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Il latino è ancora vivo: a 50 anni dalla Costituzione apostolica Veterum Sapientia

Ultimo Aggiornamento: 12/11/2012 17:58
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[SM=g1740733] Il latino è ancora vivo!


Un convegno celebra il 50° anniversario della Veterum Sapientia


di Salvatore Cernuzio

ROMA, lunedì, 6 febbraio 2012 (ZENIT.org) - Il 22 febbraio 1962 Giovanni XXIII firmò la Costituzione apostolica Veterum Sapientia sullo studio e l’uso del latino, in cui auspicava, tra l’altro, la creazione di un Academicum Latinitatis Institutum.

Quest'ultimo verrà, poi, istituito da Paolo VI con la Lettera apostolica Studia Latinitatis del 22 febbraio 1964, affidando alla Società Salesiana il compito di «promuoverne la prosperità».

Dopo mezzo secolo, il Pontificium Institutum Altioris Latinitatis vuole ripercorrere, quindi, con il convegno del 23 febbraio, 50° Veterum Sapientia – Storia, cultura e attualità, alcuni elementi significativi di tale storia, per rispondere alle sfide di impegno culturale che oggi lo studio delle lingue classiche pone.

Don Roberto Spataro, docente presso la Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana, intervistato da ZENIT, ne approfondisce i contenuti.

Prof. Spataro da cosa nasce l’idea di questo convegno e quali obiettivi si pone?

Don Spataro: Il convegno nasce dal 50° anniversario della promulgazione di un documento solenne, la Veterum Sapientia, purtroppo presto ingiustamente dimenticata.

Intendiamo rileggere quel documento e mostrare come sia ancora molto attuale nel proporre la necessità che nella Chiesa, soprattutto tra i sacerdoti, siano conosciuti i grandi valori etici, spirituali, religiosi che il mondo antico elaborò e il Cristianesimo perfezionò, costruendo così le basi della civiltà contemporanea.

La Veterum Sapientia dice, infatti, ciò che ci insegna Benedetto XVI: la ragione che ispirò gli autori classici antichi e gli umanisti moderni, oltre alla fede dei Padri e Dottori della Chiesa che hanno scritto e pensato in latino, sono “amiche e alleate per il bene dell’uomo”.

Molti sostengono che il latino sia una “lingua morta”. Qual è la sua opinione in proposito?

Don Spataro: Questa è un’espressione veramente infelice. Mi chiedo come possa definirsi morta la lingua in cui hanno scritto Seneca, Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino e generazioni di scienziati, da Galvani, inventore dell’elettricità, a Gauss, il “principe dei matematici”…

Come può ritenersi “morta” una lingua che, se studiata come è studiata oggi da tante persone, alimenta pensieri alti e nobili? Senza dimenticare che è la lingua sovranazionale della Santa Sede; che circoli di umanisti l’adoperano come strumento di comunicazione orale e che la liturgia in lingua latina raccoglie, in numero sempre crescente, fedeli, per la maggior parte giovani.

Negli ultimi tempi, invece, sembrava che la lingua latina si stesse estinguendo: i seminaristi non la studiavano più e non veniva usata in liturgia. Cosa sta facendo il vostro Istituto per questa situazione?

Don Spataro: Negli ultimi anni all’interno della Chiesa cattolica, si sono registrati timidi segnali di ripresa per l’interesse e lo studio del latino. Tra questi: la nascita di comunità religiose e movimenti laicali che hanno compreso bene come alla Tradizione, alla vita stessa della Chiesa, appartenga un patrimonio preziosissimo di espressioni liturgiche, canoniche, magisteriali, teologiche, il cui contenuto è comprensibile solo nella sua forma linguistica, cioè il latino. Il nostro Istituto desidera, perciò, formare sempre più ecclesiastici e laici in grado di apprezzare e attualizzare questo patrimonio, in modo che ogni Chiesa possa avvalersi di persone che amano il vero e il bello armoniosamente coniugati in questa lingua.

In molte parti del mondo, sembra che stia rinascendo un grande interesse per il latino. E' vero?

Don Spataro: È vero! Tempo fa, un illustre professore universitario tedesco mi disse che in Germania sono più di 800.000 gli studenti delle scuole superiore e degli istituti universitari che si occupano di latino. Nel nostro istituto, ad esempio, accogliamo studenti della Cina, inviati dalle loro università, perché sentono il bisogno di conoscere la civiltà europea e le sue radici culturali espresse in lingua latina.

Quali sono le ragioni di questo rinnovato interesse?

Don Spataro: Parlando con professori e studenti provenienti da tutto il mondo, ho maturato questa convinzione: si sente il bisogno di studiare il latino per accedere a un mondo, una res publica litterarum, di elevatissimo livello spirituale. La crisi economica e finanziaria attuale non è più grave di quella etica ed antropologica. I giovani che in tante parti del mondo studiano le opere scritte in latino, da Cicerone a Cipriano a Erasmo da Rotterdam, sono stanchi e delusi dai “cattivi maestri” dell’epoca contemporanea e vogliono riappropriarsi di un pensiero puro, vero. Lo studio del latino consente di riacquistare questa ‘innocenza spirituale’.

Anche nelle scuole media italiane c'è un ritorno dello studio del latino…

Don Spataro: Il latino è una lingua molto piacevole da apprendere, ad una condizione: che si abbandoni il metodo che grava morbosamente nelle scuole, imposto dal filologismo tedesco a partire dal secolo XIX. Se insegnato, invece, con i metodi dei grandi umanisti - ad esempio quello praticato per secoli nelle scuole dei Gesuiti, ovvero il ‘metodo-natura’ appreso in 150 ore - uno studente, senza eccessive fatiche e soprattutto senza noia, è in grado di leggere già i classici. C’è bisogno di una nuova generazione d’insegnanti che conoscano questo metodo e lo adottino con entusiasmo perché fa miracoli!

Ci sono esempi del successo di questo metodo?

Don Spataro: Certamente! Un esempio è l’Accademia Vivarium Novum, un’istituzione con la quale la nostra Facoltà collabora da tempo e che opera a Roma. Giovani provenienti da tutto il mondo si fermano lì, uno o due anni, per studiare latino e greco. Arrivano senza conoscere una parola della lingua di Cesare e di Platone e dopo pochi mesi sono in grado di parlare fluentemente in latino, acquisendo, alla fine del percorso, una vera conoscenza della civiltà umanistica, cioè degli autentici valori dell’uomo che vengono dalla Veterum Sapientia.


[SM=g1740733] 

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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IOANNES PP. XXIII
SERVUS SERVORUM DEI
AD PERPETUAM REI MEMORIAM

CONSTITUTIO APOSTOLICA

VETERUM SAPIENTIA

DE LATINITATIS STVDIO PROVEHENDO

 

1. Veterum Sapientia, in Graecorum Romanorumque inclusa litteris, itemque clarissima antiquorum populorum monumenta doctrinae, quasi quaedam praenuntia aurora sunt habenda evangelicae veritatis, quam Filius Dei, gratiae disciplinaeque arbiter et magister, illuminator ac deductor generis humani (1), his nuntiavit in terris. Ecclesiae enim Patres et Doctores, in praestantissimis vetustorum illorum temporum memoriis quandam agnoverunt animorum praeparationem ad supernas suscipiendas divitias, quas Christus Iesus in dispensatione plenitudinis temporum (2) cum mortalibus communicavit; ex quo illud factum esse patet, ut in ordine rerum christianarum instaurato nihil sane perierit, quod verum, et iustum, et nobile, denique pulchrum ante acta saecula peperissent.

2. Quam ob rem Ecclesia sancta eius modi sapientiae documenta, et in primis Graecam Latinamque linguas, sapientiae ipsius auream quasi vestem, summo quidem honore coluit: atque etiam venerandos sermones alios, qui in orientis plagis floruerunt, quippe cum ad humani generis profectum et ad mores conformandos haud parum valerent, in usum recepit; iidemque sive in religiosis caerimoniis sive in Sacrarum Scripturarum interpretatione adhibiti, usque ad praesens tempus in quibusdam regionibus, perinde ac vivacis antiquitatis numquam intermissae voces, viguerunt.

3. Quarum in varietate linguarum ea profecto eminet, quae primum in Latii finibus exorta, deinde postea mirum quantum ad christianum nomen in occidentis regiones disseminandum profecit. Siquidem non sine divino consilio illud evenit, ut qui sermo amplissimam gentium consortionem sub Romani Imperii auctoritate saecula plurima sociavisset, is et proprius Apostolicae Sedis evaderet (3) et, posteritati servatus, christianos Europae populos alios cum aliis arto unitatis vinculo coniungeret.

Suae enim sponte naturae lingua Latina ad provehendum apud populos quoslibet omnem humanitatis cultum est peraccommodata: cum invidiam non commoveat, singulis gentibus se aequabilem praestet, nullius partibus faveat, omnibus postremo sit grata et amica. Neque hoc neglegatur oportet, in sermone Latino nobilem inesse conformationem et proprietatem; siquidem loquendi genus pressum, locuples, numerosum, maiestatis plenum et dignitatis (4) habet, quod unice et perspicuitati conducit et gravitati.

