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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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I BUONI MAESTRI - come riconoscerli ?

Ultimo Aggiornamento: 21/07/2015 23:09
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22/05/2013 09:21
 
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Su divorzio, aborto, eutanasia, omosessualità, etc... dobbiamo e vogliamo essere "integralisti".

Su divorzio, aborto, eutanasia, omosessualità, etc… dobbiamo e vogliamo essere “integralisti”.

4. La “schizolatria”

La quarta “latria” nasce ed è alimentata da una “fobia”. La paura ossessiva dell’integralismo – cioè dell’abitudine mentale a risolvere tutti i problemi umani di ogni ordine e grado deducendo immediatamente le soluzioni dai princìpi di fede – induce alcuni incauti al culto esasperato della divisione degli ambiti e alla esaltazione della totale impermeabilità tra un piano e l’altro dell’impegno umano. Alcune annotazioni si impongono a questo proposito.

L’inerzia mentale, lo schematismo linguistico, l’incapacità a seguire l’effettivo succedersi dei mutamenti culturali cospirano a tenere nascosto agli occhi di molti il fatto che un integralismo cattolico – che pur ha avuto una sua lunga e deleteria stagione – oggi non esiste più se non in frange trascurabili della cristianità. È morto da un pezzo, anche se il suo fantasma è continuamente evocato da alcuni sprovveduti e da molti interessati. A lottare contro le ombre non c’è pericolo di farsi male, e perciò sono numerosi i prodi che si slanciano in queste battaglie. Per contro esistono – graffianti, acritici, sicuri di sé – altri integralismi di vario colore: c’è un integralismo marxista, un integralismo radicale, un integralismo laicista, un integralismo liberale, perfino un integralismo mazziniano. Ogni “parrocchia” politica in Italia ritiene di avere una concezione totalizzante della realtà, in grado di portare luce su ogni questione, ivi comprese quelle che si riferiscono alla coscienza morale, ai contenuti dell’impegno religioso. alle forme di esercizio del, magistero ecclesiale.

Tutte queste “parrocchie” si adoperano a tenere viva la fobia dell’integralismo cattolico; e il più delle volte viene contrassegnato con questa etichetta ogni desiderio di coerenza cristiana ed è condannata a questo titolo ogni determinazione di irradiare la fede nella cultura e nella vita. Né c’è da stupirsene; stupisce piuttosto che questo tipo di intolleranza trovi consensi in molti credenti anche sinceri. Ma la schizolatria è soprattutto un attentato alla retta visione cristiana della realtà. Essa sembra dimenticare totalmente l’esistenza di un solo Signore, nel quale, per mezzo del quale, in vista del quale tutto esiste, sia nell’ordine della redenzione sia nell’ordine della creazione.

Conseguentemente colpisce al cuore l’unità del piano divino e la stessa ultima intelligibilità di questo universo di fatto esistente. Ci sia consentito riprodurre qui alcune pagine lucidissime di Inos Biffi, meritevoli di rilettura e di approfondita meditazione. ”Il primo punto di partenza non esatto è la suddivisione, anzi la distinzione tra piano creaturale / o di natura, e piano redentivo / o della grazia. Questa distinzione, che per qualcuno arriva persino alla separazione, non è teologicamente accettabile e proponibile. Essa viene a misconoscere il dato primo dell’attuale e concreto ordine di realtà: ed è il progetto originario, assoluto e totalizzante – su cui abbiamo già insistito – consistente nella predestinazione dell’uomo e dell’universo in Gesù Cristo risorto da morte.

E’, indubbio che Dio avrebbe potuto concepire un altro ordine di provvidenza; è indiscutibile che solo la fede – che fa uditori della Parola – trasmette integralmente questo disegno originario di fronte al quale tutti gli altri sono ipotetici: ma questo è in ogni modo un fatto, fuori del quale esiste solo, obiettivamente, la non esistenza o l’ipotesi. Una teologia corretta non accetterà mai un ordine naturale e ad esso giustapposto un ordine soprannaturale concretamente esistenti e che si tratterebbe di tenere uniti. E di conseguenza: una specie di natura-ragione neutra, valida per tutti, non riferita a Gesù Cristo, di “pura” entità “creaturale” (ossia dipendente dalla pura creazione). Ne deriva che, se per mediazione si dovesse intendere l’atto di chi si sforza di mettere insieme tali due ordini inizialmente separati, essa è semplicemente scorretta e impossibile.

