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Meditazione e Preghiera Tempo di Quaresima - Settimana Santa e Pasqua di Risurrezione 2012

Ultimo Aggiornamento: 09/04/2012 22:03
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07/02/2012 15:40
 
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[SM=g1740733]Cari Amici,
riprendendo, a breve, il Tempo che ci aiuta a ritornare a Dio.... vi ricordiamo già di thread precedenti utili allo scopo:

Quaresima 2010 ; La Via Crus, storia e Preghiera ; Meditazioni per la Settimana Santa ; Per un buon Esame di Coscienza ; ed altro materiale che voi stessi potrete trovare nella sezione dedicata al nostro Monastero virtuale...

Apriamo questa nuova parte con il Messaggio per la Quaresima 2012 del santo Padre Benedetto XVI, buon meditazione... ricordandoci che siamo entrati nell'Anno della Fede .....

Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2012: "Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone" (Eb 10,24)




Il Papa: riscoprire la correzione fraterna che non è recriminazione (Ambrogetti)

Il Papa: Quaresima, il cristiano testimoni che si sente “custode” degli altri (AsiaNews)

Il Papa: davanti al male i Cristiani non possono tacere per rispetto. La ricchezza materiale spesso impedisce di vedere l'altro. Società sorda al dolore, i Cristiani non si adeguino (Izzo)

Benedetto XVI nel Messaggio per la Quaresima: ribadire con forza che il bene esiste e vince (R.V.)

Il bene esiste e vince. La "correzione fraterna" nel messaggio di Benedetto XVI (Sir)

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2012

«Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (Eb10,24)

Fratelli e sorelle,

la Quaresima ci offre ancora una volta l'opportunità di riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità. Infatti questo è un tempo propizio affinché, con l'aiuto della Parola di Dio e dei Sacramenti, rinnoviamo il nostro cammino di fede, sia personale che comunitario. E' un percorso segnato dalla preghiera e dalla condivisione, dal silenzio e dal digiuno, in attesa di vivere la gioia pasquale.

Quest’anno desidero proporre alcuni pensieri alla luce di un breve testo biblico tratto dalla Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24).

E’ una frase inserita in una pericope dove lo scrittore sacro esorta a confidare in Gesù Cristo come sommo sacerdote, che ci ha ottenuto il perdono e l'accesso a Dio. Il frutto dell'accoglienza di Cristo è una vita dispiegata secondo le tre virtù teologali: si tratta di accostarsi al Signore «con cuore sincero nella pienezza della fede» (v. 22), di mantenere salda «la professione della nostra speranza» (v. 23) nell'attenzione costante ad esercitare insieme ai fratelli «la carità e le opere buone» (v. 24). Si afferma pure che per sostenere questa condotta evangelica è importante partecipare agli incontri liturgici e di preghiera della comunità, guardando alla meta escatologica: la comunione piena in Dio (v. 25). Mi soffermo sul versetto 24, che, in poche battute, offre un insegnamento prezioso e sempre attuale su tre aspetti della vita cristiana: l'attenzione all'altro, la reciprocità e la santità personale.

1. “Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.

Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata».
Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

L’attenzione all’altro comporta desiderare per lui o per lei il bene, sotto tutti gli aspetti: fisico, morale e spirituale. La cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, mentre occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince, perché Dio è «buono e fa il bene» (Sal 119,68). Il bene è ciò che suscita, protegge e promuove la vita, la fraternità e la comunione. La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell'altro, desiderando che anch'egli si apra alla logica del bene; interessarsi al fratello vuol dire aprire gli occhi sulle sue necessità.

La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di «anestesia spirituale» che rende ciechi alle sofferenze altrui.

L’evangelista Luca riporta due parabole di Gesù in cui vengono indicati due esempi di questa situazione che può crearsi nel cuore dell’uomo. In quella del buon Samaritano, il sacerdote e il levita «passano oltre», con indifferenza, davanti all’uomo derubato e percosso dai briganti (cfr Lc 10,30-32), e in quella del ricco epulone, quest’uomo sazio di beni non si avvede della condizione del povero Lazzaro che muore di fame davanti alla sua porta (cfr Lc 16,19). In entrambi i casi abbiamo a che fare con il contrario del «prestare attenzione», del guardare con amore e compassione. Che cosa impedisce questo sguardo umano e amorevole verso il fratello? Sono spesso la ricchezza materiale e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni. Mai dobbiamo essere incapaci di «avere misericordia» verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero. Invece proprio l’umiltà di cuore e l'esperienza personale della sofferenza possono rivelarsi fonte di risveglio interiore alla compassione e all'empatia: «Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione» (Pr 29,7). Si comprende così la beatitudine di «coloro che sono nel pianto» (Mt 5,4), cioè di quanti sono in grado di uscire da se stessi per commuoversi del dolore altrui. L'incontro con l'altro e l'aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine.

Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo.

Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna - elenchein - è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recrimina-zione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi.

2. “Gli uni agli altri”: il dono della reciprocità.

Tale «custodia» verso gli altri contrasta con una mentalità che, riducendo la vita alla sola dimensione terrena, non la considera in prospettiva escatologica e accetta qualsiasi scelta morale in nome della libertà individuale. Una società come quella attuale può diventare sorda sia alle sofferenze fisiche, sia alle esigenze spirituali e morali della vita. Non così deve essere nella comunità cristiana! L’apostolo Paolo invita a cercare ciò che porta «alla pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19), giovando al «prossimo nel bene, per edificarlo» (ibid. 15,2), senza cercare l'utile proprio «ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,33). Questa reciproca correzione ed esortazione, in spirito di umiltà e di carità, deve essere parte della vita della comunità cristiana.

I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia, vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò significa che l'altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza. Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione:la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale. Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, si verifica tale reciprocità: la comunità non cessa di fare penitenza e di invocare perdono per i peccati dei suoi figli, ma si rallegra anche di continuo e con giubilo per le testimonianze di virtù e di carità che in essa si dispiegano. «Le varie membra abbiano cura le une delle altre»(1 Cor 12,25), afferma San Paolo, perché siamo uno stesso corpo.

La carità verso i fratelli, di cui è un’espressione l'elemosina - tipica pratica quaresimale insieme con la preghiera e il digiuno - si radica in questa comune appartenenza. Anche nella preoccupazione concreta verso i più poveri ogni cristiano può esprimere la sua partecipazione all'unico corpo che è la Chiesa. Attenzione agli altri nella reciprocità è anche riconoscere il bene che il Signore compie in essi e ringraziare con loro per i prodigi di grazia che il Dio buono e onnipotente continua a operare nei suoi figli.

Quando un cristiano scorge nell'altro l'azione dello Spirito Santo, non può che gioirne e dare gloria al Padre celeste (cfr Mt 5,16).

3. “Per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone”: camminare insieme nella santità.

Questa espressione della Lettera agli Ebrei (10,24) ci spinge a considerare la chiamata universale alla santità, il cammino costante nella vita spirituale, ad aspirare ai carismi più grandi e a una carità sempre più alta e più feconda (cfr 1 Cor 12,31-13,13). L'attenzione reciproca ha come scopo il mutuo spronarsi ad un amore effettivo sempre maggiore, «come la luce dell'alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio» (Pr 4,18), in attesa di vivere il giorno senza tramonto in Dio. Il tempo che ci è dato nella nostra vita è prezioso per scoprire e compiere le opere di bene, nell’amore di Dio. Così la Chiesa stessa cresce e si sviluppa per giungere alla piena maturità di Cristo (cfr Ef 4,13). In tale prospettiva dinamica di crescita si situa la nostra esortazione a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell'amore e delle buone opere.
Purtroppo è sempre presente la tentazione della tiepidezza, del soffocare lo Spirito, del rifiuto di «trafficare i talenti» che ci sono donati per il bene nostro e altrui (cfr Mt 25,25s). Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale (cfr Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). I maestri spirituali ricordano che nella vita di fede chi non avanza retrocede. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l'invito sempre attuale a tendere alla «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001], n. 31). La sapienza della Chiesa nel riconoscere e proclamare la beatitudine e la santità di taluni cristiani esemplari, ha come scopo anche di suscitare il desiderio di imitarne le virtù. San Paolo esorta: «gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10).
Di fronte ad un mondo che esige dai cristiani una testimonianza rinnovata di amore e di fedeltà al Signore, tutti sentano l’urgenza di adoperarsi per gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere buone (cfr Eb 6,10). Questo richiamo è particolarmente forte nel tempo santo di preparazione alla Pasqua. Con l’augurio di una santa e feconda Quaresima, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 3 novembre 2011

BENEDICTUS PP. XVI


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CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DEL MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2012

Alle ore 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, si tiene la Conferenza Stampa di presentazione del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2012 sul tema "Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone" (Eb 10,24).
Intervengono: l’Em.mo Card. Robert Sarah, Presidente del Pontificio Consiglio "Cor Unum" e Mons. Segundo Tejado Muñoz, Sotto-Segretario del medesimo Pontificio Consiglio.
Pubblichiamo di seguito l’intervento del Presidente Card. Robert Sarah:


INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. ROBERT SARAH

Gentili Signori,

siamo al nostro annuale appuntamento di presentazione del Messaggio per la Quaresima del Santo Padre Benedetto XVI. Il tema del messaggio di quest’anno si ispira ad un versetto biblico: "Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone" (Eb 10,24). Sono così focalizzate alcune caratteristiche della Quaresima, che è appunto un tempo propizio per orientare l’attenzione a Gesù Cristo portando aiuto al prossimo in necessità, come indica il capitolo 25 del Vangelo di Matteo. Il messaggio di quest’anno considera però il tema in uno sguardo più ampio, nel senso che ci invita a stimolarci a vicenda nella carità, la quale, ovviamente, ha espressioni molto più variegate rispetto al semplice dare del denaro.

Sappiamo che il Messaggio di Quaresima contribuisce a tenere vivo nei fedeli il senso dell’attenzione al bene dell’altro, della comunione, di premura, di compassione e di condivisione fraterna delle sofferenze dell’indigente. Grazie a questa generosità, che si manifesta in moltissimi modi, la Chiesa cattolica è riuscita nel corso dei secoli a favorire la crescita dell’umanità con una fitta e diffusa rete di opere di carità. Esse testimoniano la vivacità del Vangelo e dell’insegnamento di Cristo, che ci ha chiesto di ricercarlo e di trovarlo soprattutto nel povero. Al di là di questo importante dato, vorrei oggi tuttavia attirare la vostra attenzione su un aspetto della vita cristiana che il presente Messaggio di quest’anno mette in evidenza. Si tratta della correzione fraterna. [SM=g1740721] [SM=g1740722]
Cito: "Il prestare attenzione al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi sembra caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli".

La carità ci insegna dunque che non abbiamo verso l’altro solo una responsabilità per il suo bene materiale, ma anche per il suo bene morale e spirituale. [SM=g1740721]
La carità ci spinge a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell’amore e delle buone opere e a camminare insieme verso la santità. Una delle conseguenze devastanti dell’individualismo cui una certa cultura è condannata, è esattamente quella "anestesia spirituale" di cui parla il Messaggio e che ci divide l’uno dall’altro fino ad renderci indifferenti gli uni per gli altri. Non possiamo tacere che una certa ideologia che ha esaltato i diritti dell’individuo può avere come conseguenza l’isolamento della persona e la sua solitudine. Infatti, la strada dell’esistere che vuole focalizzarsi sulla rivendicazione del proprio diritto senza percepire la propria chiamata a darsi; che si chiude sull’esigere invece che sul dare; sul prendere spazio per sé invece che sull’offrire spazio all’altro, trova il suo esito naturale nel fissarsi su se stessi e dunque in una divisione dall’altro che ingenera una profonda solitudine, la cui prima vittima è l’uomo stesso. Quando la chiamata alla comunione viene negata in nome dell’individualismo, a farne le spese è la nostra stessa umanità, ingannata dal miraggio di una impossibile felicità ottenuta da soli. Dunque possiamo aiutarci reciprocamente scoprendo che abbiamo una responsabilità l’uno per l’altro. Essere attenti al nostro prossimo vuol dire uscire dalla nostra indifferenza per aiutarlo sia materialmente che spiritualmente.

C’è tutta una tradizione spirituale, vissuta soprattutto nelle comunità religiose, che realizza quella forma di mutuo aiuto che si chiama correzione fraterna. Certo: non è facile e richiede una fiducia reciproca notevole sia rivolgere che accettare una correzione. Tuttavia questo è necessario. Lo vediamo bene in ogni rapporto educativo: senza il richiamo verso il bene e la correzione non si può far maturare una persona. Infatti impariamo dai nostri errori. Questo processo di apprendimento tramite l’altro per favorire la nostra maturazione non si conclude mai. Perciò è un vero servizio che ci viene fatto quando veniamo corretti.

Il coraggio e l’umiltà della correzione fraterna sono necessari anche oggi sia per il nostro cammino di fede personale che per la vita delle nostre comunità cristiane. È lo stesso Gesù che ce lo chiede nel vangelo (Cfr. Mt 18, 15-18).

Lasciate che alla luce della correzione improntata alla verità e alla carità legga anche l’azione della Chiesa verso il mondo contemporaneo. A volte qualcuno può trovare scontato il discorso del Santo Padre o di rappresentanti della Chiesa sui diversi temi che occupano da vicino la cultura moderna. A volte addirittura si pensa che sia la brama del potere o la nostalgia di esso a muovere la preoccupazione della Chiesa, il suo osteggiare caparbio certe manifestazioni della mentalità in voga. No: la Chiesa è mossa da sincera cura per il bene dell’uomo concreto e di questo mondo. La sua azione si ispira non alla condanna o alla recriminazione, ma a quella giustizia e misericordia che deve avere anche il coraggio (parrêsia) di chiamare le cose per nome. Solo così si illuminano le radici del male che non mancano di affascinare anche le menti dell’uomo moderno. Questo suo compito si chiama missione profetica.

Su questo concetto vale la pena soffermarsi, in quanto trova sempre maggiore utilizzazione anche nel linguaggio ecclesiale. Esso muove evidentemente da quella esperienza di cui ci parla ampiamente già l’antico testamento: profeta è un uomo chiamato e inviato da Dio per annunciare al popolo la volontà di Dio stesso. La storia del popolo d’Israele è costellata dalla presenza di questi uomini, inviati da Dio non appena il popolo cominciava a seguire le strade dell’infedeltà. Di questi profeti abbiamo bisogno anche oggi. La stessa missione della Chiesa è anche profetica, sulla scia di Cristo Sacerdote Re e Profeta, che ha inserito ogni battezzato nella sua missione. Ho tuttavia l’impressione che si sta realizzando un passaggio semantico, in base al quale nel nostro frangente storico la presenza profetica della Chiesa nel mondo comporta la denuncia sociale di situazioni di ingiustizia e di povertà.

Ora è chiaro che il richiamo ad una maggiore giustizia sociale fa parte della missione della Chiesa. Anche il recente documento post-sinodale Africae munus ha fatto riferimento a situazioni di profonda diseguaglianza che provocano gravi sofferenze con drammatiche conseguenze per intere popolazioni. La Chiesa non può tacere di fronte al fatto che troppi muoiono per la mancanza del minimo indispensabile mentre altri si arricchiscono sfruttando gli altri.

Ma sarebbe troppo poco se la dimensione profetica del nostro parlare e agire si limitasse a questi fenomeni esterni, senza andare alle radici morali di queste ingiustizie. La corruzione, l’accumulo di denaro, la violenza, il vivere indebitamente alle spalle della collettività senza dare il proprio contributo sono dei veri cancri che minano dall’interno una società. Non possiamo neppure tacere, sulla scorta di quanto già detto da Benedetto XVI, che alla base della nostra crisi finanziaria c’è l’avidità, la ricerca sfrenata del denaro senza scrupoli e senza considerare chi ha meno e chi deve sopportare le conseguenze delle scelte sbagliate di altri. Questo attaccamento al denaro è un peccato. La Chiesa è profetica quando denuncia questo peccato che fa del male alla persona e alla società. Anche questo è un aspetto della missione profetica della Chiesa.

Ma lasciatemi dire che il Santo Padre nel suo illuminato Magistero di questi anni ci indica una dimensione ancora più profonda: la Chiesa si fa profeta in questo mondo di oggi per denunciare in particolare la mancanza di Dio. Questa è la vera radice delle ingiustizie che ci circondano. Quando l’uomo non riconosce al di sopra di sé un Creatore e Signore, si fa creatore e signore di se stesso e la vita sociale degenera in un individualismo conflittuale e in una lotta contro l’altro. Senza un Dio che ci ispira e ci corregge l’esistenza diventa una lotta per la sopravvivenza, a scapito del più debole. Questa nostra società secolarizzata è giunta a vivere e a organizzarsi senza tener presente Dio per il fatto di essere avvolta da una povertà più tragica di quelle materiali, una povertà rappresentata dal rifiuto e l’esclusione totale di Dio dalla vita sociale ed economica, dalla rivolta contro le leggi divine e contro quelle della natura. Tale società può essere smossa dalla testimonianza evangelica della sollecitudine verso le persone e certamente può restare toccata dalla carità vissuta verso i poveri, i deboli e tutti coloro che versano in uno stato di sofferenza e di indigenza umana. Il nostro primo compito perciò è di dire al mondo che Dio c’è e che il nostro futuro dipende dal riconoscere questa sovranità di Dio, al quale tutti dobbiamo rispondere. O meglio: senza il quale il nostro futuro è in balia delle prevaricazioni e degli interessi del più forte. La prima responsabilità della Chiesa è ricordare ad ogni generazione che questa dimensione spirituale è fondamentale. [SM=g1740721] Il profeta di oggi deve dire al mondo che Dio c’è e che, senza questo Padre che ci stimola alla solidarietà e alla condivisione, la vita muore e la fraternità si dissolve in vuota utopia. Che l’uomo ha una vocazione soprannaturale. Che esiste una coscienza nella quale parla la voce di Dio al quale un giorno dovremmo rispondere.

Il tempo di quaresima è un momento opportuno di conversione nell’anno liturgico, proprio per ricordarci che Dio non si dimentica di noi. Il Messaggio che oggi presentiamo vuole scuotere le coscienze rispetto ai diritti/doveri dei nostri fratelli, ma anche rispetto ai nostri doveri verso i "diritti" di Dio. E tutto questo deve avvenire nel contesto della comunione cristiana, in cui vige il principio della reciprocità e della correzione fraterna, avendo di mira il bene temporale degli uomini, ma anche la loro salvezza escatologica.

Sono grato per quanto potrete fare per diffondere questa parola del Papa.


[SM=g1740722]




[Modificato da Caterina63 08/02/2012 09:29]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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10/02/2012 11:41
 
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[SM=g1740717] [SM=g1740720] Benedetto XVI la correzione fraterna

Cari Amici il Papa ci ha fatto dono di un Messaggio per la Quaresima davvero magistrale! Egli ci chiama a riscoprire la correzione fraterna denunciando, paternamente, il disordine e l'incoerenza di taluni cristiani che invece di correggere il fratello che commette un peccato, si adegua alle mode dei tempi.... Augurando a tutti una Santa Quaresima, facciamo nostro questo Messaggio, e doniamolo al prossimo!
it.gloria.tv/?media=255533

Movimento Domenicano del Rosario
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[SM=g1740738]

[SM=g1740750] [SM=g1740752]

[SM=g1740717] [SM=g1740720] Benedetto XVI spiega i Sacramenti della Guarigione
Amici, dopo avervi offerto il cuore del Messaggio del santo Padre sulla Correzione fraterna: www.gloria.tv/?media=255533 vogliamo offrirvi ora il cuore del Messaggio ai Malati che ci invita a riflettere sui Sacramenti della Guarigione la Riconciliazione e l'Unzione degli Infermi, Sacramento da rivalutare, riscoprire e che non è, come erroneamente si pensa,"solo" il sacramento "dei moribondi". Certo è anche il Sacramento per chi muore, detto Viatico, ma chi fra di noi, apparentemente sani, non sentiamo il bisogno di ricorrere al Medico per eccellenza?
www.gloria.tv/?media=256937

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[SM=g1740717]

[SM=g1740750] [SM=g1740752]


[SM=g1740733] 12PORTE - 16 febbraio 2012. Il significato biblico del numero "40" e il significato spirituale della pratica quaresimale.
www.gloria.tv/?media=257459



[SM=g1740721]

[SM=g1740757]


[Modificato da Caterina63 17/02/2012 16:03]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il Papa: Questa situazione di ambivalenza descrive anche la condizione della Chiesa in cammino nel “deserto” del mondo e della storia. In questo “deserto” noi credenti abbiamo certamente l’opportunità di fare una profonda esperienza di Dio che rende forte lo spirito, conferma la fede, nutre la speranza, anima la carità; un’esperienza che ci fa partecipi della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte mediante il Sacrificio d’amore sulla Croce. Ma il “deserto” è anche l’aspetto negativo della realtà che ci circonda: l’aridità, la povertà di parole di vita e di valori, il secolarismo e la cultura materialista, che rinchiudono la persona nell’orizzonte mondano dell’esistere sottraendolo ad ogni riferimento alla trascendenza


L’UDIENZA GENERALE, 22.02.2012

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di fedeli e pellegrini provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa ha tenuto una meditazione sul significato del tempo quaresimale, che inizia oggi, Mercoledì delle Ceneri.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Mercoledì delle Ceneri

Cari fratelli e sorelle,

in questa Catechesi vorrei soffermarmi brevemente sul tempo della Quaresima, che inizia oggi con la Liturgia del Mercoledì delle Ceneri.
Si tratta di un itinerario di quaranta giorni che ci condurrà al Triduo pasquale, memoria della passione, morte e risurrezione del Signore, il cuore del mistero della nostra salvezza. Nei primi secoli di vita della Chiesa questo era il tempo in cui coloro che avevano udito e accolto l’annuncio di Cristo iniziavano, passo dopo passo, il loro cammino di fede e di conversione per giungere a ricevere il sacramento del Battesimo. Si trattava di un avvicinamento al Dio vivo e di una iniziazione alla fede da compiersi gradualmente, mediante un cambiamento interiore da parte dei catecumeni, cioè di quanti desideravano diventare cristiani ed essere incorporati a Cristo e alla Chiesa.

Successivamente, anche i penitenti e poi tutti i fedeli furono invitati a vivere questo itinerario di rinnovamento spirituale, per conformare sempre più la propria esistenza a quella di Cristo. La partecipazione dell’intera comunità ai diversi passaggi del percorso quaresimale sottolinea una dimensione importante della spiritualità cristiana: è la redenzione non di alcuni, ma di tutti, ad essere disponibile grazie alla morte e risurrezione di Cristo.

Pertanto, sia coloro che percorrevano un cammino di fede come catecumeni per ricevere il Battesimo, sia coloro che si erano allontanati da Dio e dalla comunità della fede e cercavano la riconciliazione, sia coloro che vivevano la fede in piena comunione con la Chiesa, tutti insieme sapevano che il tempo che precede la Pasqua è un tempo di metanoia, cioè del cambiamento interiore, del pentimento; il tempo che identifica la nostra vita umana e tutta la nostra storia come un processo di conversione che si mette in movimento ora per incontrare il Signore alla fine dei tempi.

Con una espressione diventata tipica nella Liturgia, la Chiesa denomina il periodo nel quale siamo entrati oggi «Quadragesima», cioè tempo di quaranta giorni e, con un chiaro riferimento alla Sacra Scrittura ci introduce così in un preciso contesto spirituale. Quaranta è infatti il numero simbolico con cui l’Antico e il Nuovo Testamento rappresentano i momenti salienti dell’esperienza della fede del Popolo di Dio. E’ una cifra che esprime il tempo dell’attesa, della purificazione, del ritorno al Signore, della consapevolezza che Dio è fedele alle sue promesse. Questo numero non rappresenta un tempo cronologico esatto, scandito dalla somma dei giorni. Indica piuttosto una paziente perseveranza, una lunga prova, un periodo sufficiente per vedere le opere di Dio, un tempo entro cui occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza ulteriori rimandi. E’ il tempo delle decisioni mature.

Il numero quaranta appare anzitutto nella storia di Noè.

