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DIFENDERE LA VERA FEDE

Il cardinale Hummes: Fermezza e paternità per difendere la credibilità dei Sacerdoti

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    Caterina63
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    00 12/01/2010 20:29
    A colloquio con il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero

    Fermezza e paternità
    per difendere la credibilità dei sacerdoti


    di Mario Ponzi

    Fermezza e paternità. Sono gli atteggiamenti che caratterizzano la Chiesa cattolica, sempre uguale a se stessa, sia quando assume posizioni drastiche nei confronti di chi esce dal seminato, sia quando mostra il suo volto accogliente ed è pronta a perdonare chi si pente o ad accogliere chi bussa alle sue porte. Con i suoi sacerdoti, poi, è sempre e comunque prodiga di amore. Di questi atteggiamenti si fa interprete il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, nell'intervista che ha rilasciato al nostro giornale.

    "La paternità del vescovo elemento fondamentale per la riuscita di una vita sacerdotale". Lo ha detto il Papa rivolgendosi ai vescovi della Bielorussia in visita ad limina il 17 dicembre dello scorso anno. Quanto accaduto in alcune parti del mondo però, nonostante l'impegno, indica che qualcosa non ha funzionato. Cosa?

    Non dobbiamo generalizzare. La dolorosa vicenda irlandese - per la quale tra l'altro alcuni vescovi si sono assunti le loro responsabilità e si sono fatti da parte - non può essere riferita a tutto il ministero episcopale. I vescovi sono buoni padri per i loro sacerdoti. Certo, esistono alcune situazioni disdicevoli, ma sono molto limitate. Si tratta purtroppo di situazioni legate alla condizione umana. È quanto accaduto in Irlanda. Un fatto dolorosissimo che colpisce prima di tutto, è vero, le vittime, ma ferisce anche profondamente il cuore della Chiesa. Accertate oggettivamente le responsabilità di tanto male, bisogna andare risolutamente sino in fondo, anche facendo ricorso alla giustizia ordinaria.

    Quanto ne risente secondo lei la credibilità dei sacerdoti?

    Purtroppo in una società poco incline ad andare fino in fondo nella ricerca della verità, né va dell'immagine del sacerdote. Soprattutto perché i media puntano i loro riflettori su queste vicende, piuttosto che su quello che di buono fa la stragrande maggioranza dei sacerdoti. È innegabile che si verificano episodi dolorosi. Ma si tratta pur sempre di casi limitati e, stando almeno ai numeri, proporzionalmente modesti. Fatti comunque gravissimi, delittuosi che la Chiesa non può tollerare mai, in nessun caso. Ma, ripeto, la grandissima maggioranza dei sacerdoti nel mondo sono persone degne, impegnate nel loro ministero, pronte a spendere tutta la vita - e spesso la perdono - per il Vangelo. Comportamenti ammirevoli ma che purtroppo non fanno notizia. Dal mio privilegiato punto di osservazione ho potuto conoscere tante storie sacerdotali eccellenti. Ho imparato ad amare i sacerdoti sempre di più. Sono una forza molto importante nella Chiesa. Ogni giorno ne sostengono il peso e ne consentono il cammino sui sentieri del mondo. In tante contrade sperdute della terra, sono essi stessi Chiesa. Ne incarnano la missione. Avanguardie del Vangelo, rischiano quotidianamente il martirio. Rappresentano una forza positiva anche per la società. Con il Vangelo, infatti, diffondono valori propri della persona umana, ne riaffermano i diritti, prima di tutto quelli alla vita e alla libertà. Intessono le trame di una fitta rete di carità e di solidarietà che attraversa il mondo. Per questo io ritengo di primaria importanza offrire sempre ai sacerdoti tutti i mezzi di cui necessitano per continuare a esercitare la loro missione. Soprattutto però essi hanno bisogno del nostro sostegno.

    Però è difficile in certe realtà cancellare immagini e opinioni negative.