4. His de causis Apostolica Sedes nullo non tempore linguam Latinam studiose asservandam curavit eamque dignam existimavit qua tamquαm magnifica caelestis doctrinae sanctissimarumque legum veste (5) uteretur ipsa in sui exercitatione magisterii, eademque uterentur sacrorum administri. Hi namque ecclesiastici viri, ubicumque sunt gentium, Romanorum sermone adhibito, quae sunt Sanctae Sedis promptius comperire possunt, atque cum ipsa et inter se expeditius habere commercium.

Eam igitur, adeo cum vita Ecclesiae conexam, scientia et usu habere perceptam, non tam humanitatis et litterarum, quam religionis interest (6), quemadmodum Decessor Noster imm. mem. Pius XI monuit, qui, rem ratione et via persecutus, tres demonstravit huius linguae dotes, cum Ecclesiae natura mire congruentes: Etenim Ecclesia, ut quae et nationes omnes complexu suo contineat, et usque ad consummationem saeculorum sit permansura..., sermonem suapte natura requirit universalem, immutabilem, non vulgarem (7).

5. Nam cum ad Ecclesiam Romanam necesse sit omnem convenire ecclesiam (8), cumque Summi Pontifices potestatem habeant vere episcopalem, ordinariam et immediatam tum in omnes et singulas Ecclesias, tum in omnes et singulos pastores et fideles (9) cuiusvis ritus, cuiusvis gentis, cuiusvis linguae, consentaneum omnino videtur ut mutui commercii instrumentum universale sit et aequabile, maxime inter Apostolicam Sedem et Ecclesias, quae eodem ritu Latino utuntur. Itaque tum Romani Pontifices, si quid catholicas gentes docere volunt, tum Romanae Curiae Consilia, si qua negotia expediunt, si qua decreta conficiunt, ad universitatem fidelium spectantia, semper linguam Latinam haud secus usurpant, ac si materna vox ab innumeris gentibus accepta ea sit.

6. Neque solum universalis, sed etiam immutabilis lingua ab Ecclesia adhibita sit oportet. Si enim catholicae Ecclesiae veritates traderentur vel nonnullis vel multis ex mutabilibus linguis recentioribus, quarum nulla ceteris auctoritate praestaret, sane ex eo consequeretur, ut hinc earum vis neque satis significanter neque satis dilucide, qua varietate eae sunt, omnibus pateret; ut illinc nulla communis stabilisque norma haberetur, ad quam ceterarum sensus esset expendendus. Re quidem ipsa, lingua Latina, iamdiu adversus varietates tuta, quas cotidiana populi consuetudo in vocabulorum notionem inducere solet, fixa quidem censenda est et immobilis; cum novae quorundam verborum Latinorum significationes, quas christianarum doctrinarum progressio, explanatio, defensio postulaverunt, iamdudum firmae eae sint rataeque.

7. Cum denique catholica Ecclesia, utpote a Christo Domino condita, inter omnes humanas societates longe dignitate praestet, profecto decet eam lingua uti non vulgari, sed nobilitatis et maiestatis plena.

8. Praetereaque lingua Latina, quam dicere catholicam vere possumus (10), utpote quae sit Apostolicae Sedis, omnium Ecclesiarum matris et magistrae, perpetuo usu consecrata, putanda est et thesaurus ... incomparandae praestantiae (11), et quaedam quasi ianua, qua aditus omnibus patet ad ipsas christianas veritates antiquitus acceptas et ecclesiasticae doctrinae monumenta interpretanda (12); et vinculum denique peridoneum, quo praesens Ecclesiae aetas cum superioribus cumque futuris mirifice continetur.

9. Neque vero cuique in dubio esse potest, quin sive Romanorum sermoni sive honestis litteris ea vis insit, quae ad tenera adulescentium ingenia erudienda et conformanda perquam apposita ducatur, quippe qua tum praecipuae mentis animique facultates exerceantur, maturescant, perficiantur; tum mentis sollertia acuatur iudicandique potestas; tum puerilis intellegentia aptius constituatur ad omnia recte complectenda et aestimanda; tum postremo summa ratione sive cogitare sive loqui discatur.

10. Quibus ex reputatis rebus sane intellegitur cur saepe et multum Romani Pontifices non solum linguae Latinae momentum praestantiamque in tanta laude posuerint, sed etiam studium et usum sacris utriusque cleri administris praeceperint, periculis denuntiatis ex eius neglegentia manantibus.

Iisdem igitur adducti causis gravissimis, quibus Decessores Nostri et Synodi Provinciales (13), Nos quoque firma voluntate enitimur, ut huius linguae, in suam dignitatem restitutae, studium cultusque etiam atque etiam provehatur. Cum enim nostris temporibus sermonis Romani usus multis locis in controversiam coeptus sit vocari, atque adeo plurimi quid Apostolica Sedes hac de re sentiat exquirant, in animum propterea induximus, opportunis normis gravi hoc documento editis, cavere ut vetus et numquam intermissa linguae Latinae retineatur consuetudo, et, sicubi prope exoleverit, plane redintegretur.

Ceterum qui sit Nobismetipsis hac de re sensus, satis aperte, ut Nobis videtur, declaravimus, cum haec verba ad claros Latinitatis studiosos fecimus: Pro dolor, sunt sat multi, qui mira progressione artium abnormiter capti, Latinitatis studia et alias id genus disciplinas repellere vel coërcere sibi sumant... Hac ipsa impellente necessitate, contrarium prosequendum iter esse putamus. Cum prorsus in animo id insideat, quod magis natura et dignitate hominis dignum sit, ardentius acquirendum est id, quod animum colat et ornet, ne miseri mortales similiter ac eae, quas fabricantur, machinae, algidi, duri et amoris expertes exsistant (14).

11. Quibus perspectis atque cogitate perpensis rebus, certa Nostri muneris conscientia et auctoritate haec, quae sequuntur, statuimus atque praecipimus.

§ 1. Sacrorum Antistites et Ordinum Religiosorum Summi Magistri parem dent operam, ut vel in suis Seminariis vel in suis Scholis, in quibus adulescentes ad sacerdotium instituantur hac in re Apostolicae Sedis voluntati studiose obsequantur omnes, et hisce Nostris praescriptionibus diligentissime pareant.

§ 2. Paterna iidem sollicitudine caveant, ne qui e sua dicione, novarum rerum studiosi, contra linguam Latinam sive in altioribus sacris disciplinis tradendis sive in sacris habendis ritibus usurpandam scribant, neve praeiudicata opinione Apostolicae Sedis voluntatem hac in re extenuent vel perperam interpretentur.

§ 3. Quemadmodum sive Codicis Iuris Canonici (can. 1364) sive Decessorum Nostrorum praeceptis statuitur, sacrorum alumni, antequam studia proprie ecclesiastica inchoent, a peritissimis magistris apta via ac ratione congruoque temporis spatio lingua Latina accuratissime imbuantur, hanc etiam ob causam, ne deinde, cum ad maiores disciplinas accesserint... fiat ut prae sermonis inscitia plenam doctrinarum intellegentiam assequi non possint, nedum se exercere scholasticis illis disputationibus, quibus egregie iuvenum acuuntur ingenia ad defensionem veritatis (15). Quod ad eos quoque pertinere volumus,qui natu maiores ad sacra capessenda munia divinitus vocati, humanitatis studiis vel nullam vel nimis tenuem tradiderunt operam. Nemini enim faciendus est aditus ad philosophicas vel theologicas disciplinas tractandas, nisi plane perfecteque hac lingua eruditus sit, eiusque sit usu praeditus.

§ 4. Sicubi autem, ob assimulatam studiorum rationem in publicis civitatis scholis obtinentem, de linguae Latinae cultu aliquatenus detractum sit, cum germanae firmaeque doctrinae detrimento, ibi tralaticium huius linguae tradendae ordinem redintegrari omnino censemus; cum persuasum cuique esse debeat, hac etiam in re, sacrorum alumnorum institutionis rationem religiose esse tuendam, non tantum ad disciplinarum numerum et genera, sed etiam ad earum docendarum temporis spatia quod attinet. Quodsi, vel temporum vel locorum postulante cursu, ex necessitate aliae sint ad communes adiciendae disciplinae, tunc ea de causa aut studiorum porrigatur curriculum, aut disciplinae eaedem in breve cogantur, aut denique earum studium ad aliud reiciatur tempus.

§ 5. Maiores sacraeque disciplinae, quemadmodum est saepius praescriptum, tradendae sunt lingua Latina; quae ut plurium saeculorum usu cognitum habemus, aptissima existimatur ad difficillimas subtilissimasque rerum formas et notiones valde commode et perspicue explicandas (16); cum superquam quod propriis ea certisque vocabulis iampridem aucta sit, ad integritatem catholicae fidei tuendam accommodatis, etiam ad inanem loquacitatem recidendam sit non mediocriter habilis. Quocirca qui sive in maximis Athenaeis, sive in Seminariis has profitentur disciplinas, et Latine loqui tenentur, et libros, scholarum usui destinatos, lingua Latina scriptos adhibere. Qui si ad hisce Sanctae Sedis praescriptionibus parendum, prae linguae Latinae ignoratione, expediti ipsi non sint, in eorum locum doctores ad hoc idonei gradatim sufficiantur. Difficultates vero, si quae vel ab alumnis vel a professoribus afferantur, hinc Antistitum et Moderatorum constantia, hinc bono doctorum animo eae vincantur necesse est.