Quest’uomo giusto, a causa del diluvio trascorre quaranta giorni e quaranta notti nell’arca, insieme alla sua famiglia e agli animali che Dio gli aveva detto di portare con sé. E attende altri quaranta giorni, dopo il diluvio, prima di toccare la terraferma, salvata dalla distruzione (cfr Gen 7,4.12; 8,6). Poi, la prossima tappa: Mosè rimane sul monte Sinai, alla presenza del Signore, quaranta giorni e quaranta notti, per accogliere la Legge. In tutto questo tempo digiuna (cfr Es 24,18). Quaranta sono gli anni di viaggio del popolo ebraico dall’Egitto alla Terra promessa, tempo adatto per sperimentare la fedeltà di Dio. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni… Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni», dice Mosè nel Deuteronomio alla fine di questi quarant'anni di migrazione (Dt 8,2.4). Gli anni di pace di cui gode Israele sotto i Giudici sono quaranta (cfr Gdc 3,11.30), ma, trascorso questo tempo, inizia la dimenticanza dei doni di Dio e il ritorno al peccato. Il profeta Elia impiega quaranta giorni per raggiungere l’Oreb, il monte dove incontra Dio (cfr 1 Re 19,8). Quaranta sono i giorni durante i quali i cittadini di Ninive fanno penitenza per ottenere il perdono di Dio (cfr Gn 3,4). Quaranta sono anche gli anni dei regni di Saul (cfr At 13,21), di Davide (cfr 2 Sam 5,4-5) e di Salomone (cfr 1 Re 11,41), i tre primi re d’Israele. Anche i Salmi riflettono sul significato biblico dei quaranta anni, come ad esempio il Salmo 95, del quale abbiamo sentito un brano: «Se ascoltaste oggi la sua voce! “Non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere. Per quarant'anni mi disgustò quella generazione e dissi: sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie”» (vv. 7c-10).

Nel Nuovo Testamento Gesù, prima di iniziare la vita pubblica, si ritira nel deserto per quaranta giorni, senza mangiare né bere (cfr Mt 4,2): si nutre della Parola di Dio, che usa come arma per vincere il diavolo. Le tentazioni di Gesù richiamano quelle che il popolo ebraico affrontò nel deserto, ma che non seppe vincere. Quaranta sono i giorni durante i quali Gesù risorto istruisce i suoi, prima di ascendere al Cielo e inviare lo Spirito Santo (cfr At 1,3).

Con questo ricorrente numero di quaranta è descritto un contesto spirituale che resta attuale e valido, e la Chiesa, proprio mediante i giorni del periodo quaresimale, intende mantenerne il perdurante valore e renderne a noi presente l’efficacia.

La liturgia cristiana della Quaresima ha lo scopo di favorire un cammino di rinnovamento spirituale, alla luce di questa lunga esperienza biblica e soprattutto per imparare ad imitare Gesù, che nei quaranta giorni trascorsi nel deserto insegnò a vincere la tentazione con la Parola di Dio. I quarant’anni della peregrinazione di Israele nel deserto presentano atteggiamenti e situazioni ambivalenti. Da una parte essi sono la stagione del primo amore con Dio e tra Dio e il suo popolo, quando Egli parlava al suo cuore, indicandogli continuamente la strada da percorrere. Dio aveva preso, per così dire, dimora in mezzo a Israele, lo precedeva dentro una nube o una colonna di fuoco, provvedeva ogni giorno al suo nutrimento facendo scendere la manna e facendo sgorgare l’acqua dalla roccia. Pertanto, gli anni trascorsi da Israele nel deserto si possono vedere come il tempo della speciale elezione di Dio e della adesione a Lui da parte del popolo: tempo del primo amore. D’altro canto, la Bibbia mostra anche un’altra immagine della peregrinazione di Israele nel deserto: è anche il tempo delle tentazioni e dei pericoli più grandi, quando Israele mormora contro il suo Dio e vorrebbe tornare al paganesimo e si costruisce i propri idoli, poiché avverte l’esigenza di venerare un Dio più vicino e tangibile. E' anche il tempo della ribellione contro il Dio grande e invisibile.

Questa ambivalenza, tempo della speciale vicinanza di Dio - tempo del primo amore -, e tempo della tentazione – tentazione del ritorno al paganesimo -, la ritroviamo in modo sorprendente nel cammino terreno di Gesù, naturalmente senza alcun compromesso col peccato.

Dopo il battesimo di penitenza al Giordano, nel quale assume su di sé il destino del Servo di Dio che rinuncia a se stesso e vive per gli altri e si pone tra i peccatori per prendere su di sé il peccato del mondo, Gesù si reca nel deserto per stare quaranta giorni in profonda unione con il Padre, ripetendo così la storia di Israele, tutti quei ritmi di quaranta giorni o anni a cui ho accennato.

Questa dinamica è una costante nella vita terrena di Gesù, che ricerca sempre momenti di solitudine per pregare il Padre suo e rimanere in intima comunione, in intima solitudine con Lui, in esclusiva comunione con Lui, e poi ritornare in mezzo alla gente. Ma in questo tempo di “deserto” e di incontro speciale col Padre, Gesù si trova esposto al pericolo ed è assalito dalla tentazione e dalla seduzione del Maligno, il quale gli propone una via messianica altra, lontana dal progetto di Dio, perché passa attraverso il potere, il successo, il dominio e non attraverso il dono totale sulla Croce. Questa è l'alternativa: un messianesimo di potere, di successo, o un messianesimo di amore, di dono di sé.

Questa situazione di ambivalenza descrive anche la condizione della Chiesa in cammino nel “deserto” del mondo e della storia. In questo “deserto” noi credenti abbiamo certamente l’opportunità di fare una profonda esperienza di Dio che rende forte lo spirito, conferma la fede, nutre la speranza, anima la carità; un’esperienza che ci fa partecipi della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte mediante il Sacrificio d’amore sulla Croce. Ma il “deserto” è anche l’aspetto negativo della realtà che ci circonda: l’aridità, la povertà di parole di vita e di valori, il secolarismo e la cultura materialista, che rinchiudono la persona nell’orizzonte mondano dell’esistere sottraendolo ad ogni riferimento alla trascendenza. E’ questo anche l’ambiente in cui il cielo sopra di noi è oscuro, perché coperto dalle nubi dell’egoismo, dell’incomprensione e dell’inganno. Nonostante questo, anche per la Chiesa di oggi il tempo del deserto può trasformarsi in tempo di grazia, poiché abbiamo la certezza che anche dalla roccia più dura Dio può far scaturire l’acqua viva che disseta e ristora.

Cari fratelli e sorelle, in questi quaranta giorni che ci condurranno alla Pasqua di Risurrezione possiamo ritrovare nuovo coraggio per accettare con pazienza e con fede ogni situazione di difficoltà, di afflizione e di prova, nella consapevolezza che dalle tenebre il Signore farà sorgere il giorno nuovo. E se saremo stati fedeli a Gesù seguendolo sulla via della Croce, il chiaro mondo di Dio, il mondo della luce, della verità e della gioia ci sarà come ridonato: sarà l’alba nuova creata da Dio stesso. Buon cammino di Quaresima a voi tutti!

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto le Ancelle del Sacro Cuore di Gesù riunite per il Capitolo Generale, i Diaconi di Milano e i vari gruppi parrocchiali: vi invito tutti a costruire sempre la vostra vita secondo la logica del Vangelo, la logica del “non conformismo cristiano”. Saluto con affetto la delegazione dei Mondiali Juniores di Sci come pure i rappresentanti della Lega italiana contro i tumori a novant’anni dalla fondazione. Il gesto dell’imposizione delle Ceneri, che segna l’inizio della Quaresima, ci invita a guardare con più umiltà a noi stessi per ricentrare la nostra vita su Dio. Un cordiale benvenuto agli avvocati dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana: vi esorto a svolgere il vostro lavoro seguendo sempre i criteri di amore alla giustizia e di servizio al bene comune.

Saluto infine i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli. La Quaresima è un tempo favorevole per intensificare la vostra vita spirituale: la pratica del digiuno vi sia di aiuto, cari giovani, per acquisire un sempre maggiore dominio su voi stessi; la preghiera sia per voi, cari ammalati, il mezzo per affidare a Dio le vostre sofferenze e sentirlo sempre vicino; le opere di misericordia, infine, aiutino voi, cari sposi novelli, a vivere la vostra esistenza coniugale aprendola alle necessità dei fratelli.

 Buona Quaresima a tutti!



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Il Papa: La possibilità per noi del perdono divino dipende essenzialmente dal fatto che Dio stesso, nella persona del suo Figlio, ha voluto condividere la nostra condizione, ma non la corruzione del peccato


SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI


"Meménto, homo, quia pulvis es,
 et in pùlverem revertéris."



OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

Con questo giorno di penitenza e di digiuno – il Mercoledì delle Ceneri – iniziamo un nuovo cammino verso la Pasqua di Risurrezione: il cammino della Quaresima.

Vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sul segno liturgico della cenere, un segno materiale, un elemento della natura, che diventa nella Liturgia un simbolo sacro, molto importante in questa giornata che dà inizio all’itinerario quaresimale. Anticamente, nella cultura ebraica, l’uso di cospargersi il capo di cenere come segno di penitenza era comune, abbinato spesso al vestirsi di sacco o di stracci. Per noi cristiani, invece, vi è quest’unico momento, che ha peraltro una notevole rilevanza rituale e spirituale.

Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen 3,19).

Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi. Esso conclude il giudizio pronunciato da Dio dopo il peccato originale: Dio maledice il serpente, che ha fatto cadere nel peccato l’uomo e la donna; poi punisce la donna annunciandole i dolori del parto e una relazione sbilanciata con il marito; infine punisce l’uomo, gli annuncia la fatica nel lavorare e maledice il suolo. «Maledetto il suolo per causa tua!» (Gen 3,17), a causa del tuo peccato. Dunque, l’uomo e la donna non sono maledetti direttamente come lo è invece il serpente, ma, a causa del peccato di Adamo, è maledetto il suolo, da cui egli era stato tratto. Rileggiamo il magnifico racconto della creazione dell’uomo dalla terra: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gen 2,7-8); così nel Libro della Genesi.

Ecco dunque che il segno della cenere ci riporta al grande affresco della creazione, in cui si dice che l’essere umano è una singolare unità di materia e di soffio divino, attraverso l’immagine della polvere del suolo plasmata da Dio e animata dal suo respiro insufflato nelle narici della nuova creatura. Possiamo osservare come nel racconto della Genesi il simbolo della polvere subisca una trasformazione negativa a causa del peccato.

Mentre prima della caduta il suolo è una potenzialità totalmente buona, irrigata da una polla d’acqua (Gen 2,6) e capace, per l’opera di Dio, di germinare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare» (Gen 2,9), dopo la caduta e la conseguente maledizione divina esso produrrà «spine e cardi» e solo in cambio di «dolore» e «sudore del volto» concederà all’uomo i suoi frutti (cfr Gen 3,17-18). La polvere della terra non richiama più solo il gesto creatore di Dio, tutto aperto alla vita, ma diventa segno di un inesorabile destino di morte: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai» (Gen 3,19).

E’ evidente nel testo biblico che la terra partecipa della sorte dell’uomo. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo in una sua omelia: «Vedi come dopo la sua disobbedienza tutto viene imposto su di lui [l’uomo] in un modo contrario al suo precedente stile di vita» (Omelie sulla Genesi 17, 9: PG 53, 146). Questa maledizione del suolo ha una funzione medicinale per l’uomo, che dalle «resistenze» della terra dovrebbe essere aiutato a mantenersi nei suoi limiti e riconoscere la propria natura (cfr ibid.). Così, con una bella sintesi, si esprime un altro antico commento, che dice: «Adamo fu creato puro da Dio per il suo servizio. Tutte le creature gli furono concesse per servirlo. Egli era destinato ad essere il signore e re di tutte le creature. Ma quando il male giunse a lui e conversò con lui, egli lo ricevette per mezzo di un ascolto esterno. Poi penetrò nel suo cuore e si impadronì del suo intero essere. Quando così fu catturato, la creazione, che lo aveva assistito e servito, fu catturata con lui» (Pseudo-Macario, Omelie 11, 5: PG 34, 547).

Dicevamo poco fa, citando san Giovanni Crisostomo, che la maledizione del suolo ha una funzione «medicinale». Ciò significa che l’intenzione di Dio, che è sempre benefica, è più profonda della maledizione. Questa, infatti, è dovuta non a Dio ma al peccato, però Dio non può non infliggerla, perché rispetta la libertà dell’uomo e le sue conseguenze, anche negative. Dunque, all’interno della punizione, e anche all’interno della maledizione del suolo, permane una intenzione buona che viene da Dio. Quando Egli dice all’uomo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!», insieme con la giusta punizione intende anche annunciare una via di salvezza, che passerà proprio attraverso la terra, attraverso quella «polvere», quella «carne» che sarà assunta dal Verbo.

E’ in questa prospettiva salvifica che la parola della Genesi viene ripresa dalla Liturgia del Mercoledì delle Ceneri: come invito alla penitenza, all’umiltà, ad avere presente la propria condizione mortale, ma non per finire nella disperazione, bensì per accogliere, proprio in questa nostra mortalità, l’impensabile vicinanza di Dio, che, oltre la morte, apre il passaggio alla risurrezione, al paradiso finalmente ritrovato. In questo senso ci orienta un testo di Origene, che dice: «Ciò che inizialmente era carne, dalla terra, un uomo di polvere (cfr 1 Cor 15,47), e fu dissolto attraverso la morte e di nuovo reso polvere e cenere – infatti è scritto: sei polvere, e nella polvere ritornerai – viene fatto risorgere di nuovo dalla terra. In seguito, secondo i meriti dell’anima che abita il corpo, la persona avanza verso la gloria di un corpo spirituale» (Sui Princìpi 3, 6, 5: Sch, 268, 248).

I «meriti dell’anima», di cui parla Origene, sono necessari; ma fondamentali sono i meriti di Cristo, l’efficacia del suo Mistero pasquale. San Paolo ce ne ha offerto una formulazione sintetica nella Seconda Lettera ai Corinzi, oggi seconda Lettura: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).

La possibilità per noi del perdono divino dipende essenzialmente dal fatto che Dio stesso, nella persona del suo Figlio, ha voluto condividere la nostra condizione, ma non la corruzione del peccato. E il Padre lo ha risuscitato con la potenza del suo Santo Spirito e Gesù, il nuovo Adamo, è diventato, come dice san Paolo, «spirito datore di vita» (1 Cor 15,45), la primizia della nuova creazione.

Lo stesso Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti può trasformare i nostri cuori da cuori di pietra in cuori di carne (cfr Ez 36,26). Lo abbiamo invocato poco fa con il Salmo Miserere: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo. / Non scacciarmi dalla tua presenza / e non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 50,12-13). Quel Dio che scacciò i progenitori dall’Eden, ha mandato il proprio Figlio nella nostra terra devastata dal peccato, non lo ha risparmiato, affinché noi, figli prodighi, possiamo ritornare, pentiti e redenti dalla sua misericordia, nella nostra vera patria. Così sia, per ciascuno di noi, per tutti i credenti, per ogni uomo che umilmente si riconosce bisognoso di salvezza.
Amen.


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http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/apost_constitutions/documents/hf_p-vi_apc_19660217_paenitemini_it.html  
 
 
COSTITUZIONE APOSTOLICA  
PAENITEMINI
 
DI SUA SANTIT
À  
PAOLO VI
 
PAOLO VESCOVO  
SERVO DEI SERVI DI DIO  
A PERPETUA MEMORIA
 
 
 
 
[Estratto]  
 
 
Alcuni giorni e tempi penitenziali  
Affinché tutti i fedeli però siano uniti in una celebrazione comune della penitenza, la Sede Apostolica intende fissare alcuni giorni e tempi penitenziali (63), scelti tra quelli che, nel corso dell'anno liturgico, sono più vicini al Mistero Pasquale di Cristo (64) o vengano richiesti da particolari bisogni della comunità ecclesiale (65). Perciò si dichiara e si stabilisce quanto segue:  
I. § 1. Per legge divina tutti i fedeli sono tenuti a far penitenza.  
§ 2. Le prescrizioni della legge ecclesiastica, circa la penitenza, vengono totalmente riordinate secondo le seguenti nonne.  
II. § 1. Il tempo di Quaresima conserva il suo carattere penitenziale.  
§ 2. I giorni di penitenza, da osservarsi obbligatoriamente in tutta la Chiesa, sono tutti i venerdì dell'anno e il mercoledì delle Ceneri o il primo giorno della Grande Quaresima, secondo i riti; la loro sostanziale osservanza obbliga gravemente.  
§ 3. Salve le facoltà di cui ai nn. VI e VIII, circa il modo di ottemperare al precetto della penitenza in detti giorni, l'astinenza si osserverà in tutti i venerdì che non cadono in feste di precetto, mentre l'astinenza e il digiuno si osserveranno nel mercoledì delle Ceneri, o - secondo la diversità dei riti - nel primo giorno della Grande Quaresima, e nel venerdì della Passione e Morte di Gesù Cristo.  
III. § 1. La legge dell'astinenza proibisce l'uso delle carni, non però l'uso delle uova, dei latticini e di qualsiasi condimento anche di grasso di animale.  
§ 2. La legge del digiuno obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un po' di cibo al mattino e alla sera, attenendosi, per la quantità e la qualità, alle consuetudini locali approvate.
 
IV. Alla legge dell'astinenza sono tenuti coloro che hanno compiuto i quattordici anni; alla legge del digiuno invece sono obbligati tutti i fedeli dai ventun anni compiuti ai sessanta incominciati. Per quanto riguarda, poi, coloro che sono di età inferiore, i pastori d'anime ed i genitori cerchino con particolare cura di formarli secondo un autentico spirito di penitenza.  
V. Abrogati tutti i privilegi e gl'indulti sia generali che particolari, con queste norme nulla viene mutato né circa i voti di qualsiasi persona fisica o morale, né circa le costituzioni e regole di qualsiasi Religione o Istituto approvato.  
VI. § 1. A norma del Decreto conciliare Christus Dominus, circa il ministero pastorale dei Vescovi, n. 38, 4, spetta alle Conferenze Episcopali:  
a) trasferire, per giusta causa, i giorni di penitenza, tenendo sempre conto del tempo quaresimale;  
b) sostituire, del tutto o in parte, l'astinenza e il digiuno con altre forme di penitenza, specialmente con opere di carità ed esercizi di pietà. 


[SM=g1740733]


















[Modificato da Caterina63 23/02/2012 12:11]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Sesso: Femminile
24/02/2012 11:57
 
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Preghiera davanti a Gesù Crocefisso dopo la Comunione: l'indulgenza plenaria dei Venerdì di Quaresima (Ench. indulgentiarum edito 1999)



Carissimi sacerdoti fate conoscere le indulgenze plenarie, cari fedeli usate il tesoro delle indulgenze!

L'Enchiridion indulgentiarum postconciliare (ediz. 1999) ricorda che:

8 § 1. Plenaria indulgentia conceditur christifideli qui ...
... qualibet feria sexta temporis Quadragesimae, orationem
En ego, o bone et dulcissime Iesu, coram Iesu Christi Crucifixi imagine post communionem pie recitaverit;


En ego, o bone et dulcissime Iesu, ante conspectum tuum genibus me provolvo, ac maximo animi ardore te oro atque obtestor, ut meum in cor vividos fidei, spei et caritatis sensus, atque veram peccatorum meorum paenitentiam, eaque emendandi firmissimam voluntatem velis imprimere; dum magno animi affectu et dolore tua quinque vulnera mecum ipse considero, ac mente contemplor, illud prae oculis habens, quod iam in ore ponebat tuo David Propheta de te, o bone Iesu: « Foderunt manus meas et pedes meos; dinumeraverunt omnia ossa mea » (Ps 22 [Vg 21] 17-18).
(dal Messale Romano, Gratiarum actio post Missam)

Traduzione:



"8 § 1 E' concessa l'indulgenza plenaria ai fedeli che, in qualsivoglia Venerdì del tempo di Quaresima, avranno recitato piamente dopo la comunione e davanti all'immagine di Gesù Crocifisso, la preghiera En ego, o bone et dulcissime Iesu... "

Ecco la preghiera:

"E qui la traduzione in italiano:
Eccomi, o mio amato e buon Gesù, che prostrato alla tua santissima Presenza ti prego con il fervore più vivo di stampare nel mio cuore sentimenti di fede, di speranza, di carità, di dolore dei miei peccati e di proponimento di non offenderti più, mentre io con tutto l’amore e con tutta la compassione vado considerando le tue cinque piaghe, cominciando da ciò che disse di Te, o mio Gesù, il santo profeta Davide: “Hanno forato le mie mani e i miei piedi, hanno contato tutte le mie ossa”.