    Abbiamo sicuramente bisogno di nuove testimonianze. Per questo preghiamo. Sentiamo il dovere di credere nella forza della preghiera. Anzi quest'anno sacerdotale è un'opportunità di grazia da cogliere senza esitazioni. Ovunque nel mondo cristiano si sta riflettendo sulla quotidianità del ministero, sulla necessità della formazione permanente da offrire ai sacerdoti, anche anziani. Questo è un punto fondamentale:  pensare a una formazione permanente che abbia il sapore dell'aggiornamento, della riqualificazione. Come capita in ogni altro ambito della vita umana. Ma ripeto, dobbiamo puntare molto sulla preghiera, sull'adorazione eucaristica. In tante parrocchie già si è cominciato a pregare per i sacerdoti, affinché possano ricevere la forza da Dio per affrontare le nuove sfide della società post moderna. Dai segnali raccolti in questi primi mesi, credo di poter dire che quest'anno potrà realmente far nascere uno spirito sacerdotale nuovo. È molto opportuno che i presbiteri sentano l'amore della Chiesa per loro, vedano riconosciuti i loro sforzi, si sentano appoggiati e stimolati. Il Papa, quando ho avuto occasione di salutarlo per gli auguri natalizi, mi ha detto di essere molto soddisfatto per l'andamento dell'anno sacerdotale, soprattutto proprio perché è stato colto il senso vero della sua celebrazione.

    Vanno dunque interpretati nell'ottica dell'amore quei gesti di apertura, da parte della Chiesa, che hanno in un certo senso caratterizzato questi primi mesi dell'anno sacerdotale?

    Direi di sì. La Chiesa cattolica è pronta ad accogliere tutte le legittime diversità nel suo seno. Non si preoccupa di categorie umane che parlano di destra, di sinistra, di progressisti, di conservatori. La nostra non è una Chiesa settaria. È cattolica, è una, è santa e apostolica ed è pronta ad abbracciare chiunque, come una grande madre. Offre a tutti la possibilità di compiere cammini diversi pur nella comune testimonianza del Vangelo. Si pensi alla storia degli ordini religiosi, alle loro differenti spiritualità, così diversi l'uno dall'altro ma tutti insieme capaci di portare ricchezza di carismi nell'unica Chiesa di Cristo. Naturalmente tutti devono camminare nell'unità. Ma unità non vuol dire uniformità.

    È in questo contesto che si inserisce anche la costituzione apostolica "Anglicanorum coetibus"?

    Sì, senza dubbio. Entrare a far parte della nostra comunità ecclesiale è stata una loro richiesta. La Chiesa cattolica non ha fatto altre che aprire le sue porte, come è nel suo stile di accoglienza. Agli anglicani venuti tra di noi essa offre la possibilità di vivere la fede, anche se in una forma un po' diversa, mantenendo cioè alcune caratteristiche del loro rito, della loro spiritualità, della loro liturgia cioè tutto ciò che rende possibile di vivere senza compromettere l'unità e la comunione ecclesiale. Ciò significa che entrano pienamente nella comunione ecclesiale. Lo considero un fatto molto positivo, anche se sono consapevole che ci sono ancora alcune cose da aggiustare, da verificare. È l'espressione di quella libertà di coscienza e di quella libertà religiosa che si professano nella Chiesa cattolica, aperta a chiunque voglia condividerne la comunione.

    Per la sua congregazione questa apertura cosa comporta?

    Per il momento nulla di nuovo. A parte alcune considerazioni generali in riferimento allo status sacerdotale in generale, come quello dei sacerdoti in tutto il mondo. Cose più specifiche riguardano la Congregazione per la Dottrina della Fede.

    Non pensa che possa aumentare il numero dei sacerdoti in crisi di identità, o comunque in difficoltà per via del celibato?

    Certamente dovremo parlare di più con i nostri sacerdoti. Da molte parti viene raccomandata attenzione a quanti, sacerdoti, chiedono la dispensa, anche perché desiderano sposarsi. La Chiesa non abbandona nessuno; nessuno viene escluso dall'amore, dalla fraternità. Neppure quanti ancora non hanno adottato la decisione di chiedere la dispensa, che è sempre la cosa migliore da fare in certi casi. Chi ha di fatto abbandonato il ministero o chi comunque non è più nelle condizioni necessarie per andare avanti, è chiamato a regolarizzare la situazione, come sacerdote, davanti a Dio, davanti la Chiesa e davanti la sua stessa coscienza. Proprio per rendere più semplici certi passaggi il Papa ha conferito alla nostra Congregazione facoltà speciali in questo senso. È un modo per facilitare il procedimento e mettere queste persone in grado di regolarizzare prima la loro posizione, in modo da poter continuare a vivere la loro fede cristiana, anche se in una nuova condizione. La salus animarum è e resta l'obiettivo della Chiesa.

    È stato così anche per Milingo?

