scientifico ma anche quello di mettere in guardia contro la diffusione massiccia di occultismo, esoterismo e satanismo. Spesso Papa Francesco parla del diavolo, ma nella Chiesa in generale forse se ne parla sempre di meno, come afferma l’esorcista fra Benigno Palilla, tra i partecipanti al Corso, al microfono di Federico Piana:


    R. - Forse, in parte - come dire - la causa siamo anche noi sacerdoti e religiosi che non parliamo di questa realtà, almeno quanto la Liturgia ci permette di fare. Il Diavolo realmente esiste, come insegna anche il Catechismo della Chiesa cattolica pubblicato durante il pontificato di San Giovanni Paolo II; cioè quando anche commenta il Padre Nostro “liberaci dal male”, il “malum” - in latino - è il maligno. E spiega il Catechismo che si tratta di una persona: è il maligno, il tentatore di cui parla Gesù. Io mi rendo conto che chi non è venuto a contatto con questa realtà, evidentemente fa fatica. Io ho avuto un’esperienza anche di un biblista che ha partecipato a tre esorcismi – non li aveva mai fatti – ed è rimasto lì a guardare e poi ha detto: “Guarda, un conto è studiare sui libri, un conto è incontrare questa realtà”. L’arma più pericolosa nelle mani del Demonio non è tanto la possessione, la vessazione, l’infestazione; l’arma più pericolosa è quella della tentazione del peccato. Col peccato veramente il Demonio ci possiede, noi entriamo sotto il suo potere.


    D. – Che cos’è un esorcismo? Molto spesso viene sottaciuto questo argomento: si  nega il Demonio e poi si nega anche l’esorcismo e la preghiera di liberazione …


    R. – L’esorcismo è una preghiera pubblica della Chiesa, è quindi Liturgia. L’esorcista in quel momento rappresenta tutta la Chiesa, attraverso un rito ben preciso. Diversa invece la preghiera di liberazione, perché la preghiera di liberazione è una preghiera privata; cioè il singolo prega, non con quella preghiera ufficiale della Chiesa, ma può essere una preghiera spontanea o può prendere qualche Salmo dalla Bibbia: una preghiera così, privata.


    D. – Si procede all'esorcismo solamente in casi eccezionali ...


    R. – Ma certo! Innanzitutto, non si può procedere all’esorcismo se non si è certi che ci si trovi dinanzi a una possessione diabolica, una vessazione diabolica. L’esorcismo nella forma invocativa – non parlo di quella imperativa – può essere utilizzato anche come strumento diagnostico, significa che certi elementi, tipici di una possessione diabolica o vessazione diabolica, compaiono soprattutto durante l’esorcismo. Cioè, nell’esorcismo facilmente il Demonio, se c’è, viene allo scoperto. Noi poi soprattutto disponiamo dell’avversione al sacro della persona. In più, io dispongo di un elemento che mi ha insegnato il mio maestro, padre Matteo Ragrua: risposte da parte di una persona che – direbbe un medico che si tratta di uno sdoppiamento di personalità – risposte alle volte profonde da un punto di vista teologico…


    D. – … anche teologico, perché il Demonio è un fine teologo, dobbiamo dirlo…


    R. – … sì … per cui uno comincia a capire che si tratta non di una patologia o sdoppiamento di personalità, ma sia proprio quella personalità di cui parla la Bibbia. Ad esempio, ricordo un caso specifico: in quella circostanza, questa persona, diciamo sdoppiata come personalità, mi dice: “Questa persona è mia e non te la do”. Io ho detto: “Guarda, lo avesse detto Gesù lo capirei, perché ha dato la vita. Tu cosa hai dato a questa persona perché possa dire che è ‘tua’?”. Risposta: “Odio”. “Ma odiando, ricavi almeno un beneficio?”. “Nessun beneficio”. Guarda, dal punto di vista teologico, uno che è ammalato non può dare questa risposta. Perché così come Dio non sa fare altro che amare - e amando non ci ricava proprio niente, perché lui è felice, infinitamente felice, non può utilizzare tutto questo per la sua felicità – così il Demonio non sa fare altro che odiare e odiando non ricava proprio niente, perché è puro odio.


    D. – Come ci si difende da tutto questo?


    R. – Io penso che, come ci hanno detto anche i vescovi, bisogna evangelizzare, evangelizzare, evangelizzare! Anche perché tante persone che frequentano l’occultismo sono persone che addirittura vengono anche in chiesa. Vuol dire che la nostra evangelizzazione non è adeguata, bisogna qui insistere!





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    00 17/04/2015 14:39





    (cliccare sulle immagini per ingrandirle)


    Prendiamo spunto da questo breve articolo - vedi qui - per affrontare alcune brevi considerazioni sulla misoginia nella Chiesa - e non della Chiesa - che da tempo affligge e offusca il vero volto della Immacolata Sposa di Cristo.


    Sono cinquant'anni che non facciamo altro che sentirci ripetere che "la Chiesa deve cambiare" dimenticando che siamo "noi" a dover cambiare e non la Sposa di Cristo.


    E' come quando si pretende di cambiare la Scrittura - vedi qui - per adeguarla al proprio tempo, mentre deve essere l'uomo ad accogliere la Parola e cambiare il suo stile di vita che da peccatore deve per forza convertirsi se vuole salvare l'anima.


    L'allarme non è semplicemente nostro, ma già il cardinale Biffi a riguardo di coloro che vivono (dentro o fuori nella Chiesa) del “politically correct, scriveva: “Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire ‘credibile’, e non piuttosto che si debba ‘convertire’ la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che ‘conversione’ non ‘adattamento’ è parola evangelica” (1).


    La Chiesa nuova o una nuova Chiesa non ha più importanza, ciò che oggi è filtrato fino al vomito è questa smania di "nuovo", la Sposa di Cristo va cambiata a seconda delle mode, a seconda del mondo, a seconda di come la vogliono gli uomini.


    Ora, inutile girarci attorno e voler fare i piacioni che difendono le donne perchè qui il femminismo, le donne prete &-similia  non c'entra nulla, c'entra piuttosto quella misoginia atavica, oseremo dire, che da sempre ha provocato e tentato il potere del clero nella Chiesa, i Papi, i teologi, i predicatori, insomma i preti. Una misogina del potere da esercitarsi sulla e nella Sposa del Cristo, loro Sposa mediante il Sacramento dell'Ordinazione.


    Diverso è l'atteggiamento dei religiosi (frati e monaci), hanno altri difetti, come tutti e ognuno di noi, ma il prete, ahimè, questo difetto non solo non lo ha abbandonato con il Vaticano II, al contrario, oseremo dire che è peggiorato.


    Naturalmente parliamo in via generale, evitando di fare di tutt'erba un fascio, ma evitando anche di prenderci in giro, perché negare questo problema non aiuta nessuno.


    La punta dell'ice-berg di questo difetto lo abbiamo avuto con il famoso "Mea Culpa" voluto da Giovanni Paolo II nel Giubileo del 2000: la Chiesa doveva chiedere "perdono". La Chiesa? La Sposa di Cristo della quale diciamo nel Credo che è "una e santa"?


    Su coloro che sparlano della Chiesa, Biffi afferma: “E’ psicologicamente impossibile continuare ad amare una donna, quando se ne vede e se ne sottolinea solo la bruttezza, la meschinità, la natura malvagia. Un prete che si accanisce a parlar male della Chiesa – non diciamo a parlar male degli ‘uomini di chiesa’, che qualche volta è doveroso – farà molta fatica a restarle fedele”.


    e ancora dice: “Abbiamo talvolta l’impressione di essere condizionati e intrigati da una misteriosa accolta di maniaci che impongono a tutti una loro degenerazione mentale. Sono gli stessi che non mancano mai di definire bigotti e bacchettoni quanti non si lasciano convincere dalle loro elevate argomentazioni” (2).


    Sui "mea culpa" - spiega sempre il cardinale Biffi -  Giovanni Paolo II si è corretto, ma troppo poco.