§ 6. Quoniam lingua Latina est lingua Ecclesiae viva, ad cotidie succrescentes sermonis necessitates comparanda, atque adeo novis iisque aptis et congruis ditanda vocabulis, ratione quidem aequabili, universali et cum veteris linguae Latinae ingenio consentanea - quam scilicet rationem et Sancti Patres et optimi scriptores, quos scholasticos vocant, secuti sunt - mandamus propterea S. Consilio Seminariis Studiorumque Universitatibus praeposito, ut Academicum Latinitatis Institutum condendum curet. Huic Instituto, in quo corpus Doctorum confletur oportet, linguis Latina et Graeca peritorum, ex variisque terrarum orbis partibus arcessitorum, illud praecipue erit propositum, ut - haud secus atque singularum civitatum Academiae, suae cuiusque nationis linguae provehendae constitutae - simul prospiciat congruenti linguae Latinae progressioni, lexico Latino, si opus sit, additis verbis cum eius indole et colore proprio convenientibus; simul scholas habeat de universa cuiusvis aetatis Latinitate, cum primis de christiana. In quibus scholis ad pleniorem linguae Latinae scientiam, ad eius usum, ad genus scribendi proprium et elegans ii informabuntur, qui vel ad linguam Latinam in Seminariis et Collegiis ecclesiasticis docendam, vel ad decreta et iudicia scribenda, vel ad epistolarum commercium exercendum in Consiliis Sanctae Sedis, in Curiis dioecesium, in Officiis Religiosorum Ordinum destinantur.

§ 7. Cum autem lingua Latina sit cum Graeca quam maxime coniuncta et suae conformatione naturae et scriptorum pondere antiquitus traditorum, ad eam idcirco, ut saepe numero Decessores Nostri praeceperunt, necesse est qui futuri sunt sacrorum administri iam ab inferioris et medii ordinis scholis instituantur; ut nempe, cum altioribus disciplinis operam dabunt, ac praesertim sit aut de Sacris Scripturis aut de sacra theologia academicos gradus appetent, sit ipsis facultas, non modo fontes Graecos philosophiae scholasticae, quam appellant, sed ipsos Sacrarum Scripturarum, Liturgiae, Ss. Patrum Graecorum primiformes codices adeundi probeque intellegendi(17).

§ 8. Eidem praeterea Sacro Consilio mandamus, ut linguae Latinae docendae rationem, ab omnibus diligentissime servandam, paret, quam qui sequantur eiusdem sermonis iustam cognitionem et usum capiant. Huismodi rationem, si res postulaverit, poterunt quidem Ordinariorum coetus aliter digerere, sed eius numquam immutare vel minuere naturam. Verumtamen iidem Ordinarii consilia sua, nisi fuerint a Sacra Congregatione cognita et probata, ne sibi sumant efficere.

12. Extremum quae hac Nostra Constitutione statuimus, decrevimus, ediximus, mandavimus, rata ea omnia et firma consistere et permanere auctoritate Nostra Apostolica volumus et iubemus, contrariis quibuslibet non obstantibus, etiam peculiari mentione dignis.

Datum Romae, apud Sanctum Petrum, die XXII mensis Februarii, Cathedrae S. Petri Ap. sacro, anno MDCCCCLXII, Pontificatus Nostri quarto.

IOANNES PP. XXIII

 


(1) Tertull., Apol. 21; Migne, PL 1, 394.

(2) Eph. 1, 10.

- Textus editus in AAS 54(1962) 129-35; et in L'Oss. Rom. 24 Febbr. 1962, p. 1-2.

(3) Epist. S. Congr. Stud. Vehementer sane, ad Ep. universos, 1 Iul. 1908: Ench. Cler., N. 820. Cfr etiam Epist. Ap. Pii XI, Unigenitus Dei Filius, 19 Mar. 1924: A.A.S. 16 (1924), 141.

(4) Pius XI, Epist. Ap. Offιciorum omnium, 1 Aug. 1922: A.A.S. 14 (1922), 452-453.

(5) Pius XI, Motu Proprio Litterarum latinarum, 20 Oct. 1924: A.A.S. 16 (1924), 417.

(6) Pius XI, Epist. Ap. Offιciorum omnium, 1 Aug. 1922: A.A.S. 14 (1922) 452.

(7) Ibidem.

(8) S. Iren., Adv. Haer. 3, 3, 2; Migne, PG 7, 848.

(9) Cfr C. I. C., can. 218, § 2.

(10) Cfr Pius XI, Epist. Ap. Offιciorum omnium, 1 Aug. 1922: A.A.S. 14 (1922), 453.

(11) Pius XII, Alloc. Magis quam, 23 Nov. 1951: A.A.S. 43 (1951) 737.

(12) LEO XIII, Epist. Encycl. Depuis le jour, 8 Sept. 1899: Acta Leonis XIII 19 (1899) 166.

(13) Cfr Collectio Lacensis, praesertim: vol. III, 1918s. (Conc. Prov. Westmonasteriense, a. 1859); vol. IV, 29 (Conc. Prov. Parisiense, a. 1849); vol. IV, 149, 153 (Conc. Prov. Rhemense, a. 1849); vol. IV, 359, 361 (Conc. Prov. Avenionense, a. 1849); vol. IV, 394, 396 (Conc. Prov. Burdigalense, a. 1850); vol. V, 61 (Conc. Strigoniense, a. 1858); vol. V, 664 (Conc. Prov. Colocense, a. 1863) ; vol. VI, 619 (Synod. Vicariatus Suchnensis, a. 1803).

(14) Ad Conventum internat. « Ciceronianis Studiis provehendis », 7 Sept. 1959; in Discorsi Messaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, I, pp. 234-235; cfr etiam Alloc. ad cives dioecesis Placentinae Romam peregrinantes habita, 15 Apr. 1959: L'Osservatore Romano, 16 apr. 1959; Epist. Pater misericordiarum, 22 Aug. 1961: A.A.S. 53 (1961), 677; Alloc. in sollemni auspicatione Collegii Insularum Philippinarum de Urbe habita, 7 Oct. 1961: L'Osservatore Romano, 9-10 Oct. 1961 Epist. Iucunda laudatio, 8 Dec. 1961: A.A.S. 53 (1961), 812.

(15) Pius XI, Epist. Ap. Offιciorum omnium, 1 Aug. 1922: A.A.S. 14 (1922), 453.

(16) Epist. S. C. Studiorum, Vehementer sane, 1 Iul. 1908: Ench. Cler., n. 821.

(17) Leo XII, Litt. Encycl. Providentissimus Deus, 18 Nov. 1893: Acta Leonis XIII, 13 (1893), 342; Epist. Plane quidem intelligis, 20 Maii 1885, Acta, 5, 63-64; Pius XII, Alloc. Magis quam, 23 Sept. 1951: A.A.S. 43 (1951), 737.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740733]un grazie al sito UnaVox per la traduzione, assente nel sito ufficiale.....

COSTITUZIONE APOSTOLICA 
VETERUM SAPIENTIA

del Papa Giovanni XXIII

(SULLO STUDIO E L'USO DEL LATINO)

L'antica sapienza, racchiusa nelle opere letterarie romane e greche, e parimenti i piú illustri insegnamenti dei popoli antichi devono essere ritenuti quasi aurora annunziatrice del Vangelo, che il Figlio di Dio, «arbitro e maestro della grazia e della scienza, luce e guida del genere umano» (1) ha annunciato su questa terra. 
Infatti i Padri e Dottori della Chiesa riconobbero in questi antichissimi e importantissimi monumenti letterari una certa preparazione degli animi a ricevere la celeste ricchezza, che Gesú Cristo «nel verificarsi della pienezza dei tempi» (2), comunicò ai mortali; da ciò appare chiaramente che, con l'avvento del Cristianesimo, non è andato perduto quanto di vero, di giusto, di nobile e anche di bello i secoli trascorsi avevano prodotto. 

Per la qual cosa la Santa Chiesa ebbe sempre in grande onore i documenti di quella sapienza e prima di tutto le lingue Latina e Greca, quasi veste aurea della stessa sapienza; accettò anche l'uso di altre venerabili lingue, che fiorirono nelle regioni orientali, che non poco contribuirono al progresso del genere umano e alla civiltà; le stesse, usate nelle cerimonie religiose o nell'interpretazione delle Sacre Scritture, hanno vigore anche oggi in alcune regioni, quasi non mai interrotte voci di un uso antico ancora vigoroso. 
Nella varietà di queste lingue certamente si distingue quella che, nata nel Lazio, in seguito giovò mirabilmente alla diffusione del Cristianesimo nelle regioni occidentali. Giacché, non senza disposizione della Divina Provvidenza accadde che la lingua, la quale per moltissimi secoli aveva unito tante genti sotto l'Impero Romano, diventasse propria della Sede Apostolica (3) e, custodita per la posterità, congiungesse in uno stretto vincolo, gli uni con gli altri, i popoli cristiani dell'Europa. 