    Certo, questo è stato lo scopo. Se è vero che nel provvedimento di riduzione allo stato laicale si legge la parola in poenam, in fondo si tratta sempre di una grazia perché si offre la possibilità di regolarizzare una posizione e uscire da una situazione che non è regolare né davanti a Dio, né davanti alla Chiesa. Si tratta pur sempre di sacerdoti, persone cioè che hanno degli obblighi. Chiedendo ufficialmente di essere dispensati da questi obblighi si torna a una situazione corretta per vivere davanti a Dio. Alla fine, insomma, si offre sempre a tutti la possibilità di recuperare lo stato di grazia.

    Significa che ci si può sempre pentire e dunque tornare indietro?

    Sì, sebbene a determinate condizioni e davanti a una vera conversione, si può anche riprendere a esercitare il ministero.

    Allora anche un sacerdote sposato potrebbe tornare al ministero sacerdotale se si pentisse?

    Finché sussiste il vincolo del matrimonio no, perché gli mancherebbe la condizione di celibe. Se invece dovesse venir meno tale vincolo, secondo quanto specificato in proposito dal diritto canonico, e in presenza di ulteriore richiesta da parte dell'interessato, si dovrebbe procedere esaminando caso per caso, perché in tale delicata materia non si può generalizzare. La legislazione della Chiesa è chiara in questo senso. In ogni caso comunque per il sacerdote che chiede la dispensa la situazione nella comunità ecclesiale è regolarizzata a pieno titolo. Dunque è nella condizione di poter vivere in stato di grazia. Ciò significa che, anche nella sua nuova situazione, può santificarsi come ogni altro cristiano.

    In quale modo l'anno sacerdotale potrà contribuire all'orientamento dei sacerdoti che si trovano in difficoltà?

    Io penso che sarà un'occasione privilegiata per costoro. Del resto è uno degli obiettivi che si era prefisso il Papa quando lo ha convocato. La riflessione che si sviluppa in questo periodo, investe vari campi. Servirà senz'altro ad aiutare quei sacerdoti che si sentono un po' confusi, quanti accusano sintomi di stanchezza, quelli che avvertono, in maniera sempre più forte, le sollecitazioni del mondo secolare, e sono tentati di cedere sotto il peso delle innumerevoli sfide che si trovano davanti. Ma servirà, io credo, anche a convincere i sacerdoti che vivono situazioni irregolari, senza aver chiesto cioè la dispensa, a mettersi in ordine con la propria coscienza e a regolarizzare le loro posizioni. Anche per restituire chiarezza alla loro vita e a quella degli altri, dei fedeli soprattutto.

    Si parla spesso di formazione. Ma cosa si fa in concreto per i sacerdoti chiamati a confrontarsi con un mondo in continua evoluzione?

    Siamo perfettamente consapevoli di come sia cambiata la vita oggi. Dunque avvertiamo l'urgenza di una formazione permanente per i nostri sacerdoti. Anzi, per tutti noi. Abbiamo tutti bisogno di riqualificarci, di aggiornarci per venire incontro alle sfide della società globalizzata. Si presentano infatti situazioni nuove da affrontare; a volte ci troviamo impreparati. I giovani di oggi, per esempio, rappresentano una nuova espressione culturale, molto diversa da quella di prima. La società stessa si presenta sempre più come società multicuturale, multireligiosa. E purtroppo molto spesso a conquistare il primato, o comunque maggiore visibilità, è una cultura lontana dalla coscienza religiosa, una cultura laicista, materialista, consumistica, relativista. Certo non possiamo cancellarla. Dunque dobbiamo imparare a gestirla, ad amministrarla per restare nel mondo. I nostri giovani vengono da queste esperienze culturali, sono nati in questo mondo. Nostro compito è comprenderli, capire se tra di loro ci sono delle vocazioni autentiche. Anche per ciò che riguarda la loro formazione, è chiaro che si dovrà tener conto di questa nuova esperienza culturale, delle sollecitazioni cui vengono o verranno sottoposti, del contesto sociale in cui sono chiamati a servire la Chiesa e gli uomini. Si tratterà cioè di formare sacerdoti capaci di stare nel mondo di oggi e di portare l'eterno messaggio di Cristo nel mondo che verrà, che non è poi tanto lontano, vista la rapidità dei cambiamenti generazionali.