    "Il 7 luglio 1997 Giovanni Paolo II ebbe l’amabilità di invitarmi a pranzo ed estese l’invito anche al cerimoniere arcivescovile, don Roberto Parisini, che mi accompagnava e rimane perciò come prezioso testimone dell’episodio.


    A tavola il Santo Padre a un certo punto mi disse: "Ha visto che abbiamo cambiato la frase della 'Tertio millennio adveniente'?".


    La bozza, che era stata inviata in anticipo ai cardinali, recava questa espressione: "La Chiesa riconosce come propri i peccati dei suoi figli"; espressione che – avevo fatto presente con rispettosa franchezza – era improponibile. Nel testo definitivo il ragionamento appare mutato così: "La Chiesa riconosce sempre come propri i suoi figli peccatori".


    Il papa in quel momento ci teneva a ricordarmelo, sapendo che mi avrebbe dato piacere.


    Ho risposto dicendomi molto grato e manifestando la mia piena soddisfazione sotto il profilo teologico. Mi sono però sentito anche di aggiungere una riserva di indole pastorale: l’iniziativa inedita di chiedere perdono per gli errori e le incoerenze dei secoli passati a mio avviso avrebbe scandalizzato i “piccoli”, i preferiti dal Signore Gesù (cfr. Matteo 11,25): perché il popolo fedele, che non sa fare molte distinzioni teologiche, da quelle autoaccuse vedrebbe insidiata la sua serena adesione al mistero ecclesiale, che (ci dicono tutte le professioni di fede) è essenzialmente un mistero di santità.


    Il papa testualmente allora disse: "Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci". Purtroppo non ci ha pensato abbastanza..." (3)


     





    Ritorniamo alla prima citazione del card. Biffi:


    E’ psicologicamente impossibile continuare ad amare una donna, quando se ne vede e se ne sottolinea solo la bruttezza, la meschinità, la natura malvagia. Un prete che si accanisce a parlar male della Chiesa – non diciamo a parlar male degli ‘uomini di chiesa’, che qualche volta è doveroso – farà molta fatica a restarle fedele”.


    perchè qui sta il cuore delle nostre brevi considerazioni e di questa misoginia che riteniamo abbia infettato molti preti.


    Preti che tradiscono la Chiesa ce ne sono molti, ma i peggiori sono quelli che pur tradendo restano nella Chiesa con la pretesa, appunto, di voler cambiare la Chiesa perchè quella "di prima" è per loro una immagine brutta, meschina, matrigna, pure malvagia. E il paradosso sta nel fatto che mentre questa Sposa di Cristo resta a loro fedele mantenendoli, promuovendoli, lasciandoli fare, loro continuano a macerarsi l'anima cercando di modificarla a loro immagine e somiglianza.


    Usiamo volentieri un termine vero ed autentico che il Prof. Radaelli ha dato ad un suo recente libro - la cui prestigiosa Prefazione è firmata da mons. Antonio Livi - di cui consigliamo la lettura: La Chiesa ribaltata - vedi qui -  perché ciò che sta avvenendo da cinquant'anni a questa parte è un vero ribaltamento della Sposa di Cristo.


    Misoginia sappiamo cosa vuol dire, è una avversione verso la donna da parte degli uomini ed essendo i preti tutti uomini, il termine si addice a questo ribaltamento di una Sposa che proprio non piace più. Il prete misogino è quel prete che non ama affatto la Sposa di Cristo che avrebbe dovuto semplicemente accogliere come le è stata data, ma piuttosto vuole cambiarla, vuole assoggettarla a se, vuole che somigli a se stesso, alle sue idee di Chiesa, alla sua idea moderna di sposa.


    Dal prete nel ruolo più basso, al prete investito di pastorale e mitria, non c'è differenza, li accomuna una maniacale perversione di pretendere che la Sposa cambi volto, vestito, magari anche la capigliatura.


    Stiamo esagerando? Mica tanto!


    Leggete le tante prediche, leggete le tante interviste a molti prelati, da un prete don Ciotti fino ad un prete cardinale Kasper, il male non sta nel peccato degli uomini, ma nell'immagine della Chiesa che da cinquant'anni le si addebita la colpa di non essere ancora cambiata come vorrebbero loro. Per dirla con il cardinale Biffi: “Abbiamo talvolta l’impressione di essere condizionati e intrigati da una misteriosa accolta di maniaci che impongono a tutti una loro degenerazione mentale. Sono gli stessi che non mancano mai di definire bigotti e bacchettoni quanti non si lasciano convincere dalle loro elevate argomentazioni


    Sappiamo che le forme di misoginia sono diverse; alcuni misogini hanno "semplicemente" dei pregiudizi contro tutte le donne, ad esempio le rinchiudono alla cura degli affari domestici, al silenzio al momento delle decisioni o ritengono addirittura che sia lecito picchiarle, comandarle a bacchetta, così agiscono certi preti che avversano con pregiudizi la Sposa pura, santa e immacolata, la ribaltano a loro piacimento, spadroneggiando, usandola, la picchiano con le loro teorie moderniste e le danno infine la colpa se le cose non vanno come dovrebbero andare a riguardo della conversione del gregge loro affidato.


    Divorziano? e che vuoi, con una Chiesa così severa!! I risposati "vogliono" la comunione? la colpa è della Chiesa che non si decide a cambiare le regole, ribaltiamola, picchiamola!


    C'è la crisi della famiglia? colpa è della Chiesa che rigetta le ammucchiate o le famiglie allargate e pure dello stesso sesso.


     





    E ce n'è per tutti, anche per le frange dette dei sedevacantisti-tradizionalisti estremi, il misogino che ritiene che le donne possano essere esclusivamente o "madri" o "prostitute". Una variante è la dicotomia "immacolata"/"prostituta", in cui le donne che non corrispondono perfettamente a requisiti di moralità impeccabile, peraltro mai raggiungibili perché puramente ideali, ricadono necessariamente nella seconda categoria. In tal senso queste persone vedono la Chiesa-Sposa del passato immacolata e quella di oggi una prostituta.


    Il cardinale Newman diceva che "bisognerebbe consultare i laici nelle materie di fede" tanto ne era convinto dimostrando come fossero stati proprio i laici, assieme alla Santa Sede senza dubbio, a salvare la fede della Chiesa dopo il Concilio di Nicea. E lo stesso Paolo VI, nei Dialoghi con Guitton, sottolineava di come la donna fosse "religiosa" per propria natura, nella quale l'amore è amore incarnato portando così anche l'esempio delle due Terese (Dottori della Chiesa) pensavano, pregavano, digiunavano, agivano nella Chiesa. Certo, la donna non può fare il prete, lei non sacrifica, piuttosto lei accoglie Colui che sacrifica. Così è il cuore stesso della Chiesa, donna-madre e maestra, è lo Sposo che rendendola tale la offre a noi in ogni tempo. L'allora cardinale Ratzinger parlava di "polvere da toglierle" di dosso, ma non certo di cambiarle tutto il vestito.

    A ragione di ciò suggeriamo questa intervista pubblicata dal sito papalepapale.com, vedi qui, molto interessante e che ci riporta sul medesimo argomento.

    E' da notare come questo modo di agire nella Chiesa per cambiarle il Volto, nasca proprio dall'epoca dei Lumi, dalla Rivoluzione Francese, dal "superuomo" di  Nietzsche.

    In un modo o nell'altro la Chiesa, vera Sposa pura e santa, è Colei che le prende da tutte le parti tanto da farci chiedere: c'è ancora qualche prete, qualche prelato che oggi ami davvero la Sposa in quanto tale, ami la Chiesa per come Nostro Signore ce l'ha data, sgorgata da quel costato squarciato?

     

    Quale la vera ed autentica immagine di Chiesa da amare e da accogliere per ciò che è dalla sua Divina Istituzione?Naturalmente è quella dei Santi, non si scappa.

    San Paolo sottolinea tutto il suo percorso di convertito e la "buona battaglia" per conformarsi alla Sposa e non viceversa. Ai Filippesi scrive "No, non ho raggiunto lo scopo che mi ero dato; no, non sono perfetto; ma proseguo la mia corsa, per arrivare a Gesù Cristo, come lui è arrivato a me..."