Cari lettori, stampate il testo, in latino o in italiano, e andate! Non lasciamo che queste grazie che la Chiesa offre ai suoi figli per meritare la salvezza dell'anima restino senza frutto! Oh, quale mirabile strumento di conversione e di speranza che i cattolici hanno! [SM=g1740721]


Testo preso da: L'indulgenza plenaria dei Venerdì di Quaresima: ecco la preghiera in italiano

http://www.cantualeantonianum.com/





[SM=g1740738]


La penitenza


di don Pierpaolo Maria Petrucci
S. Girolamo

Nel mondo di oggi le dottrine di Rousseau secondo cui l’uomo sarebbe di natura buono, sono divenute luoghi comuni. Una conseguenza della negazione del peccato originale è di non credere più alla necessità di far penitenza per i propri peccati e ottenere così il perdono che Dio ci offre grazie al sacrificio redentore di Gesù.
All’uomo decaduto e redento il pensiero moderno oppone la dignità assoluta dell’individuo ed i suoi diritti fondati precisamente su una natura integra, immacolata, quasi divina. Il dramma è che questi errori sono penetrati nel seno stesso della Chiesa cattolica.
Nell’ultimo concilio il decreto Dignitatis Humanae attribuisce all’uomo il “diritto alla libertà religiosa”. Secondo il suo insegnamento una qualunque setta ha il diritto di non essere impedita dalla pubblica autorità ad esercitare anche pubblicamente il proprio culto e a diffondere i propri errori. Si attribuiscono così all’uomo dei diritti assoluti, indipendenti da Dio, dalla verità oggettiva, dalla religione rivelata. In maniera più sconcertante la costituzione Gaudium et spes afferma che: il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione”.[1]
Dignità dell’uomo quindi che comporta dei diritti indipendenti dalla verità oggettive; dignità fondata sulla natura, nella quale vi è un germe divino, indipendentemente dalla grazia santificante. Questo neo-umanesimo di stampo naturalista ha fatto sparire dalla predicazione verità importanti come appunto la necessità della penitenza che implica il riconoscimento per l’uomo della sua condizione di peccatore, la sua dipendenza verso Dio e il bene supremo da raggiungere, a prezzo di qualunque sacrificio: la salvezza dell’anima, evitando così di perdersi eternamente nell’inferno.
E’ molto importante quindi, soprattutto oggi, meditare la dottrina cattolica sulla penitenza, in particolare nel periodo quaresimale, per potere essere sempre più in sintonia con questo tempo liturgico, ricco di grazie e prepararci santamente alla festa di Pasqua.
La virtù di penitenza
La penitenza di definisce come la disposizione a riparare le offese fatte a Dio. Essa fa parte della virtù di giustizia poiché ogni peccato lede il diritto di Dio ad essere onorato. La sua gravità è in un certo qual modo infinita, come dice S. Tommaso, poiché si misura dalla parte di colui che è offeso: Dio l’essere infinito. Per ripararlo Gesù offrì al Padre il suo sacrificio sulla Croce così da ripararlo in maniera adeguata e sovrabbondante: “la soddisfazione di valore infinito data da Gesù Cristo, non toglie all’uomo la necessità della penitenza ma lo mette in condizione di offrire una riparazione gradita a Dio”.[2] Con la penitenza possiamo così riparare il debito dei nostri peccati ed evitare di espiarli nella vita futura.
Tanti santi furono grandi penitenti, offerti a Dio per riparare non soltanto i propri peccati ma, come Gesù, anche quelli degli altri uomini. Ottennero così la conversione di peccatori, preservando persino l’umanità da castighi di cui si rende colpevole per le pubbliche offese fatte a Dio. Pensiamo per esempio a S. Francesco che passava settimane intere in preghiera e penitenza alla Verna, dove si può ancora vedere il suo “letto” di pietra.
I tre veggenti di Fatima, in seguito alle richieste della Madonna, accettarono di offrirsi come vittime di espiazione, per salvare le anime dall’inferno che la Vergine Maria aveva mostrato loro. Ancora più vicino nel tempo ricordiamo Padre Pio, intimamente unito alle sofferenze del Salvatore crocifisso, per ricordare al mondo e alla Chiesa, nel periodo di crisi che sta vivendo, che la Messa non è un banchetto fraterno, ma lo stesso sacrificio della croce reso presente sull’altare, in maniera incruenta, per applicarci le grazie che Gesù ha meritato per noi.
Certo molto spesso le penitenze dei santi sono più da ammirare che da imitare, ma ogni cristiano deve praticare questa virtù. Prima di tutto nel sacramento di penitenza, confessando a Dio umilmente le proprie colpe e sottomettendosi di buon cuore alla penitenza che il sacerdote vorrà imporgli. Tale penitenza, molto spesso non è proporzionata alla gravità delle colpe accusate. Per questo è importante completarla con altre preghiere e sacrifici volontari, sopratutto accettando generosamente le contrarietà della vita quotidiana, che Dio permette proprio per darci l’occasione di riparare i nostri peccati in questa vita e evitarci la purificazione del Purgatorio dove, secondo S. Tommaso d’Acquino, la più piccola sofferenza è più grande delle più grande sofferenza della terra.
La penitenza poi ci preserva anche dai peccati futuri. Il peccato originale ha ferito la nostra natura e, con la grazia santificante, Adamo ha perso per noi anche i doni preternaturali che doveva trasmetterci con la natura umana, in particolare il dono di integrità che garantiva la sottomissione delle facoltà sensibili alla ragione. Anche dopo il Battesimo, rimane in noi la triplice concupiscenza che si manifesta con la rivolta della nostra parte sensibile alla ragione e alla legge di Dio.
Per restaurare l’ordine primitivo distrutto dal peccato e non lasciarci tiranneggiare dal nostro corpo e dalle sue passioni, la penitenza e la mortificazione dei sensi divengono indispensabili. L’insegnamento di Gesù su questo punto è molto chiaro: “Se non fate penitenza perirete tutti”[3], o ancora: “Se qualcuno vuol essere mio discepolo rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”[4]. Allo stesso modo S. Paolo facendo eco alla parola del Signore diceva: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue concupiscenze.”[5]
Come diceva Giobbe: “La vita dell’uomo è una battagli sulla terra”.[6] Questa lotta consiste nell’instaurare l’ordine nella propria anima, per poi restaurarlo nella famiglia e ricostruire una società cristiana. E’ certo che l’essenziale della vita cristiana si riassume nella carità: l’amore di Dio e del prossimo. Ma non si può praticare veramente questa virtù senza una ascesi, senza la penitenza e la mortificazione. In assenza di ciò si rischia di ridurre la religione ad un affare di sentimento, che non ha niente a che vedere con l’insegnamento virile del cristianesimo.
Non vi è vero amore senza sacrificio e Gesù ce lo ha insegnato non soltanto con la dottrina ma soprattutto con il suo esempio. Quando poi si unisce alla preghiera la penitenza, essa diviene efficacissima nell’ottenere da Dio ciò che domandiamo. Certe grazie, come appare dall’insegnamento del Vangelo, ci sono accordate unicamente a questa condizione.[7]
Ai nostri tempi la disciplina della Chiesa durante la Quaresima si è molto attenuata. Oltre all’astinenza delle carni il venerdì, ci sono unicamente due giorni di digiuno obbligatori per coloro che hanno compiuto i 18 anni fino ai 60: il mercoledì delle ceneri ed il Venerdì Santo. E’ consigliabile comunque, conservare la disciplina tradizionale che consiste nel digiunare tutti i venerdì di Quaresima e aggiungere qualche pratica di mortificazione personale: piccoli sacrifici offerti al Signore che ci dispongono ad accettare generosamente quelli più grandi che ci chiederà nelle circostanze della vita.
Entriamo quindi generosamente nella quaresima, meditando l’esempio di Nostro Signore che, come ci ricorda l’Imitazione di Cristo, ci traccia la strada camminando davanti a noi.


[1] Gaudium et spes n 3
[2] Dizionario di Teologia Morale, Palazzini, voce Penitenza Ed. Studium Roma 1968
[3] Lc 13,3
[4] Mc 8,34
[5] Gal. 5,24
[6] Giob. 7,1
[7] Mt 17,21
[SM=g1740720]
[Modificato da Caterina63 26/02/2012 10:05]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il Papa: La tentazione di rimuovere Dio, di mettere ordine da soli in se stessi e nel mondo contando solo sulle proprie capacità, è sempre presente nella storia dell’uomo

Duccio di Buoninsegna, "Tentazione sul monte"


LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS , 26.02.2012

Alle ore 12 di oggi, I Domenica di Quaresima, il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!


In questa prima domenica di Quaresima, incontriamo Gesù che, dopo aver ricevuto il battesimo nel fiume Giordano da Giovanni il Battista (cfr Mc 1,9), subisce la tentazione nel deserto (cfr Mc 1,12-13). La narrazione di san Marco è concisa, priva dei dettagli che leggiamo negli altri due Vangeli di Matteo e di Luca.
Il deserto di cui si parla ha diversi significati. Può indicare lo stato di abbandono e di solitudine, il “luogo” della debolezza dell’uomo dove non vi sono appoggi e sicurezze, dove la tentazione si fa più forte. Ma esso può indicare anche un luogo di rifugio e di riparo, come lo fu per il popolo di Israele scampato alla schiavitù egiziana, dove si può sperimentare in modo particolare la presenza di Dio. Gesù «nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» ci dice san Luca. San Leone Magno commenta che «il Signore ha voluto subire l’attacco del tentatore per difenderci con il suo aiuto e per istruirci col suo esempio» (Tractatus XXXIX,3 De ieiunio quadragesimae: CCL 138/A, Turnholti 1973, 214-215).
Che cosa può insegnarci questo episodio? Come leggiamo nel Libro dell’Imitazione di Cristo, «l’uomo non è mai del tutto esente dalla tentazione finché vive… ma è con la pazienza e con la vera umiltà che diventeremo più forti di ogni nemico» (Liber I, c. XIII, Città del Vaticano 1982, 37), la pazienza e l’umiltà di seguire ogni giorno il Signore, imparando a costruire la nostra vita non al di fuori di Lui o come se non esistesse, ma in Lui e con Lui, perché è la fonte della vera vita. La tentazione di rimuovere Dio, di mettere ordine da soli in se stessi e nel mondo contando solo sulle proprie capacità, è sempre presente nella storia dell’uomo.
Gesù proclama che «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15), annuncia che in Lui accade qualcosa di nuovo: Dio si rivolge all’uomo in modo inaspettato, con una vicinanza unica concreta, piena di amore; Dio si incarna ed entra nel mondo dell’uomo per prendere su di sé il peccato, per vincere il male e riportare l’uomo nel mondo di Dio. Ma questo annuncio è accompagnato dalla richiesta di corrispondere ad un dono così grande.

Gesù, infatti, aggiunge: «convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,15); è l’invito ad avere fede in Dio e a convertire ogni giorno la nostra vita alla sua volontà, orientando al bene ogni nostra azione e pensiero. Il tempo della Quaresima è il momento propizio per rinnovare e rendere più saldo il nostro rapporto con Dio, attraverso la preghiera quotidiana, i gesti di penitenza, le opere di fraternità.

Supplichiamo con fervore Maria Santissima perché accompagni il nostro cammino quaresimale con la sua protezione e ci aiuti ad imprimere nel nostro cuore e nella nostra vita le parole di Gesù Cristo, per convertirci a Lui. Affido, inoltre, alla vostra preghiera la settimana di Esercizi spirituali che questa sera inizierò con i miei Collaboratori della Curia Romana.

DOPO L'ANGELUS

(..)

Słowo serdecznego pozdrowienia kieruję do wszystkich Polaków. „Bliskie jest królestwo Boże. Nawracajcie się i wierzcie w Ewangelię!" (Mk 1,15). Tymi słowami, Chrystus wzywa nas dzisiaj do pokuty i przemiany życia. Bądźmy dla świata ewangelicznym zaczynem prawdy przez gesty miłosierdzia, przebaczenia i pojednania. Życzę wszystkim obfitych owoców duchowych Wielkiego Postu i z serca błogosławię.

[Rivolgo il mio cordiale saluto a tutti i Polacchi. "Il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15). Con tali parole, Cristo ci esorta a fare penitenza e a cambiare vita. Bisogna che diventiamo per il mondo lievito evangelico della verità attraverso i gesti della misericordia, del perdono e della riconciliazione. Auguro a ciascuno di voi abbondanti frutti spirituali nella Quaresima e di cuore vi benedico.]

Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli venuti da Cento di Ferrara e dalla Diocesi di Bologna, da Vicenza, Bari e Modugno. Saluto i ragazzi di alcune Parrocchie della Diocesi di Milano che si stanno preparando alla professione di fede, come pure la delegazione dei "Consigli Comunali dei Ragazzi" della Provincia di Catania.
A tutti auguro una buona domenica e una buona Quaresima.

[SM=g1740738]

Santi Comandamenti


Quanto segue è tratto per me e per voi, Amici, da: Filotea Mariana, una raccolta di saggi, aneddoti, preghiere e devozione della tradizione e si chiama: "Un segreto di felicità" di padre Francesco M. Avidano S.M. - Nona Edizione - Torino - con Imprimatur 1962



I pasti e la Madonna

La santa Schiavitù ti aiuterà a nobilitare e santificare anche questa azione in sè così materiale. Quante anime pie, infatti, e anche religiose, che hanno saputo rinunciare a tutto, sono poi state invece schiave della gola!
Ascolta cosa devi fare: impara a mangiare da uomo, da cristiano, da schiavo di Maria.

1. Da Uomo: impara innanzi tutto questo, mangiare per vivere e non vivere per mangiare. Gli animali vivono per mangiare, eppure se essi sono addomesticati imparano a rispettare le regole che tu, uomo, dai loro, a maggior ragione comportati come uno che ha delle regole.
E poi pensa qual dolorosa necessità dover interrompere la preghiera, il lavoro, per pensare a mangiare e poi per digerire... Assoggetati perciò ad essa come ad una umiliante necessità "per vivere devo mangiare", ma non essere di quelli che fanno del cibo il pensiero dominante della vita e non sanno parlare d'altro che di ciò che hanno mangiato e di quel che mangeranno qualche ora più tardi; non essere di quelli che non s'accontentano mai di nulla a tavola e che se non soddisfano il gusto sono capaci di mandarsi storta la giornata. Tu mangia da uomo saggio, che se la salute te lo permette certamente, apprezza tutto ciò che ti sarà offerto in cibo, impara a mangiar ciò che ti fa bene ma forse non ti piace nel gusto, sii gioioso se qualche volta il pasto è poco saporito. Non riempirti lo stomaco fino alla sazietà, così mangiano gli animali, ma loro sono giustificati, eppure se li addomestichi s'accontentano di ciò che il padrone gli dà, impara anche poco alla volta le piccole rinuncie fino a soddisfare, piuttosto, il piacere di qualche diogiuno.

2. Da Cristiano: il primo condimenti dei tuoi pasti sia la preghiera e la mortificazione, il fioretto. Se hai più tempo aggiungi alla preghiera del pasto anche un'Ave Maria, e glieLa offrirai pensando a Lei mentre era in fuga in Egitto, quasi partoriente, non aveva molto di che mangiare. Anche durante il pasto non smettere di nutrire l'anima, se ti è possibile, ascolta qualche passo della Scrittura, in famiglia qualcuno a turno, durante il desco, può leggere qualche brano ispirato scritto dai Santi, oppure dal Trattato della Vera Devozione a Maria, o dal Segreto di Maria, o dalle Glorie di Maria, perchè "non di solo pane vive l'uomo", pensa a quanti sono senza pane e ciò che tu mangi è dono di Dio.
Questi consigli ci sono dati dall'Apostolo Paolo, quando dice:  1Corinzi 10, 31 Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate alcun'altra cosa, fate tutte le cose per la gloria di Dio.
Non dimenticare le pene che siscontano in Purgatorio per i peccati di gola! E ti sia di giovamento pensare alle eterne ricompense con cui Dio rimunerà anche la più piccola mortificazione che avrai fatto per amor Suo.
Quando Gesù mangiava pensava anche all'Ultima Cena, pensava a quel pane e a quel vino  che avrebbe trasformato nel Suo Corpo e nel Suo Sangue, sacrificato per la nostra salvezza, così il vero Cristiano, anche a tavola, non pensa a se stesso, ma piuttosto pensa agli altri, mentre mangia può pensare a cosa fare magari per un vicino di casa in difficoltà, o per qualche fedele della parrocchia in difficoltà, o per andare a trovare un malato, vedi come anche mangiando si può pianificare il proprio apostolato.
Infine, se sei invitato a qualche pranzo importante, non metterti in mostra, cerca sempre l'ultimo posto, non ostentare, ed anche qui, senza offendere il padrone di casa,  nascondi le tue mortificazioni.

3. Da Schiavo di Maria: pensa subito e spesso a come è divinamente bello immaginare la Vergine Santa mentre serve Gesù a tavola, mentre porge il piatto al Suo Casto Sposo san Giuseppe, dopo una giornata di lavoro. Immagina come Gesù, seduto a tavola, mangiasse con loro. Stai pur certo che la Madonna non pensava al cibo in sè, ma guardava il Suo adorabile Gesù, e sempre pensava a quel Mistero che aveva davanti: tutto Dio ed anche tutto Uomo, Suo Figlio, e pensava di certo come avrebbe potuto servirLo al meglio nel mentre che cresceva.
Che bello e che dono poter mangiare sempre alla presenza della Divina Famiglia. Maria dava i bocconi più prelibati a Gesù Bambino, così i Santi hanno imparato a fare altrettanto con i poveri, dando il meglio che avevano a loro, spesso si astenevano da qualche ghiotto boccone che offrivano alla Madonna perchè in qualche modo Ella potesse far giungere quella rinuncia a qualche povero.
Maria era tutta protesa all'ascolto di Gesù, sappi anche tu introdurre delle buone conversazioni a tavola, e se sei un religioso, sfrutta la lettura di tavola, è importante non perdersi nelle chiacchiere peccaminose, specialmente quelle vanitose, quelle in cui ci si autogratifica di se stessi.

4. Impara a vedere in chi ti serve la Vergine Santissima e ti sarà più facile:

a. mangiare con umiltà: io che sono il servo, vengo servito! Ho davvero guadagnato questo cibo? Sappi riconoscere la Provvidenza e di spesso: Oh! come la Madonna Santa tratta bene i suoi servi!

b. con la santa mortificazione: come potrei lamentarmi di tal simile Provvidenza sulla mia tavola? E questa non è fantasia! La Madonna vuole davvero che tu accetti, in nome Suo, tutto ciò che ti portano, senza lamentarti, ma ringraziando sempre il Signore prima, durante e dopo il pasto.

c. con fedeltà e devozione, cioè: sempre come se stessi alla presenza di Dio, ricordando di avere sempre accanto a te il tuo Angelo Custode. Usa la fedeltà specialmente nei giorni di digiuno prescritti dalla santa Chiesa, giungi ad un santo digiuno di devozione specialmente il Venerdì e al Sabato dedicato alla Madonna, ricordandoti che alle ore 15,00 del Venerdì Gesù moriva sulla Croce per te. Questo pensiero ti aiuterà a mantenerti fedele nella mortificazione e nel digiunare.

Se all'inizio dell'impresa ti riuscirà difficile mantenerti fedele, non scoraggiarti, aiutati con la Confessione, con la santa Eucaristia, con il Rosario, non smettere mai di impegnarti e alla fine vedrai che i risultati arriveranno, e tu guadegnerai immensi benifici e tanto giovamento. Pensa sempre che più ti impegnerai a favore dei peccatori, dei poveri, di chi è lontano dalla Chiesa, per la loro conversione, e più tu riciverai benefici.
La Madre Matilde del SS. Sacramento, Abbadessa del Monastero, aveva stabilito che fosse portata, ogni giorno, la miglior porzione ai piedi della Santissima Vergine, e così che venisse distribuita ai poveri che andavo a bussare in quell'ora.

___________________________________________

clicca qui per meditare sui  7 VIZI CAPITALI E LE VERE VRTU' ....

[SM=g1740738]


[Modificato da Caterina63 01/03/2012 11:30]
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[SM=g1740717] Benedetto XVI parla ai Fidanzati

Per la chiusura del Congresso Eucaristico Nazionale dell'11 settembre 2011 ad Ancona, il santo Padre Benedetto XVI ha incontrato i Fidanzati ed ha offerto loro una stupenda Catechesi sull'amore vero ed autentico, sulla promessa coniugale, sul valore del matrimonio.... E' un Discorso che sembra essersi volatizzato e perso nel vuoto del chiasso mediatico, noi ve lo vogliamo riproporre invitandovi a farlo vostro e a farlo conoscere.
www.gloria.tv/?media=263072

Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org


[SM=g1740717]


[SM=g1740738]

[SM=g1740733] posteremo alcuni di questi racconti qui riportati, in brevi video per catechesi e per i giovani....

Cari Amici, ci proponiamo di offrirvi in video alcuni dei tanti e tanti racconti, autentici, di esperienze "mariane", di atei convertiti da Maria, della potenza del Suo Rosario, dell'amore materno con il quale Ella ci porta a Gesù. Piccole e semplici storie ma grandi, immense per i contenuti teologici e per chi, con tutto il cuore, cerca delle risposte alle proprie ricerche, alle proprie inquietudini, alla propria sofferenza... Buona meditazione.
it.gloria.tv/?media=247422



[SM=g1740717]

[SM=g1740738] [SM=g1740750] [SM=g1740752]

[SM=g1740717] Cari Amici, dopo avervi offerto i primi due racconti:
www.gloria.tv/?media=247422 desideriamo farvi conoscere una storia speciale anche per noi, come la Beata Vergine Maria diventò Patrona e Regina dell'Ordine Domenicano e come da san Domenico il fatto è stato tramandato a noi oggi.

Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org

Vi ricordiamo che il 28 gennaio è la Festa di san Tommaso d'Aquino, un grande Santo domenicano e Dottore della Chiesa...
cantore dell'Eucaristia, teologo insuperabile...
Diciamo un Rosario ricordando anche la sua potente intercessione, specialmente per i giovani.
www.gloria.tv/?media=249760



[SM=g1740738]

[SM=g1740750] [SM=g1740752]

[SM=g1740733] La potenza del Rosario due racconti mariani il beato Angelico e conservare la fede per un secolo (3)
www.gloria.tv/?media=265776

Ritorniamo a proporvi Racconti Mariani autentici, piccoli, ma grandi per dottrina, per testimonianza, per la vera carità. Vi ricordiamo che abbiamo già postato i seguenti Racconti:
- La potenza del Rosario due racconti mariani (1)
www.gloria.tv/?media=247422
- La potenza del Rosario un racconto mariano domenicano (2)
www.gloria.tv/?media=249760

Movimento Domenicano del Rosario
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[SM=g1740717]

[SM=g1740750] [SM=g1740752]
[Modificato da Caterina63 09/03/2012 10:23]
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10/03/2012 09:36
 
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Il Papa alla Penitenzieria Apostolica: C’è uno stretto legame tra santità e Sacramento della Riconciliazione, testimoniato da tutti i Santi della storia. La reale conversione dei cuori, che è aprirsi all’azione trasformante e rinnovatrice di Dio, è il "motore" di ogni riforma e si traduce in una vera forza evangelizzante



UDIENZA AI PARTECIPANTI AL CORSO SUL FORO INTERNO PROMOSSO DALLA PENITENZIERIA APOSTOLICA, 09.03.2012

Dal 5 al 9 marzo 2012 si è svolto, presso il Palazzo della Cancelleria in Roma, il XXIII Corso sul Foro Interno promosso dalla Penitenzieria Apostolica.
In occasione della conclusione del Congresso, alle ore 12 di oggi, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti al Corso annuale sul Foro interno e - dopo l’indirizzo di omaggio del Penitenziere Maggiore, il Card. Manuel Monteiro de Castro - il Papa rivolge ai presenti il discorso che riportiamo di seguito:


DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari Amici,

sono molto lieto di incontrarvi in occasione dell’annuale Corso sul Foro Interno, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica. Rivolgo un cordiale saluto al Cardinale Manuel Monteiro de Castro, Penitenziere Maggiore, che, per la prima volta in questa veste, ha presieduto le vostre sessioni di studio, e lo ringrazio per le cordiali espressioni che ha voluto rivolgermi. Saluto altresì Mons. Gianfranco Girotti, Reggente, il personale della Penitenzieria e ciascuno di voi che, con la vostra presenza, richiamate a tutti l’importanza che ha per la vita di fede il Sacramento della Riconciliazione, evidenziando sia la necessità permanente di un’adeguata preparazione teologica, spirituale e canonica per poter essere confessori, sia, soprattutto, il legame costitutivo tra celebrazione sacramentale e annuncio del Vangelo.

I Sacramenti e l’annuncio della Parola, infatti, non devono mai essere concepiti come separati, ma, al contrario, «Gesù afferma che l’annuncio del Regno di Dio è lo scopo della sua missione; questo annuncio, però, non è solo un "discorso", ma include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire; i segni, i miracoli che Gesù compie indicano che il Regno viene come realtà presente e che coincide alla fine con la sua stessa persona, con il dono di sé. […] Il sacerdote rappresenta Cristo, l’Inviato del Padre, ne continua la missione, mediante la "parola" e il "sacramento", in questa totalità di corpo e anima, di segno e parola» (Udienza generale, 5 maggio 2010).

Proprio questa totalità, che affonda le radici nel mistero stesso dell’Incarnazione, ci suggerisce che la celebrazione del Sacramento della Riconciliazione è essa stessa annuncio e perciò via da percorrere per l’opera della nuova evangelizzazione.

In che senso allora la Confessione sacramentale è "via" per la nuova evangelizzazione? Anzitutto perché la nuova evangelizzazione trae linfa vitale dalla santità dei figli della Chiesa, dal cammino quotidiano di conversione personale e comunitaria per conformarsi sempre più profondamente a Cristo. E c’è uno stretto legame tra santità e Sacramento della Riconciliazione, testimoniato da tutti i Santi della storia. La reale conversione dei cuori, che è aprirsi all’azione trasformante e rinnovatrice di Dio, è il "motore" di ogni riforma e si traduce in una vera forza evangelizzante.

Nella Confessione il peccatore pentito, per l’azione gratuita della Misericordia divina, viene giustificato, perdonato e santificato, abbandona l’uomo vecchio per rivestirsi dell’uomo nuovo. Solo chi si è lasciato profondamente rinnovare dalla Grazia divina, può portare in se stesso, e quindi annunciare, la novità del Vangelo.

Il beato Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica Novo Millennio ineunte, affermava: «Un rinnovato coraggio pastorale vengo poi a chiedere perché la quotidiana pedagogia delle comunità cristiane sappia proporre in modo suadente ed efficace la pratica del sacramento della Riconciliazione» (n. 37). Desidero ribadire tale appello, nella consapevolezza che la nuova evangelizzazione deve far conoscere all’uomo del nostro tempo il volto di Cristo «come mysterium pietatis, colui nel quale Dio ci mostra il suo cuore compassionevole e ci riconcilia pienamente a sé. È questo volto di Cristo che occorre far riscoprire anche attraverso il sacramento della Penitenza» (ibidem).