Purtroppo ci è dato di constatare che un certo linguaggio e certe impostazioni concettuali traducono esattamente questa inconsistente dicotomia. Manca un pensiero che traduca, oltre la cultura religiosa e storica, una dottrina teologica criticamente fondata. La verità è un’altra: nel disegno originario in Gesù Cristo è compresa la “ragione”, la “filosofia”, l’incontrovertibilità, dell’essere e vi è compresa non come sostituibile dalla fede, ma nella sua specificità. Per il fatto di essere creata in Gesù Cristo la ragione non smette di essere tale: l’accoglienza per fede del disegno divino in Cristo non la degenera e non la umilia. Per poter giustamente parlare di mediazioni bisogna uscire da questo equivoco. Il cristiano va anche più avanti: egli intende la grazia non solo non adulterante, ma di fatto sanante la ragione: la redenzione in certo modo rende la ragione a se stessa. Un secondo punto di partenza non esatto sarebbe quello di porre da un lato il dato della fede, dall’altro il dato della storia, e quindi della temporalità, della politica, come se alla fede non appartenesse la storicità, la politicità, in una parola sola: l’antropologia filosofica. Ci sono dati di intelligibilità e di struttura antropologica la cui mortificazione significherebbe la mortificazione dello stesso disegno originario.

Il cristiano non prende a prestito dalla filosofia pagana-neutra la dimensione razionale dell’uomo: piuttosto, eventualmente, riconosce che al di fuori dell’orizzonte della fede consapevole esistono valori obiettivamente appartenenti al piano di salvezza, il quale non si separa e non si distingue affatto – in concreto! – dal piano “creaturale” come abbiamo ora detto. Facendo storia, cultura, politica, ecc., il cristiano non fa altro che rilevare e determinare una dimensione del contenuto della sua fede, mettendo in atto la razionalità che è un reale ingrediente del disegno divino: un ingrediente che richiede riflessione, ricerca, confronto; che conclude a gradi più o meno di certezza, che lascia spazi di ipoteticità e margini di pluralismo. Se è vero in un certo senso che non c’è passaggio diretto dalla fede alla politica, è altrettanto vero che la politica mette in opera elementi che non sono discordi o àlteri rispetto al piano integrale originario. S’è parlato, con preciso fondamento, di “umanesimo integrale”. Occorrerebbe più compiutamente parlare di “cristianesimo integrale”. Ancora: si è detto – e giustamente in una determinata prospettiva – che si deve distinguere per unire: nella nostra prospettiva va detto che si deve “distinguere nell’unito”.

Una mediazione che fosse configurata come lo sforzo o l’impegno di tenere insieme la salvezza e la storia, il vangelo e la politica, come se fossero costitutivamente separati, è una pura ideologia, in quanto immagina radicalmente fuori il secondo versante dall’ordine salvifico; oppure m quanto si rappresenta piuttosto miticamente la storia come entità a sé da ‘battezzare’. L’originario costitutivo impone una filosofia, con le sue proprietà caratterizzanti: essa è un compito del credente – e ognuno, dotto o indotto, la pone, sia pure con diversa teorizzazione. È vero che il cristianesimo non può fare a meno della filosofia, ma il motivo è perché l’uomo creato da Dio in Gesù Cristo è un essere “filosofico”, con quel che ne consegue”.

5. La “bibliolatria”

Il culto della Sacra Scrittura, la riscoperta del suo valore vitale, gli studi di cui è fatta oggetto rappresentano certamente una preziosa conquista del nostro tempo. Possiamo anzi dire che ancora non è letta, meditata, amata abbastanza dai cattolici: è augurabile che si abbia a progredire su questa strada a passo più spedito e con animo più risoluto. Pure c’è qualcosa che ci inquieta nel modo attuale di accostarci al Libro di Dio e ci spinge a formulare alcune osservazioni, che proponiamo candidamente trascurando il rischio non ipotetico di essere fraintesi e mal giudicati. Noi non siamo il “popolo del Libro”; a rigore non siamo neppure il “popolo della Parola”: siamo il “popolo dell’avvenimento”.

La Parola di Dio risuona all’interno dell’evento salvifico e, rendendolo non solo un fatto ma anche una illuminazione, non solo una “res” ma anche un “signum” eloquente, non solo un “mistero” ma anche un “evangelo”, lo offre alla nostra contemplazione perché la contemplazione ci porti alla partecipazione intera della vita. La “pagina sacra” è il mezzo privilegiato con cui possiamo arrivare alla “Parola” per nutrircene e vivere con intelligenza nell’evento. Non è dunque un assoluto, ma è ordinata all’avvenimento. L’avvenimento resterà nel Regno eterno, quando la Bibbia non avrà più sussistenza e valore. Per circa un secolo la Chiesa non ha avuto un canone dei libri sacri cristiani, senza che per questo potesse dirsi manchevole di qualche elemento essenziale.