    Pensiamo anche a San Giuseppe, Casto sposo di Maria, fin dal principio degli eventi che lo coinvolsero personalmente, non tentò mai di discutere o di pretendere di cambiare la Sposa, diventandone così il vero Custode. Custodire, tramandare, immagine che i Padri stessi associarono alla figura del Vescovo - già con le parole di San Paolo -  colui che vigila e sorveglia quella porzione o comunità di Chiesa che gli è affidata.

    Dei Santi e dei Dottori della Chiesa che non l'hanno usata a loro piacimento, non l'hanno ribaltata, non l'hanno picchiata e violentata, non l'hanno fatta prostituire, nè l'hanno mai trattata da prostituta! Ma l'hanno AMATA dando la vita per Lei, senza pretendere di cambiarla, ma accogliendola, servendola, portandola sempre in trionfo, parlando bene di Lei e facendo bene attenzione a non incolparla di colpe che non aveva.

    Basta leggere una Santa Caterina da Siena, per fare un esempio, che di Lettere ne ha scritte tante, dal laico più semplice, al prete, al vescovo, al cardinale fino ai Papi del suo tempo, per tutti ha avuto parole dolci o dure a seconda degli argomenti, ma mai una parola di rigetto alla Chiesa in quanto tale, mai una presunta e superba voglia di cambiamenti della "Dolce Sposa", per la santa senese erano gli uomini di Chiesa che dovevano cambiare, era il Papa "Babbo mio dolce" che alla fine, infatti, doveva ritornare a Roma, doveva cambiare.

    La Chiesa è Madre e Maestra, come ci insegnano i Padri, ma chi la tratta come tale? Non c'è forse oggi la maniacale superbia e presunzione di voler insegnare alla Sposa come vestirsi, come parlare, cosa insegnare, come parlare linguaggi nuovi, liturgie creative e nuove? Non è stato forse detto che sarebbero i nuovi Movimenti a cambiare "finalmente" il volto della Chiesa?

    Si dice che si ascolta la Chiesa attraverso il Papa e il Magistero ecclesiale, e questo è vero perchè la Chiesa si esprime attraverso questo magistero, ma questa Sposa meravigliosa parla anche attraverso i Santi, i Dottori, la Tradizione viva della Chiesa che è contenuta nel famoso "Deposito della fede".

    A ragione diceva Benedetto XVI nella famosa Lettera ai Vescovi del 2009:

    Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive..."

    “Prete clericale non significa niente” dice don Camillo.

    “Significa qualcosa invece” risponde Peppone. “Voi per esempio siete un prete, sì, ma non siete un prete clericale”.

    Guareschi l’aveva ben capito. Infatti alcuni degli anticlericali più accesi della storia erano sacerdoti, o anche vescovi. (4)

    Concludiamo con sant’Alfonso Maria de’ Liguori (Marianella, 27 settembre 1696 – Nocera de’ Pagani, 1 agosto 1787), un vescovo cattolico proclamato santo da papa Gregorio XVI nel 1839 e Dottore della Chiesa (Doctor Zelantissimus) nel 1871 da papa Pio IX. In un’operetta intitolata Considerazioni per coloro che son chiamati allo stato religioso, alla Considerazione VII intitolata “Il danno che apporta a’ religiosi la tepidezza”, fra il mistico e il clericale, scrive:

     “Ma che rimedio vi sarebbe a questo male così grande e così universale? Che voglio dire? Il rimedio ha da venire dal cielo; e perciò dobbiamo noi pregare il Signore, ch’egli rimedii colla sua potenza e pietà; giacché, siccome il buono spirito de’ religiosi si comunica ancora ai secolari, così all’incontro del loro rilassamento anche gli altri ne partecipano”. “Detesto il clericalismo e comprendo che, accanto a un anticlericalismo inaccettabile, ci sia anche un sano anticlericalismo”. Ed eccolo qua: preti chiamati “demoni incarnati”, “animali bruti”, “divoratori delle anime”, “templi del diavolo”, “sterco”, “animali feroci”, “bestie”, “sventurati”.

    Sia lodato Gesù Cristo +

    Note

    1) Cardinale Giacomo Biffi con il libro “Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo”, pubblicato dalla Cantagalli (256 pagine, 13,80 Euro).

    2) come sopra

    3) Cardinale Giacomo Biffi "Memorie e digressioni di un italiano cardinale" pag.536

    4) Paolo Gambi - Quello che i preti non dicono (più) - Duemila anni di linguaggio anticlericale nelle parole dei santi - da Fede & Cultura

     
     

     ecco, proprio stamani l'esempio bello e gratificante di un santo Sacerdote novello....

    Don Mellone: l’amore vince la morte, gioia immensa per il sacerdozio

    Don Salvatore Mellone, in primo piano durante la sua ordinazione sacerdotale - RV

    17/04/2015 

    La sua vicenda ha commosso tantissimi, ben oltre i confini della Chiesa: Salvatore Mellone, 38 anni di Barletta, affetto da un male incurabile ora allo stadio terminale, è stato ordinato ieri sacerdote, il più grande desiderio della sua vita. L’ordinazione è stata possibile in tempi estremamente rapidi, per volere dell’arcivescovo locale, mons. Giovanni Battista Pichierri, che ha ottenuto il beneplacito dalla Congregazione del Clero. Nei giorni scorsi, Papa Francesco aveva chiamato il seminarista barlettano chiedendogli di benedirlo nella Messa della sua ordinazione. Alessandro Gisotti ha raccolto la straordinaria testimonianza di don Salvatore Mellone, proprio poco prima della sua prima Messa da sacerdote, celebrata stamani nella sua casa a Barletta:

    R. – Ho una grande gioia da sempre ma in modo particolare in questi giorni questa gioia sta aumentando ancora di più. Si sente molto il senso della responsabilità perché comunque il ministero presbiterale ci chiama ad essere testimoni veri di Cristo, ma comunque questa testimonianza fin quando c’è la gioia, fin quando c’è questa grande carica di misericordia che ti arriva da Dio, ti fa stare bene. A pochi momenti dalla mia prima Messa ho veramente una grande serenità, una grande pace, che mi permette di abbracciare un po’ tutti e di farmi vivere una condizione – posso dirlo con molta umiltà – di beatitudine e di vera gioia, ecco.

    D. – Salvatore, l’orizzonte della morte sembra completamente cancellato da quello della vita nelle sue parole e nella sua testimonianza…

    R. – Sì, perché alla fine le paure, anche le incongruenze umane, quelle restano sempre, perché siamo persone, ma la prospettiva è altra: la prospettiva è quella di un amore caritatevole che ci abbraccia. E quindi senza questo amore caritatevole che ci abbraccia anche la vita terrena stessa, anche la sofferenza stessa, non avrebbe senso. C’è questa proiezione, che non è una proiezione sterile, ma è una proiezione concreta verso un qualcosa di molto più grande, di molto più bello.

    D. – Lei ha ripetuto le parole di San Paolo ieri durante l’ordinazione: “Sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio”. E’ questo che sta vivendo e che trasmette anche come messaggio magari a chi sta male?

    R. – Io penso proprio questo, che man mano che si va avanti proprio nell’affrontare la malattia, giorno per giorno la malattia non è mai uguale, non è mai la stessa. Ti accorgi che comunque nonostante la difficoltà puoi andare avanti, nonostante la difficoltà c’è la speranza, c’è la bellezza di un qualcosa di molto più grande di noi. Questo qualcuno molto più grande di noi si chiama Dio, si chiama Santissima Trinità.

    D. – Lei ha rivolto la prima benedizione dopo l’ordinazione a Papa Francesco: era proprio quello che le aveva chiesto il Santo Padre chiamandola al telefono…

    R. – Sì, con un po’ di trepidazione e, devo essere sincero, anche un po’ di imbarazzo perché può immaginare! Però con il cuore veramente pieno di gioia perché per noi tutti è un modello e per noi tutti è un maestro. Non possiamo fare altro che seguirlo, stargli dietro e benedirlo e continuare a pregare per lui.