    Una caratteristica di questo mondo nuovo sembra essere la mobilità umana. A volte però, stando almeno ad alcune situazioni, il fenomeno migratorio comporta recrudescenze di razzismo, di xenofobia. Ne restano coinvolti anche i sacerdoti?

    È un fenomeno purtroppo reale. Non possiamo né dobbiamo arrenderci a questa mentalità. La situazione particolare di certe Chiese, soprattutto quelle più antiche, si fa difficile per la scarsità delle vocazioni. Mentre nelle Chiese nate nei territori una volta di missione, per grazia di Dio, le vocazioni sono in costante crescita. Dunque si verifica il fenomeno contrario:  da Chiese di missione a Chiese missionarie che inviano sacerdoti laddove ce n'è più bisogno. Ma io credo che proprio questo movimento di sacerdoti da una nazione a un'altra contribuisca in qualche modo a quell'auspicato cambiamento di mentalità. Nella comunità veramente cristiana il fenomeno del razzismo o della xenofobia è più raro, alle volte è sconosciuto. Anzi direi che le comunità ecclesiali, le parrocchie soprattutto, si aprono all'accoglienza degli stranieri; dunque figurarsi come è accolto il sacerdote straniero che va a servire la stessa comunità. Non si può però pensare che la situazione di un Paese possa essere risolta con l'arrivo dei sacerdoti missionari:  la Chiesa locale deve puntare a formare il suo clero, quello del suo paese. Una comunità matura deve essere capace di alimentare le vocazioni nel suo seno.

    Come deve essere il sacerdote del terzo millennio?

    Come quello del primo e come quello del secondo millennio. Cioè come Cristo lo ha voluto. Importante che sia capace di interpretare i segni dei tempi e vivere dentro la cultura del suo tempo da servo del Cristo, del suo Vangelo, della sua Chiesa. Che è sempre identica a quella di ieri e a quella di domani. Questo indica che la Chiesa e, nel caso, i suoi sacerdoti devono inculturare il Vangelo in ogni cultura ed evangelizzare tutte le culture. Devono essere capaci di fare del Vangelo la risposta per le questioni e le aspirazioni di ogni momento storico e di ogni situazione culturale. "Dio non ha mandato il Figlio al mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui".


    (©L'Osservatore Romano - 13 gennaio 2010)
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 29/04/2010 20:38

    Sugli abusi sessuali
    ogni generalizzazione è indebita



    Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana, vescovo Mariano Crociata, alla riunione della Commissione presbiterale italiana, che si conclude oggi a Roma.
     

    di mons. Mariano Crociata

    L'educazione umana e quella cristiana sono tra loro in un rapporto molto stretto, anche se non vanno confuse, così che un percorso educativo esemplare dà forma indivisibilmente ad un buon cittadino e ad un vero cristiano. Come presbiteri, dunque, abbiamo la responsabilità di avvertire l'intreccio di motivi apparentemente distanti in un servizio ministeriale che edifica la comunità ecclesiale facendo crescere mature persone credenti.

    La composizione dei diversi apporti così segnalati dentro un unitario e convergente progetto educativo ecclesiale lascia intravedere un cammino fecondo per i prossimi anni, affidato alla nostra responsabilità e al nostro impegno. Una prospettiva non difforme disegnano altri momenti e temi significativi della vita della Chiesa in Italia. Un primo evento è costituito dal procedere coinvolgente e sistematico della preparazione della prossima Settimana Sociale, in programma dal 14 al 17 ottobre a Reggio Calabria, di cui è imminente la divulgazione del documento preparatorio. Un secondo momento riguarda la pubblicazione del "Vademecum per la pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali non cattolici" (23 febbraio 2010).

    Mi sembra importante accennare anche ad una questione che travaglia ormai da decenni la nostra società e che tocca mentalità e cultura diffuse nel nostro Paese:  mi riferisco al tema dell'aborto, nel quadro vasto e complesso dell'accoglienza della vita e dei problemi di tipo bioetico ad essa connessi, a cui non ha mancato di fare ripetuti riferimenti Benedetto XVI nel suo magistero anche recente. Ho voluto richiamare questo punto perché proprio nell'ultimo periodo è stato autorizzato l'uso della pillola ru486, seppure solo in regime ospedaliero. Inoltre è nota la produzione di farmaci il cui effetto consiste nel cancellare preventivamente ogni traccia di eventuale concepimento, con il risultato che la donna che ha assunto tali sostanze non saprà se sia avvenuta una fecondazione.