In un’epoca di emergenza educativa, in cui il relativismo mette in discussione la possibilità stessa di un’educazione intesa come progressiva introduzione alla conoscenza della verità, al senso profondo della realtà, quindi come progressiva introduzione al rapporto con la Verità che è Dio, i cristiani sono chiamati ad annunciare con vigore la possibilità dell’incontro tra l’uomo d’oggi e Gesù Cristo, in cui Dio si è fatto così vicino da poterlo vedere e ascoltare. In questa prospettiva il Sacramento della Riconciliazione, che prende le mosse da uno sguardo alla propria concreta condizione esistenziale, aiuta in modo singolare quella "apertura del cuore" che permette di volgere lo sguardo a Dio perché entri nella vita.

La certezza che Lui è vicino e nella sua misericordia attende l’uomo, anche quello coinvolto nel peccato, per guarire le sue infermità con la grazia del Sacramento della Riconciliazione, è sempre una luce di speranza per il mondo.

Cari sacerdoti e cari diaconi che vi preparate al Presbiterato, nell’amministrazione di questo Sacramento, vi è data o vi verrà data la possibilità di essere strumenti di un sempre rinnovato incontro degli uomini con Dio. Quanti si rivolgeranno a voi, proprio per la loro condizione di peccatori, sperimenteranno in se stessi un desiderio profondo: desiderio di cambiamento, domanda di misericordia e, in definitiva, desiderio che riaccada, attraverso il Sacramento, l’incontro e l’abbraccio con Cristo. Sarete perciò collaboratori e protagonisti di tanti possibili "nuovi inizi", quanti saranno i penitenti che vi si accosteranno, avendo presente che l’autentico significato di ogni "novità" non consiste tanto nell’abbandono o nella rimozione del passato, quanto nell’accogliere Cristo e nell’aprirsi alla sua Presenza, sempre nuova e sempre capace di trasformare, di illuminare tutte le zone d’ombra e di schiudere continuamente un nuovo orizzonte. La nuova evangelizzazione, allora, parte anche dal Confessionale! Parte cioè dal misterioso incontro tra l’inesauribile domanda dell’uomo, segno in lui del Mistero Creatore, e la Misericordia di Dio, unica risposta adeguata al bisogno umano di infinito. Se la celebrazione del Sacramento della Riconciliazione sarà questo, se in essa i fedeli faranno reale esperienza di quella Misericordia che Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, ci ha donato, allora diverranno essi stessi testimoni credibili di quella santità, che è il fine della nuova evangelizzazione.

Tutto questo, cari amici, se è vero per i fedeli laici, acquista ancora maggiore rilevanza per ciascuno di noi. Il ministro del Sacramento della Riconciliazione collabora alla nuova evangelizzazione rinnovando egli stesso, per primo, la coscienza del proprio essere penitente e del bisogno di accostarsi al perdono sacramentale, perché si rinnovi quell’incontro con Cristo, che, iniziato nel Battesimo, ha trovato nel Sacramento dell’Ordine una specifica e definitiva configurazione.

Questo il mio augurio per ciascuno di voi: la novità di Cristo sia sempre il centro e la ragione della vostra esistenza sacerdotale, perché chi vi incontra possa, attraverso il vostro ministero, proclamare come Andrea e Giovanni: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41). In tal modo, ogni Confessione, dalla quale ciascun cristiano uscirà rinnovato, rappresenterà un passo in avanti della nuova evangelizzazione. Maria, Madre di Misericordia, Rifugio per noi peccatori e Stella della nuova evangelizzazione accompagni il nostro cammino. Vi ringrazio di cuore e volentieri vi imparto la mia Benedizione Apostolica.


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Sorriso, Agonia e Morte del Figlio di Dio

 

Plinio Corrêa de Oliveira (*)

 

 

Un giorno – correva l’anno 1630 – Fra’ Innocenzo da Palermo, umile frate francescano,  decise di scolpire un crocifisso in legno di ebano. Lo iniziò dal corpo, a cui riuscì a dare la forma desiderata. E lasciò per ultimo il volto, cioè la parte più difficile della scultura che si era prefissata. Che aspetto dargli?  Il frate era colto da indefinibile e profonda perplessità. Una notte si coricò con l’anima appesantita da questa problema, ma  quando al mattino si accinse a continuare l’opera che aveva lasciato incompiuta, la trovò inaspettatamente finita, con un meraviglioso volto, realizzato da un artista ignoto.

Era un volto in cui si fondevano armoniosamente, con delicatezza, la virilità e un’unzione soprannaturale, che lo facevano apparire come l’opera notturna di un angelo. Ricco di sfaccettature, a seconda dell’angolo di osservazione il  divino crocifisso appare sorridente, agonizzante o ormai morto.

 

*     *     *

 

 Conservato da tre secoli nel santuario di San Damiano, ad Assisi, il meraviglioso crocifisso di Fra’ Innocenzo è stato oggetto della continua pietà dei pellegrini.

Ce ne serviremo per la nostra meditazione della Settimana Santa.

 

*

 

Signore, cosa ti avrebbe indotto a sorridere dall’alto della croce? Che abisso di contraddizione fra i dolori che, dal capo ai piedi, tormentano il tuo sacro corpo e quel sorriso che affiora dolce, soave, tenero, socchiudendoti le labbra e illuminandoti il viso! Soprattutto, Signore, che contraddizione tra l’abisso dei dolori morali che riempie il tuo Cuore e quella gioia, così delicata e così autentica, che traspare dal tuo Volto! Contro di te si è scagliato tutto il mare magnum dell’ignominia e della miseria umana. Non c’è ingratitudine né calunnia che ti sia stata risparmiata. Hai predicato il Regno dei Cieli e la tua predica è stata rifiutata dalla vile brama delle cose terrene. Il demonio, il mondo, la carne, in una infamante rivolta contro di te, ti hanno portato al patibolo, e lì sei in attesa della morte.

Eppure sorridi! Perché?

Le tue palpebre sono quasi chiuse. Quasi… ma qualcosa possono vedere ancora. E quel che vedi, Signore, è la più grande meraviglia della creazione, l’opera prima del Padre celeste, un’anima – e quanta bellezza ci può essere in un’anima, nonostante la ignori il materialismo del nostro secolo –– ricchissima e integra nella sua natura, colma di ogni dono della grazia, e santificata da una corrispondenza continua e perfettissima a tutti quei doni. Vedi Maria. Vedi tua madre. E nel mezzo di tutti gli orrori nei quali sei sommerso, tale è la meraviglia che vedi, che sorridi affettuosamente, per incoraggiarla, per comunicarle qualcosa della tua gioia, per dirle qualcosa del tuo amore infinito e sublime.

Tu vedi Maria. E accanto alla Vergine fedele, vedi gli eroi della fedeltà: l’apostolo vergine, le sante donne; la fedeltà dell’innocenza, la fedeltà della penitenza. Il tuo sguardo, per il quale tutto è presente, va molto più lontano perché si estende nei secoli, facendoti vedere tutte le anime fedeli che ti avrebbero adorato ai piedi della Croce fino al giorno del Giudizio. Vedi la Santa Chiesa cattolica, tua sposa. E per tutto ciò sorridi, con il sorriso più triste e più beato, più dolce e più compassionevole di tutta la storia.

Il Vangelo mai ti presenta ridendo, Signore. E solo le anime che ignorano o che hanno orrore della impudenza sensuale e volgare, possiedono il segreto di sorrisi come questo!

Fra le miriadi di anime che nel seguito di Maria sono ai piedi della Croce, e per le quali tu sorridi, ci sarà anche la mia, Signore?

Umile, inginocchiato, sapendomi indegno, tuttavia ti chiedo un sì. Tu che non hai scacciato dal Tempio il pubblicano (cf. Luc. 18, 6-20), per le preghiere di Maria non allontanerai da te un peccatore contrito e umiliato. Dammi dall’alto della Croce una raccia del tuo ineffabile sorriso, o buon Gesù.

 

*

« Per le lacrime di  Maria,

  per l’ultima agonia,

  abbi pietà di me. »

 

Questi versi così semplici di un cantico religioso senza pretese si incisero profondamente in me. E mi vengono in mente contemplando il vostro Volto in agonia.

L’ultima agonia… Che forza in quella espressione. Ogni tappa dell’agonia sembra una fine, dalla quale sgorga non la fine ma un’altra agonia ancora peggiore. E così, di dolore in dolore, di eccesso in eccesso, si giunge all’estrema agonia in cui la morte spezza i vincoli ultimi che legano l’anima al corpo.

Ultima agonia di un corpo spaventosamente tormentato… agonia di un’anima a cui la perfidia umana ha causato ogni possibile tristezza. E’ la parte più atroce della Passione. Maria Santissima, che tutto vede e tutto sente, piange. Il cielo si copre. La terra si accinge a tremar di orrore. Gli sciocchi schiamazzi della plebaglia ostile cerca di impregnare di volgarità la sublime scena. Ma intanto un grido di dolore partito dal tuo petto sale fino al cielo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mat. 27, 46).

E’ l’ora del trionfo supremo dell’inquità. E’ anche l’ora dell’estrema misericordia, delle conversioni inattese e miracolose. L’anima del buon ladrone parte per attenderti nel limbo. Milioni e milioni di anime, per i meriti infiniti della tua ultima agonia, per il valore supplicante delle lacrime di Maria, in tutti i secoli si convertiranno meditando questo passo della tua Passione.

Fra di esse, Signore, metti anche la mia. Rompi il ghiaccio della mia tiepida volontà. Brucia le mie vili condiscendenze con le pompe e le opere di Satana. Fai di me un figlio della luce, forte, impavido, «terribile come esercito schierato a battaglia» contro i tuoi avversari.

 

«Per le lacrime di Maria,

  per l’ultima agonia,

  abbi pietà di me».

 

*

 

Tutto è compiuto: «consummatum est» (Io. 19, 30). La tua testa pende inerte. Una maestosa pace, soavissima e divina, splende in tutto il tuo corpo, sei pieno di pace, o Principe della Pace.

Ma intorno a te tutto è afflizione e sconvolgimento. Afflizione estrema nel Cuore di Maria e nel piccolo gruppo dei tuoi fedeli. Sconvolgimento nell’universo intero. Il sole si oscura, la terra trema, il velo del Tempio si squarcia, i centurioni scappano. Ma tu resti in pace.

Sì, perché tutto è compiuto. Perché l’iniquità ha palesato la sua infamia fino alla fine. E perché tu hai palesato fino all’estremo la tua divina perfezione.

Per i meriti sovrabbondanti della tua Passione e morte, gli uomini possono riconoscere tutta la bellezza della luce e tutto l’orrore delle tenebre, perché possano essere figli della luce e inesorabili avversari delle tenebre.

Al piede della Croce c’è Maria. Che sublimi meditazioni farà nel suo intimo Colei di cui il Vangelo narra che già agli albori della tua vita: «serbava tutte queste cose nel cuore», cioè le cose che ti riguardavano (cf. Luc. 2, 51).

Cuore Immacolato di Maria, sede della sapienza, comunicami una scintilla, anche la più piccola, della tua lucidissima e ardente meditazione sulla Passione e Morte di tuo Figlio, il mio Redentore, affinché io la serbi come fuoco sacro e purificatore nell’intimo della mia anima.

 

 

(*) Trascritto dalla rivista «Catolicismo», Brasile, aprile 1963.

 

 

 

Crocifisso conservato nel Santuario di San Damiano e che riproduciamo per gentile concessione delle Edizioni DACA – Assisi.

 

 

Spunti marzo/2001 – Inserto Redazionale (distribuzione gratuita)

 

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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18/03/2012 19:06
 
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LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 18.03.2012

Alle ore 12 di oggi, IV domenica di Quaresima, il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Nel nostro itinerario verso la Pasqua, siamo giunti alla quarta domenica di Quaresima. E’ un cammino con Gesù attraverso il «deserto», cioè un tempo in cui ascoltare maggiormente la voce di Dio e anche smascherare le tentazioni che parlano dentro di noi.
All’orizzonte di questo deserto si profila la Croce. Gesù sa che essa è il culmine della sua missione: in effetti, la Croce di Cristo è il vertice dell’amore, che ci dona la salvezza. Lo dice Lui stesso nel Vangelo di oggi: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15).

Il riferimento è all’episodio in cui, durante l’esodo dall’Egitto, gli ebrei furono attaccati da serpenti velenosi, e molti morirono; allora Dio comandò a Mosè di fare un serpente di bronzo e metterlo sopra un’asta: se uno veniva morso dai serpenti, guardando il serpente di bronzo, veniva guarito (cfr Nm 21,4-9).
Anche Gesù sarà innalzato sulla Croce, perché chiunque è in pericolo di morte a causa del peccato, rivolgendosi con fede a Lui, che è morto per noi, sia salvato. «Dio infatti – scrive san Giovanni – non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).


Commenta sant’Agostino: «Il medico, per quanto dipende da lui, viene per guarire il malato. Se uno non sta alle prescrizioni del medico, si rovina da solo. Il Salvatore è venuto nel mondo … Se tu non vuoi essere salvato da lui, ti giudicherai da te stesso» (Sul Vangelo di Giovanni, 12, 12: PL 35, 1190).

Dunque, se infinito è l’amore misericordioso di Dio, che è arrivato al punto di dare il suo unico Figlio in riscatto della nostra vita, grande è anche la nostra responsabilità: ciascuno, infatti, deve riconoscere di essere malato, per poter essere guarito; ciascuno deve confessare il proprio peccato, perché il perdono di Dio, già donato sulla Croce, possa avere effetto nel suo cuore e nella sua vita.

Scrive ancora sant’Agostino: « Dio condanna i tuoi peccati; e se anche tu li condanni, ti unisci a Dio … Quando comincia a dispiacerti ciò che hai fatto, allora cominciano le tue opere buone, perché condanni le tue opere cattive. Le opere buone cominciano con il riconoscimento delle opere cattive» (ibid., 13: PL 35, 1191).

A volte l’uomo ama più le tenebre che la luce, perché è attaccato ai suoi peccati. Ma è solo aprendosi alla luce, è solo confessando sinceramente le proprie colpe a Dio, che si trova la vera pace e la vera gioia. E’ importante allora accostarsi con regolarità al Sacramento della Penitenza, in particolare in Quaresima, per ricevere il perdono del Signore e intensificare il nostro cammino di conversione.

Cari amici, domani celebreremo la festa solenne di san Giuseppe . Ringrazio di cuore tutti coloro che avranno per me un ricordo nella preghiera, nel giorno del mio onomastico. In particolare, vi chiedo di pregare per il viaggio apostolico in Messico e Cuba, che compirò a partire da venerdì prossimo. Affidiamolo all’intercessione della Beata Vergine Maria, tanto amata e venerata in questi due Paesi che mi accingo a visitare.

DOPO DELL’ANGELUS

Ieri si è concluso, a Marsiglia, il VI Forum mondiale dell’acqua, e giovedì prossimo si celebrerà la Giornata mondiale dell’acqua, che quest’anno sottolinea il fondamentale legame di tale preziosa e limitata risorsa con la sicurezza alimentare. Auspico che queste iniziative contribuiscano a garantire per tutti un accesso equo, sicuro e adeguato all’acqua, promuovendo così i diritti alla vita e alla nutrizione di ogni essere umano e un uso responsabile e solidale dei beni della terra, a beneficio delle generazioni presenti e future.

(..)

Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Assisi, Piacenza, Porto Azzurro e dalla diocesi di Concordia-Pordenone, e i cresimandi del Vicariato Mugello Est.
Saluto i lavoratori dell’Alcoa di Portovesme, assicurando ad essi e alle rispettive famiglie la mia preghiera e la mia vicinanza ed auspicando che la loro difficile situazione, come altre simili, possa avere un’adeguata soluzione.
A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana. Buona domenica a voi tutti!


Fraternamente CaterinaLD

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27/03/2012 17:17
 
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PRESENTAZIONE DELLA SETTIMANA SANTA 2012 - NOTA DEL MAESTRO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SANTO PADRE

Domenica 1° aprile. Domenica delle Palme e della Passione del Signore

La Domenica delle Palme e della Passione del Signore unisce insieme il trionfo di Cristo – acclamato come Messia dagli abitanti di Gerusalemme e in questo giorno, nel rito della processione delle palme, dai cristiani – e l’annuncio della Passione con la proclamazione in canto del racconto evangelico nella Messa. I rami di ulivo e di palma sono il segno della partecipazione gioiosa al rito processionale, espressione della fede della Chiesa in Cristo, Messia e Signore che va incontro alla morte per la salvezza di tutti gli uomini.

- È anche la Giornata Mondiale della Gioventù alla quale partecipano i giovani della Diocesi di Roma. A motivo di questa circostanza concelebrano con il Santo Padre: il Card. Agostino Vallini e S.E. Mons. Paolo Schiavon (per il Vicariato di Roma), il Card. Stanisław Ryłko e S.E. Mons. Josef Clemens (per il Pontificio Consiglio per i Laici), il Card. Antonio María Rouco Varela e S.E. Mons. César Augusto Franco Martínez (per la Diocesi di Madrid), S.E. Mons. Orani João Tempesta, O. Cist., Arcivescovo di São Sebastião do Rio de Janeiro, insieme a due suoi Vescovi Ausiliari.

- I Cardinali diaconi che assistono il Santo Padre sono: Manuel Monteiro de Castro e Antonio Maria Vegliò.

- Insieme alla Cappella Sistina è presente il coro della Diocesi di Roma, diretto da Mons. Marco Frisina.

- L’addobbo degli ulivi è offerto dalla Regione Puglia; i palmurelli provengono da Sanremo; i rami di ulivo sono offerti dalla Ville Pontificie di Castel Gandolfo.

- Il servizio liturgico è prestato da alcuni studenti del Pontificio Seminario Romano.

Giovedì 5 aprile. Giovedì Santo: Messa Crismale

Durante la celebrazione i sacerdoti rinnovano le promesse fatte al momento della sacra Ordinazione e vengono benedetti gli Oli santi che saranno usati già a partire dalla Veglia pasquale.

- I sacerdoti, circa 1600 del clero secolare e religioso della Diocesi di Roma e dei Collegi Romani, rinnovano le promesse sacerdotali. Insieme a loro, concelebreranno con il Santo Padre i Cardinali e i Vescovi.

- Vengono benedetti gli Oli dei Catecumeni e degli Infermi e il Crisma. La presentazione degli Oli è accompagnata dalla presenza di alcuni rappresentanti: quello dei Catecumeni da alcuni catecumeni che saranno battezzati nella Veglia pasquale; quello degli Infermi da alcuni ammalati che riceveranno il sacramento dell’Unzione; il Crisma da alcuni giovani candidati al sacramento della Confermazione e da 4 diaconi che saranno ordinati sacerdoti. Le anfore contenenti gli Oli: tre sono del Toffetti, altre 3 (quelle in argento) sono un dono di alcuni anni fa alla sagrestia pontificia, proveniente dalla Spagna.

- L’olio per la celebrazione della Messa Crismale è donato dalla cooperativa "Arte y Alimentación SL" di Castelserás in Spagna. Le sostanze profumate per confezionare il Crisma verranno versate nell’Olio dal Diacono prima della preghiera di benedizione.

- Gli Oli verranno portati a San Giovanni in Laterano, dove saranno distribuiti ai sacerdoti della Diocesi di Roma per l’amministrazione dei Sacramenti nel corso dell’anno.

- Il servizio è prestato dagli studenti dell’Istituto Teologico Don Orione.

- Alla colonna della Confessione sarà collocata una statua lignea della Madonna con il Bambino. La statua, conservata presso i Musei Vaticani, è un dono dell’allora Presidente del Brasile João Goulart a Paolo VI in occasione della sua elezione al soglio pontificio nel 1963. L’opera, di scuola brasiliana, e risalente al sec. XVIII, rappresenta Nostra Signora di Montserrat ed è dipinta in oro con policromia originale e maccatura in argento.

Giovedì 5 aprile. Giovedì Santo: Messa nella Cena del Signore

I grandi misteri della nostra redenzione sono celebrati dalla Messa vespertina del giovedì "nella Cena del Signore" fino ai vespri della domenica di Pasqua. Triduo pasquale non significa tre giorni di preparazione alla Pasqua, ma equivale a Pasqua celebrata in tre giorni, la Pasqua nella sua totalità, quale passaggio dalla passione e morte alla sepoltura, fino alla risurrezione. Si tratta di un unico mistero celebrato in tre momenti, nello spazio di tre giorni.

Il Triduo pasquale si apre con la celebrazione Eucaristica della sera, così come la cena del Signore segnò l’inizio della Passione. Mentre Gesù si avvia alla donazione della sua vita in sacrificio espiatorio per la salvezza del mondo, stabilisce l’Eucaristia quale ripresentazione nel tempo del suo atto sacrificale e del mistero della salvezza. L’Eucaristia, espressione mirabile della carità del Cuore di Cristo, suggerisce una risposta di amore riconoscente, mediante l’adorazione del SS. Sacramento e l’esercizio del servizio ai fratelli.

- Il Santo Padre compirà il gesto della lavanda dei piedi a 12 sacerdoti della Diocesi di Roma. Con questo gesto viene riproposto il gesto stesso di Gesù agli apostoli, rivelazione del mistero di Dio e segno di donazione totale della vita.

- La Santa Messa sarà concelebrata dai Signori Cardinali, dai Vescovi e da alcuni Sacerdoti.

- È consuetudine che le offerte raccolte nel corso della Messa vengano devolute per prestare aiuto a qualche realtà bisognosa. Per quest’anno le offerte saranno devolute per l’assistenza umanitaria ai profughi siriani.

- Il Santo Padre siede alla cattedra papale: quella della Basilica di San Giovanni in Laterano è la cattedra propria del Vescovo di Roma.

- Il Santo Padre distribuisce la Santa Comunione, come è consuetudine, ad alcuni membri del Corpo Diplomatico.

- Al termine della celebrazione si svolge la breve processione con la reposizione del SS. Sacramento all’altare della Cappella di San Francesco.

- Il servizio è prestato dagli studenti del Seminario Romano Maggiore.

Venerdì 6 aprile. Venerdì Santo: Celebrazione della Passione del Signore

Il venerdì santo è il giorno della Passione e Morte del Signore e del digiuno, quale segno esteriore della nostra partecipazione al suo sacrificio. Il venerdì non si celebra l’Eucaristia. Ma è prevista un’azione pomeridiana per commemorare la Passione e Morte del Signore. Cristo appare come il servo di Dio, predetto dai profeti, l’agnello che si sacrifica per la salvezza di tutti. La Croce è l’elemento che domina tutta la celebrazione: illuminata dai raggi della risurrezione, si presenta come trono di gloria e strumento di vittoria; perciò è presentata all’adorazione dei fedeli.

- All’inizio della celebrazione il Santo Padre si inginocchia alcuni minuti davanti all’altare pregando in silenzio, in segno di adorazione e di richiesta di perdono e di penitenza.

- Il racconto della Passione è cantato da tre diaconi con il concorso della Cappella Sistina.

- L’omelia è tenuta da Padre Raniero Cantalamessa, O.F.M.Cap., Predicatore della Casa Pontificia.

- Il Santo Padre ostende la Croce, presentandola all’adorazione dei fedeli, e poi la bacia togliendo la casula e le scarpe, sempre in segno di penitenza.

- La sede papale, come già avvenuto in altre occasioni, è collocata di fronte alla statua di San Pietro, nella navata centrale della Basilica.

- I Cardinali diaconi che assistono il Santo Padre sono: Francesco Coccopalmerio e Giuseppe Bertello.

- Il Santo Padre distribuirà la Santa Comunione ai Signori Cardinali.

- Le luci soffuse della Basilica sono il segno del clima penitenziale della celebrazione.

- Il servizio liturgico è svolto da alcuni studenti Passionisti e del Pontificio Collegio Nepomuceno.

Venerdì 6 aprile. Venerdì Santo: Via Crucis al Colosseo

- I testi della Via Crucis sono stati preparati dai coniugi Danilo e Anna Maria Zanzucchi, del Movimento dei Focolari e iniziatori del Movimento "Famiglie Nuove". Le immagini del libretto ad uso dei fedeli riproducono le formelle della Via Crucis, realizzate dal Prof. Benedetto Pietrogrande nel 2009 e collocate nella cappella del Centro del Movimento dei Focolari a Rocca di Papa.