    D. – Le dà forza, immagino, anche questa vicinanza del Santo Padre in questo momento…

    R. – Certo mi dà forza e mi dà forza la vicinanza di tante persone che si uniscono nella preghiera. Questa è la cosa più bella: che si preghi e si preghi e si continui a pregare perché possano venire fuori vocazioni e possano venire fuori anche cose belle nella vita delle persone.


       
    [Modificato da Caterina63 27/04/2015 00:19]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 26/04/2015 23:42

    (cliccare sulle immagini per ingrandirle)

    "a noi sembra l'invasione dei gesuiti o la nuova serie degli "Men in Black": neri per neri, era meglio la talare"

    Questa "battuta" in rete dopo il Regina Coeli di stamani, ci ha dato l'idea per chiarire alcuni punti su come vestono, o dovrebbero vestire i preti oggi.

    L'immagine riporta l'invito che il Papa ha fatto stamani, di benedire con lui la folla radunata in piazza San Pietro per il consueto incontro mariano, a due dei diciannove Sacerdoti ordinati nella mattina in Basilica. Ci teniamo a sottolineare che l'articolo non ce l'ha con i neo Ordinati, anzi, ci stringiamo a loro con commossa e filiale letizia, augurando ogni Bene ed un fruttuoso Ministero. Abbiamo solo colto l'occasione - in se anche simpatica la foto - per approfondire una sorta di "caccia al tesoro", il tesoro è la talare, è scomparsa, qualcuno l'ha rubata, o qualcosa l'ha fatta sparire: dove è finita la talare?

    Probabilmente non sbagliamo nell'osservare che questo, il famoso clergyman, è l'abito sempre usato da Bergoglio e da molti sacerdoti e vescovi a partire sempre dal Vaticano II anche se, è corretto dirlo, questo abito fu introdotto nella Chiesa Cattolica già dai primi del Novecento come abito da viaggio.

    Per evitare di rispondere smossi dai nostri sentimenti, facciamo un piccolo passo indietro e andiamo a leggere, integralmente, la Lettera che Giovanni Paolo II indirizzò all'allora Vicario per la Diocesi di Roma, il cardinale Ugo Poletti:

    Al venerato fratello Cardinale Ugo Poletti Vicario Generale per la diocesi di Roma.

    Talare sacerdoti

    La cura dell'amata diocesi di Roma pone al mio animo numerosi problemi, tra i quali appare meritevole di considerazione, per le conseguenze pastorali da esso derivanti, quello relativo alla disciplina dell'abito ecclesiastico.

    Più volte negli incontri con i sacerdoti ho espresso il mio pensiero al riguardo, rilevando il valore ed il significato di tale segno distintivo, non solo perché esso contribuisce al decoro del sacerdote nel suo comportamento esterno o nell'esercizio del suo ministero, ma soprattutto perché evidenzia in seno alla Comunità ecclesiastica la pubblica testimonianza che ogni sacerdote è tenuto a dare della propria identità e speciale appartenenza a Dio.

    E poiché questo segno esprime concretamente il nostro "non essere del mondo" (cf. Gv 17,14), nella preghiera composta per il Giovedì Santo di quest'anno, alludendo all'abito ecclesiastico, mi rivolgevo al Signore con questa invocazione: "Fa' che non rattristiamo il tuo Spirito... con ciò che si manifesta come una volontà di nascondere il proprio sacerdozio davanti agli uomini e di evitarne ogni segno esterno".

    Inviati da Cristo per l'annuncio del Vangelo, abbiamo un messaggio da trasmettere, che si esprime sia con le parole, sia anche con i segni esterni, soprattutto nel mondo odierno che si mostra così sensibile al linguaggio delle immagini. L'abito ecclesiastico, come quello religioso, ha un particolare significato: per il sacerdote diocesano esso ha principalmente il carattere di segno, che lo distingue dall'ambiente secolare nel quale vive; per il religioso e per la religiosa esso esprime anche il carattere di consacrazione e mette in evidenza il fine escatologico della vita religiosa. L'abito, pertanto, giova ai fini dell'evangelizzazione ed induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell'esistenza dell'uomo. Per mezzo di tale segno, è reso agli altri più facile arrivare al Mistero, di cui siamo portatori, a Colui al quale apparteniamo e che con tutto il nostro essere vogliamo annunciare.

    Non ignoro le motivazioni di ordine storico, ambientale, psicologico e sociale, che possono essere proposte in contrario. Potrei tuttavia dire che motivazioni di eguale natura esistono in suo favore. Devo però soprattutto rilevare che ragioni o pretesti contrari, confrontati oggettivamente e serenamente col senso religioso e con le attese della maggior parte del Popolo di Dio, e con il frutto positivo della coraggiosa testimonianza anche dell'abito, appaiono molto più di carattere puramente umano che ecclesiologico. Nella moderna città secolare dove si è così paurosamente affievolito il senso del sacro, la gente ha bisogno anche di questi richiami a Dio, che non possono essere trascurati senza un certo impoverimento del nostro servizio sacerdotale.

    In forza di queste considerazioni, sento il dovere, come Vescovo di Roma, di rivolgermi a lei, signor Cardinale, che più da vicino condivide le mie cure e sollecitudini nel governo della mia diocesi, perché, d'intesa con le Sacre Congregazioni per il Clero, per i Religiosi e gli Istituti Secolari e per l'Educazione Cattolica, voglia studiare opportune iniziative destinate a favorire l'uso dell'abito ecclesiastico e religioso, emanando a tale riguardo le necessarie disposizioni e curandone l'applicazione.

    Nell'invocare su di lei, signor Cardinale, e sull'intera diocesi di Roma l'onnipotente aiuto del Signore, per l'intercessione della Vergine santissima "Salus Populi Romani", di cuore imparto l'apostolica benedizione.

    Dal Vaticano, 8 Settembre 1982.

    ****

    Il 20 aprile del 1966, dopo il Vaticano II già la Conferenza Episcopale si era così espressa per mezzo di un Documento ufficiale:

    "La Conferenza Episcopale Italiana, considerando la opportunità che l'abito ecclesiastico, pur nella tutela della dignità sacerdotale, possa venir adattato alle esigenze della vita contemporanea e alle nuove condizioni dell'apostolato, in conformità allo spirito del CIC can. 136 § 1, desiderando assicurare ai sacerdoti - anche in questa materia - uniformità di disciplina, a loro personale vantaggio e ad edificazione della comunità, conferma che l'abito talare rimane la veste normale dei sacerdoti e anche dei religiosi.

    Esso è d'obbligo:

    a) nella propria chiesa;

    b) negli Istituti ecclesiastici;

    c) nell'esercizio del sacro ministero;

    d) nelle funzioni liturgiche, anche se tenute fuori chiesa;

    e) nella sacra predicazione;

    f) nell'amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentali;

    g) nell'insegnamento religioso nelle scuole.

    La Conferenza Episcopale stabilisce che sia consentito a tutti i sacerdoti di cambiare l'abito talare con il clergyman, consistente in: giacca e calzoni di stoffa nera (o grigio-ferro scuro) e collare ecclesiastico, in caso di viaggi, di escursioni, di uso di macchina da trasporto, ecc., cioè quando lo richieda la comodità in un'azione profana.

    In qualunque ambiente e circostanza, entro e fuori Diocesi e all'estero, come in occasione di ferie, il suddetto abito, "utpote sacerdotii signum", dovrà essere indossato, in pubblico, completo: così che esso risulti per tutti i sacerdoti unico e ben caratterizzato, e gli ecclesiastici abbiano a poter essere riconosciuti come tali.

    La Conferenza Episcopale Italiana esorta infine i sacerdoti a tener presenti - nell'uso del clergyman - le diverse situazioni dei luoghi, gli usi e le consuetudini, la sensibilità della popolazione e, memori delle parole dell'Apostolo: "Omnia mihi licent, sed non omnia expediunt; omnia mihi licent, sed non omnia aedificant" (I Cor. 10, 22-23), sappiano comprendere e attendere sino a che i fedeli affidati alle proprie cure siano preparati alla nuova prassi."