Anche quando i vangeli non erano ancora stati scritti né erano state ancora raccolte le lettere degli apostoli, la Parola di Dio risuonava con tutta la sua forza nella Chiesa e la salvezza era presente e operante. Chi si colloca integralmente all’interno dell’avvenimento, si pone nelle condizioni di leggere giustamente la Sacra Scrittura e di coglierne il senso ultimo. Chi non si colloca integralmente, o almeno non con sempre rinnovata coscienza, all’interno dell’avvenimento, per quanto numerose, erudite, scientificamente vagliate si facciano le sue citazioni è sempre in pericolo di rimanere all’esterno del Libro di Dio e di non gustare la sua saporosa sostanza. A cominciare dal demonio, che nelle narrazioni sinottiche appare bravissimo nell’addurre i passi ispirati a sostegno delle sue argomentazioni, la storia delle aberrazioni teologiche è caratterizzata dall’abbondante ricorso da parte degli eretici ai testi scritturistici. E per la verità anche ai nostri giorni assistiamo talvolta ad “alluvioni” di frasi bibliche che nascondono una fondamentale infedeltà alla Parola di Dio.

Ma c’è una insidia più subdola e perniciosa: l’uso abbondante e quasi ossessivo della Bibbia – staccato però dalla consapevolezza sempre richiamata dell’avvenimento salvifico, il quale include anche la Sacra Scrittura e la trascende – può condurre a una visione meramente “culturale” del cristianesimo e rendere l’atto di fede non più un “assenso reale” ma un puro “assenso nozionale” mentre – come splendidamente dice san Tommaso, “actus credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”: l’atto di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni ma una realtà.
La distinzione tra “assenso nozionale” e “assenso reale” è uno dei concetti fondamentali della Grammatica dell’assenso, di J.H. Newman.

In realtà, in campo teologico la questione è ancora più seria di quel che per il campo pastorale abbiamo qui cercato di dire. Il pericolo sta nell’insensibile ma sempre più vasto affermarsi della tendenza (crediamo non pienamente consapevole) a considerare la “res” – attinta nell’atto di fede, quando l’atto di fede c’è veramente – scientificamente inconoscibile come il “noumeno” kantiano, e quindi non più oggetto di attività teologica, la quale si esercita soltanto sul “fenomeno”. Di qui la risoluzione della teologia nell’esegesi, e poi anche nella storiografia, nella metodologia, nello studio delle mediazioni con le filosofie contemporanee, nella psicologia religiosa, nella sociologia religiosa ecc. Sventurato quel teologo o quell’esegeta che, pensando a Gesù Cristo, primariamente e come d’istinto si richiama a un personaggio della catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al Salvatore che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto antecedentemente a tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni testimonianza, come qualcuno che vive.

Un uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: “Dov’é Gesù?” risponde in modo del tutto ovvio e naturale: “In cielo alla destra del Padre e in chiesa nel tabernacolo”, senza che gli passi lontanamente per la testa di tirare in campo la Sacra Scrittura. Questo, per lui, è l’indirizzo di una persona reale e concreta. Guai se l’interrogazione cominciasse ad avere come risposta: “Si trova nel vangelo di Luca, nel ‘corpus’ giovanneo, nella lettera agli Ebrei”; cominciasse cioè ad avere come risposta l’indicazione di un “luogo” letterario.
Nei modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura diventa non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al mistero che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il Signore Gesù. Così sarebbe un “idolo”. Da questo ” idolo ” deve essere purificato il santuario del nostro cuore e il “tempio” della comunità cristiana radunata in Cristo e offerta al Padre dall’impeto dello Spirito.

Il più cattolico dei cardinali italiani.

Il più cattolico dei cardinali italiani.

Alcuni segni di sanità teologica e pastorale

La rassegna delle più diffuse “idolatrie” non deve indurci a credere che tutto sia traviato nella cristianità e non ci siano più veri adoratori del Dio vivo. Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito Santo è all’opera oggi più che mai e riesce coi suoi inattesi prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una insipienza ecclesiale che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione. E così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un’acutissima mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall’incontro con persone, gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni spirituali diverse, sinceramente si determinano a una generosa adesione all’Evangelo e a una totale partecipazione all’evento salvifico.

Il fenomeno, che complessivamente è stato una felice sorpresa dopo lo squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza futuro, è composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta analisi e di una pacata valutazione. Da quali segni possiamo riconoscere, nella concretezza di questo momento storico, la sanità teologica e pastorale delle forze che vanno via via affiorando nel mondo cristiano? Dopo l’esperienza di questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci parrebbe di poter suggerire, come contributo a un discernimento che non sia astratto e puramente nominale, l’attenzione a tre note caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono né forse le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono aiutare nell’ora presente.