- Le torce accanto alla Croce sono portate da due giovani della Diocesi di Roma; la Croce viene portata, oltre che dal Card. Agostino Vallini, da due frati francescani della Custodia di Terra Santa e da alcune famiglie provenienti dall’Italia, dall’America Latina, dall’Africa, dall’Irlanda.

Sabato 7 aprile. Veglia Pasquale

La Veglia pasquale è la grande e santissima notte dell’anno, la celebrazione più antica, più importante e più ricca di contenuto. Si veglia per indicare che viviamo in attesa della venuta del Signore, nella speranza che si compia il nuovo e definitivo passaggio segnato dall’eternità. Nella Veglia si esprime il nostro passaggio dalla morte e dal peccato alla vita nuova in Cristo.

Al centro dei riti iniziali si trova il cero, simbolo di Cristo risorto; alla sua luce si ascolta il solenne annunzio della Pasqua (il canto dell’Exultet) e la parola di Dio in cui è rievocata la storia della salvezza, dalla creazione alla risurrezione di Cristo; segue la prima partecipazione alla Pasqua mediante il Battesimo e la rinnovazione delle promesse battesimali, con la professione di fede e la preghiera universale o dei fedeli; infine si celebra l’Eucaristia, in cui l’agnello pasquale, risorto da morte, si fa cibo per noi perché viviamo di Lui e per Lui nella logica della santità.

La Celebrazione Eucaristica della Veglia è il culmine del Triduo, anzi dell’intero anno liturgico, la sorgente della gioia pasquale. La Messa della domenica detta di Risurrezione non è che il prolungamento della Celebrazione Eucaristica della notte.

- Il Santo Padre amministra il Battesimo, la Cresima e la Prima Comunione a 8 neofiti, provenienti da: Italia, Albania, Slovacchia, Camerun, Germania, Turkmenistan, Stati Uniti. I catecumeni ricevono la Santa Comunione sotto le due specie del pane e del vino, Corpo e Sangue del Signore.

- La Santa Messa sarà concelebrata dai Signori Cardinali.

- La celebrazione si apre nell’atrio antistante la basilica, dove avviene il rito della benedizione del fuoco e della preparazione del cero pasquale, donato come di consueto dalla Comunità Neo Catecumenale di Roma.

- In Basilica il passaggio dal buio alla luce simboleggia l’ingresso della Luce che è Cristo, Via, Verità e Vita, nel mondo tenebroso del peccato, della solitudine e della morte.

- La collocazione del fonte battesimale al centro ai piedi della Confessione con accanto il Cero pasquale, intende anche sottolineare l’importanza simbolica del fonte battesimale, nella liturgia della Veglia di Pasqua.

- Il servizio liturgico è svolto dagli studenti del Seminario Internazionale San Vitaliano e del Collegio San Norberto.

Domenica 8 aprile. Pasqua di Risurrezione

- La Celebrazione si apre con il rito del "Resurrexit", che prevede l’apertura dell’immagine del Risorto. Si tratta di un’icona realizzata prestando la debita attenzione al prototipo medioevale. La nuova icona, come quella antica, è costituita dall’immagine dipinta del Salvatore, seduto in trono, con due sportelli laterali.

- Questo rito, anticamente, era compiuto prima della Celebrazione Eucaristica, nella Basilica Lateranense, da cui il Papa procedeva processionalmente per recarsi in Santa Maria Maggiore dove celebrava la Messa.

- Come è consuetudine la Santa Messa non sarà concelebrata.

- L’addobbo floreale, come di consueto, è offerto dai fiorai olandesi.

- Il Santo Padre, inoltre, compie il rito dell’aspersione con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo come atto penitenziale che introduce alla celebrazione dei Santi Misteri del Signore.

- Il Santo Padre non tiene l’omelia, in quanto alla Messa seguirà la benedizione "Urbi et Orbi" dalla loggia centrale della Basilica, con l’augurio pasquale. Fanno assistenza al Papa i Cardinali diaconi Jean-Louis Tauran (Cardinale protodiacono) e Raymond Leo Burke.

- La proclamazione del Vangelo avverrà in latino e in greco per sottolineare la universalità della celebrazione pasquale.

- Il servizio liturgico è svolto dagli studenti del Seminario Teologico dell’Opera Don Guanella.

Mons. Guido Marini
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

[00426-01.01]

 

 


VIA CRUCIS 2012 AL COLOSSEO: I TESTI DELLE MEDITAZIONI

La via crucis di Ratzinger prima di diventare Papa. Rilettura di un pontificato alle soglie del suo settimo anno (Nasca)

[SM=g1740738] 

 

 

[Modificato da Caterina63 04/04/2012 09:27]
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Settimana di Passione



Predica del 25 marzo 2012 di padre Konrad  
Settimana di Passione

In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.
Dalla Domenica della Passione in poi, le Statue e le Croci della Chiesa sono coperte, affinché possiamo meditare dentro di noi, in modo più intimo, la Passione del Signore. Per aiutarci in questo lavoro in modo salutare voglio meditare oggi, brevemente, l'Agonia del Signore nell'orto del Getzemani.
Là Egli soffriva la Passione, che era davanti ai Suoi occhi dal momento del Suo Concepimento e lo sarebbe stato sino alla Sua morte, nel modo più forte e più intenso. Getzemani, allora, significa etimologicamente "frantoio di olive" get-shemen, e spiritualmente significa il luogo dove, il Suo Preziosissimo Sangue esce da Lui mediante la Sua mortale agonia, come olio con cui siamo rifatti, unti e nutriti come accenna la Parola nel Cantico dei Cantici " oleum effussum nomen tuum " (1,1).
"Coepit contristari et maestus esse / cominciò a provare tristezza e angoscia" (XXVI, 37), scrive San Matteo, la tristezza ora è l'emozione che si sente davanti ad un male che non si può fuggire, questo male era quintuplice:

1. La visione della Sua Passione e della Sua morte, i singoli tormenti, le flagellazioni, gli obbrobri, schiaffi, derisioni, blasfemie, la Croce e la morte in tutta la sua estensione, profondità ed acerbità che Lo fece gemere, tremare, languire, impallidire, indebolire, gettarsi per terra e sudare sangue. E questo per espiare il compiacimento del peccato di Adamo in quell'altro orto di Eden, e di tutti gli altri peccatori.

2. La visione di tutti i peccati e di ogni peccato di tutti gli uomini e di ogni uomo, da Adamo e fino alla fine del mondo; tutti i sacrilegi soprattutto verso il Santissimo Sacramento dell'Altare, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le calunnie, le blasfemie e tutti i crimini, i più enormi e i più orrendi mai commessi assieme a tutto il dolore, tutta la vergogna e la compunzione che a loro appartenevano, come se Egli stesso li avesse tutti commessi. Vedendo con perfetta chiarezza il grande grado infinito della loro offesa all'infinita Maestà di Dio e suscitando in Se un dolore che ci corrispondesse, e questo per espiare pienamente tutte quelle offese al Padre Celeste.

3. La visione di tutte le sofferenze dei Martiri, dei Confessori, Pastori e Santi che accoglieva in Se per guadagnare ai Suoi Servi fedeli la grazia, la forza e la consolazione per poter subirle per Dio.

4. La visione della dannazione di molti uomini che malgrado tutte le Sue sofferenze si sarebbero persi l'anima, in gran numero, a causa della loro negligenza, indifferenza ed ingratitudine verso di Lui.

5. La visione della afflizione della Sua Beatissima Madre, soprattutto quando stava ai piedi della Croce poiché il dolore del Figlio trafiggerà come una spada l'Anima della Madre, e tornarono poi ad affliggere la propria anima con ancor maggior intensità, Egli soffrendo nel sommo grado di vedere affliggersi la Sua Madre a causa di Lui.

San Leone Magno afferma che "la Passione del Signore si prolunga sino alla fine dei secoli". 
Gli fa eco il filosofo Pascal nella sua meditazione sull'agonia del Signore: "Cristo - scrive - sarà in agonia fino alla fine del mondo. Durante questo tempo non bisogna dormire: Io pensavo a te nella Mia Agonia, quelle gocce di Sangue le ho versate per te. Vuoi costarmi sempre Sangue della mia umanità senza che tu versi neanche una lacrima? Io ti sono più amico del tale e di tal altro, perché ho fatto per te più di loro, ed essi non soffrirebbero mai quel che ho sofferto da te, non morirebbero mai per te nel tempo della tua infedeltà e delle tue crudeltà come ho fatto Io, e sono pronto a fare nei miei eletti e nel Santissimo Sacramento dell'Altare".

In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.

[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740750] [SM=g1740752]


"Velatio" di croci e immagini nelle chiese. Teologia e tradizione di un rito antico, previsto ancora oggi

Accurato studio sulle origini e sul significato teologico e spirituale di un rito antichissimo, che caratterizza le ultime due settimane di Quaresima, dette “Tempo di Passione”.


di Alessandro Scaccianoce

Con la quinta domenica di Quaresima si entra nel “Tempo di Passione“, caratterizzato da una marcata attenzione al mistero della Passione e Morte del Signore Gesù.

In origine limitata alla sola Settimana Santa, che si apriva con la Domenica delle Palme, detta appunto “De Passione Domini”, nel tempo la contemplazione della Passione del Signore, culmine della Redenzione e fonte di vitalità spirituale, venne anticipata e celebrata anche nella settimana precedente.

Questo tempo speciale, che si inserisce nel già propizio tempo di Quaresima, viene sottolineato con alcune specifiche regole cultuali. Tra queste la più caratteristica è la “Velatio”, ovvero la velatura delle croci e delle immagini della chiesa esposte alla venerazione dei fedeli. A norma del Messale tridentino, nel sabato che precede la I domenica di Passione, (quindi il sabato della IV settimana di Quaresima), «finita la Messa e prima dei Vespri si coprono le croci e le immagini della chiesa con veli violacei; le croci restano coperte fino al termine dell’adorazione della croce da parte del celebrante il Venerdì Santo, le immagini fino all’intonazione del Gloria nella Messa della Vigilia Pasquale». In tale periodo solo le immagini della Via Crucis restano senza velo. Il giovedì santo la croce dell’altare maggiore, per il tempo della Messa, si copre con un velo bianco.



Si tratta di un rito molto antico risalente addirittura al sec. IX, forse un retaggio della separazione dei penitenti pubblici nella chiesa. I penitenti pubblici erano i fedeli che si erano resi colpevoli di gravi peccati dopo il Battesimo. Questi, dopo un periodo di penitenza, nel periodo precedente la Pasqua, venivano riammessi alla comunione la mattina del Giovedì Santo, con un apposito rito. Nel tempo, poi, tutti i cristiani furono assimilati ai penitenti pubblici, nella consapevolezza della necessità per tutti di un tempo di penitenza in preparazione alla Pasqua del Signore. Così cominciò a diffondersi l’abitudine di nascondere ai fedeli l’altare maggiore, per mostrare visivamente gli effetti del peccato, che rompe la comunione con il Signore e ne oscura la visione.

Da sempre, infatti, la liturgia si esprime in una ricchezza di segni che rendono manifesta la realtà dei Misteri celebrati sull’altare. Salvo qualche tentazione iconoclasta, che periodicamente riemerge nella storia della Chiesa.

Il Concilio di Trento, riferendosi in particolare alla S. Messa, motiva questa consuetudine ricordando che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per introdurre i fedeli con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo Sacrificio» (DS 1746).

E così, come per la liturgia è importante la presenza dell’immagine, altrettanto rilevante è la sua assenza. Il nascondimento dei Santi e di Cristo stesso aiuta ad alimentare l’attesa del giorno di Pasqua, giorno in cui quei volti si offrono nuovamente al nostro sguardo.
Al di là della sua origine, il rito della “Velatio” conserva ancora oggi un profondo significato e una intensa capacità catechetica ed emotiva: nascondere alla vista le immagini dei Santi aiuta a concentrarsi su Colui che è l’origine di ogni santità. Egli è colui che rende accessibile il cielo agli uomini. Senza di lui la nostra vita non avrebbe più una dimensione trascendente, sarebbe un vagare nelle tenebre del peccato e “nell’ombra della morte”. La velatura delle croci sottolinea anche fisicamente la privazione di Cristo, il “venir meno dello sposo”: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi” dice il profeta Isaia (53,8).

Quei veli che nascondono il Cristo alla nostra vista stanno a ricordare che quell’evento riaccade ancora oggi. Che anche noi siamo “tra gli uccisori di Cristo”, tra quelli che lo volevano gettare dal precipizio della città di Nazaret, o lapidarlo nel tempio di Gerusalemme. Si tratta, dunque, di un segno efficace che aiuta a meditare, riflettere e pregare sulla tragicità della condizione umana senza la presenza del Dio redentore.

Si capisce, allora, che nella I Domenica di Passione – secondo il calendario tridentino – venga proclamato il Vangelo di Giovanni che fa esplicito riferimento al nascondimento di Gesù di fronte ai suoi nemici: “Iesus autem abscondit se et exivit de templo” (Gesù si nascose e uscì dal tempio, Gv 8,59). Sembrerebbe che, in passato, la velatura del Crocifisso avvenisse proprio mentre il Diacono cantava questo versetto.

Nella sua ricchezza di significati il segno della “Velatio” rimanda anche alla velatura della Divinità di Nostro Signore, che possiamo illustrare con queste splendide parole di Sant’Agostino sulla passione del Signore: “Dio era nascosto; si vedeva la debolezza, la maestà era nascosta; si vedeva la carne, il Verbo era nascosto. Pativa la carne; dov’era il Verbo, quando la carne pativa? Eppure neanche il Verbo taceva, perché c’insegnava la pazienza”. La gloria di Cristo, dunque, è eclissata sotto le ignominie della Passione.

Lo scenario delle nostre chiese, con immagini, dipinti e simulacri velati, ci ripropone l’esperienza del “Deus absconditus” (Dio nascosto), su cui molta teologia ha scritto. In tale contesto, Dio va cercato nel proprio cuore, è lì che deve risorgere. Risulta particolarmente efficace al riguardo questa citazione di B. Pascal: “Gli uomini sono nelle tenebre e nella lontananza da Dio, che è nascosto alla loro coscienza. Egli non sarà colto che da quelli che lo cercano anzitutto nel cuore”. Questi sentimenti sono particolarmente accentuati alla sera del Giovedì Santo, in cui si fa memoria del “rapimento di Gesù” da parte delle guardie del tempio. Da quel momento egli è in balìa della loro ferocia. “E’ l’impero delle tenebre” (Lc 22,4), come afferma Gesù stesso.

Questa atmosfera in antico culminava nel caratteristico “Ufficio delle tenebre”, ovvero nella celebrazione del mattutino e delle lodi del Giovedì, del Venerdì e del Sabato Santo.
Ad ogni salmo veniva spento uno dei 15 ceri posti su un apposito candeliere (la “Saetta o Tenebrarium”, foto a sinistra) a forma di triangolo. Tutta la chiesa veniva così gradualmente immersa nel buio. Rimaneva accesa la candela più alta (simbolo della fede di Maria, che è rimasta viva anche nel silenzio della morte di Cristo).

Dopo la riforma liturgica la pratica della “Velatio”, è stata pressoché universalmente abbandonata, sulla scorta di un malinteso “spirito conciliare”. In realtà, questo rito, di cui abbiamo cercato di spiegare la profondità e la ricchezza, conserva tutta la sua attualità. Si rese necessario, pertanto, un intervento chiarificatore della Congregazione per il Culto Divino circa l’opportunità di conservare o recuperare questa usanza, come indicato nella lettera circolare Paschalis sollemnitatis del 16 gennaio 1988: «L’uso di coprire le croci e le immagini nella chiesa dalla domenica V di Quaresima può essere utilmente conservato secondo il giudizio della conferenza episcopale. Le croci rimangono coperte fino al termine della celebrazione della passione del Signore il Venerdì Santo; le immagini fino all’inizio della Veglia Pasquale» ( n. 26). La Conferenza Episcopale Italiana, dal canto suo, ha sempre fatto rinvio agli usi locali.

La stessa circolare specifica nel capitolo IV a proposito della Messa Vespertina del Giovedì Santo nella Cena del Signore: “Terminata la Messa [in Cena Domini] viene spogliato l’Altare della Celebrazione. E’ bene coprire le Croci della Chiesa con un velo di colore rosso o violaceo, a meno che non siano state già coperte il sabato prima della Domenica V di Quaresima. Non possono accendersi le luci davanti alle Immagini dei Santi”.

Nel rito ambrosiano tale pratica è estesa addirittura a tutta la Quaresima, in cui la forte meditazione sulla passione del Signore è sottolineata dai venerdì a-liturgici, in cui cioè non si celebra l’Eucaristia, e dall’uso del colore nero per tutte le ferie del tempo. A norma del Sinodo XLI n° 513 “nel pomeriggio del sabato precedente la prima Domenica di Quaresima nelle Chiese ed Oratori si devono coprire tutte le immagini sacre, siano dipinte o siano scolpite, che sono poste in venerazione, non quelle di ornamento”.

Significativa, poi, è la svelatura delle immagini, che - come abbiamo visto – avviene in due momenti diversi: il Venerdì Santo viene scoperto il crocifisso, mentre tutte le altre immagini al gloria del Sabato Santo. Dopo il tempo in cui Cristo è stato sottratto ai nostri sguardi, ci viene restituito innanzitutto nell’immagine del “trafitto”. E’ questa la prima immagine che ci consegna la passione del Signore: un cuore aperto, donato fino all’ultima goccia di sangue e acqua. “Velum templi scissum est”, dicono i Vangeli. Quel velo che separava il Sancta Sanctorum (ovvero la parte più sacra del tempio di Gerusalemme) dal resto del Tempio, in cui poteva accedere (una volta all’anno) il Sommo Sacerdote, viene lacerato alla morte di Cristo. In quel momento si “ri-vela” universalmente l’intima natura di Dio stesso nel cuore trafitto di Cristo. Il significato di questo velo è, come è stato ben scritto da autorevoli commentatori ed esegeti, che gli uomini sono separati da Dio a causa del peccato. La lacerazione del velo del Tempio, pertanto, sta a significare l’unione della terra con il cielo, rendendone l’accesso aperto ad ogni uomo. Ed ecco che la sapienza della Chiesa offre tutto questo alla nostra contemplazione attraverso il rito dell’adorazione della Croce che – secondo la forma più antica – viene svelata solennemente di fronte ai fedeli. In questo giorno si rendono evidenti le parole di Gesù: “Questa generazione cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona” (Lc 11,29).

A questa prima “ri-velazione” del Venerdì Santo, fa seguito, nella Veglia Pasquale, la definitiva liberazione delle immagini di tutti i Santi. Il Cristo risorto, infatti, associa alla sua gloria quanti lo hanno seguito da vicino, testimoni della Sua redenzione. Penso all’efficace iconografia bizantina che raffigura la risurrezione di Cristo nell’atto di trarre dagli inferi Adamo ed Eva. Si capisce, allora, che le immagini dei Santi vengano svelate dopo che è stato dato l’annuncio della risurrezione di Cristo, al canto del “Gloria in esxcelsis”: “In lui risorto, tutta la vita risorge”, canta il Prefazio di Pasqua.

In Sicilia, tale prassi è molto ben documentata. Alla velatura delle immagini, infatti, la I Domenica di Passione, corrisponde lo svelamento dell’altare maggiore che ha luogo alla vigilia di Pasqua. Al canto del gloria, mentre si sciolgono le campane, il lungo telone scuro (vi sono esemplari alti anche più di dieci metri) che ha nascosto il presbiterio nelle due settimane precedenti, viene lasciato precipitare giù, restituendo ai fedeli l’altare maggiore con il simulacro del Cristo risorto in bella vista: “a calata ’a tila” (calata della tela). Tale rito si è conservato anche quando il rito liturgico è stato spostato dal mezzogiorno alla notte del Sabato Santo. A questo momento, detto anche “a risuscita”, si legavano poi varie tradizioni popolari e contadine: come quella di trarre auspici dal numero di candele che rimanevano accese nonostante il forte spostamento d’aria generato dal repentino precipitare giù del telo. Questa tradizione si conserva tutt’oggi in molti centri della Sicilia (da Adrano e Belpasso a Nicolosi, da San Giovanni la Punta a Catenanuova, da Comiso a Petralia Sottana, fino alla chiesa di San Domenico a Palermo).

Anche a Biancavilla la “Velatio” è attestata, come dimostrano, se non altro, molti teli violacei conservati nei più remoti angoli delle sacrestie delle chiese più antiche. Nella Chiesa Madre, inoltre, vi era un grandissimo telone, di circa 10 metri di altezza per 6 metri di larghezza, riproducente la scena della deposizione del Signore dalla croce, che ricopriva tutta l’area presbiterale durante il tempo di Passsione. Questa “tela”, probabilmente settecentesca (come le tele superstiti di alcuni paesi vicini), nel tempo andò deteriorandosi, fino ad essere ripartita intorno agli anni 60 in piccole parti e divisa tra alcuni fedeli che ne fecero gli usi più vari (qualcuno anche per raccogliere le olive!). Circa dieci anni fa, per iniziativa di alcuni giovani, tale usanza è stata ripristinata, con una nuova tela realizzata ex novo dal M° Giuseppe Santangelo, che ne ha fatto anche un bellissimo esemplare per la chiesa dell’Annunziata. Tuttavia, la tela non viene utilizzata tutti gli anni e l’incontro degli occhi con il Signore Risorto è affidato ad altre soluzioni.

Il telo che nella notte del Sabato Santo precipita rovinosamente ha un definitivo significato escatologico: esso sta ad indicare che al nostro orizzonte è restituita la visione dell’al di là. Possiamo guardare con fiducia oltre la morte, poiché il Vivente sta lì, “primogenito di molti fratelli”, ad assicurarci che il nostro destino è il cielo, ovvero la profondità delle cose. Con la sua risurrezione Cristo ha guarito la nostra “cataratta” spirituale. E il segno della tela lo esprime in modo eloquente.

Alla fine della Veglia Pasquale, quei teli raccattati alla svelta, accantonati in un angolo, ci ricordano la realtà “fisica” della risurrezione. Anche per noi si rende possibile l’esperienza dell’Apostolo Giovanni che “vide i teli per terra” ed entrato, ”vide e credette” (Gv 20,13).

Alessandro Sciaccianoce




[Modificato da Caterina63 28/03/2012 16:20]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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30/03/2012 18:52
 
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[SM=g1740720] da meditare........

Este Cristo es el resultado del trabajo del grupo de científicos pluridisciplinar de investigación de la Síndone.
Es el único Cristo sindónico del mundo y refleja hasta el mínimo detalle los politraumatismos del cadáver reflejado en la Sábana Santa de Turín.

ÚNICO EN EL MUNDO
La ostensión de Turín relanza la fama del Cristo sindónico de Córdoba

Los detalles de la Sábana Santa, convertidos en talla escultórica. No hay otro igual y tiene todo el aval de la comunidad científica que colaboró con Juan Manuel Miñarro en su confección con tanto rigor como devoción.

Más información en el siguiente enlace: moralyluces.wordpress.com/2010/04/17/relanza-la-fama-del-cristo-s...

Fotografías Fotos: ©José Luis Risoto Rojas
Desconozco el autor de la presentación en diapositivas.