    ******

     

    Il testo in questione fu scritto ed emanato proprio per distinguere l'uso della talare dall'uso del clergyman, da preferirsi (una tolleranza) per i tanti che erano diventati troppo "allergici" all'abito. In realtà sappiamo come andarono poi le cose. Non ci fu quella prudente attesa "sino a che i fedeli affidati alle proprie cure sarebbero stati preparati alla nuova prassi..." e non ci fu affatto un uso chiaro e distinto della talare poiché essa scomparve all'improvviso e per il clergyman, questo, non venne adottato subito, molti preti di quegli anni preferivano gli abiti "civili", ciò che i fedeli videro fu la laicizzazione dell'abito del sacerdote.

    Da ben distinguere anche  che "l'abito ecclesiastico" del sacerdote non è il clergyman ma la talare, così come ne descrive significativamente l'uso San Giovanni Paolo II che chiedeva al suo vicario di: ""studiare opportune iniziative destinate a favorire l'uso dell'abito ecclesiastico e religioso, emanando a tale riguardo le necessarie disposizioni e curandone l'applicazione."

    Un appello completamente ignorato e disatteso.

    Il clergyman inizialmente era in uso tra i Pastori protestanti (specialmente anglicani, episcopaliani, evangelical), in uso in rare occasioni ai Vescovi che viaggiavano molto già nei primi del Novecento, in seguito venne accolto ed esteso l'uso, dopo il Vaticano II, anche in ambiente cattolico, prima come concessione per coloro che dovevano viaggiare e fare altre attività, in seguito è stato tollerato ed infine accolto come abito religioso (ma sempre con il particolare collo alla romana) seppur i Pontefici da Paolo VI in poi hanno sempre ribadito l'uso della talare quale convenienza dell'identità cattolica e lasciare quest'altra opzione del clergyman solo per i viaggi e in condizioni particolari.

    Il nome dell'abito - clergyman - che non ha affatto lo stesso significato della talare, deriva dall'omonima terminologia inglese "pastore evangelico". Il clergyman non è "l'abito ecclesiastico" cattolicamente inteso, anche se la traduzione letterale indica semplicemente il termine "uomo del clero", poi da una concessione è diventata la norma... i Vescovi e il Papa indossano la talare ed usano il clergyman (tranne il Papa, almeno fino ad oggi) in occasioni particolari come viaggi o visite non ufficiali.

    Oggi questi preti sembrano i nuovi, o novelli, Men in Black, nuovi preti in nero, quando lo indossano, e non di rado non li vediamo vestiti affatto da preti, quando pensano di essere più "piacioni" nell'indossare un jeans e maglietta alla moda....

    Onestamente parlando non è un problema che i preti di oggi vestano il clergyman, ciò che infastidisce è quella apatia, antipatia, o addirittura battaglia contro la talare la quale, unica davvero nel suo genere religioso, proprio a causa del suo significato cattolico, è oggi perseguitata, gettata alle ortiche, un abito di cui vergognarsi. Oggi, quando si vede un sacerdote in clergyman, ci si rallegra, perché per lo meno ci si trova di fronte a un prete che obbedisce alle norme vigenti e non ha paura di mostrare la sua identità. Però però… non è la stessa cosa che vederlo in talare.

    Un certo falso spiritualismo gnostico oggi alla moda, una delle tante anime del neo-modernismo, tende a farci dimenticare la grandiosa portata simbolica della lunga veste nera.

    Vedere quella foto del Papa in talare bianca con accanto i due sacerdoti in clergyman, diciamoci la verità, sembrava di vedere un "Capo" con accanto le sue guardie del corpo, due Men in Black...

    L'abito, pertanto, giova ai fini dell'evangelizzazione, diceva Giovanni Paolo II, e parlava della talare, non del clergyman.

    Diceva il cardinale Siri sull'uso proprio del clergyman:

    Credo difficile possa esistere nel nostro tempo, proprio per le sue caratteristiche, lo spirito ecclesiastico senza il desiderio e il rispetto dell'abito ecclesiastico. […] Qui non parliamo solo di «abito ecclesiastico», ma di talare. E guardiamo bene le cose in faccia, senza alcun timore di quel che si può dire. […] Alcuni, per boicottare l'uso della talare o per giustificarsi nell'aver ceduto alla moda corrente contraria all'abito talare, affermano: «Tanto la talare è un abito liturgico», volendo così esaurire l'eventuale uso della talare alla sola liturgia. Questo è apertamente falso e capziosamente ipocrita! […] Francamente è chiaro che il clergyman […] non è la soluzione più desiderata. Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio?

    Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa. […] L'indirizzo da darsi è:

    - che anche se la legge ammette il clergyman, esso non rappresenta in mezzo al nostro popolo la soluzione ideale;

    - che chi intende avere l'integro spirito ecclesiastico deve amare la sua talare; […]

    che la difesa della talare è la difesa della vocazione e delle vocazioni.

    Il mio dovere di Pastore mi obbliga a guardare assai lontano. Ho dovuto constatare che la introduzione del clergyman oltre la legge e le depravazioni dell'abito ecclesiastico sono una causa, probabilmente la prima, del grave decadimento della disciplina ecclesiastica in Italia. Chi vuol bene al sacerdozio, non scherzi con la sua divisa!

    [Testo tratto da: Card. Giuseppe Siri, A Te sacerdote, vol. II, Frigento: Casa Mariana, 1987, pp. 67-73, vedi qui testo integrale].

     

    Concludiamo con queste riflessioni.

    Quella tonaca nera svolazzante sulla rue Canabière, tra una folla più maghrebina che francese, ti fa voltare. Toh, un prete, e vestito come una volta, per le strade di Marsiglia. Un uomo bruno, sorridente, eppure con un che di riservato, di monacale. E che storia, alle spalle: cantava nei locali notturni di Parigi, solo otto anni fa è stato ordinato e da allora è parroco qui, a Saint-Vincent-de-Paul.[...]

    Perché la talare? "Per me – sorride – è una divisa da lavoro. Vuole essere un segno per chi mi incontra, e soprattutto per chi non crede. Così sono riconoscibile come sacerdote, sempre. Così per strada sfrutto ogni occasione per fare amicizia. Padre, mi chiede uno, dov’è la posta? Venga, l’accompagno, rispondo io, e intanto si parla, e scopro che i figli di quell’uomo non sono battezzati. Me li porti, dico alla fine; e spesso quei bambini, poi, li battezzo. Cerco in ogni modo di mostrare con la mia faccia un’umanità buona. L’altro giorno addirittura – ride – in un bar un vecchio mi ha chiesto su quali cavalli puntare. Io gli ho dato i cavalli. Ho chiesto scusa alla Madonna, fra me: ma sai, le ho detto, è per fare amicizia con quest’uomo. Come diceva un prete, che è stato mio maestro, a chi gli chiedeva come convertire i marxisti: 'Occorre diventare loro amici', rispondeva".

    Problemi, in strade a così forte presenza di musulmani immigrati? No, dice semplicemente: "Rispettano me e questa veste".

    Più tardi poi lo intravedi da lontano, per strada, con quella veste nera mossa dal passo veloce. "La porto – ti ha detto – perché mi riconosca uno che magari altrimenti non incontrerei mai. Quello sconosciuto, che mi è estremamente caro". (1)

    (da Avvenire del 29.11.2012)

    Sia lodato Gesù Cristo +

    1) padre Michel-Marie Zanotti-Sorkine, Autore del libro: I tiepidi vanno all'inferno. Piccolo trattato sul sale della vita - vedi qui.

       

     


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 12/09/2016 00:25
    IL CASO A LUCCA

    Don Americo Marsili

     



    Parroco congela la cresima a 60 ragazzi. «Immaturi, meglio aspettare». La rete lo lincia, ma è il solo che ha mostrato loro quanto gli stia a cuore la loro fede e la loro vita. Un gesto controcorrente, che ha illustri predecessori, come il cardinal Sarah. E che mostra come solo piccole comunità di fede potranno illuminare l'uomo.



    di Andrea Zambrano


    Don Americo Marsili

    Il parroco di Porcari, un comune in provincia di Lucca, è finito sulla graticola dei giornali e dei social network per avere preso una decisione controcorrente: ha rinviato l’appuntamento con la Cresima per una sessantina di ragazzi delle medie. Il motivo? Non erano pronti», ha spiegato don Americo Marsili ai genitori. «Sregolati», questo il termine utilizzato dal parroco per giustificare la decisione che ora lo vede esposto al pubblico ludibrio della rete, la quale, quando vuole essere perfida, sa quali leve toccare. 