Infatti, di sua propria natura la lingua latina è atta a promuovere presso qualsiasi popolo ogni forma di cultura; poiché non suscita gelosie, si presenta imparziale per tutte le genti, non è privilegio di nessuno, infine è a tutti accetta ed amica. Né bisogna dimenticare che la lingua latina ha nobiltà di struttura e di lessico, dato che offre la possibilità di «uno stile conciso, ricco, armonioso, pieno di maestà e di dignità» (4)che singolarmente giova alla chiarezza ed alla gravità. 

Per questi motivi la Santa Sede ha gelosamente vegliato sulla conservazione e il progresso della lingua latina e la ritenne degna di usarla essa stessa, «come magnifica veste della dottrina celeste e delle santissime leggi» (5)nell'esercizio del suo magistero, e volle che l'usassero anche i suoi ministri. Infatti questi uomini della Chiesa, ovunque si trovino, usando la lingua di Roma, possono piú rapidamente venire a sapere quanto riguarda la Santa Sede ed avere con questa e fra loro piú agevole comunicazione. 
«La piena conoscenza e l'uso di questa lingua, cosí legata alla vita della Chiesa, non interessa tanto la cultura e le lettere quanto la Religione» (6)come il nostro Predecessore di immortale memoria Pio XI ebbe ad ammonire; egli, essendosi occupato scientificamente dell'argomento, additò chiaramente tre doti di questa lingua, in modo mirabile conformi alla natura della Chiesa: «Infatti la Chiesa, poiché tiene unite nel suo amplesso tutte le genti e durerà fino alla consumazione dei secoli… richiede per sua natura un linguaggio universale, immutabile, non volgare» (7)

Poiché è necessario, invero, che «ogni Chiesa si unisca nella Chiesa Romana» (8) e, dal momento che i Sommi Pontefici hanno «autorità episcopale, ordinaria e immediata su tutte le Chiese e su ogni Chiesa in particolare, su tutti i pastori e su ogni pastore e sui fedeli» (9) di qualunque rito, di qualunque nazione, di qualunque lingua essi siano, sembra del tutto conseguente che il mezzo di comunicazione sia universale ed uguale per tutti, particolarmente tra la Sede Apostolica e le Chiese che seguono lo stesso rito latino. Pertanto, sia i Pontefici Romani, quando vogliono impartire qualche insegnamento alle genti cattoliche, sia i Dicasteri della Curia Romana, quando trattano di affari, quando stendono dei decreti, che riguardano tutti i fedeli, sempre usano la lingua latina, che è accolta da innumerevoli genti, quasi voce della madre comune. 
Ed è necessario che la Chiesa usi una lingua non solo universale, ma anche immutabile.


Se, infatti, le verità della Chiesa Cattolica fossero affidate ad alcune o a molte delle lingue moderne che sono sottomesse a continuo mutamento, e delle quali nessuna ha sulle altre maggior autorità e prestigio, ne deriverebbe senza dubbio che, a causa della loro varietà, non sarebbe a molti manifesto con sufficiente precisione e chiarezza il senso di tali verità, né, d'altra parte si disporrebbe di alcuna lingua comune e stabile, con cui confrontare il significato delle altre. Invece, la lingua latina, già da tempo immune da quelle variazioni che l'uso quotidiano del popolo suole introdurre nei vocaboli, deve essere considerata stabile ed immobile, dato che il significato di alcune nuove parole che il progresso, l'interpretazione e la difesa delle verità cristiane richiesero, già da tempo è stato definitivamente acquisito e precisato. 

Infine, poiché la Chiesa Cattolica, perché fondata da Cristo Nostro Signore, eccelle di gran lunga in dignità su tutte le società umane, è sommamente conveniente che essa usi una lingua non popolare, ma ricca di maestà e di nobiltà. 
Inoltre, la lingua latina, che «a buon diritto possiamo dire cattolica» (10)poiché è propria della Sede Apostolica, madre e maestra di tutte le Chiese, e consacrata dall'uso perenne, deve essere ritenuta «tesoro di incomparabile valore» (11) e quasi porta attraverso la quale si apre a tutti l'accesso alle stesse verità cristiane, tramandate dagli antichi tempi, per interpretare le testimonianze della dottrina della Chiesa (12) e, infine, vincolo quanto mai idoneo, mediante il quale l'epoca attuale della Chiesa si mantiene unita con le età passate e con quelle future in modo mirabile. 
Invero, nessuno può dubitare che la lingua latina e la cultura umanistica siano fornite di quella forza che è ritenuta quanto mai adatta a istruire e a formare le tenere menti dei giovani. Per suo mezzo, infatti,  si educano, maturano, si perfezionano le migliori facoltà dello spirito; la finezza della mente e la capacità di giudizio si acuiscono; inoltre, l'intelligenza del fanciullo viene piú convenientemente formata a comprendere e a giudicare nel giusto senso ogni cosa; infine, si impara a pensare e a parlare con sommo ordine. 
Se si riflette su tutti questi meriti, si comprende perché i Pontefici Romani cosí frequentemente hanno sommamente lodato non solo l'importanza e l'eccellenza della lingua latina, ma ne hanno prescritto lo studio e la pratica ai sacri ministri dell'uno e dell'altro clero, senza omettere di denunciare i pericoli derivanti dal suo abbandono. 

Spinti anche Noi da questi gravissimi motivi, come i nostri Predecessori e i Sinodi Provinciali (13)con ferma volontà intendiamo adoperarci perché lo studio e l'uso di questa lingua, restituita alla sua dignità, faccia sempre maggiori progressi. Poiché in questo nostro tempo si è cominciato a contestare in molti luoghi l'uso della lingua Romana e moltissimi chiedono il parere della Sede Apostolica su tale argomento, abbiamo deciso, con opportune norme, enunciate in questo documento, di fare in modo che l'antica e mai interrotta consuetudine della lingua latina sia conservata e, se in qualche caso sia andata in disuso, sia completamente ripristinata. 

Del resto, quale sia il nostro pensiero su tale argomento, crediamo di averlo abbastanza chiaramente dichiarato quando rivolgemmo queste parole ad illustri studiosi del Latino: «Purtroppo vi sono parecchi che, esageratamente sedotti dallo straordinario progresso delle scienze hanno la presunzione di respingere o limitare lo studio del Latino e di altre discipline di tal genere… Precisamente mossi da questa necessità, Noi riteniamo che si debba intraprendere il cammino opposto. Poiché l'animo si nutre e compenetra di tutto ciò che maggiormente onora la natura e la dignità dell'uomo, con maggiore ardore si deve acquisire ciò che arricchisce ed abbellisce lo spirito, affinché i miseri mortali non siano freddi, aridi e privi di amore, come le macchine che fabbricano» (14)

Dopo aver esaminato queste cose e dopo averle valutate attentamente, con sicura coscienza del Nostro ufficio e nell'esercizio della Nostra autorità, stabiliamo e ordiniamo quanto segue: 

1. Sia i Vescovi che i Superiori Generali degli Ordini religiosi si adoperino efficacemente perché nei loro Seminari e nelle loro Scuole, nelle quali i giovani vengono preparati al sacerdozio, tutti si conformino con impegno alla volontà della Sede Apostolica e obbediscano con la maggiore diligenza a queste Nostre prescrizioni. 

2. I medesimi Vescovi e Superiori Generali degli Ordini religiosi, mossi da paterna sollecitudine, vigileranno affinché nessuno dei loro soggetti, smanioso di novità, scriva contro l'uso della lingua latina nell'insegnamento delle sacre discipline e nei sacri riti della Liturgia e, con opinioni preconcette, si permetta di estenuare la volontà della Sede Apostolica in materia e di interpretarla erroneamente.
 
3. Come è stabilito nelle disposizioni sia del Codice di Diritto Canonico sia dei Nostri Predecessori, gli aspiranti al Sacerdozio, prima di intraprendere gli studi ecclesiastici veri e propri, siano istruiti nella lingua latina con somma cura e con metodo razionale da maestri assai esperti, per un conveniente periodo di tempo, «anche per il motivo che, in seguito, avvicinatisi a discipline di maggior impegno… non accada che, ignorando la lingua, non possano giungere alla completa comprensione delle dottrine e nemmeno esercitarsi nelle dispute scolastiche, per mezzo delle quali le menti dei giovani si affinano alla difesa della verità» (15)E vogliamo che questa norma sia estesa anche a coloro che, chiamati per volontà divina a ricevere i sacri ordini in età avanzata, si applicarono poco o nulla agli studi umanistici. Nessuno, invero, deve essere introdotto allo studio delle discipline filosofiche o teologiche se non sia stato pienamente e perfettamente istruito in questa lingua e sappia bene usarla. 

4. Se in qualche paese, poi, per aver adottato un programma di studio proprio delle scuole pubbliche dello Stato, lo studio della lingua latina abbia subito delle diminuzioni, con danno di un insegnamento solido ed efficace, decretiamo che in tal caso sia completamente ripristinato l'ordine tradizionale dell'insegnamento di tale lingua per la formazione dei sacerdoti: poiché tutti devono persuadersi che, anche in questo campo, il metodo di istruzione dei futuri sacerdoti deve essere difeso scrupolosamente, non solo circa il numero ed i generi delle materie, ma anche relativamente ai periodi di tempo necessari per insegnarle. E se, qualora lo richiedano circostanze di tempo e di luogo, si debbano per necessità aggiungere delle discipline a quelle comuni, in tal caso o si prolunghi il corso degli studi o se ne compendi la trattazione, o, infine, se ne rinvii lo studio ad altro momento. 