    La questione educativa è a suo modo interpellata dai gravi e tristi episodi di pedofilia che hanno coinvolto alcuni ecclesiastici e hanno suscitato una vasta eco mediatica. Probabilmente siamo ancora condizionati dalla impressione suscitata dal flusso continuo di notizie e commenti. Tuttavia, sia pure consapevoli della delicatezza e della complessità del tema, dobbiamo cercare di condurre una riflessione pacata e il più possibile oggettiva. Il rischio è quello delle estremizzazioni e degli unilateralismi:  da una difesa per partito preso e dalla giustificazione assolutoria al colpevolismo e al giustizialismo. Bisogna anzitutto correggere, tra i tanti, un luogo comune ricorrente, che vorrebbe il magistero ecclesiastico fino all'altro ieri tollerante verso certe pratiche, quando invece la condanna esplicita della pedofilia non è cosa di oggi, ma va ricondotta almeno a documenti del 1922 e del 1962, che ne stigmatizzavano in maniera inequivocabile la natura criminosa e aberrante. Chi ha favorito atteggiamenti di indulgenza o pratiche di rimozione non ha mai applicato direttive di Chiesa, ma semmai le ha tradite, stravolgendo la doverosa riservatezza in complice copertura.

    Senza dubbio c'è stata una evoluzione nella sensibilità sociale, che ha portato da un lato ad una più netta e condivisa percezione della inaudita gravità della pedofilia e dall'altro all'esigenza di una totale trasparenza nella individuazione e nel contrasto di comportamenti e responsabilità. Si tratta di una evoluzione positiva, che ha trovato una risposta adeguata e pronta nei documenti emanati sotto il pontificato di Giovanni Paolo ii, e, più recentemente, nella "Lettera pastorale ai cattolici d'Irlanda" (19 marzo 2010) di Benedetto XVI e nella "Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo alle accuse di abusi sessuali" (12 aprile 2010).

    Bisogna dire però che l'evoluzione della sensibilità comune si muove, purtroppo, dentro una interna contraddizione etica e culturale che non può essere occultata. Infatti, pur senza evocare le posizioni estreme di chi vorrebbe legittimare dal punto di vista culturale la pratica della pedofilia e avendo presente la diffusione incontrollata di pratiche e di immagini connesse con la pedofilia, non è improprio osservare che la cultura pansessualistica ed edonistica tanto diffusa non aiuta certo a sviluppare il senso del rispetto delle persone, specialmente delle più fragili e indifese, ridotte a oggetto di desiderio e di piacere.

    Posto che un solo caso di pedofilia è già di troppo, in qualsiasi ambiente, un tale comportamento è doppiamente condannabile quando a metterlo in atto è un uomo di Chiesa, un prete, una persona consacrata. Per questo non basta dire che, in proporzione numerica, i casi di pedofilia tra il clero sono uguali o addirittura inferiori a quelli che si verificano in altre categorie di persone. Non possiamo infatti sorprenderci se la reazione di fronte ad abusi commessi da ecclesiastici è stata così forte. Noi stessi siamo cultori della grandezza e della elevatezza del ministero che ci è stato affidato, e desideriamo diffondere questo senso di sacralità nei fedeli e attorno a noi:  è comprensibile che chi ci incontra si aspetti dal sacerdote un comportamento corrispondente. La rabbia e l'amarezza hanno un significativo rapporto con la consapevolezza dell'alta qualità morale e umana del clero, nonché con l'affidabilità maggiore da noi offerta e attesa dagli altri, particolarmente in rapporto ai minori consegnati alla nostra guida e alla nostra responsabilità educativa. Le aspettative più alte alimentate dal nostro ministero rendono smisuratamente più intollerabile e condannabile un tradimento così grave e devastante.

    Detto questo, è doveroso aggiungere che ogni generalizzazione è indebita, e precisamente nelle due direzioni:  nel far credere che in ogni prete si celi un potenziale pedofilo o, all'opposto, nel supporre che le accuse di pedofilia siano soltanto il frutto di un complotto architettato contro la Chiesa. Il fatto che qualche giornale o gruppo di pressione abbia intentato una campagna denigratoria, prendendo spunto da alcune notizie, non può far concludere che si tratti soltanto di una montatura mediatica. D'altra parte, l'emergere di casi puntuali non può dare adito a giudizi sommari, di per sé sempre superficiali. È necessario, invece, attenersi il più possibile ai fatti, senza lasciarsi sopraffare dal clamore delle notizie ad effetto né da un acritico garantismo, profondamente ingiusto rispetto alle vittime, che sono - non dimentichiamolo - nostri fratelli e sorelle nella fede e nella Chiesa.