Música John Denver "Flagelation"

es.gloria.tv/?media=271443





[SM=g1740720]




[SM=g1740720] In questa Settimana Santa cerchiamo di approfondire, lasciandoci stupire, il grande prodigio della Divina Santissima Eucaristia. Non guardiamola semplicemente come una "istituzione", quanto un evento reale che si ripete ogni giorno per noi, per salvarci, per redimerci, per nutrirci. Non cerchiamo spiegazioni al Mistero, quanto piuttosto vogliamo lasciarci catturare e penetrare dal Mistero stesso che è Dio vivo e vero, e adorarLo in spirito e verità. Entrare in quelle Piaghe aperte e rifugiarci dentro, nutrendoci santamente del Corpo e Sangue del Divino Redentore, avendo un pensiero di gratitudine e di amore per i Sacerdoti.
www.gloria.tv/?media=274274

Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org





[SM=g1740717] [SM=g1740720]



[Modificato da Caterina63 02/04/2012 13:12]
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01/04/2012 12:23
 
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"Fate questo in memoria di me". Libro di M. Gagliardi
MAURO GAGLIARDI
«In memoria di Me» Il sacerdote fa l'Eucaristia e l'Eucaristia fa il sacerdote

Prefazione del card. Antonio Cañizares Llovera
Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
Cantagalli 2012, 216 pagine , 14,00 euro

È necessario tornare a riscoprire il nostro sacerdozio alla luce dell’Eucaristia! Come pure far riscoprire questo tesoro alle nostre comunità nella celebrazione quotidiana della Santa Messa e, specialmente, nella solenne assemblea domenicale. Abbiamo bisogno dell’Eucaristia quotidiana per vivere il nostro sacerdozio e rimanere forti nel mezzo delle sofferenze e delle difficoltà che ci assalgono.
Card. Antonio Cañizares Llovera

Nato da un corso di esercizi spirituali predicati a seminaristi, il libro sviluppa un'ampia meditazione sull'identità del sacerdote e sul suo ruolo, i suoi doveri e compiti.
Ciò che più segna il ministero sacerdotale è la Celebrazione eucaristica. Per questa ragione l'autore passa in rassegna le diverse parti della Santa Messa, meditando sulle quali emerge il profilo del sacerdote: la sua straordinaria dignità, ma anche la sua immensa responsabilità, con le immancabili ricadute sullo stile di vita sacerdotale, che nel volume viene delineato mediante numerosi riferimenti concreti. Il sacerdote celebra la Messa, fa l'Eucaristia. Ma ci si accorge sin dall'inizio che è molto più l'Eucaristia, ossia Cristo e la sua grazia, a fare il sacerdote.

Un libro che tiene presenti le sfide avvincenti e le difficoltà proprie dello stato di vita sacerdotale e ripropone la corretta immagine del sacerdote, secondo l'insegnamento della Chiesa e l'esempio dei santi. Un testo a volte inattuale, forse a tratti scomodo, ma che può scuotere le coscienze e contribuire al rinnovamento della Comunità ecclesiale.

MAURO GAGLIARDI è nato a Salerno nel 1975. Sacerdote diocesano dal 1999, ha conseguito il dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana nel 2002 e la laurea quadriennale in Filosofia presso l’Università L’Orientale di Napoli nel 2008. È professore ordinario presso la Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e professore incaricato dell’Università Europea di Roma nelle Facoltà di Storia e di Giurisprudenza, nonché nel Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia. Dal 2008 è Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e dal 2010 della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Mariavera Speciale
Ufficio Stampa Edizioni Cantagalli

Via Massetana Romana, 12
53100 Siena - Italy
Tel 0039 (0)577 42102
Fax 0039 (0)577 45363
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[SM=g1740771]

Il Papa: Chi è per noi Gesù di Nazaret? Che idea abbiamo del Messia, che idea abbiamo di Dio? È una questione cruciale, questa, che non possiamo eludere, tanto più che proprio in questa settimana siamo chiamati a seguire il nostro Re che sceglie come trono la croce; siamo chiamati a seguire un Messia che non ci assicura una facile felicità terrena, ma la felicità del cielo, la beatitudine di Dio. Dobbiamo allora chiederci: quali sono le nostre vere attese? quali i desideri più profondi, con cui siamo venuti qui oggi a celebrare la Domenica delle Palme e ad iniziare la Settimana Santa?



CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE, 01.04.2012

Alle ore 9.30 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI presiede, in Piazza San Pietro, la solenne celebrazione liturgica della Domenica delle Palme e della Passione del Signore. Il Papa benedice le palme e gli ulivi e, al termine della processione, celebra la Santa Messa della Passione del Signore.
Alla celebrazione prendono parte, in occasione della ricorrenza diocesana della XXVII Giornata Mondiale della Gioventù sul tema: «Siate sempre lieti nel Signore!» (Fil 4,4) giovani di Roma e di altre Diocesi.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Santo Padre Benedetto XVI pronuncia dopo la proclamazione della Passione del Signore secondo Marco:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

La Domenica delle Palme è il grande portale che ci introduce nella Settimana Santa, la settimana nella quale il Signore Gesù si avvia verso il culmine della sua vicenda terrena.
Egli sale a Gerusalemme per portare a compimento le Scritture e per essere appeso sul legno della croce, il trono da cui regnerà per sempre, attirando a sé l’umanità di ogni tempo e offrendo a tutti il dono della redenzione.
Sappiamo dai Vangeli che Gesù si era incamminato verso Gerusalemme insieme ai Dodici, e che a poco a poco si era associata a loro una schiera crescente di pellegrini.
San Marco ci racconta che già alla partenza da Gerico c’era una «grande folla» che seguiva Gesù (cfr 10,46).

In quest’ultimo tratto del percorso si verifica un particolare evento, che aumenta l’attesa di ciò che sta per accadere e fa sì che l’attenzione si concentri ancora di più su Gesù.
Lungo la strada, all’uscita da Gerico, sta seduto a mendicare un uomo cieco, di nome Bartimeo. Appena egli sente dire che sta arrivando Gesù di Nazaret, incomincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (Mc 10,47).
Si cerca di farlo tacere, ma inutilmente; finché Gesù lo fa chiamare e lo invita ad avvicinarsi. «Che cosa vuoi che io faccia per te?», gli chiede.
E quegli: «Rabbunì, che io veda di nuovo!” (v. 51).
Gesù risponde: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
Bartimeo riacquistò la vista e si mise a seguire Gesù lungo la strada (cfr v. 52). Ed ecco che, dopo quel segno prodigioso, accompagnato da quella invocazione «Figlio di Davide», un fremito di speranza messianico attraversa la folla facendo sorgere in molti una domanda: quel Gesù, che camminava davanti a loro verso Gerusalemme, era forse il Messia, il nuovo Davide?
E con il suo ingresso ormai imminente nella città santa, era forse giunto il tempo in cui Dio avrebbe finalmente restaurato il regno davidico?
Anche la preparazione dell’ingresso, che Gesù fa insieme ai suoi discepoli, contribuisce ad aumentare questa speranza.
Come abbiamo ascoltato nel Vangelo odierno (cfr Mc 11,1-10), Gesù arriva a Gerusalemme da Betfage e dal Monte degli ulivi, cioè dalla strada su cui avrebbe dovuto venire il Messia. Da lì, Egli manda avanti due discepoli, comandando loro di portargli un puledro di asino, che avrebbero trovato lungo la via. Essi trovano effettivamente l’asinello, lo slegano e lo conducono a Gesù.
A questo punto, gli animi dei discepoli e anche degli altri pellegrini sono presi dall’entusiasmo: prendono i loro mantelli e li mettono sul puledro; altri li stendono sulla strada davanti a Gesù, che avanza in groppa all’asino. Poi tagliano rami dagli alberi e cominciano a gridare parole del Salmo 118, antiche parole di benedizione dei pellegrini che diventano, in quel contesto, una proclamazione messianica: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!» (vv. 9-10).

Questa acclamazione festosa, trasmessa da tutti e quattro gli Evangelisti, è un grido di benedizione, un inno di esultanza: esprime l’unanime convinzione che, in Gesù, Dio ha visitato il suo popolo e che il Messia desiderato finalmente è giunto. E tutti sono lì, con la crescente attesa per l’opera che il Cristo compirà una volta entrato nella sua città.

Ma qual è il contenuto, la risonanza più profonda di questo grido di giubilo? La risposta ci viene dall’intera Scrittura, la quale ci ricorda che il Messia porta a compimento la promessa della benedizione di Dio, la promessa originaria che Dio aveva fatto ad Abramo, il padre di tutti i credenti: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò … e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3).

È la promessa che Israele aveva tenuto sempre viva nella preghiera, in particolare nella preghiera dei Salmi. Per questo, Colui che è acclamato dalla folla come il benedetto è, nello stesso tempo, Colui nel quale sarà benedetta l’umanità intera.
Così, nella luce del Cristo, l’umanità si riconosce profondamente unita e come avvolta dal manto della benedizione divina, una benedizione che tutto permea, tutto sostiene, tutto redime, tutto santifica
.

Possiamo scoprire qui un primo grande messaggio che giunge a noi dalla festività di oggi: l’invito ad assumere il giusto sguardo sull’umanità intera, sulle genti che formano il mondo, sulle sue varie culture e civiltà.

Lo sguardo che il credente riceve da Cristo è lo sguardo della benedizione: uno sguardo sapiente e amorevole, capace di cogliere la bellezza del mondo e di compatirne la fragilità. In questo sguardo traspare lo sguardo stesso di Dio sugli uomini che Egli ama e sulla creazione, opera delle sue mani
.

Leggiamo nel Libro della Sapienza: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; … Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita» (Sap 11,23-24.26).

Ritorniamo alla pagina evangelica odierna e domandiamoci: che cosa c’è realmente nel cuore di quanti acclamano Cristo come Re d’Israele?

Certamente avevano una loro idea del Messia, un’idea di come dovesse agire il Re promesso dai profeti e a lungo aspettato. Non è un caso che, pochi giorni dopo, la folla di Gerusalemme, invece di acclamare Gesù, griderà a Pilato: «Crocifiggilo»! E gli stessi discepoli, come pure altri che lo avevano visto e ascoltato, rimarranno ammutoliti e smarriti. La maggior parte, infatti, era rimasta delusa dal modo in cui Gesù aveva deciso di presentarsi come Messia e Re di Israele.

Proprio qui sta il nodo della festa di oggi, anche per noi.

Chi è per noi Gesù di Nazaret? Che idea abbiamo del Messia, che idea abbiamo di Dio? È una questione cruciale, questa, che non possiamo eludere, tanto più che proprio in questa settimana siamo chiamati a seguire il nostro Re che sceglie come trono la croce; siamo chiamati a seguire un Messia che non ci assicura una facile felicità terrena, ma la felicità del cielo, la beatitudine di Dio. Dobbiamo allora chiederci: quali sono le nostre vere attese? quali i desideri più profondi, con cui siamo venuti qui oggi a celebrare la Domenica delle Palme e ad iniziare la Settimana Santa?

Cari giovani, che siete qui convenuti! Questa è in modo particolare la vostra Giornata, dovunque nel mondo è presente la Chiesa. Per questo vi saluto con grande affetto!
La Domenica delle Palme sia per voi il giorno della decisione, la decisione di accogliere il Signore e di seguirlo fino in fondo, la decisione di fare della sua Pasqua di morte e risurrezione il senso stesso della vostra vita di cristiani.

E’ la decisione che porta alla vera gioia, come ho voluto ricordare nel Messaggio ai Giovani per questa Giornata -

«Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4) -, e come avvenne per santa Chiara di Assisi, che, ottocento anni or sono, trascinata dall’esempio di san Francesco e dei suoi primi compagni, proprio nella Domenica delle Palme, lasciò la casa paterna per consacrarsi totalmente al Signore: aveva diciotto anni ed ebbe il coraggio della fede e dell’amore, di decidersi per Cristo, trovando in Lui la gioia e la pace.

Cari fratelli e sorelle, siano in particolare due i sentimenti di questi giorni: la lode, come hanno fatto coloro che hanno accolto Gesù a Gerusalemme con i loro «osanna»; ed il ringraziamento, perché in questa Settimana Santa il Signore Gesù rinnoverà il dono più grande che si possa immaginare: ci donerà la sua vita, il suo corpo e il suo sangue, il suo amore. Ma a un dono così grande dobbiamo rispondere in modo adeguato, ossia con il dono di noi stessi, del nostro tempo, della nostra preghiera, del nostro stare in comunione profonda d’amore con Cristo che soffre, muore e risorge per noi.

Gli antichi Padri della Chiesa hanno visto un simbolo di tutto ciò nel gesto della gente che seguiva Gesù nel suo ingresso in Gerusalemme, il gesto di stendere i mantelli davanti al Signore. Davanti a Cristo – dicevano i Padri – dobbiamo stendere la nostra vita, le nostre persone, in atteggiamento di gratitudine e di adorazione.

Riascoltiamo, in conclusione, la voce di uno di questi antichi Padri, quella di sant’Andrea, Vescovo di Creta: «Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio, di tutto lui stesso ... e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese ... per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele”» (PG 97, 994).
Amen!

Il Papa: Cari amici, prego perché nel vostro cuore abiti la vera gioia, quella che deriva dall’amore e che non viene meno nell’ora del sacrificio

QUARESIMA SETTIMANA SANTA E PASQUA: LO SPECIALE DEL BLOG

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA XXVII GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ (1° APRILE 2012): "SIATE SEMPRE LIETI NEL SIGNORE!" (FIL 4,4)

ANGELUS: AUDIO INTEGRALE DI RADIO VATICANA

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 01.04.2012

Al termine della solenne celebrazione liturgica della Domenica delle Palme e della Passione del Signore, il Santo Padre Benedetto XVI recita l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini presenti in Piazza San Pietro. Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PAROLE DEL SANTO PADRE

Al termine di questa celebrazione, desidero rivolgere un cordiale saluto a tutti i presenti: ai Signori Cardinali, ai Fratelli Vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose e a tutti i fedeli. Un saluto speciale rivolgo al Comitato organizzatore della scorsa GMG di Madrid e a quello che sta organizzando la prossima, di Rio de Janeiro; come pure ai delegati all’Incontro Internazionale sulle Giornate Mondiali della Gioventù, promosso dal Pontificio Consiglio per il Laici, qui rappresentato dal Presidente, Cardinale Riłko, e dal Segretario, Mons. Clemens.

(..)

Saluto infine con grande affetto i pellegrini di lingua italiana, specialmente i giovani, tra i quali è presente un numeroso gruppo della Diocesi di Brescia. Cari amici, prego perché nel vostro cuore abiti la vera gioia, quella che deriva dall’amore e che non viene meno nell’ora del sacrificio. A tutti auguro una buona Settimana Santa e una buona Pasqua!


http://3.bp.blogspot.com/-bWFXlr0HF5A/T3hBjVoDWgI/AAAAAAAA1hw/O-VQ6UgTxpk/s1600/palme7.jpg































[Modificato da Caterina63 01/04/2012 19:29]
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Il testo dello Stabat Mater dolorosa fu scritto da Jacopone da Todi (1230? - 1306), poeta e mistico quando si ritirò nel covento di Sant'Angelo in Pantanelli.
Questo testo ha attraversato i secoli, proprio per la sua straordinaria umanità: la prima parte della preghiera, che inizia con le parole Stabat Mater dolorosa ("La Madre addolorata stava") è una meditazione sulle sofferenze di Maria, madre di Gesù, durante la crocifissione e la Passione di Cristo; la seconda parte della preghiera, che inizia con le parole Eia, mater, fons amóris ("Oh, Madre, fonte d'amore") è un'invocazione in cui l'orante chiede a Maria di farlo partecipe del dolore provato da Maria stessa e da Gesù durante la crocifissione e la Passione.
È recitata in maniera facoltativa durante la messa dell'Addolorata (15 settembre) e le sue parti formano gli inni latini della stessa festa. Prima della Riforma liturgica era utilizzata nell'ufficio del venerdì della settimana di passione (Madonna dei sette dolori - Venerdì precedente la Domenica delle Palme). Ma popolarissima era soprattutto perché accompagnava il rito della Via Crucis e la processione del Venerdì Santo. Un canto amatissimo dai fedeli, non meno che da intere generazioni di musicisti colti (si pensi solo a Scarlatti, Vivaldi, Pergolesi, Rossini...).
(fonte tratta dal web)

Per una maggior comprensione e Preghiera, abbiamo postato anche la traduzione....

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Movimento Domenicano del Rosario
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Stabat Mater dolorósa
iuxta crucem lacrimósa,
dum pendébat Fílius.

Cuius ánimam geméntem,
contristátam et doléntem
pertransívit gládius.

O quam tristis et afflícta
fuit illa benedícta
Mater Unigéniti!

Quae moerébat et dolébat,
pia mater, cum vidébat
nati poenas íncliti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si vidéret
in tanto supplício?

Quis non posset contristári,
piam Matrem contemplári
doléntem cum Filio?

Pro peccátis suae gentis
vidit Jesum in torméntis
et flagéllis subditum.

Vidit suum dulcem natum
moriéntem desolátum,
dum emísit spíritum.

Eia, mater, fons amóris,
me sentíre vim dolóris
fac, ut tecum lúgeam.

Fac, ut árdeat cor meum
in amándo Christum Deum,
ut sibi compláceam.

Sancta Mater, istud agas,
crucifíxi fige plagas
cordi meo válide.

Tui Nati vulneráti,
tam dignáti pro me pati,
poenas mecum dívide.

Fac me vere tecum flere,
Crucifíxo condolére
donec ego víxero.

Iuxta crucem tecum stare,
te libenter sociáre
in planctu desídero.

Virgo vírginum praeclára,
mihi iam non sis amára,
fac me tecum plángere.

Fac, ut portem Christi mortem,
passiónis fac me sortem
et plagas recólere.

Fac me plagis vulnerári,
cruce hac inebriári
et cruóre Fílii.

Flammis ne urar ne succénsus,
per te, Virgo, sim defénsus
in die iudícii.

Fac me cruce custodíri
morte Christi praemuníri,
confovéri grátia.

Christe, cum sit hinc exire
Da per Matrem me venire
Ad palmam victoriae.

Quando corpus moriétur,
fac, ut ánimæ donétur
paradísi glória.

Amen.

*************************************

La Madre addolorata stava
in lacrime presso la Croce
su cui pendeva il Figlio.

E il suo animo gemente,
contristato e dolente
una spada trafiggeva.

Oh, quanto triste e afflitta
fu la benedetta
Madre dell'Unigenito!

Come si rattristava e si doleva
la pia Madre
vedendo le pene dell'inclito Figlio!

Chi non piangerebbe
al vedere la Madre di Cristo
in tanto supplizio?

Chi non si rattristerebbe
al contemplare la pia Madre
dolente accanto al Figlio?

A causa dei peccati del suo popolo
Ella vide Gesù nei tormenti,
sottoposto ai flagelli.

Vide il suo dolce Figlio
che moriva, abbandonato da tutti,
mentre esalava lo spirito.

Oh, Madre, fonte d'amore,
fammi forza nel dolore
perché possa piangere con te.

Fa' che il mio cuore arda
nell'amare Cristo Dio
per fare cosa a lui gradita.

Santa Madre, fai questo:
imprimi le piaghe del tuo Figlio crocifisso
fortemente nel mio cuore.

Del tuo figlio ferito
che si è degnato di patire per me,
dividi con me le pene.

Fammi piangere intensamente con te,
condividendo il dolore del Crocifisso,
finché io vivrò.

Accanto alla Croce desidero stare con te,
in tua compagnia,
nel compianto.

O Vergine gloriosa fra le vergini
non essere aspra con me,
fammi piangere con te.

Fa' che io porti la morte di Cristo,
avere parte alla sua passione
e ricordarmi delle sue piaghe.

Fa' che sia ferito delle sue ferite,
che mi inebri con la Croce
e del sangue del tuo Figlio.

Che io non sia bruciato dalle fiamme,
che io sia, o Vergine, da te difeso
nel giorno del giudizio.

Fa' che io sia protetto dalla Croce,
che io sia fortificato dalla morte di Cristo,
consolato dalla grazia.

Fa', o Cristo, che nell'ora della
morte ottenga da Maria
la palma della vittoria.

E quando il mio corpo morirà
fa' che all'anima sia data
la gloria del Paradiso.

Così sia.



[SM=g1740717]

[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740750] [SM=g1740752]


[SM=g1740717] Buona meditazione a tutti!

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Crux fidélis
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Crux fidélis, inter omnes arbor una nóbilis!
Nulla talem silva profert fronde, flore, gérmine.
Dulce lignum, dulces clavo dulce pondus sústinens!
- Pange lingua, gloriosi, proelium certaminis,
et super Crucis tropaeo dic triumphum nobilem,
qualiter Redemptor orbis immolatus vicerit.
Crux fidélis, inter omnes arbor una nóbilis!
Nulla talem silva profert fronde, flore, gérmine.
- Quando venit ergo sacri plenitudo temporis,
missus est ab parce Patris, Natus orbis conditor,
atque ventre verginali, carne factus prodiit.
Dulce lignum, dulces clavo dulce pondus sústinens!
- Vagit infans inter arta conditus praesaepia,
membra pannis involuta, Virgo Mater alligat,
et manus pedesque et crura stricta cingit fascia.
Crux fidélis, inter omnes arbor una nóbilis!
Nulla silva talem profert fronde, flore, gérmine.
- Lustra sex qui iam peregit tempus implens corporis,
se volente, natus ad hoc, passioni deditus,
Agnus in crucis levatur immolandus stipite.
Dulce lignum, dulces clavo dulce pondus sústinens!
- Aequa Patri Filioque, inclito Paraclito,
sempiterna sit beatae Trinitati gloria;
cuius alma nos redemit atque serva gratia

*******
Croce fedele, nobile albero, unico tra tutti!
Nessun bosco ne offre uno simile per fiore, fogliame, germoglio.
Dolce legno, dolci chiodi, che sostenete il dolce peso.
- Esalti ogni lingua nel canto lo scontro e la grande vittoria,
e sopra il trofeo della Croce proclami il suo grande trionfo,
poichè il Redentore del mondo fu ucciso e fu poi vincitore.
- E quando il momento fu giunto del tempo fissato da Dio,
ci venne qual dono del Padre il Figlio, creatore del mondo;
agli uomini venne incarnato nel grembo di Vergine Madre.
- Vagisce il Bambino, adagiato in umile, misera stalla,
le piccole membra ravvolge e copre la Vergine Madre,
ne cinge le mani ed i piedi, legati con candida fascia.
- Compiuti trent'anni e conclusa la vita mortale,
il Signore offriva se stesso alla morte, per noi,
in Croce è innalzato l'Agnello che viene immolato per noi.
- Al Padre sia gloria ed al Figlio, e all'inclito Paraclito;
sia gloria alla sempre ed Eterna Trinità;
il Suo Amore l'anima ha redento, servo della grazia. —


[SM=g1740717]

[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740750] [SM=g1740752]

[Modificato da Caterina63 06/04/2012 09:16]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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04/04/2012 14:04
 
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[SM=g1740733]Il santo Padre, Benedetto XVI, all'Udienza generale di oggi, dopo aver riepilogato il suo recente viaggio apostolico in Mexico e a Cuba, annuncia il Triduo Pasquale:

Cari amici,

domani pomeriggio, con la Santa Messa in Coena Domini, entreremo nel Triduo Pasquale, vertice di tutto l’Anno liturgico, per celebrare il Mistero centrale della fede: la passione, morte e risurrezione di Cristo. Nel Vangelo di san Giovanni, questo momento culminante della missione di Gesù viene chiamato la sua «ora», che si apre con l’Ultima Cena. L’Evangelista lo introduce così: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
Tutta la vita di Gesù è orientata a questa ora, caratterizzata da due aspetti che si illuminano reciprocamente: è l’ora del «passaggio» (metabasis) ed è l’ora dell’«amore (agape) fino alla fine». In effetti, è proprio l’amore divino, lo Spirito Santo di cui Gesù è ricolmo, che fa «passare» Gesù stesso attraverso l’abisso del male e della morte e lo fa uscire nello «spazio» nuovo della risurrezione. E’ l’agape che opera questa trasformazione, così che Gesù oltre-passa i limiti della condizione umana segnata dal peccato e supera la barriera che tiene l’uomo prigioniero, separato da Dio e dalla vita eterna. Partecipando con fede alle celebrazioni liturgiche del Triduo Pasquale, siamo invitati a vivere questa trasformazione attuata dall’agape. Ognuno di noi è stato amato da Gesù «fino alla fine», cioè fino al dono totale di Sé sulla croce, quando gridò: «E’ compiuto!» (Gv 19,30). Lasciamoci raggiungere da questo amore, lasciamoci trasformare, perché veramente si realizzi in noi la risurrezione. Vi invito, quindi, a vivere con intensità il Triduo Pasquale e auguro a tutti una Santa Pasqua! Grazie!