5. Le piú importanti discipline sacre, come è stato assai spesso ordinato, devono essere insegnate in lingua latina, la quale, come lo dimostra l'esperienza di parecchi secoli, «è stimata la piú adatta a spiegare l'intima e profonda natura delle nozioni e delle forme con assoluta chiarezza e lucidità» (16)tanto piú che essa si è venuta arricchendo di vocaboli appropriati e precisi, adatti a difendere l'integrità della fede cattolica, e non poco adatta recidere ogni vuota verbosità. Per la qual cosa, coloro che nelle Università o nei Seminari insegnano tali discipline sono obbligati e a parlare in latino e ad usare testi scritti in latino. Se alcuni, ignorando la lingua latina, non sono nella possibilità di obbedire a queste prescrizioni della S. Sede, siano gradatamente sostituiti da docenti a ciò preparati. Se poi alunni e professori addurranno delle difficoltà, è necessario che queste siano vinte dalla fermezza dei Vescovi e dei Superiori religiosi e dalla buona disposizione dei docenti.
 
6. Poiché la lingua latina è lingua viva della Chiesa, che dev'essere continuamente adattata alle crescenti necessità del linguaggio e arricchita con nuovi e appropriati e convenienti vocaboli, secondo una regola costante, universale e conforme allo spirito dell'antica lingua latina - regola che già seguirono i Santi Padri e i migliori scrittori «scolastici» - affidiamo l'incarico alla Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi di fondare un'Accademia di Studi Latini. A tale Accademia, nella quale occorre sia costituito un Collegio di Professori espertissimi in Latino e in Greco, chiamati dalle diverse parti del mondo, sarà soprattutto ordinato che, non diversamente da quanto accade per le Accademie nazionali costituite per l'incremento della lingua nazionale dei rispettivi paesi, provveda contemporaneamente ad un ordinato sviluppo dello studio della lingua latina e ad accrescere, se necessario, il lessico con parole adatte alla sua natura ed al suo carattere, e tenga, nello stesso tempo dei corsi sul latino di ogni epoca, ma soprattutto di quella Cristiana. In queste scuole saranno altresí istruiti ad una piú profonda conoscenza del latino, al suo uso, ad un modo di scrivere appropriato ed elegante quanti sono destinati o ad insegnarlo nei Seminari e nei Collegi ecclesiastici, o a scrivere decreti e sentenze, o a curare la corrispondenza nelle Congregazioni della Santa Sede, nelle Curie, nelle Diocesi, negli uffici degli Ordini religiosi.
 
7. Poiché la lingua latina è strettamente connessa con quella greca, e per l'insieme della sua struttura e per l'importanza dei testi tramandati, è necessario che anche in questa siano istruiti, come molte volte i Nostri Predecessori hanno ordinato,  i futuri ministri dell'arte fin dalle scuole inferiori e medie, affinché, quando si applicheranno alle discipline superiori e soprattutto se raggiungeranno i corsi accademici sulle Sacre Scritture e sulla Sacra Teologia, essi abbiano la possibilità di accostarsi e interpretare giustamente non solo le fonti greche della filosofia «scolastica», ma anche i testi originali delle Sacre Scritture, della Liturgia e dei Padri greci.
 
8. Alla medesima Sacra Congregazione ordiniamo di predisporre un ordinamento degli studi sulla lingua latina, che tutti dovranno applicare con estrema diligenza, in modo che, quanti lo seguiranno, acquistino appropriata conoscenza e pratica della lingua stessa. Se il caso lo richiederà, le Commissioni degli Ordinari potranno regolare diversamente il programma, ma giammai mutarne o diminuirne la natura e il fine. Nondimeno, gli stessi Vescovi non si permettano di attuare le loro decisioni, se prima la Sacra Congregazione non le avrà esaminate ed approvate. 
Infine, in virtú della Nostra Apostolica Autorità vogliamo ed ordiniamo che quanto abbiamo stabilito, decretato, ordinato ed ingiunto con questa Nostra Costituzione resti definitivamente fermo e sancito non ostante qualsiasi prescrizione in contrario, pur degna di speciale menzione. 


Dato in Roma, presso San Pietro, il giorno 22 febbraio, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo, nell'anno 1962, quarto del Nostro Pontificato. Ioannes PP. XXIII 
 

NOTE

1 - TERTULL., Apol., 21: Migne, P. L., 1, 394. (torna su)
2 - S. PAOLO, Epist. agli Efesini, 1, 10. (torna su)
3 - Epist. S. Congr. Stud. Vehementer sane ad Ep. universos, 1-7-1908: Enchirid. Cler. n° 830. Cfr. anche Epist. Ap. 
            Pio XI Unigenitus Dei Filius, 19-3-1924: A.A.S. 16 (1924), 141. (torna su)
4 - Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 452-453. (torna su)
5 - Pio XI, Motu Proprio Litterarum Latinarum, 20-10-24: A.A.S. (torna su)
6 - Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 452. (torna su)
7 - Ibidem. (torna su)
8 - S. IRENEo, Adv. Hær, 3, 3, 2: Migne, P. G., 7, 848. (torna su)
9 - Cfr. C.I.C., can. 218, par. 2. (torna su)
10 - Cfr. Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 453. (torna su)
11 - Pio XII, Alloc. Magis quam, 23-11-1951: A.A.S. 43 (1951), 737. (torna su)
12 - Leone XIII, Epist. Encicl. Depuis le Jour, 8-9-1899: Acta Leonis XIII 19 (1899), 166. (torna su)
13 - Cfr. Collectio Lacensis, soprattutto vol. III, 1018 s. (Conc. Prov. Wesmonasteriense, a. 1859); vol. IV, 29 (Conc. 
              Prov. Parisiense, a. 1849); vol. IV, 149, 153 (Conc. Prov. Rhemense, a. 1849); vol. IV, 359, 361 (Conc. Prov. 
              Amenionense, a. 1849); vol. IV, 394, 396 (Conc. Prov. Burdigalense, a. 1850); vol. V, 61 (Conc. Prov. 
              Strigoniense, a. 1858); vol. V, 664 (Conc. Prov. Colocense, a. 1863); vol. VI, 619 (Synod. Vicariatus 
              Sutchenensis, a. 1803). (torna su)
14 - Al Congresso Internazionale Ciceronianis Studiis provehendis, 7-9-1959: in Discorsi, Messaggi, Colloqui del S. 
              Padre Giovanni XXIII, I, pp. 334-335; cfr. anche Alloc. ad cives diocesis Placentinæ Roman peregrinantes habita
              15-4-1959: su L'Osservatore Romano, 16-4-1959; Epist. Pater misericordiarum, 22-8-1961: A.A.S. 53 (1961); 
              Alloc. in solemni auspicatione Insularum Philippinarum de Urbe Habita, 7-10-1961: su L'Osservatore Romano
              9-10 ottobre 1961; Epist. Iucunda laudatio, 8-12-1961: A.A.S. 53 (1961), 812. (torna su)
15 - Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 453. (torna su)
16 - Epist. S. Congr. Stud. Vehementer sane ad Ep. universos, 1-7-1908: Enchirid. Cler. n° 821. (torna su)



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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Veterum Sapientia

by unavoceitalia  23 febbraio 2012


La Costituzione apostolica “Veterum sapientia” sullo studio e l’uso del latino, emanata dal beato Giovanni XXIII, ha cinquant’anni. Nel X anniversario il bollettino nazionale di Una Voce Italia pubblicava una nota al proposito, che nella sostanza è ancora oggi attuale. È finita l’autodemolizione? c’è già una ricostruzione, e che cosa si ricostruisce? Sono questioni aperte. ”Veterum sapientia” ha un momento duplice, da un lato le idee sul latino come lingua della Chiesa, dall’altro le disposizioni di diritto riguardanti soprattutto gli studi ecclesiastici e i seminari diocesani. Quello che appare certo è che l’inosservanza non è finita: la costituzione continua a essere disapplicata. Ma si potrà fare studiare il latino ai preti come e più di prima se non lo usano più per la messa e l’ufficio? Cominciare ad applicare questa legge non osservata presuppone la restaurazione del latino nella liturgia.