La prima è il sentimento acuto della distinzione tra il bene e il male, la consapevolezza che tra il bene e il male è in atto una lotta irriducibile e la persuasione che in questo scontro – che è ancora in atto e lo sarà fino alla venuta del Signore – ciascuno di noi è chiamato a combattere nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli sono date La seconda è la convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, è il Salvatore del mondo e non colui che deve essere salvato dal mondo. Egli è il vincitore, e noi dobbiamo essere la sua vittoria. Perciò a lui – e quindi al cristianesimo – è necessario ricorrere perché l’uomo viva, cresca, emerga dalle sue contraddizioni e dalle sue schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a pensare che solo l’apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di essere ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai nostri tempi (1). La terza è la percezione della bellezza della Chiesa e l’ammirato stupore per questo capolavoro dell’amore del Padre; o almeno la certezza di fede che la Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che l’infinita potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra polverosa e dalla nostra umanità disastrata.

NOTE
(1) La retorica circa il “dialogo” e il “confronto” – che sono attitudini lodevoli in se stesse, quando non diventano i nuovi nomi del cedimento e della mondanizzazione – ha innegabilmente contribuito a una “smobilitazione generale” dei cristiani, che ha pochi precedenti nella storia. Anche l’uso acritico e indiscriminato di alcune frasi, che adoperate a proposito hanno una loro validità, ha contribuito al diffondersi dello spirito di resa o almeno alla confusione. Ne citiamo qualcuna, per non restare nel vago.

  • “Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante”. Principio giustissimo, ma da applicarsi con due avvertenze: che di fatto l’affermazione non si traduca nel non distinguere più tra l’errore e la verità; che ci si renda conto che, se la condanna dell’errore non deve restare un’inutile astrazione, il popolo cristiano va messo in guardia anche da colui che di fatto semina l’errore, naturalmente senza cessare di volere il suo vero bene e lasciando sempre a Dio il giudizio sulle intenzioni profonde delle persone.
  • “Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. Questo principio vale solo in proporzione alla vastità e all’importanza di ciò che ci unisce e all’esiguità di ciò che ci divide. Quando si ha la stessa fede nella Trinità, in Cristo, Figlio di Dio, crocifisso e risorto, nella vita eterna, è del tutto insipiente litigare su quando e come vada cantato l’alleluia. Ma quando la divisione verte sulle questioni sostanziali, il volerla accantonare e quasi dimenticare vuol dire snaturarsi nel profondo e perdere la propria identità; così l’ecumenismo diventa davvero, come amaramente è stato detto, una “comune apostasia”.
  • “La Chiesa deve diventare credibile”. Così come suona, il concetto è mal formulato e inaccettabile, perché fa delle esigenze e delle persuasioni degli uomini il metro per giudicare l’azione e la realtà dei cristiani, mentre l’unico metro resta il Signore Gesù e la sua verità. La Chiesa deve sforzarsi di essere sempre più credente; in tal modo diventerà sempre più credibile agli occhi dei non credenti ben disposti, che ricercano la verità, e sempre più incredibile agli occhi dei non credenti che non hanno nessuna voglia di credere.
  • “Bisogna guardarsi dai profeti di sventura”. Se la frase vuol dire di evitare coloro che tentano di uccidere le ragioni della speranza cristiana – tra le quali emergono l’esistenza di Cristo vivo e Signore, e l’inalienabile bellezza della Chiesa – allora è giusta e da approvare. Se vuol dire che bisogna sempre dire a tutti i costi e per tutte le circostanze che tutto va bene, allora è smentita dalla parola di Dio. Di solito i veri profeti sanno annunziare anche il dolore e sanno denunziare il male; gli annunziatori di facile allegria, di tranquillità senza lotta, di immancabile benessere, nella Bibbia sono i falsi profeti (cfr. Ger 14,13-16; 23,17; 27,9-10).
  • “Non bisogna essere manichei”. Il manicheismo consiste nel credere all’esistenza di due princìpi assoluti, due dèi, uno del bene e uno del male; il manicheo non crede quindi al Dio buono, creatore di tutto, né alla sua vittoria finale. Questa è un’aberrazione da condannare. Definire manicheo invece chi vuol distinguere tra il vero e il falso, tra il buono e il cattivo, tra il giusto e l’ingiusto, tra ciò che è conforme alla volontà di Dio ed è perciò da seguire, e ciò che è difforme ed è perciò da respingere, è un modo truffaldino di combattere il cristianesimo dandogli prima una falsa e infamante etichetta.

GIACOMO BIFFI, La bella, la bestia e il cavaliere. Saggio di teologia inattuale, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 20-41.









Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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