    Ci troviamo di fronte a persone da tutelare e da accompagnare:  qui sta la sfida e la difficoltà di una condizione umana che interpella la responsabilità di tutti. Le vittime hanno bisogno di giustizia e di solidarietà; necessitano di essere protette e difese e poi accompagnate in un lungo cammino di recupero e di riconciliazione anzitutto con la loro storia. Dall'altra parte, anche gli autori degli abusi vanno accompagnati, senza falsa pietà, in un percorso di correzione e di contenimento che impedisca la reiterazione del male e ne favorisca il processo di redenzione.

    La comunità cristiana, in tutto questo, si trova in una posizione peculiare, poiché è doppiamente colpita e danneggiata nei suoi membri, sia offensori che vittime; ma è ferita anche nella sua immagine pubblica in ordine all'esercizio della sua missione pastorale. A tutto ciò essa deve rispondere secondo lo stile di verità che le è proprio, ovvero secondo giustizia e misericordia. Ciò esige solidarietà e sostegno alle vittime, rigore e accompagnamento - nel rispetto delle leggi della Chiesa e dello Stato - verso chi si è reso responsabile di abusi, purificazione e penitenza al proprio interno, coraggio e rinnovato slancio nel condurre la propria missione.

    Sempre, nel corso della storia, la Chiesa scopre nella prova di essere depositaria di una grazia, di una forza, di una integrità che non vengono dai suoi membri, ma dall'alto, cioè dal Signore. Perciò questo momento deve essere affrontato con coraggio e secondo verità. Non si deve aver paura di evidenziare e togliere il male di mezzo a noi, ma nello stesso tempo non si deve aver paura di annunciare il Vangelo. Si può aver vergogna di se stessi, ma non del Vangelo. E naturalmente, per non vergognarci del Vangelo, dobbiamo adoperarci per aderirvi con il cuore e con la vita, con tutto di noi stessi.

    In conclusione, ritengo che si debbano avere due tipi di attenzioni. La prima riguarda la necessaria interazione e distinzione fra tre ambiti:  lo spazio della giustizia umana, la competenza delle scienze, il regime della grazia e il suo ordinamento ecclesiale; in altre parole, il delitto, la malattia, il peccato. Di una persona che si macchia di abusi su minori può essere detto - ma va distintamente verificato - che ha compiuto un delitto, che è malata, che ha peccato. Una tale persona ha bisogno di sottoporsi alla giustizia, alla cura, alla grazia. Tutte e tre sono necessarie, ma non possono surrogarsi, sostituirsi, compensarsi:  la pena per il delitto non guarisce né dà il perdono, ma anche, all'inverso, il perdono del peccato non guarisce la malattia né adempie le esigenze della giustizia, così come la cura non può sostituire la pena né tanto meno rimettere il peccato. Le indicazioni che vengono dalla Chiesa vanno proprio nella direzione della armoniosa interazione fra i tre livelli. C'è da sperare che, al di là delle polemiche mediatiche, si sia capaci di suscitare la cooperazione necessaria a lenire, se non a guarire, ferite così profonde.

    Quanto alla seconda attenzione, la vicenda della pedofilia, come indicato da Papa Benedetto XVI, deve costituire l'avvio di un percorso di purificazione e di rinnovamento profondo all'interno della Chiesa. Questo rinnovamento richiederà alcune condizioni. La prima è una particolare diligenza nel discernimento vocazionale dei ministri e delle persone consacrate e nella loro preparazione e formazione al ministero e alla consacrazione. Una seconda condizione è che l'esercizio dell'autorità nella Chiesa assicuri permanentemente una elevata qualità umana, spirituale, intellettuale e pastorale in chi esercita un ministero e, nello stesso tempo, vigili con senso di carità e di responsabilità. Una terza condizione tocca ciascuno di noi, chiamato a fuggire dalla tentazione dell'individualismo e della chiusura nel privato, per vivere la fraternità ministeriale, religiosa ed ecclesiale, in modo da sviluppare l'evangelica correzione fraterna:  essa ci sostiene potentemente in quel cammino di santità, che è il senso dell'esistenza cristiana in ogni stato di vita.


    (©L'Osservatore Romano - 30 aprile 2010)
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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