X Anniversario della Costituzione Apostolica “Veterum Sapientia”


Lo scorso 22 Febbraio si è compiuto il X Anniversario della promulgazione della “Veterum Sapientia”, la Costituzione Apostolica di Papa Giovanni XXIII concernente lo studio e l’incremento della Lingua Latina nella Chiesa. Tutti ricordano la solennità con la quale il Pontefice volle fosse nota la sua volontà di Legislatore nell’atto di apporre la sua autentica all’eccezionale documento. Al rito presenziavano, nel Massimo Tempio della Cristianità, il Sacro Collegio dei Padri Cardinali, la Curia Romana coi suoi vari Dicasteri, la Commissione Centrale preparatoria del Concilio Vaticano II, le Autorità Accademiche delle Università e Atenei Ecclesiastici con gli alunni dei Collegi e Seminari dell’Urbe, con grande moltitudine di fedeli “ex omni lingua et natione “. Il giorno prescelto della Cattedra del Principe degli Apostoli, la firma all’Altare della Confessione, la consegna del documento per l’esecuzione al Cardinale Prefetto della S. Congregazione per gli Studi mentre la Cappella Giulia intonava il canto del “Tu es Petrus”, parve al mondo un quadro degno ad esprimere la rinnovata volontà del Pontificato Romano di restituire alla lingua del suo Culto, del suo Magistero, delle sue Leggi tutto il vigore che le conviene per l’esercizio del Primato.


Le parole con cui lo stesso Pontefice sottolinea il suo atto meditato – “En igitur Vobis nova Apostolica Constitutio ‘Veterum Sapientia’, latinae linguae studio et usui consecrata. Aestimationis honorisque causa ei subscribere voluimus in hoc solemni conventu, qui impendens praenuntiat Concilium” – bastano da sole a smentire la leggenda messa in giro dai nemici del Latino, che il “buon Papa Giovanni” sia stato costretto a quell’atto e a quel gesto. In realtà Giovanni XXIII amava e venerava la lingua Latina, il cui studio e uso non solo raccomandò in altri documenti, i cui meriti, utilità e necessità difese non soltanto parlando a gruppi qualificati di ascoltatori, ma pure improvvisando “ex abundantia cordis” in Udienze a semplici fedeli. Si può dunque essere certi che egli non avrebbe mai tollerato gli eccessi della rivoluzione attuale.


Qualcuno potrebbe dire, oggi, a dieci anni di distanza, che i nobilissimi intenti di Giovanni XXIII in favore del Latino sono stati frustrati proprio da quel Concilio Vaticano II al quale Egli offriva come “fausta primizia” la Costituzione Apostolica “de latinitatis studio provehendo”. E la riflessione può essere giusta se si considerano i frutti del postconcilio. Non si può negare tuttavia un fatto di grande importanza per il valore e l’efficacia futura del documento, quando cioè, superato il folle periodo dell’ “autodemolizione” post-conciliare, esso si presenterà alla rinnovata coscienza dei cattolici come opera esclusiva del Primato. È risaputo infatti che Giovanni XXIII, nonostante che il Concilio fosse alle porte, ha voluto legiferare da solo sulla lingua ufficiale della Chiesa; ed è parimenti noto che egli – istinto o preveggenza? – ordinò il ritiro di uno schema conciliare sul Latino giudicando l’argomento definitivamente concluso dalla “Veterum Sapientia”. Con ciò non soltanto veniva evitato il certo pericolo che nell’Aula conciliare il solenne documento venisse giudicato e stemperato nei suoi principii costitutivi e nelle sue norme, ma anche la stessa ipoteca di equivoco e compromesso che grava su non pochi atti conciliari, che tanto danno sta provocando. La Storia della Chiesa insegna che “in necessariis” vale molto meglio una posizione netta e precisa, anche se esposta per l’iniquità dei tempi all’inosservanza, che il venire a patti e il compromesso. Così, per esempio, del celibato ecclesiastico durante la Riforma Gregoriana, così ancora, fortunatamente, ai giorni nostri. Verrà anche l’ora della restaurazione del Latino come dei valori cui esso serve e ai quali è strettamente congiunto: il Primato romano, l’universalità e l’unità del Rito, la religiosa osservanza della tradizione dogmatica e disciplinare, l’obbedienza alla Legge.


da «Una Voce Notiziario», 8 (1972), 8-9.

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Il latino vincolo di unità fra popoli e culture


di Uwe Michael Lang

L'unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo. Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto. 

La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio la Prima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino. 

Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana. 

Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell'incertezza sulla data, sull'origine e sul vero autore. 

Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario Vittorino, risalente al 360. 

Intorno a quell'epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos - un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa.

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l'uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana. Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano.

La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi. 

In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo liturgico.

Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con l'eccezione di poche reminiscenze dell'uso più antico, come il Kyrie eleison nell'Ordo e le letture in greco nella messa papale.

Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima dell'editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura. 

I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito. Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo. 
Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, "testi di preghiera", dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi "destinati a essere letti, l'Epistola e il Vangelo", e, terzo, "testi confessionali", come il credo. Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione. 
Recenti ricerche su lingua e rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo. 

La "sociolinguistica" - una disciplina accademica relativamente nuova - ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un'altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali.

Gli storici dell'antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana.

Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue elites. 

Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i "classici" della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questa Latinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente. Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni. 

In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l'appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese. 
Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. Un altro aspetto importante fu l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocaliano dell'anno 354). La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo omnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica. 
Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana. Questa non fu un'adozione della lingua "vernacola" nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall'idioma della gente comune. Essa era una lingua fortemente stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi. Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punico. 

È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiope.

Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l'unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica.

Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. 

"La prima opposizione al latino liturgico - ha scritto Christine Mohrmann - coincise con la fine del latino medievale come "seconda lingua viva", che fu rimpiazzato da una lingua veramente "morta", il latino degli umanisti. E l'opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l'indebolimento dello studio del latino - e con la tendenza al "secolarismo"" ("The Ever-Recurring Problem of Language in the Church", in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977). 

Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2).

Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo.

La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes.

In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001.

(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2007)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Padre De Pauw: perché "la Messa in latino"?

Dopo un primo articolo, alimentiamo il dibattito e proseguiamo la nostra riflessione su mons. Gommar DePauw (1918-2005), difensore della liturgia tradizionale e fondatore del Catholic Traditionalist Movement fin dal 1964-65 (quando ancora non era terminato il Concilio Vaticano II), presentando qui sotto un suo intervento del 1977.

Foto: don DePauw celebra la sua Prima Messa il 14 aprile 1942

PERCHÉ LA MESSA IN LATINO?

L'ovvia domanda che nasce quando si sente parlare o si assiste alla nostra Messa per la prima volta è: PERCHÉ LA VECCHIA MESSA IN LATINO? In realtà è una triplice domanda che richiede tre risposte.

1. Perché la Messa?

L'unica ragion d'essere della Chiesa, il motivo delle sue attività, è la salvezza eterna di tutti gli uomini, creati per la felicità eterna in Paradiso. Quella salvezza eterna è diventata accessibile a tutti dal giorno in cui Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, si è immolato sulla Croce sul Calvario. È attraverso il sacrificio della Messa che le grazie e i meriti di quella Croce possono raggiungere noi a distanza di diciannove secoli di tempo e spazio da quel Venerdì Santo. Il sacrificio della Messa, la RINNOVAZIONE INCRUENTA DEL SACRIFICIO DELLA CROCE, è perciò non solo il punto centrale della preghiera cattolica, ma, ancor più importante, è il vero cuore della Chiesa senza il quale la Chiesa non può sopravvivere. La situazione attuale nella Chiesa dimostra quanto tragicamente avesse ragione il cardinal Newman quando scriveva: "Tolle Missam, tolle Ecclesiam!" distruggete la Messa, e distruggerete la Chiesa!

2. Perché la Messa IN LATINO?

In cima alla Croce sulla quale Nostro Signore si è immolato, la causa della sua morte - "Gesù di Nazareth, re dei giudei" - era scritta in ebraico, greco e latino. A conferma di questo fatto storico, la Messa della Chiesa Cattolica, anche conservando sempre certe espressioni greche ed ebraiche, è stata portata fin dal primo secolo verso il latino, lingua dell'antica Roma, la sede di san Pietro e dei Papi che gli si sono succeduti. Preservare il latino nel culto pubblico della Chiesa significa preservare la connessione tra la Chiesa di oggi e la Chiesa del passato.

Perciò, pur essendo così un segno di CONTINUITÀ storica, la lingua latina è anche un segno di UNIVERSALITÀ. Nessuno insistette su questo punto più fortemente di papa Giovanni XXIII, il Papa più mistificato e disobbedito dei tempi moderni, che fece sue le parole di Pio XI: "Una Chiesa universale deve avere una lingua universale". Così come tra cattolici ci si aspetta un credo comune in tutto il mondo, per lo stesso motivo i cattolici hanno il diritto di trovarsi "a casa" in ognuna delle loro chiese sparse per il mondo. Questo hanno sempre fatto e fanno quando vengono correttamente educati ad usare i messali "bilingui" contenenti da un lato la traduzione nella propria lingua e dall'altro lato quelle familiarissime sonorità in latino che li hanno accompagnati fin dalla fanciullezza come se fossero una seconda lingua madre, quella della loro Madre Chiesa.

3. Perché la Messa TRADIZIONALE in latino?

La Messa che è stata ininterrottamente tenuta viva dal Catholic Traditionalist Movement fondato nel 1964, è veramente "tradizionale" nel senso che risale a diciannove secoli di storia precedente. Riferirsi a questa Messa come la "Messa Tridentina" o "Messa di san Pio V" è storicamente errato e tatticamente poco saggio. Tutto ciò che fecero papa Pio V e il Concilio di Trento fu solo di eliminare dalla Messa dei loro giorni alcune preghiere lunghe e pesanti di recente introduzione, restaurando la Messa Cattolica nella sua PUREZZA ORIGINALE e nella sua semplicità.