    A Porcari don Americo è parroco da alcuni anni e proprio quest’estate ha celebrato il 25esimo di messa. 

    I giornali in questi giorni si stanno scatenando. Colpa di alcuni genitori, anche se in realtà si tratta di esterni alla parrocchia che non vedono l’ora di attaccare briga, che hanno accusato il sacerdote di aver bocciato i poveri ragazzetti. Lui, dalle colonne della Nazione si è difeso così: «Ma quale bocciatura! Semplicemente avevo presentato un progetto ai genitori e al vescovo, ma le condizioni sono venute meno. Alcuni non li ho mai visti alle celebrazioni delle sante Messe, altri hanno confidato che venivano perché dovevano. Non era questo secondo me l’approccio giusto per un simile evento».

    Come dargli torto? Bisogna scomodare le perle ai porci di evangelica memoria? Non solo: «Ci sono dei ragazzi che mi hanno detto: “Padre, a me della Cresima non frega proprio niente”. Con quale onestà di coscienza dovrei proseguire? Così ho deciso di sospendere tutto per rimettere la palla al centro e riflettere. C’è un discorso di maturità che manca», spiega il parroco al telefono con la Nuova BQ che lo ha raggiunto.

    Ma le bugie stanno andando avanti nonostante ieri alcuni confratelli del vicariato abbiano scritto sul Tirreno una lettera di sostegno al sacerdote. E il vescovo? «Non l’ho sentito», taglia corto il sacerdote, senza nascondere un po’ di sofferenza per come i parroci come lui siano lasciati in trincea dai loro prelati. 

    «Per molti genitori - ci spiega don Americo - la Cresima è diventata la tomba della fede.- Ecco perché vorrei che anche i vescovi facessero scelte coraggiose sennò ci succederà come sta accadendo in Francia: presto ci linceranno perché amministriamo i Sacramenti e quanto vorrei che i nostri vescovi facessero dei pronunciamenti chiari!».

    I fatti sono andati diversamente da come li racconta la folla impazzita sul gruppo Facebook “Sei di Porcari se…” uno di quei gruppi che ogni comune ha e che spesso diventa uno sfogatoio di frustrazioni, rabbie e vendette. 

    «L’anno scorso ho presentato un progetto ai genitori e l’ho illustrato all’Arcivescovo. Ma già maggio i problemi sono stati notevoli. Così ci siamo dati appuntamento a settembre». Alla ripresa delle attività dopo la pausa estiva, il parroco ha trovato la stessa demotivazione di partenza, tanto nei genitori che nei ragazzi. Così si è chiesto: perché continuare? Così ha congelato tutto. «Meglio fermarsi a riflettere, riordinare le idee e affidarsi allo Spirito Santo (che tra l’altro nella Cresima è il protagonista ndr) che ci guidi e ci illumini».

    Poi, il diluvio. Dal tenore degli interventi si comprende come ben pochi sappiamo che cosa sia la Cresima. C’è chi «la ritiene non obbligatoria per un cristiano», «chi pensa che il ragazzino possa decidere di farla quando sarà grande», come se fosse il primo corso di tennis a 40 anni. E c’è chi rimpiange i “tempi d’oro” di quando c’era lui, cioè il vecchio parroco.

    Ma don Americo non molla ben sapendo che quello è l’unico modo per custodire quei ragazzi e per dimostrare attenzione alla loro persona. Un dirgli di no per farli riflettere sulla Grazia che il sacramento porta con sé. Il sacerdote ha preso una decisione che oggi ci sembra anacronistica, non misericordiosa, non caritatevole, ma in realtà non ha fatto altro che mostrare loro che la fede è l’esperienza di un incontro. Se c’è immaturità, meglio procedere per gradi. D’altra parte le annate di conferimento dei sacramenti sono ricalcate sul modello di una società che ancora era cristiana, dove a fare Comunione e Cresima arrivavano giovani sicuramente molto più preparati e ardenti.

    Il ritardo per cercare di far maturare una decisione è sicuramente impopolare, perché ad esempio costringe i genitori a ritardare la consegna della tanto agognata Play station, ma è salutare per il loro destino. E se anche solo uno di loro capirà che con quella decisione il parroco non ha fatto altro che dire “mi sta a cuore la tua fede”, la sua opera non sarà passata invano. Lo stesso dicasi per le preparazioni ai matrimoni. Spesso dimentichiamo che un rifiuto non è un’offesa personale, ma è un dire: «Sei consapevole dell’importanza di quello che fai?» e di fronte a una domanda di questo tipo si può dire di tutto, ma non che non ci sia attenzione alla persona.  

    Don Americo è in buona compagnia in fatto di scelte drastiche e non in linea coi tempi e le esigenze sociali. L’attuale prefetto del Culto Divino, il cardinal Robert Sarah racconta nel suo splendido Dieu ou rien (Dio o niente) che quando era rettore di seminario a Conakry, in Africa, un giovane diede fuoco alla cappella. Non trovandosi il responsabile, il futuro vescovo prese una decisione che sconvolse persino il feroce dittatore guineano: chiuse per un anno il seminario. In un paese dove lo sbocco religioso poteva essere un valido investimento per un futuro meno misero, chiudere il seminario era un affronto. Ma Sarah non guardò in faccia a nessuno e resistette persino agli emissari del tiranno, preoccupati per il rischio che senza seminario la pace sociale ne risentisse. Niente da fare. L’anno dopo Sarah poté riaprire il seminario con altri giovani, più motivati e più consapevoli della scelta che stavano per fare. 

    Sono testimonianze di fede che arrivano dalle periferie, quelle stesse periferie di cui spesso ci riempiamo la bocca per sentirci più a la page. Periferie dove la fede è conquistata centimetro dopo centimetro in una lotta con l’indifferenza e il deserto spirituale che non fa sconti. Tenerla viva equivale a tenere accesa una speranza. Proprio quella fiammella in grado di illuminare la notte di cui l’allora cardinale Ratzinger parlava ormai 30 anni fa quando profetizzava la Chiesa del futuro: minoritaria, ma splendente. Fiammelle che faranno luce all’uomo disperato che dopo aver perso tutto si guarderà intorno e vedrà finalmente tra le macerie fumiganti di una società edonista e mortifera, una sorgente luminosa.

    Un concetto ribadito anche nell’ultimo libro del papa emerito Ultime Conversazioni, dove riafferma con rinnovata speranza che il cristianesimo sarà salvato dalle piccole comunità alludendo ad una situazione quasi monacale dove gli uomini di fede dovranno ritagliarsi spazi in luoghi angusti, ma dove la fiammella sarà tenuta viva dalla testimonianza di sacerdoti come don Americo.



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 14/03/2017 18:13
     

    DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO PP. XII 
    AI PARROCI E AI QUARESIMALISTI DI ROMA

    Sala del Concistoro – Venerdì, 27 marzo 1953 (il Papa era reduce da un intervento chirurgico molto serio in cui rischiò di mortire)

    Ecco, diletti figli, una Udienza, alla quale non avremmo potuto rinunziare. Appena le Nostre forze Ce lo hanno permesso, Ci siamo affrettati a chiamarvi intorno a Noi, per trattenerCi un poco con voi, per parlarvi col Nostro cuore ancor più che con le Nostre labbra.

    La vostra presenza qui Ci è motivo di profondo gaudio e Ci spinge a manifestarvi la Nostra più viva letizia; se infatti tanta gioia Ci procura sempre l’incontro coi fedeli di Roma, quanto più grande deve essere quella di poterCi trovare con voi, che dividete col Vescovo dell’Urbe, col vostro Vescovo, le ansie, le trepidazioni, i timori, le speranze, in una parola, le cure pastorali?