[SM=g1740738]


 

Il Papa: Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza...La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove – per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi. Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di un vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?

 

QUARESIMA SETTIMANA SANTA E PASQUA: LO SPECIALE DEL BLOG

SANTA MESSA CRISMALE: VIDEO INTEGRALE

OMELIA DEL SANTO PADRE: AUDIO INTEGRALE DI RADIO VATICANA



SANTA MESSA DEL CRISMA NELLA BASILICA VATICANA, 05.04.2012

Alle ore 9.30 di oggi, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali.
La Messa del Crisma è concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi ed i Presbiteri - circa 1600, tra diocesani e religiosi - presenti a Roma.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti rinnovano le promesse fatte al momento della Sacra ordinazione; quindi vengono benedetti l’olio dei catecumeni, l’olio degli infermi e il crisma.
Riportiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

In questa Santa Messa i nostri pensieri ritornano all’ora in cui il Vescovo, mediante l’imposizione delle mani e la preghiera, ci ha introdotti nel sacerdozio di Gesù Cristo, così che fossimo “consacrati nella verità” (Gv 17,19), come Gesù, nella sua Preghiera sacerdotale, ha chiesto per noi al Padre.
Egli stesso è la Verità. Ci ha consacrati, cioè consegnati per sempre a Dio, affinché, a partire da Dio e in vista di Lui, potessimo servire gli uomini.
Ma siamo consacrati anche nella realtà della nostra vita? Siamo uomini che operano a partire da Dio e in comunione con Gesù Cristo? Con questa domanda il Signore sta davanti a noi, e noi stiamo davanti a Lui.


“Volete unirvi più intimamente al Signore Gesù Cristo e conformarvi a Lui, rinunziare a voi stessi e rinnovare le promesse, confermando i sacri impegni che nel giorno dell’Ordinazione avete assunto con gioia?”

Così, dopo questa omelia, interrogherò singolarmente ciascuno di voi e anche me stesso. Con ciò si esprimono soprattutto due cose: è richiesto un legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. È richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso, ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo.

Che non domandi: che cosa ne ricavo per me?, bensì: che cosa posso dare io per Lui e così per gli altri? O ancora più concretamente: come deve realizzarsi questa conformazione a Cristo, il quale non domina, ma serve; non prende, ma dà – come deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi?

Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero – ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore. [SM=g1740721]

La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove – per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi. Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di un vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?

Ma non semplifichiamo troppo il problema. Cristo non ha forse corretto le tradizioni umane che minacciavano di soffocare la parola e la volontà di Dio? Sì, lo ha fatto, per risvegliare nuovamente l’obbedienza alla vera volontà di Dio, alla sua parola sempre valida. A Lui stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo. E non dimentichiamo: Egli era il Figlio, con l’autorità e la responsabilità singolari di svelare l’autentica volontà di Dio, per aprire così la strada della parola di Dio verso il mondo dei gentili. E infine: Egli ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità, e ci indica la strada.

Lasciamoci interrogare ancora una volta: non è che con tali considerazioni viene, di fatto, difeso l’immobilismo, l’irrigidimento della tradizione? No. Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo. E se guardiamo alle persone, dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore.

Cari amici, resta chiaro che la conformazione a Cristo è il presupposto e la base di ogni rinnovamento. Ma forse la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande, per poter osare di prendere le misure da Lui. Il Signore lo sa. Per questo ha provveduto a “traduzioni” in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi.

Proprio per questa ragione, Paolo senza timidezza ha detto alle sue comunità: imitate me, ma io appartengo a Cristo. Egli era per i suoi fedeli una “traduzione” dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire. A partire da Paolo, lungo tutta la storia ci sono state continuamente tali “traduzioni” della via di Gesù in vive figure storiche. Noi sacerdoti possiamo pensare ad una grande schiera di sacerdoti santi, che ci precedono per indicarci la strada: a cominciare da Policarpo di Smirne ed Ignazio d’Antiochia attraverso i grandi Pastori quali Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno, fino a Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Giovanni Maria Vianney, fino ai preti martiri del Novecento e, infine, fino a Papa Giovanni Paolo II che, nell’azione e nella sofferenza ci è stato di esempio nella conformazione a Cristo, come “dono e mistero”.

I Santi ci indicano come funziona il rinnovamento e come possiamo metterci al suo servizio. E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape.
Cari amici, vorrei brevemente toccare ancora due parole-chiave della rinnovazione delle promesse sacerdotali, che dovrebbero indurci a riflettere in quest’ora della Chiesa e della nostra vita personale.

C’è innanzitutto il ricordo del fatto che siamo – come si esprime Paolo – “amministratori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1) e che ci spetta il ministero dell’insegnamento (munus docendi), che è una parte di tale amministrazione dei misteri di Dio, in cui Egli ci mostra il suo volto e il suo cuore, per donarci se stesso.

Nell’incontro dei Cardinali in occasione del recente Concistoro, diversi Pastori, in base alla loro esperienza, hanno parlato di un analfabetismo religioso che si diffonde in mezzo alla nostra società così intelligente.

Gli elementi fondamentali della fede, che in passato ogni bambino conosceva, sono sempre meno noti. Ma per poter vivere ed amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarLo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione ed il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola.

L’Anno della Fede, il ricordo dell’apertura del Concilio Vaticano II 50 anni fa, deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia. Lo troviamo naturalmente in modo fondamentale e primario nella Sacra Scrittura, che non leggeremo e mediteremo mai abbastanza. Ma in questo facciamo tutti l’esperienza di aver bisogno di aiuto per trasmetterla rettamente nel presente, affinché tocchi veramente il nostro cuore.
Questo aiuto lo troviamo in primo luogo nella parola della Chiesa docente: i testi del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica sono gli strumenti essenziali che ci indicano in modo autentico ciò che la Chiesa crede a partire dalla Parola di Dio. E naturalmente ne fa parte anche tutto il tesoro dei documenti che Papa Giovanni Paolo II ci ha donato e che è ancora lontano dall’essere sfruttato fino in fondo.
Ogni nostro annuncio deve misurarsi sulla parola di Gesù Cristo: “La mia dottrina non è mia” (Gv 7,16).

Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. Ma questo naturalmente non deve significare che io non sostenga questa dottrina con tutto me stesso e non stia saldamente ancorato ad essa. In questo contesto mi viene sempre in mente la parola di sant’Agostino: Che cosa è tanto mio quanto me stesso? Che cosa è così poco mio quanto me stesso? Non appartengo a me stesso e divento me stesso proprio per il fatto che vado al di là di me stesso e mediante il superamento di me stesso riesco ad inserirmi in Cristo e nel suo Corpo che è la Chiesa. Se non annunciamo noi stessi e se interiormente siamo diventati tutt’uno con Colui che ci ha chiamati come suoi messaggeri così che siamo plasmati dalla fede e la viviamo, allora la nostra predicazione sarà credibile.

Non reclamizzo me stesso, ma dono me stesso. Il Curato d’Ars non era un dotto, un intellettuale, lo sappiamo. Ma con il suo annuncio ha toccato i cuori della gente, perché egli stesso era stato toccato nel cuore.

L’ultima parola-chiave a cui vorrei ancora accennare si chiama zelo per le anime (animarum zelus). È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata. In alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo.

Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena. E come sacerdoti naturalmente ci preoccupiamo dell’uomo intero, proprio anche delle sue necessità fisiche – degli affamati, dei malati, dei senza-tetto. Tuttavia noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima. E in quanto sacerdoti di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo.

Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore.

Amen.

 















 

[SM=g1740720] [SM=g1740752]

 

Il Papa: Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà.

 

QUARESIMA SETTIMANA SANTA E PASQUA: LO SPECIALE DEL BLOG

SANTA MESSA IN COENA DOMINI: VIDEO INTEGRALE

OMELIA DEL SANTO PADRE: AUDIO INTEGRALE DI RADIO VATICANA

SANTA MESSA IN COENA DOMINI, 05.04.2012

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

Il Giovedì Santo non è solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui splendore certamente s’irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire, dentro di sé. Fa parte del Giovedì Santo anche la notte oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale Gesù esce con i suoi discepoli; fa parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù, come anche il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato.
Cerchiamo in quest’ora di capire più profondamente qualcosa di questi eventi, perché in essi si svolge il mistero della nostra Redenzione.

Gesù esce nella notte. La notte significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi. Gesù stesso è la luce e la verità, la comunicazione, la purezza e la bontà. Egli entra nella notte. La notte, in ultima analisi, è simbolo della morte, della perdita definitiva di comunione e di vita.

Gesù entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità. Durante questo cammino, Egli ha cantato con i suoi Apostoli i Salmi della liberazione e della redenzione di Israele, che rievocavano la prima Pasqua in Egitto, la notte della liberazione. Ora Egli va, come è solito fare, per pregare da solo e per parlare come Figlio con il Padre. Ma, diversamente dal solito, vuole sapere di avere vicino a sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono i tre che avevano fatto esperienza della sua Trasfigurazione – il trasparire luminoso della gloria di Dio attraverso la sua figura umana – e che Lo avevano visto al centro tra la Legge e i Profeti, tra Mosè ed Elia. Avevano sentito come Egli parlava con entrambi del suo “esodo” a Gerusalemme. L’esodo di Gesù a Gerusalemme – quale parola misteriosa! L’esodo di Israele dall’Egitto era stato l’evento della fuga e della liberazione del popolo di Dio. Quale aspetto avrebbe avuto l’esodo di Gesù, in cui il senso di quel dramma storico avrebbe dovuto compiersi definitivamente? Ora i discepoli diventavano testimoni del primo tratto di tale esodo – dell’estrema umiliazione, che tuttavia era il passo essenziale dell’uscire verso la libertà e la vita nuova, a cui l’esodo mira. I discepoli, la cui vicinanza Gesù cercò in quell’ora di estremo travaglio come elemento di sostegno umano, si addormentarono presto. Sentirono tuttavia alcuni frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento. Ambedue le cose si impressero profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai cristiani per sempre. Gesù chiama Dio “Abbà”. Ciò significa – come essi aggiungono – “Padre”. Non è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola del linguaggio dei bambini – una parola affettuosa con cui non si osava rivolgersi a Dio. È il linguaggio di Colui che è veramente “bambino”, Figlio del Padre, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella più profonda unità con Lui.

Se ci domandiamo in che cosa consista l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli, dobbiamo dire: è il suo rapporto con Dio. Egli sta sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente. “Dio, nessuno lo ha mai visto”, dice san Giovanni. Colui “che è nel seno del Padre … lo ha rivelato” (1,18). Ora conosciamo Dio così come è veramente. Egli è Padre, e questo in una bontà assoluta alla quale possiamo affidarci. L’evangelista Marco, che ha conservato i ricordi di san Pietro, ci racconta che Gesù, all’appellativo “Abba”, ha ancora aggiunto: Tutto è possibile a te, tu puoi tutto (cfr 14,36). Colui che è la Bontà, è al contempo potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere. Questa fiducia la possiamo imparare dalla preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi.

Prima di riflettere sul contenuto della richiesta di Gesù, dobbiamo ancora rivolgere la nostra attenzione su ciò che gli Evangelisti ci riferiscono riguardo all’atteggiamento di Gesù durante la sua preghiera. Matteo e Marco ci dicono che Egli “cadde faccia a terra” (Mt 26,39; cfr Mc 14,35), assunse quindi l’atteggiamento di totale sottomissione, quale è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo. Luca, invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio.

Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in quel gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca.

Gesù lotta con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta l’angoscia di fronte al potere della morte. Questo è innanzitutto semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni creatura vivente, davanti alla presenza della morte. In Gesù, tuttavia, si tratta di qualcosa di più.

Egli allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene incontro in quel calice che deve bere. È lo sconvolgimento del totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo mondo, che si riversa su di Lui. Egli vede anche me e prega anche per me. Così questo momento dell’angoscia mortale di Gesù è un elemento essenziale nel processo della Redenzione. La Lettera agli Ebrei, pertanto, ha qualificato la lotta di Gesù sul Monte degli Ulivi come un evento sacerdotale. In questa preghiera di Gesù, pervasa da angoscia mortale, il Signore compie l’ufficio del sacerdote: prende su di sé il peccato dell’umanità, tutti noi, e ci porta presso il Padre. Infine, dobbiamo ancora prestare attenzione al contenuto della preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Gesù dice: “Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane. Chiede che ciò gli sia risparmiato.

Tuttavia, in quanto Figlio, depone questa volontà umana nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo. L’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra volontà. Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi. È questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita.

Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà.

Preghiamo il Signore di introdurci in questo “sì” alla volontà di Dio, rendendoci così veramente liberi.
Amen.

 

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI, GIOVEDI' SANTO MESSA DEL CRISMA, BASILICA VATICANA

dal Blog Messainlatino con vari commenti


[Modificato da Caterina63 05/04/2012 23:44]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740722]la bellissima Predica di padre Cantalamessa.

 

Predica del Venerdì Santo 2012 nella Basilica di San Pietro

Alcuni Padri della Chiesa hanno racchiuso in una immagine l’intero mistero della redenzione. Immagina, dicono, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno che teneva schiava la città e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu eri sugli spalti, non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.


Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico, in tal caso quell’uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l’otterrà!
Così, dicono questi Padri, avviene tra Cristo e noi. Egli, sulla croce, ha sconfitto l’antico avversario”. “Le nostre spade – esclama san Giovanni Crisostomo – non sono insanguinate, non siamo stati nell’agone, non abbiamo riportato ferite, la battaglia non l’abbiamo neppure vista, ed ecco che otteniamo la vittoria. Sua è stata la lotta, nostra la corona. E poiché siamo stati anche noi a vincere, imitiamo quello che fanno i soldati in questi casi: con voci di gioia esaltiamo la vittoria, intoniamo inni di lode al Signore” .


* * *
Non si potrebbe spiegare in modo migliore il senso della liturgia che stiamo celebrando. Ma ciò che stiamo facendo è, esso stesso, una immagine, la rappresentazione di una realtà del passato, o è la realtà stessa? Tutte e due le cose! “Noi –diceva sant’Agostino al popolo- sappiamo e crediamo con fede certissima che Cristo è morto una sola volta per noi[…]. Sapete perfettamente che tutto ciò è avvenuto una sola volta e tuttavia la solennità periodicamente lo rinnova […].Verità storica e solennità liturgica non sono tra loro in contrasto, quasi che la seconda sia fallace e la prima soltanto corrisponda al vero. Di ciò infatti che la storia afferma essere avvenuto, nella realtà, una sola volta, di questo la solennità rinnova spesso la celebrazione nei cuori dei fedeli” .
La liturgia “rinnova” l’evento! Paolo VI ha precisato il senso che la Chiesa cattolica da a questa affermazione usando il verbo ”rappresentare”, inteso nel senso forte di ri-presentare, cioè rendere nuovamente presente e operante l’accaduto .
C’è una differenza sostanziale tra questa nostra rappresentazione liturgica della morte di Cristo e quella, per esempio, di Giulio Cesare nella tragedia di Shakespeare. Nessuno assiste da vivo all’anniversario della propria morte; Cristo sì, perché è risorto. Egli solo può dire, come fa nell’Apocalisse: “Io ero morto, ma ora vivo per sempre” (Ap 1,18). Dobbiamo stare attenti in questo giorno, visitando i cosiddetti “sepolcri” o partecipando alle processioni del Cristo morto, di non meritare il rimprovero che il Risorto rivolse alle pie donne il mattino di Pasqua: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc 24,5).
“La anamnesi, cioè il memoriale liturgico, hanno affermato alcuni autori, rende l’evento più vero di quando avvenne storicamente la prima volta”. In altre parole, più vero e reale per noi che lo riviviamo “secondo lo Spirito”, di quanto lo fosse per coloro che lo vivevano “secondo la carne”, prima che lo Spirito Santo ne rivelasse alla Chiesa il pieno significato.


Noi non stiamo celebrando solo un anniversario, ma un mistero. [SM=g1740722]

Nella celebrazione “a modo di anniversario”, spiega sant’Agostino, non si richiede altro se non di “indicare con una solennità religiosa il giorno preciso dell’anno in cui ricorre il ricordo dell’avvenimento stesso”; nella celebrazione a modo di mistero (“in sacramento”), “non solo si commemora un avvenimento, ma lo si fa pure in modo che si capisca il suo significato e lo si accolga santamente” .
Questo cambia tutto. Non si tratta solo di assistere a una rappresentazione, ma di “accoglierne” il significato, di passare da spettatori a attori. Sta a noi perciò scegliere quale parte vogliamo rappresentare nel dramma, chi vogliamo essere: se Pietro, se Giuda, se Pilato, se la folla, se il Cireneo, se Giovanni, se Maria… Nessuno può rimanere neutrale; non prendere posizione, è prenderne una ben precisa: quella di Pilato che si lava le mani o della folla che da lontano ”stava a vedere” (Lc 23,35). Se tornando a casa, questa sera, qualcuno ci chiede: “Da dove vieni? “Dove sei stato?”, rispondiamo pure, almeno nel nostro cuore: “Sul Calvario!”


* * *
Ma tutto questo non avviene automaticamente, solo perché abbiamo partecipato a questa liturgia. Si tratta, diceva Agostino, di “accogliere” il significato del mistero. Questo avviene con la fede. In una omelia pasquale del IV secolo, il vescovo pronunciava queste parole straordinariamente moderne e, si direbbe, esistenziali: “Per ogni uomo, il principio della vita è quello, a partire dal quale Cristo è stato immolato per lui. Ma Cristo è immolato per lui nel momento in cui egli riconosce la grazia e diventa cosciente della vita procuratagli da quell’immolazione” .

Questo è avvenuto sacramentalmente nel battesimo, ma deve avvenire consapevolmente sempre di nuovo nella vita. Dobbiamo, prima di morire, avere il coraggio di fare un colpo di audacia, quasi un colpo di mano: appropriarci della vittoria di Cristo. L’appropriazione indebita! Una cosa comune purtroppo nella società in cui viviamo, ma con Gesù essa non solo non è vietata, ma è sommamente raccomandata. “Indebita” qui significa che non ci è dovuta, che non l’abbiamo meritata noi, ma ci è data gratuitamente, per fede.

Ma andiamo sul sicuro; ascoltiamo un dottore della Chiesa. “Io –scrive san Bernardo -, quello che non posso ottenere da me stesso, me lo approprio (alla lettera, lo usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore, perché è pieno di misericordia. Mio merito, perciò, è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti, finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte (Sal 119, 156), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia. Infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio” (cf. 1 Cor 1, 30) .

Forse che questo modo di concepire la santità rese san Bernardo meno zelante delle buone opere, meno impegnato nell’acquisto delle virtù? Forse trascurava di mortificare il suo corpo e ridurlo in schiavitù (cf. 1 Cor 9,27), l’apostolo Paolo che, prima di tutti e più di tutti, aveva fatto di questa appropriazione della giustizia di Cristo lo scopo della sua vita e della sua predicazione? “Io –scriveva ai Filippesi – considero [tutte le] cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo” (Fil 3, 7-9)?

A Roma, come purtroppo in ogni grande città, ci sono tanti senza tetto. Esiste un nome per essi in tutte le lingue: homeless, clochard, mendigos, barboni: persone umane che non posseggono che i pochi stracci che portano addosso e qualche oggetto che si portano dietro in borse in plastica. Immaginiamo che un giorno si diffonde questa voce: in Via Condotti (tutti sanno cosa rappresenta a Roma Via Condotti!) c’è la proprietaria di una boutique di lusso che, per qualche sconosciuta ragione, di interesse o di generosità, invita tutti i barboni della Stazione Termini a venire nel suo negozio; li invita a deporre i loro stracci sudici, a farsi una bella doccia e poi scegliere il vestito che desiderano tra quelli esposti e portarselo via, così, gratuitamente.

Tutti dicono in cuor loro: “Questa è una favola, non succede mai!”. Verissimo, ma quello che non succede mai tra gli uomini tra di loro è quello che può succedere ogni giorno tra gli uomini e Dio, perché, davanti a Lui, quei barboni siamo noi! È quello che avviene in una bella confessione: deponi i tuoi stracci sporchi, i peccati, ricevi il bagno della misericordia e ti alzi che sei “rivestito delle vesti della salvezza, avvolto nel mantello della giustizia” (Is 61, 10). [SM=g1740722]

Il pubblicano della parabola salì al tempio a pregare; disse semplicemente, ma dal profondo del cuore: “O Dio, abbi pietà di me peccatore!”, e “tornò a casa giustificato” (Lc 18,14), riconciliato, fatto nuovo, innocente. Lo stesso, se abbiamo la sua fede e il suo pentimento, si potrà dire di noi tornando a casa dopo questa liturgia.

* * *
Tra i personaggi della passione con i quali possiamo identificarci mi accorgo che ho tralasciato di nominarne uno che più di tutti aspetta chi ne segua l’esempio: il buon ladrone.
Il buon ladrone fa una completa confessione di peccato; dice al suo compagno che insulta Gesù: “Neanche tu hai timore di Dio che sei condannato alla stessa pena? Noi giustamente perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male” (Lc 23, 40 s.). Il buon ladrone si mostra qui un eccellente teologo. Solo Dio infatti, se soffre, soffre assolutamente da innocente; ogni altro essere che soffre deve dire: “Io soffro giustamente”, perché, anche se non è responsabile dell’azione che gli viene imputata, non è mai del tutto senza colpa. Solo il dolore dei bambini innocenti somiglia a quello di Dio e per questo esso è così misterioso e così sacro.


Quanti delitti atroci rimasti, negli ultimi tempi, senza colpevole, quanti casi irrisolti! Il buon ladrone lancia un appello ai responsabili: fate come me, venite allo scoperto, confessate la vostra colpa; sperimenterete anche voi la gioia che provai io quando sentii la parola di Gesù: “Oggi sarai con me in paradiso!” (Lc 23,43). Quanti rei confessi possono confermare che è stato così anche per loro: che sono passati dall’inferno al paradiso il giorno che hanno avuto il coraggio di pentirsi e confessare la loro colpa. Ne ho conosciuto qualcuno anch’io. Il paradiso promesso è la pace della coscienza, la possibilità di guardarsi nello specchio o guardare i propri figli senza doversi disprezzare.


Non portate con voi nella tomba il vostro segreto; vi procurerebbe una condanna ben più temibile di quella umana. Il nostro popolo non è spietato con chi ha sbagliato ma riconosce il male fatto, sinceramente, non solo per qualche calcolo. Al contrario! È pronto a impietosirsi e ad accompagnare il pentito nel suo cammino di redenzione (che in ogni caso diventa più breve). “Dio perdona molte cose, per un’opera buona”, dice Lucia all’Innominato nei “Promessi sposi”. Ancor più, dobbiamo dire, egli perdona molte cose per un atto di pentimento. Lo ha promesso solennemente: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come la lana” (Is 1, 18).

Riprendiamo ora a fare quello che, abbiamo sentito all’inizio, è il nostro compito in questo giorno: con voci di gioia esaltiamo la vittoria della croce, intoniamo inni di lode al Signore. “O Redemptor, sume carmen temet concinentium” : E tu, o nostro Redentore, accogli il canto che eleviamo a te.

1. Nicola Cabasilas, Vita in Christo, I, 9 (PG 150, 517).
2. S. Giovanni Crisostomo, De coemeterio et de cruce (PG, 49, 596).
3. S. Agostino, Sermone 220 (PL 38, 1089)
4.Cf Paolo VI, Mysterium fidei (AAS 57, 1965, p. 753 ss).
5. Agostino, Epistola 55, 1, 2 (CSEL 34, 1, p. 170).
6. Omelia pasquale dell’anno 387 (SCh 36, p. 59 s.).
7. S. Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico, 61, 4-5 (PL 183, 1072).
8. Inno della Domenica delle Palme e della Messa crismale del Giovedì Santo.