Il fatto che Pio V, in una di quelle storicamente rare occasioni in cui un Papa utilizza la sua suprema autorità per emanare un decreto "IN PERPETUO", rese intoccabile l'antica Messa restaurata ("indulto perpetuo"), gli guadagnò non solo la sua successiva canonizzazione come santo, ma anche l'immensa gratitudine di tutti i cattolici romani oggi che sulla scorta del suo decreto Quo Primum sono giustificati davanti a Dio e davanti agli uomini nel dire "No!" a chiunque tenti di rimpiazzare l'Ordo Missae di tutti i secoli passati e futuri col "Nuovo Ordine" di un oggi vacillante e destinato a morire.

Westbury, New York
19 luglio 1977
407esimo anniversario della bolla "Quo Primum"

padre Gommar A. De Pauw, J.C.D.,
ex Decano accademico del Seminario Maggiore
professore di Teologia e Diritto Canonico
Fondatore-Presidente del Catholic Traditionalist Movement, Inc.

[SM=g1740771]

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IL CONCILIO VATICANO II STABILIVA CHE LA LINGUA LATINA FOSSE CONSERVATA NELLA LITURGIA PER CUI ANCHE OGGI RESTA QUELLA CHE LA CHIESA PREFERISCE


BastaBugie n.236 del 16 marzo 2012


Benedetto XVI ribadisce che i seminaristi siano preparati a celebrare la santa Messa in latino e inoltre i semplici fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia



dall' Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Papa


Il latino è senza dubbio la lingua più longeva della liturgia romana: la si utilizza infatti da più di sedici secoli, ossia da quando si perfezionò a Roma, sotto Papa Damaso († 384) il passaggio ad essa dal greco. I libri liturgici ufficiali del Rito Romano vengono pertanto a tutt'oggi pubblicati in latino (editio typica).


Il Codice di Diritto Canonico, al can. 928, stabilisce: «La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua latina o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati». Questo canone traduce in modo sintetico, e tenendo presente l'attuale situazione, l'insegnamento della Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II.


Al celebre n. 36, la Sacrosanctum Concilium stabilisce come principio: «L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini» (§ 1).


In questo senso, il Codice afferma innanzitutto: «La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua latina».


Nei successivi commi, la Sacrosanctum Concilium ammette la possibilità di utilizzare anche le lingue nazionali: «Dato però che, sia nella Messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti» (§ 2)


«In base a queste norme, spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all'art. 22-2 (consultati anche, se è il caso, i vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua) decidere circa l'ammissione e l'estensione della lingua nazionale. Tali decisioni devono essere approvate ossia confermate dalla Sede Apostolica» (§ 3).


«La traduzione del testo latino in lingua nazionale da usarsi nella liturgia deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra» (§ 4).


In base a questi successivi commi, il Codice aggiunge: «... o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati».


Come si vede, anche nelle attuali disposizioni normative, la lingua latina resta ancora al primo posto, come quella che la Chiesa preferisce in linea di principio, pur riconoscendo che la lingua nazionale può risultare utile per i fedeli. Nell'attuale situazione concreta, la celebrazione in latino è diventata piuttosto rara. Motivo in più perché nella liturgia pontificia (ma non solo in essa) il latino sia custodito come preziosa eredità della tradizione liturgica d'Occidente. Non a caso, il servo di Dio Giovanni Paolo II ha ricordato che:


«La Chiesa romana ha particolari obblighi verso il latino, la splendida lingua dell'antica Roma e deve manifestarli ogniqualvolta se ne presenti l'occasione» (Dominicae cenae, n. 10).


In continuità con il Magistero del suo Predecessore, Benedetto XVI, oltre ad auspicare un maggior utilizzo della lingua tradizionale nella celebrazione liturgica, in particolare in occasione di celebrazioni che avvengono durante incontri internazionali, ha scritto:


«Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché ad utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia» (Sacramentum Caritatis, n. 62).


Nota di BastaBugie: da non perdere il video con la conferenza del prof. Roberto De Mattei al Convegno dei Francescani dell'Immacolata "Il Vaticano II, un Concilio pastorale". Clicca qui:
http://www.youtube.com/watch?v=OgyhzlZLz0A


[SM=g1740733]


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23/05/2012 15:53
 
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I Salesiani ammettono : “…liturgia che, celebrata in lingua latina, attrae un numero crescente di fedeli, soprattutto giovani”.

UN ARTICOLO IN CUI IL BOLLETTINO SALESIANO AMMETTE CHE IL LATINO A MESSA ATTIRA I GIOVANI 
 Fonte: Il Bollettino Salesiano -( Aprile 2012) 

«Lingua morta» a chi? 
Don Roberto Spataro, sdb, insegna Letteratura Cristiana antica ed è il segretario della Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana, denominata anche Pontificium Institutum Altioris Latinitatis. 
 50 anni fa Il 22 febbraio 1962, Giovanni XXIII firmò la Costituzione apostolica Veterum Sapientia sullo studio e l’uso del latino, in cui auspicava, tra l’altro, la creazione di un Academicum Latinitatis Institutum. 
Quest’ultimo verrà, poi, istituito da Paolo VI con la Lettera apostolica Studia Latinitatis del 22 febbraio 1964, affidando alla Società Salesiana il compito di «promuoverne la prosperità».  
 
Don Roberto: dopo la direzione del “Ratisbonne” di Gerusalemme è contento di questo nuovo incarico accademico a Roma?  
Certamente! 
Anzitutto, per un motivo personale, perché da sempre amo la cultura classica e per otto anni ho insegnato Latino e Greco nei Licei salesiani. In secondo luogo, per un motivo culturale: colgo una continuità tra la teologia, che ho insegnato nel centro di Ratisbonne, e lo studio degli antichi scrittori cristiani, di cui mi occupo attualmente. Sono essi che hanno elaborato le prime sintesi teologiche e che hanno conferito alla teologia un’identità scientifica e sapienziale. 

Quali sono i numeri? Ci sono molte iscrizioni? 
Sin dall’atto di fondazione, il nostro Istituto si pone come un centro di studi di specializzazione. Di conseguenza, più che la quantità delle iscrizioni occorre curare la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento. Conforta sapere che tra i nostri exallievi, alcuni sono rinomatissimi professori universitari o specialisti presso la Santa Sede e le diocesi. In genere, ogni anno, gli studenti dei tre cicli ammontano a cinquanta, anche se abbiamo attivato un processo per aumentarne il numero. 

La tipologia degli allievi: chi sono questi coraggiosi che vogliono imparare la lingua di Cicerone? Ci sono anche stranieri? 
Ci sono ecclesiastici, inviati dai loro Superiori, destinati all’insegnamento del Latino, del Greco e della Patristica presso seminari e studentati religiosi; poi ci sono altri studenti, prevalentemente laici, che amano la cultura classica e quella antico-cristiana. Per questi ultimi, allora, svariati sono gli sbocchi professionali: dall’insegnamento alla collaborazione con case editrici.  

Ci sono anche stranieri? 
Poiché la nostra è una facoltà del Papa, è, per sua natura, internazionale. E così abbiamo studenti dell’Europa orientale, africani, nordamericani, e persino cinesi!  

Parlare di latino oggi non è molto attuale.  Il latino rientra nella categoria “lingue morte”.

L’espressione “lingua morta” attribuita al latino è solo una banalità. Nessun filologo serio la considera tale perché, anche quando ha cessato di essere la lingua-madre della gente alla fine del mondo tardo-antico, il latino ha continuato ad essere una lingua scritta e parlata fino al secolo XIX da tutti gli uomini di cultura, compresi fisici e matematici. Era la lingua ufficiale anche di parlamenti nazionali, come quello ungherese o croato. Può essere, inoltre, considerata “morta” una lingua che continua ad essere studiata da moltissime persone in tutto il mondo? È morta una lingua lo studio dei cui testi alimenta pensieri nobili ed elevati? Inoltre, è la lingua supernazionale della Santa Sede, di molti umanisti che comunicano in latino, della liturgia che, celebrata in lingua latina, attrae un numero crescente di fedeli, soprattutto giovani.  
Anche nella scuola media italiana c’è un ritorno dello studio del latino. 
 Il latino è una lingua molto piacevole da apprendere, ad una condizione: che si abbandoni il metodo che grava morbosamente nelle scuole, imposto dal filologismo tedesco a partire dal secolo XIX. Se insegnato, invece, con il ‘metodo-natura’ appreso in 150 ore, uno studente, senza eccessive fatiche e soprattutto senza noia, è in grado di leggere già i classici. C’è bisogno di una nuova generazione d’insegnanti che conoscano questo metodo e lo adottino con entusiasmo perché fa miracoli! 
Quali sono in conclusione gli obiettivi che ancora oggi gli allievi e i docenti di questo Pontificium Institutum Altioris Latinitatis perseguono? 
Lo scopo è molto chiaro: attraverso la conoscenza delle lingue antiche, latino e greco, desideriamo entrare a far parte di una res publica litterarum e dialogare con pensatori che, da 2500 anni, utilizzando o la ragione o la fede o entrambe, hanno elaborato una cultura di profondo spessore antropologico, etico, spirituale. Ed il mondo, smarrito come non mai in quest’epoca di crisi, ha estremamente bisogno di riappropriarsi dei valori di quell’humanitas, espressa, solo per fare dei nomi, da Sofocle, Platone, Seneca, Agostino, Tommaso, Erasmo da Rotterdam.  