    Vi diamo dunque, amati Parroci di Roma e Predicatori quaresimalisti, il Nostro paterno benvenuto, nella speranza che quanto saremo semplicemente per dirvi non solo servirà in qualche modo alla efficacia del vostro ministero, ma giungerà anche alle menti e ai cuori di non pochi romani, nel campo delle vostre apostoliche fatiche.

    Voi ben sapete come la Sacra Scrittura, quando parla della Chiesa, usa — secondo le circostanze — immagini architettoniche, sociali, antropomorfe. Così la Chiesa è un edificio costruito sopra una « pietra » fondamentale, tanto saldo che nessun impeto di uomini o di demoni varrà a farlo crollare (cfr. Matth. 16, 18); è un regno, le cui chiavi sono in mano di colui che ebbe da Gesù. Re eterno, la potestà di legare e di sciogliere sulla terra e nel cielo (cfr. Matth. 16, 18-19); è un corpo, le cui membra sono i fedeli e le cui operazioni sono governate dal Capo che è Gesù, rappresentato dal Vicario di Lui sulla terra (cfr. Rom. 12, 4-6: 1 Cor. 12, 12-27; Eph. 4, 4).

    Ma vi è un’immagine, sulla quale — come vi è noto — Gesù sembra insistere in modo particolare, intrattenendosi a indicarne gli elementi, a spiegarne il significato, a proporne le applicazioni pratiche: la Chiesa è un ovile, che ha un Pastore supremo invisibile, Cristo stesso, il quale però volle che facesse le sue veci sulla terra un Pastore visibile, il Papa.

    Per confidarCi con voi — come fa un padre coi figli più vicini e più cari — Noi vi diciamo che pochi passi del Vangelo sono stati e sono oggetto delle Nostre meditazioni quanto quello che descrive la Chiesa come un ovile e qualifica il suo Capo col titolo, umile insieme e grande, di Pastore (Io. 10, 1-18). Poche voci, per conseguenza, risuonano tanto insistentemente — vorremmo dire: tanto imperiosamente, — alle Nostre orecchie e s’imprimono tanto profondamente nel Nostro cuore come questa: Tu es pastor ovium.

    Non vi dispiaccia dunque che il Vescovo, il Pastore di Roma, rimediti con voi quella pagina, riascolti con voi quella voce. Nello scorso gennaio, ricevendo la parrocchia di S. Saba, procurammo di rivolgerCi specialmente ai fedeli, indicando loro le mete da raggiungere, invitandoli ad entrare, per così dire, in santa gara coi fedeli delle altre parrocchie dell’Urbe. Intendevamo — fra l’altro — di proporre un semplice e pratico modello, che potesse essere utile a quanti nel settore parrocchiale desiderano lavorare all’attuazione del « mondo migliore da Dio voluto » (Esort. 10 febbraio 1952). Oggi, quasi a complemento di ciò che allora dicemmo, C’indirizziamo particolarmente a voi, dilettissimi sacerdoti, cooperatori, — ognuno nel proprio territorio, — del Vescovo presso il popolo romano, parte tanto eletta dell’ovile universale di Cristo. Perciò Noi diremo a ciascuno di voi: tu es pastor ovium. La parrocchia, che Gesù per mezzo Nostro ti ha affidata, è anch’essa un ovile, e tu ne sei il pastore.

    Ora l’opera del pastore, l’opera quindi di ciascuno di voi, dovrà essere primieramente di difesa dai ladri. Ogni ovile è spiato da ladri e malandrini, che agognano di farne il campo delle loro ruberie. Quando essi si accostano all’ovile e furtivamente vi penetrano, non hanno che un fine : rubare e fare strage: Fur non venit visi ut furetur et mactet et perdat (Io. 10, 10).  

    Dovete quindi e innanzi tutto studiarvi di individuare e riconoscere i ladri, badando di non lasciarvi guidare da un certo semplicismo, che farebbe volgere la vostra attenzione, le vostre precauzioni verso una sola parte. Come nel gran mondo della Chiesa universale, così nel piccolo mondo della parrocchia, il nemico » sembra uno, ma è molteplice. Noi lo avvertimmo — se ben ricordate — dinanzi alla immensa moltitudine degli Uomini di Azione Cattolica nella radiosa giornata del 12 ottobre scorso. Vi è bensì — sarebbe impossibile di non accorgersene —un nemico che tiene tutti particolarmente in ansia; esso diventa ogni giorno più minaccioso, e insidia e assalta con tutti i mezzi e senza esclusione di colpi; ma questo nemico è divenuto fra tutti il più facilmente riconoscibile.

    Altri nemici, o — se volete, — lo stesso « nemico » sotto diverse forme e spoglie, occorrerà scoprire. Si avvicinano spesso vestiti da agnelli, « in vestimentis ovium » (Matth. 7, 15). Bisognerà quindi adoperarsi affinché i fedeli li riconoscano dalle opere; dalle piante, cioè, che per causa loro, nascono e crescono nel campo di Dio, come pure dai frutti che su quelle piante maturano : « a fructibus eorum ».

    A tal fine gioverà mostrare quanto disorientamento e quali tenebre s’incontrano spesso là dove prima era tutto uno splendore di luce; additare l’odio che opprime certi cuori, già dilatati nell’amore operoso; la discordia e la guerra che infuriano là dove regnava la pace; la torbida passione che sconvolge gli animi là dove era il candore della purezza. Il « nemico » disanima i giovani, estinguendo in loro la fiamma dei supremi ideali; priva i bambini della innocenza, riducendoli a piccole furie ribelli contro Dio e contro gli uomini. E quando vedrete i poveri privati delle loro più alte e consolanti speranze e certi ricchi chiusi in un pervicace egoismo; quando rimarrete tristi davanti a focolari, dove gli sposi gemono nel freddo, perché si è spento il fuoco dell’amore; dite : ecco, è venuto il ladro; ecco, è venuto il nemico, ed è venuto ut furetur et mactet et perdat, per rubare e portare lo scompiglio e la morte.

    Contro questo multiforme nemico bisognerà reagire con l’impeto del padre che difende i suoi figli e con la prontezza che un dovere così urgente e tremendo impone.

    Noi sappiamo che i Nostri parroci romani vigilano insonni e si affaticano e si affannano per evitare la strage nel proprio ovile, o almeno per ridurne il danno. Ognuno di voi è, con Noi, pastore nell’ovile : tu es pastor ovium.

    Ma ecco un’ansia di Gesù. Se, a guardia dell’ovile, invece del pastore buono, vi fosse soltanto un mercenario, potrebbe avvenire che il gregge rimanesse incustodito, o andasse addirittura disperso, appena che si facesse sentire l’urlo dei lupi, avidi di preda, pronti all’assalto : Mercenarius . . . vidit lupum venientem et dimittit oves et fugit, et lupus rapit et dispergit oves (Io. 10, 12). Oggi le condizioni del clero difficilmente possono essere un motivo di umana attrattiva, come erano forse in altri tempi. In un mondo preso, come non mai, nella rete dell’interesse, agitato dalla frenesia del piacere e tormentato dalla sete di dominio, il sacerdozio è ed appare come qualche cosa di raramente appetibile per coloro che volessero rimanere nel mondo appartenendo al mondo. Voi, diletti figli, vi sforzate di dare splendente esempio di distacco da quanto potrebbe darvi l’apparenza di «impiegati », che nel lavoro non vedessero nè cercassero altro fuorché una mercede — giusta, del resto — che valga a procacciare loro il necessario sostentamento.

    Senza dubbio, secondo la dottrina dell’Apostolo Paolo (cfr. Cor. 9, 13-14) e dello stesso Salvatore divino (cfr. Matth. 10, 10; Luc. 10, 7), colui che serve all’altare, ha diritto di vivere dell’altare; ma non vi ricorderemo mai abbastanza l’impegno sacro che un giorno assumeste dinanzi a Dio e alla Chiesa, quando il Vescovo vi affidò una porzione del suo gregge. Nessuno di voi è il mercenario, il quale fugge dinanzi al lupo, perchè non gl’importa niente delle pecorelle. Ognuno vuol essere invece, ognuno è di fatto, pastore vero, pastore buono, che nulla pretende, che anzi è disposto a immolare la vita stessa per le sue pecorelle. Bonus pastor animam suam dat pro ovibus suis (Io. 10, 11).