 
















































 



















Fraternamente CaterinaLD

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Il Papa al termine della Via Crucis: Nelle afflizioni e nelle difficoltà non siamo soli; la famiglia non è sola: Gesù è presente con il suo amore, la sostiene con la sua grazia e le dona l’energia per andare avanti. Ed è a questo amore di Cristo che dobbiamo rivolgerci quando gli sbandamenti umani e le difficoltà rischiano di ferire l’unità della nostra vita e della famiglia


VIA CRUCIS: VIDEO INTEGRALE

SALUTO DEL SANTO PADRE: AUDIO INTEGRALE DI RADIO VATICANA
 

SALUTO DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo rievocato, nella meditazione, nella preghiera e nel canto, il cammino di Gesù sulla via della Croce: una via che sembrava senza uscita e che invece ha cambiato la vita e la storia dell’uomo, ha aperto il passaggio verso i «cieli nuovi e la nuova terra» (cfr Ap 21,1).

Specialmente in questo giorno del Venerdì Santo, la Chiesa celebra, con intima adesione spirituale, la memoria della morte in croce del Figlio di Dio, e nella sua Croce vede l’albero della vita, fecondo di una nuova speranza.

L’esperienza della sofferenza segna l’umanità, segna anche la famiglia; quante volte il cammino si fa faticoso e difficile! Incomprensioni, divisioni, preoccupazione per il futuro dei figli, malattie, disagi di vario genere. In questo nostro tempo, poi, la situazione di molte famiglie è aggravata dalla precarietà del lavoro e dalle altre conseguenze negative provocate dalla crisi economica. Il cammino della Via Crucis, che abbiamo spiritualmente ripercorso questa sera, è un invito per tutti noi, e specialmente per le famiglie, a contemplare Cristo crocifisso per avere la forza di andare oltre le difficoltà.

La Croce di Gesù è il segno supremo dell’amore di Dio per ogni uomo, è la risposta sovrabbondante al bisogno che ha ogni persona di essere amata. Quando siamo nella prova, quando le nostre famiglie si trovano ad affrontare il dolore, la tribolazione, guardiamo alla Croce di Cristo: lì troviamo il coraggio per continuare a camminare; lì possiamo ripetere, con ferma speranza, le parole di san Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,35.37).

Nelle afflizioni e nelle difficoltà non siamo soli; la famiglia non è sola: Gesù è presente con il suo amore, la sostiene con la sua grazia e le dona l’energia per andare avanti. Ed è a questo amore di Cristo che dobbiamo rivolgerci quando gli sbandamenti umani e le difficoltà rischiano di ferire l’unità della nostra vita e della famiglia. Il mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo incoraggia a camminare con speranza: la stagione del dolore e della prova, se vissuta con Cristo, con fede in Lui, racchiude già la luce della risurrezione, la vita nuova del mondo risorto, la pasqua di ogni uomo che crede alla sua Parola.

In quell’Uomo crocifisso, che è il Figlio di Dio, anche la stessa morte acquista nuovo significato e orientamento, è riscattata e vinta, è il passaggio verso la nuova vita: «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Affidiamoci alla Madre di Cristo.

Lei che ha accompagnato il suo Figlio sulla via dolorosa, Lei che stava sotto la Croce nell’ora della sua morte, Lei che ha incoraggiato la Chiesa al suo nascere perché viva alla presenza del Signore, conduca i nostri cuori, i cuori di tutte le famiglie attraverso il vasto mysterium passionis verso il mysterium paschale, verso quella luce che prorompe dalla Risurrezione di Cristo e mostra la definitiva vittoria dell’amore, della gioia, della vita, sul male, sulla sofferenza, sulla morte.

Amen
 



















 
 
 
Fraternamente CaterinaLD

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[SM=g1740733]RIFLESSIONE

 

 

una liturgia abbreviata è come vino annacquato

L'atmosfera della liturgia


 

Le lunghe liturgie che caratterizzano la settimana santa nelle chiese latine tradizionali e in quelle greche c'impongono delle osservazioni di carattere generale.

Innanzi tutto, ci si rende conto che il tempo richiesto dalle celebrazioni prende buona parte della mattina o della sera. I lunghi mattutini "delle tenebre", secondo la consuetudine canonicale e monastica latina, gli "Uffici dello Sposo", nella consuetudine bizantina, richiedono almeno due ore. Nel mondo orientale, giungiamo addirittura a superare le tre ore.

La liturgia tradizionale degli oli santi (Messa crismale) occupa l'intera mattinata del giovedì santo.

Perché delle liturgie così lunghe? Nel mondo attuale molti sono incapaci di sopportare tale durata. Per questo le liturgie cattoliche attuali hanno scelto tempi brevi col rischio di sostenere i propri fedeli nella loro debolezza, come se in palestra si decidesse di rafforzare un corpo prolungandone il rilassamento.

Eppure queste liturgie hanno una loro ragione d'essere. Fanno entrare chi vi partecipa in un'atmosfera necessariamente differente e perché questo accada ci vuole un minimo sforzo.

Sia il mondo greco che quello latino antico e tradizionale danno la percezione di una "densità" particolare, lungo lo svolgimento delle preghiere, una "densità" in grandissima parte evaporata nei riti latini attuali i quali preferiscono piuttosto condividere la scioltezza, la discorsività, l'arte dell'intrattenimento che si riscontra nel culto protestante il quale, a sua volta, non si discosta da una lezione scolastica didatticamente attraente. Ma è questo il culto cristiano?

Il lungo tempo richiesto da una liturgia tradizionale ci mostra, inoltre, un altro elemento: qui l'uomo abita, non transita di passaggio. Le preghiere diventano la sua casa, il suo cibo col quale si nutre tranquillamente, incurante del tempo che scorre. Non è pioggia che scivola via sulla pelle, è bagno caldo nel quale si è immersi, profumati e riscaldati.

La liturgia antica della luce, nel sabato santo, se rispetta la consuetudine tradizionale, occupa parte della notte. La liturgia bizantina del sabato santo occupa ugualmente molte ore notturne. Non è possibile decurtare, riassumere, queste liturgie senza negativi contraccolpi. (Quanto sono ridicole, se non blasfeme al significato intrinseco del simbolo, quelle liturgie notturne del sabato santo che si tengono nella luce vespertina, anticipate di molto pur di non stancare le persone per una veglia di solo un paio d'ore della notte!).

In Occidente l'aver voluto adeguare le liturgie alla debolezza (sempre più marcata) dei popoli, le ha rovinate finendo per svuotarle dalla loro intensità. C'è il reale rischio che siano divenute sale non salato!

Recentemente ho assistito ad una messa crismale nella quale non riuscivo a percepire quell'atmosfera di densità che normalmente si sente in una liturgia tradizionale. Nonostante fosse eseguita con ordine e senz’alcuna artefazione, la sensazione che infondeva era quasi di banalità, di appiattimento. La messa scorreva con una certa fretta dalla quale sembrava trapelare l’insofferenza di chi la svolgeva.

Non riuscivo ad irritarmi, per un approccio così superficiale, ma provavo una radente malinconia. Avevo l'impressione d’assaggiare un vino annacquato. Non potevo classificarlo come acqua (una riunione profana) ma ero certo che non si trattasse di puro vino (una liturgia sacra). Certe cose si sentono a pelle, coinvolgono l'interiorità e, immediatamente, danno una sensazione di verticalità o di appiattimento, ci si sente sollevare o abbassare.

Mi sembrava che il clero di quella messa fosse come certi cagnolini bagnati i quali s’agitano violentemente per scrollare l'acqua dal loro pelo. Avevo la netta sensazione che quei preti non riuscissero ad "abitare nella liturgia" ma ne transitassero solamente. E se il clero non "abita" naturaliter nella liturgia, vien da pensare che abbia il cuore altrove. Se questi sono i pastori, ai quali viene chiesto di più, come possiamo pretendere che i laici siano meglio?

Viceversa, in un contesto orientale, ricordo che anche il clero più disinteressato e secolarizzato riusciva, in qualche modo, ad entrare nella "casa" della liturgia, ad abitarvi. Non sentivo quel senso di fastidio per le lunghe preghiere, semmai, nel caso peggiore, una pacifica rassegnazione. E si sa che le liturgie orientali sono più ampie rispetto alle corrispondenti liturgie latine tradizionali. Non penso che tutto ciò sia dovuto ad una semplice questione di mentalità o di cultura. D'altronde, nel mondo cristiano un incolto che conserva e pratica le buone tradizioni si nobilita. Viceversa un intellettuale che rigetta tali tradizioni diventa come un villico analfabeta: almeno per alcune cose, s'inspessisce, diviene grossolano, se non proprio insopportabilmente volgare.

In conclusione si può aggiungere che la liturgia è sempre lo specchio e l'immagine di una chiesa, ne indica lo stato di salute.

Quello che in Occidente manca, non è tanto una comprensione razionale del rito. Da noi c'è così tanta comprensione razionale d'aver creato un enorme equivoco: si pensa che pregando nella lingua corrente, inculturando il culto, si ha, in qualche modo, capito tutto della liturgia, mentre ci si è esclusi dalle sue mistiche profondità che richiedono un ben altro approccio. L'attuale razionalismo teologico nella liturgia crea un atteggiamento simile a chi, vedendo una mela, pensa che il frutto si esaurisca nel colore e nella consistenza della sua buccia...

Quello che in Occidente manca, è quella percezione sacra che non ha bisogno di traduzioni, introduzioni, monizioni, raccomandazioni, agitazioni, imposizioni. E' quel senso del sacro, quel sapore particolare il quale, proveniente da un'intensità di spirito e di grazia, avvolge la persona e la porta immediatamente alla percezione intuitiva di un altro mondo che illumina e infonde speranza al mondo presente. E' questo che continua drammaticamente a mancare e che, tuttavia, i culti antichi comunicavano senza tanto fragore e preoccupazioni razionalistiche.

Oggi le idee su tali argomenti, sono purtroppo lungi dall'essere chiare per cui si continua a mescere vino e acqua spacciando la bevanda risultante per vino autentico. Eppure, nonostante le raccomandazioni pressanti del povero oste di turno, chi beve questo vino annacquato rimarrà sempre insoddisfatto e con la sensazione, più o meno cosciente, d'essere stato imbrogliato.
 
tratto da: http://traditioliturgica.blogspot.it/
 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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08/04/2012 00:28
 
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Rallegrati o Maria, Resurrexit, sicut dixit, Alleluia!
Cristo Tuo Figlio, che hai portato nel grembo, è veramente Risorto, come aveva detto!
Prega per noi!
www.gloria.tv/?media=276798


Santa Pasqua a tutti!



Con la risurrezione Gesù ci attira tutti nella sua luce e vince ogni forma di buio: il buio della morte, del male, dell’odio, della menzogna: è quanto ha affermato Benedetto XVI nell’omelia pronunciata nella Basilica di San Pietro durante la Veglia Pasquale.

La risurrezione apre una nuova dimensione per l’uomo
Il Papa sottolinea innanzitutto che “Pasqua è la festa della nuova creazione. Gesù è risorto e non muore più. Ha sfondato la porta verso una nuova vita che non conosce più né malattia né morte. Ha assunto l’uomo in Dio stesso. “Carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio”, aveva detto Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (15,50). Lo scrittore ecclesiastico Tertulliano, nel secolo III, in riferimento alla risurrezione di Cristo e alla nostra risurrezione aveva l’audacia di scrivere: “Abbiate fiducia, carne e sangue, grazie a Cristo avete acquistato un posto nel Cielo e nel regno di Dio” (CCL II 994). Si è aperta una nuova dimensione per l’uomo. La creazione è diventata più grande e più vasta. La Pasqua è il giorno di una nuova creazione, ma proprio per questo la Chiesa comincia in tale giorno la liturgia con l’antica creazione, affinché impariamo a capire bene quella nuova. Perciò all’inizio della Liturgia della Parola nella Veglia pasquale c’è il racconto della creazione del mondo”.

La creazione è orientata verso la comunione tra Dio e la Creatura
“In relazione a questo – aggiunge il Papa - due cose sono particolarmente importanti nel contesto della liturgia di questo giorno. In primo luogo, la creazione viene presentata come una totalità della quale fa parte il fenomeno del tempo. I sette giorni sono un’immagine di una totalità che si sviluppa nel tempo. Sono ordinati in vista del settimo giorno, il giorno della libertà di tutte le creature per Dio e delle une per le altre. La creazione è quindi orientata verso la comunione tra Dio e creatura; essa esiste affinché ci sia uno spazio di risposta alla grande gloria di Dio, un incontro di amore e di libertà”.

La luce di Dio si riflette nella natura delle creature
“In secondo luogo, del racconto della creazione la Chiesa, nella Veglia pasquale, ascolta soprattutto la prima frase: “Dio disse: «Sia la luce!» (Gen 1,3). Il racconto della creazione, in modo simbolico – prosegue Benedetto XVI - inizia con la creazione della luce. Il sole e la luna vengono creati solo nel quarto giorno. Il racconto della creazione li chiama fonti di luce, che Dio ha posto nel firmamento del cielo. Con ciò toglie consapevolmente ad esse il carattere divino che le grandi religioni avevano loro attribuito. No, non sono affatto dei. Sono corpi luminosi, creati dall’unico Dio. Sono però preceduti dalla luce, mediante la quale la gloria di Dio si riflette nella natura dell’essere che è creato”.

La luce rende possibile la vita, l'incontro, la conoscenza, mentre il male si nasconde
“Che cosa intende dire con ciò il racconto della creazione? La luce rende possibile la vita – osserva il Papa - Rende possibile l’incontro. Rende possibile la comunicazione. Rende possibile la conoscenza, l’accesso alla realtà, alla verità. E rendendo possibile la conoscenza, rende possibile la libertà e il progresso. Il male si nasconde. La luce pertanto è anche espressione del bene che è luminosità e crea luminosità. È giorno in cui possiamo operare. Il fatto che Dio abbia creato la luce significa che Dio ha creato il mondo come spazio di conoscenza e di verità, spazio di incontro e di libertà, spazio del bene e dell’amore. La materia prima del mondo è buona, l’essere stesso è buono. E il male non proviene dall’essere che è creato da Dio, ma esiste in virtù della negazione. È il ‘no’”.

La luce della risurrezione vince ogni buio, la vita è più forte della morte
“A Pasqua, al mattino del primo giorno della settimana – afferma il Pontefice - Dio ha detto nuovamente: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclissi solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”. Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi”.

Col Battesimo si entra nella luce, nella vita vera
“Ma come può avvenire questo? – si chiede il Papa - Come può tutto questo giungere fino a noi così che non rimanga solo parola, ma diventi una realtà in cui siamo coinvolti? Mediante il Sacramento del battesimo e la professione della fede, il Signore ha costruito un ponte verso di noi, attraverso il quale il nuovo giorno viene a noi. Nel Battesimo, il Signore dice a colui che lo riceve: Fiat lux – sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D’ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera. Per questo, la Chiesa antica ha chiamato il Battesimo “photismos” – illuminazione”.

L’uomo vede le cose tangibili, ma non vede la differenza tra bene e male
“Perché? – si domanda ancora Benedetto XVI - Il buio veramente minaccioso per l’uomo è il fatto che egli, in verità, è capace di vedere ed indagare le cose tangibili, materiali, ma non vede dove vada il mondo e da dove venga. Dove vada la stessa nostra vita. Che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale. Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo”.

La fede è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo
“Oggi – rileva - possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo, un’apertura dei nostri occhi per la vera luce”.

Cristo illumina il mondo donando se stesso
Il Papa rivolge quindi “un pensiero sulla luce e sull’illuminazione. Nella Veglia pasquale, la notte della nuova creazione, la Chiesa presenta il mistero della luce con un simbolo del tutto particolare e molto umile: con il cero pasquale. Questa è una luce che vive in virtù del sacrificio. La candela illumina consumando se stessa. Dà luce dando se stessa. Così rappresenta in modo meraviglioso il mistero pasquale di Cristo che dona se stesso e così dona la grande luce. Come seconda cosa possiamo riflettere sul fatto che la luce della candela è fuoco. Il fuoco è forza che plasma il mondo, potere che trasforma. E il fuoco dona calore. Anche qui si rende nuovamente visibile il mistero di Cristo. Cristo, la luce, è fuoco, è fiamma che brucia il male trasformando così il mondo e noi stessi. “Chi è vicino a me è vicino al fuoco”, suona una parola di Gesù trasmessa a noi da Origene. E questo fuoco è al tempo stesso calore, non una luce fredda, ma una luce in cui ci vengono incontro il calore e la bontà di Dio”.

La Chiesa è comunità di luce perché nel mondo risplenda la luce di Cristo
“Il grande inno dell’Exsultet, che il diacono canta all’inizio della liturgia pasquale – prosegue il Papa - ci fa notare in modo molto sommesso un altro aspetto ancora. Richiama alla memoria che questo prodotto, il cero, è dovuto in primo luogo al lavoro delle api. Così entra in gioco l’intera creazione. Nel cero, la creazione diventa portatrice di luce. Ma, secondo il pensiero dei Padri, c’è anche un implicito accenno alla Chiesa. La cooperazione della comunità viva dei fedeli nella Chiesa è quasi come l’operare delle api. Costruisce la comunità della luce. Possiamo così vedere nel cero anche un richiamo a noi stessi e alla nostra comunione nella comunità della Chiesa, che esiste affinché la luce di Cristo possa illuminare il mondo”. Benedetto XVI conclude: “Preghiamo il Signore in quest’ora di farci sperimentare la gioia della sua luce, e preghiamoLo, affinché noi stessi diventiamo portatori della sua luce, affinché attraverso la Chiesa lo splendore del volto di Cristo entri nel mondo (cfr LG 1). Amen”.

VEGLIA PASQUALE, 07.04.2012


OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!


Pasqua è la festa della nuova creazione. Gesù è risorto e non muore più. Ha sfondato la porta verso una nuova vita che non conosce più né malattia né morte. Ha assunto l’uomo in Dio stesso. “Carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio”, aveva detto Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (15,50).

Lo scrittore ecclesiastico Tertulliano, nel secolo III, in riferimento alla risurrezione di Cristo e alla nostra risurrezione aveva l’audacia di scrivere: “Abbiate fiducia, carne e sangue, grazie a Cristo avete acquistato un posto nel Cielo e nel regno di Dio” (CCL II 994).

Si è aperta una nuova dimensione per l’uomo. La creazione è diventata più grande e più vasta. La Pasqua è il giorno di una nuova creazione, ma proprio per questo la Chiesa comincia in tale giorno la liturgia con l’antica creazione, affinché impariamo a capire bene quella nuova. Perciò all’inizio della Liturgia della Parola nella Veglia pasquale c’è il racconto della creazione del mondo. In relazione a questo, due cose sono particolarmente importanti nel contesto della liturgia di questo giorno. In primo luogo, la creazione viene presentata come una totalità della quale fa parte il fenomeno del tempo. I sette giorni sono un’immagine di una totalità che si sviluppa nel tempo. Sono ordinati in vista del settimo giorno, il giorno della libertà di tutte le creature per Dio e delle une per le altre. La creazione è quindi orientata verso la comunione tra Dio e creatura; essa esiste affinché ci sia uno spazio di risposta alla grande gloria di Dio, un incontro di amore e di libertà. In secondo luogo, del racconto della creazione la Chiesa, nella Veglia pasquale, ascolta soprattutto la prima frase: “Dio disse: «Sia la luce!» (Gen 1,3). Il racconto della creazione, in modo simbolico, inizia con la creazione della luce. Il sole e la luna vengono creati solo nel quarto giorno. Il racconto della creazione li chiama fonti di luce, che Dio ha posto nel firmamento del cielo. Con ciò toglie consapevolmente ad esse il carattere divino che le grandi religioni avevano loro attribuito. No, non sono affatto dei. Sono corpi luminosi, creati dall’unico Dio. Sono però preceduti dalla luce, mediante la quale la gloria di Dio si riflette nella natura dell’essere che è creato.

Che cosa intende dire con ciò il racconto della creazione? La luce rende possibile la vita. Rende possibile l’incontro. Rende possibile la comunicazione. Rende possibile la conoscenza, l’accesso alla realtà, alla verità. E rendendo possibile la conoscenza, rende possibile la libertà e il progresso. Il male si nasconde. La luce pertanto è anche espressione del bene che è luminosità e crea luminosità. È giorno in cui possiamo operare. Il fatto che Dio abbia creato la luce significa che Dio ha creato il mondo come spazio di conoscenza e di verità, spazio di incontro e di libertà, spazio del bene e dell’amore. La materia prima del mondo è buona, l’essere stesso è buono. E il male non proviene dall’essere che è creato da Dio, ma esiste in virtù della negazione. È il “no”.

A Pasqua, al mattino del primo giorno della settimana, Dio ha detto nuovamente: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclissi solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”. Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi.

Ma come può avvenire questo? Come può tutto questo giungere fino a noi così che non rimanga solo parola, ma diventi una realtà in cui siamo coinvolti? Mediante il Sacramento del battesimo e la professione della fede, il Signore ha costruito un ponte verso di noi, attraverso il quale il nuovo giorno viene a noi. Nel Battesimo, il Signore dice a colui che lo riceve: Fiat lux – sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D’ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera. Per questo, la Chiesa antica ha chiamato il Battesimo “photismos” – illuminazione.

Perché? Il buio veramente minaccioso per l’uomo è il fatto che egli, in verità, è capace di vedere ed indagare le cose tangibili, materiali, ma non vede dove vada il mondo e da dove venga. Dove vada la stessa nostra vita. Che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale.

Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo. Oggi possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo, un’apertura dei nostri occhi per la vera luce.

Cari amici, vorrei aggiungere, infine, ancora un pensiero sulla luce e sull’illuminazione. Nella Veglia pasquale, la notte della nuova creazione, la Chiesa presenta il mistero della luce con un simbolo del tutto particolare e molto umile: con il cero pasquale. Questa è una luce che vive in virtù del sacrificio. La candela illumina consumando se stessa. Dà luce dando se stessa. Così rappresenta in modo meraviglioso il mistero pasquale di Cristo che dona se stesso e così dona la grande luce. Come seconda cosa possiamo riflettere sul fatto che la luce della candela è fuoco. Il fuoco è forza che plasma il mondo, potere che trasforma. E il fuoco dona calore. Anche qui si rende nuovamente visibile il mistero di Cristo. Cristo, la luce, è fuoco, è fiamma che brucia il male trasformando così il mondo e noi stessi. “Chi è vicino a me è vicino al fuoco”, suona una parola di Gesù trasmessa a noi da Origene. E questo fuoco è al tempo stesso calore, non una luce fredda, ma una luce in cui ci vengono incontro il calore e la bontà di Dio.

Il grande inno dell’Exsultet, che il diacono canta all’inizio della liturgia pasquale, ci fa notare in modo molto sommesso un altro aspetto ancora. Richiama alla memoria che questo prodotto, il cero, è dovuto in primo luogo al lavoro delle api. Così entra in gioco l’intera creazione. Nel cero, la creazione diventa portatrice di luce. Ma, secondo il pensiero dei Padri, c’è anche un implicito accenno alla Chiesa. La cooperazione della comunità viva dei fedeli nella Chiesa è quasi come l’operare delle api. Costruisce la comunità della luce. Possiamo così vedere nel cero anche un richiamo a noi stessi e alla nostra comunione nella comunità della Chiesa, che esiste affinché la luce di Cristo possa illuminare il mondo.

Preghiamo il Signore in quest’ora di farci sperimentare la gioia della sua luce, e preghiamoLo, affinché noi stessi diventiamo portatori della sua luce, affinché attraverso la Chiesa lo splendore del volto di Cristo entri nel mondo (cfr LG 1). Amen.


ascolta l'omelia del Santo Padre
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BUONA PASQUA!!



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[Modificato da Caterina63 08/04/2012 10:48]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740733] si conclude qui questa pagina, thread, dedicata alla Quaresima ed alla Santa Pasqua... vi raccomandiamo di approfondire la Festa della DIVINA MISERICORDIA per domenica prossima, la prima Domenica dopo Pasqua... [SM=g1740722]
 
Santa Pasqua a tutti!!
 
[SM=g1740738] [SM=g1740750] [SM=g1740752]
 
 
Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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