    In tal guisa passiamo, diletti figli, alla parte che chiameremo « positiva » della Nostra meditazione con voi. — Dopo le parole severe indirizzate ai ciechi ed ostinati Farisei, Gesù pronunzia — probabilmente durante la festa della Sagra in Gerusalemme — un’allegoria, improntata dai costumi pastorizi della Palestina, traboccante di amore e di mistero, spirante la più soave tenerezza. Egli è la porta dell’ovile, per la quale soltanto si può entrare ed uscire e trovare il pascolo di salute. È il buon Pastore; conosce le sue pecorelle, che ascoltano la sua voce e lo seguono, e per esse Egli dà la sua vita.

    Sia Egli, diletti figli, il vostro fulgido modello. Il buon pastore, il buon parroco, deve conoscere tutte le pecorelle, di tutte occuparsi, per tutte prodigarsi, affinché ad esse non manchino i pascoli verdeggianti, herbae virentes (Prov. 27, 25).

    Il suo primo pensiero correrà alle pecorelle che non sono nell’ovile. Diletti figli, non dimenticate che ognuno di voi è parroco e pastore per tutti coloro che dimorano nel territorio della sua parrocchia e per il bene di tutti egli porta una tremenda responsabilità. Non sarà dunque difficile di accorgersi che vi sono pecorelle le quali non appartengono a quell’ovile: « Et alias oves habeo, quae non sunt ex hoc ovili » (Io. 10, 16), per risolvere senza indugio che anche esse debbono essere radunate: « et illas oportet me adducere » (ibid.). È il problema, come voi vedete, delle pecorelle non entrate mai nell’ovile; il problema di quelle che ne fuggirono, abbandonando la fonte di acqua viva, per cercare melma e fango nelle cisterne screpolate: « dereliquerunt fontem aquae vivae et foderunt sibi cisternas, cisternas dissipatas » (Ier. 2, 13).

    Pecorelle smarrite, che non accetterebbero nemmeno di essere ricercate; altre che invece gradirebbero di incontrare l’occhio amorevole che le scopra e la mano pietosa che le raccolga e le risollevi; altre infine che già si apprestano a tornare, e forse temono di essere male accolte.

    Noi vi scongiuriamo, diletti figli, di rimanere in uno stato di santa e quasi perenne angustia per le pecorelle tuttora lontane, perchè non ebbero mai o perdettero la fede.

    Noi non dubitiamo che, di estate o d’inverno, di notte o di giorno, quando verranno a battere alla vostra porta, la troveranno già aperta o pronta ad aprirsi.

    E quelle che non vengono, cercatele; e quelle che volessero rimanere lontane ed ostili, raggiungetele con quell’apostolato della preghiera e del sacrificio, che non conosce ostacoli ed è il più efficace di tutti.

    Altre pecorelle sono nell’ovile e non intendono di allontanarsene sottraendosi all’unità della fede o alla unità del regime; eppure, rimanendo vittime del peccato, che si oppone all’unità nella grazia, vengono giustamente chiamate membra morte del Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa. Il pastore, il parroco, deve anzitutto ricercare le vie più atte per procurare la loro risurrezione.

    Abbiamo già detto altra volta (Discorso alla parrocchia di S. Saba) che i veri fedeli, i vivi, si contano ai piedi dell’altare, quando il sacerdote distribuisce il Pane di vita. Non basta trovarli numerosi al cinema parrocchiale, e nemmeno, per sé, soltanto alla Messa domenicale. Ma anche se dalla frequenza in questa ultima fosse possibile di computare fondatamente i fedeli vivi, non è forse vero che già così si presenterebbe uno spettacolo non sempre consolante al vostro occhio di pastori? E le bestemmie? E i peccati contro il sesto comandamento commessi dai giovani e da coloro che sono uniti col vincolo santo del matrimonio? E i furti? E le false testimonianze?

    A questi morti il buon pastore deve ridare la vita. Il sacerdote in cura d’anime non può dimenticare che Gesù Pastore supremo ed universale dichiarò di essere venuto al mondo affinchè le pecorelle avessero la vita: Veni ut vitam habeant (Io. 10, 10).

    Quando poi considera le pecorelle che sono vive, non creda il pastore buono, il parroco, di poter restarsene tranquillo. È vero che in particolari contingenze bisognerà lasciare le novantanove, sicure nell’ovile, per correre dietro alla pecorella smarrita. Ordinariamente però sarà necessario di conservare la vita in chi la possiede, avendo cura che a nessuno manchi il conveniente nutrimento spirituale.

    Anzi bisognerà non contentarsi di conservare; occorrerà anche accrescere la vita divina nelle anime. Veni ut vitam habeant et abundantius habeant (Io. 10, 10): proclamò il Redentore, intendendo che questa fosse anche l’ansia degli altri pastori preposti alle varie porzioni del suo gregge nell’ovile della Chiesa.

    È il problema urgentissimo dei cattolici militanti. Ne parlammo già ai fedeli di S. Saba e intendiamo di qui rinnovare la Nostra raccomandazione che crescano in numero e in qualità. Sarà utile altresì di riflettere che queste anime generose più facilmente seguiranno il pastore che sappia precederle col suo esempio. Il buon pastore, « cum pro prias oves einiserit, ante cas vadit, et oves illuin sequuntur » (Io. 10, 4).

    Forse l’uno o l’altro di voi sentirà dolorosamente il tagliente contrasto fra la mirabile allegoria del buon Pastore e la cruda realtà presente. E Noi vogliamo con ciò alludere non tanto alle difficoltà che s’incontrano nelle grandi parrocchie col loro stragrande numero di anime, quanto piuttosto al travaglio in cui vivono non pochi parroci in varie regioni: indebolimento dello spirito di fede; accaniti sforzi degli avversari per escludere la religione dalla vita pubblica; potenti organizzazioni tese nella lotta contro Dio, Cristo e la Chiesa.

    Noi non neghiamo, diletti figli, che la nave della Chiesa avanza in un mare procelloso. Tuttavia, quanto maggiori sono le difficoltà, tanto più dobbiamo conservare la quiete interiore ed elevare il cuore a Dio. Noi viviamo di fede (cfr. Rom. I, 17). Ma la fede importa un abbandono incondizionato in Dio, indipendentemente da ogni calcolo umano delle possibilità di un favorevole successo. Nel momento in cui noi cominciassimo a dirigere l’opera nostra secondo un tale calcolo, ci allontaneremmo dal senso della fede. Non dobbiamo inoltre dimenticare che la via della Chiesa è la via della Croce, e che il seguire Gesù portando la croce è dovere primario del sacerdote.  

    È stato giustamente osservato che nella storia della Chiesa vi sono periodi, in cui viene principalmente gettato il seme del futuro sviluppo. Le generazioni venture ripongono poi la ricca messe nei granai. Ci troviamo forse noi ora in una simile epoca di promettente seminagione? Ad ogni modo, se il Male ai nostri giorni ha accresciuto la sua potenza, ciò è vero anche più del Bene, e la Chiesa ha potuto registrare ai nostri tempi fulgidissimi esempi di ardente zelo per la gloria di Dio e per la salvezza di tante anime immortali.

    Il numero di coloro, che vogliono rimanere fedeli a Cristo e alla sua Chiesa, merita davvero sempre il pieno impiego delle vostre forze; e quanto ai lontani e ai nemici, valga per essi l’olocausto delle vostre preghiere, delle vostre fatiche, delle vostre ansietà, ed anche delle vostre forse deluse speranze.

    Cuore largo, imperturbabile coraggio, incrollabile fiducia, siano il sostegno della vostra vita, e con tale augurio impartiamo di cuore a voi, a tutto il clero e il popolo romano, la Nostra Apostolica Benedizione.

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    fonte: Sito della Santa Sede




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)