Perché la Santa Sede ha affidato questa Facoltà ai figli di don Bosco? 
Perché anche in questo campo don Bosco è stato un pioniere! A Valdocco, ha promosso lo studio del latino e del greco con metodi che oggi vengono riscoperti come innovativi ed efficaci, cioè il metodo-natura: pensi che a Valdocco, e poi per decenni nei collegi salesiani, si rappresentavano commedie in latino con grande successo. Occorre riappropriarsi di tale patrimonio: aiuta i giovani ad essere migliori, amanti della verità, della bontà e della bellezza.

[SM=g1740722]

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26/08/2012 11:55
 
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Il latino, una porta che ci mette in contatto con la Tradizione


Quarant’anni fa papa Roncalli firmava la Veterum sapientia, la costituzione apostolica sul latino. Un documento scritto perché questa lingua fosse sempre più promossa e conservata nella Chiesa. Le cose, però, andarono in maniera ben diversa...


di Lorenzo Cappelletti  da 30giorni gennaio 2002


Giovanni XXIII

Giovanni XXIII

«Presenti nel tempio massimo della cristianità il Sacro Collegio, la Curia romana, la Commissione centrale per la preparazione del Concilio Vaticano II, i corpi accademici e l’alunnato degli Atenei ecclesiastici e tutto il clero dell’Urbe, nonché il numeroso popolo di ogni stirpe e lingua, il Sommo Pontefice, che sedeva al cospetto della sua Cattedra, metteva il suggello alla costituzione apostolica sulla lingua latina, nella quale viene espressa la ferma volontà della Santa Sede “che lo studio e l’uso di questa lingua, restituita alla sua dignità, venga sempre più promosso e attuato”».
Così scriveva sull’Osservatore Romano del 1° marzo 1962 il cardinal Pizzardo, rievocando il momento in cui una settimana prima, 22 febbraio, festività della Cattedra di san Pietro, gli era stata solennemente consegnata, a suo onore e onere, in quanto prefetto della Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli studi, la Veterum sapientia da papa Giovanni XXIII.

In effetti nessun altro documento del “Papa buono” fu presentato entro una cornice così fastosa. Non fu un caso: «L’abbiamo voluto firmare in questo solenne convegno preludente al Concilio» diceva il Papa nel discorso tenuto in quell’occasione «a titolo di particolare apprezzamento e onore». Ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze. Lo scopo di esse, come spesso accade in natura, era essenzialmente difensivo, e forse non solo ad extra: c’è chi pensa sia stato anche il modo di carpire la benevolenza dei conservatori per spianare la strada alla riforma conciliare e magari proprio all’affossamento del latino.
Si voleva opporre, e ancor più dare l’impressione di opporre, un argine imponente al degrado altrettanto imponente dello studio e dell’uso del latino nell’ambito ecclesiastico e civile. Si intuiva infatti la forza prevalente dei fatti che, più degli argomenti, giocavano per la sua progressiva emarginazione. Non si intuiva o non si voleva intuire che in questi casi, facendo la voce troppo grossa, si rischia di non difendere nemmeno l’essenziale che era piuttosto il latino nella liturgia, da cui dipendeva anche la permanenza del suo uso e del suo studio. Ma quello si dava per scontato e la Veterum sapientia non se ne occupava.


La questione dell’uso
e dello studio del latino
Era all’incirca dalla metà del XIX secolo, dal tempo di Pio IX, che si veniva ponendo in modo sempre più urgente la questione del latino, e da allora sinodi diocesani, concili provinciali, le Sacre Congregazioni romane e gli stessi pontefici avevano fatto intendere più volte la loro voce a difesa. Ma con scarsi risultati.

Il primo documento dedicato specificamente al problema era stato una lettera ai vescovi inviata nel 1908 dalla Sacra Congregazione degli Studi a nome di papa Pio X. Ma chi prese davvero a cuore la questione, tanto che suoi sono i documenti cui maggiormente attinge la Veterum sapientia, fu Pio XI. Riprendendo una analogia già sostenuta da Leone XIII e da Benedetto XV, egli estende la custodia del deposito della fede alla custodia della sua forma latina, con l’esplicita citazione della Prima Lettera a Timoteo (6,20). Infatti dice che il latino è connesso a tal punto con la vita della Chiesa da riguardare non tanto la cultura e lettere ma la religione. E più volte negli atti del suo pontificato ricorre accorata l’affermazione tradizionale che il latino è come la madre lingua per la Chiesa e che pertanto l’ignoranza di questa lingua segnala una certa quale mancanza di amore alla Chiesa (cfr. le epistole Officiorum omnium del 1922 e The Sacred Congregation, della Sacra Congregazione dei Seminari, del 1928).

Con tutto ciò l’abbandono del latino cresce con la guerra, ma con la guerra viene anche inevitabilmente dilazionato a tempi più adatti qualunque provvedimento. I tempi maturano durante il pontificato Giovanni XXIII, cultore egli stesso dei Padri latini, come si può leggere in più pagine del suo Giornale dell’anima: «Voglio rileggere il De civitate Dei di sant’Agostino» scriveva quando era delegato apostolico proprio nei giorni della guerra (25-31 ottobre 1942) «e farmi di quella dottrina succo e sangue per giudicare tutto solo e in faccia a chi si accosta al mio ministero con sapienza che illumina e conforta». E poi ormai da papa, nel 1961: «L’esercizio della parola che vuole essere sostanziosa e non vana mi fa desiderare un accostamento maggiore a quanto scrissero i grandi pontefici dell’antichità. In questi mesi mi tornano familiari san Leone Magno e Innocenzo III. Purtroppo pochi ecclesiastici si curano di loro che sono ricchi di tanta dottrina teologica e pastorale. Non mi stancherò di attingere a queste sorgenti così preziose di scienza sacra e di alta e deliziosa poesia».

L’avvicinarsi di speranze di pace e, insieme, del Concilio, convocato col desiderio di un ritorno anche della Chiesa alla sua piena pace e unità, non senza timore, peraltro, per un’assemblea così composita, faceva sentire con più forza a papa Giovanni in particolare il valore universale e unificante della lingua latina (tema anche questo esplicitato per primo da Pio XI). Papa Giovanni espresse questa sua sollecitudine fin dall’inizio del suo pontificato e la ripeté nel discorso dell’udienza di presentazione della Veterum sapientia: «Piace qui ricordare l’importanza e il prestigio di questa lingua nel presente momento storico, in cui insieme con una più sentita esigenza di unità e di intesa fra tutti i popoli, non mancano tuttavia espressioni di individualismo. La lingua di Roma usata nella Chiesa di rito latino, particolarmente fra i suoi sacerdoti di diversa origine, può ancora oggi rendere nobile servizio all’opera di pacificazione e unificazione. Lo può rendere anche ai nuovi popoli che si affacciano fiduciosi alla vita internazionale. Essa infatti non è legata agli interessi di alcuna nazione, è fonte di chiarezza e di sicurezza dottrinale, è accessibile a quanti abbiano compiuto studi medi e superiori; e soprattutto è veicolo di comprensione».
Ma forse la causa prossima della Veterum sapientia va rintracciata anche in una contingenza del tutto marginale, diremmo oggi a quarant’anni di distanza: la riforma della scuola media inferiore che in Italia di lì a poco avrebbe relegato il latino a materia facoltativa. Significativo per non dire rivelativo, è quanto scriveva Ezio Franceschini nella Rivista del clero italiano di quel fatidico 1962: «Del tutto particolare è stato l’interesse con cui la costituzione è stata accolta in Italia: essa infatti è venuta ad inserirsi, con il peso di un’autorità immensa, sulla polemica che infuria circa l’utilità del latino da quando il suo insegnamento si prospetta come facoltativo e opzionale nella nuova “scuola media unificata” che accoglierà i giovanetti italiani dagli 11 ai 14 anni.
Sua santità Giovanni XXIII si rivolge naturalmente e dà disposizioni soltanto alle scuole ecclesiastiche e religiose di ogni ordine e grado: ma le osservazioni che fa sul valore della lingua latina, sia come strumento di formazione intellettuale, sia come mezzo di comunicazione universale, hanno un significato che va ben al di là del territorio cui il discorso è rivolto».

Si pensò probabilmente che magnificare le doti del latino sul piano della storia e della cultura e prescriverne l’uso e lo studio con un documento vergato con solennità avrebbe potuto manifestare quale fosse la determinazione con cui la Chiesa intendeva difendere il latino a tutto campo, quale «tesoro di incomparabile valore», e magari scongiurare quella riforma.

Numerosi commenti, specialistici e non, venivano a confermare l’opportunità della Veterum sapientia e il suo sicuro successo. Benedetto Riposati, con più enfasi che lungimiranza, scriveva su Vita e pensiero: «La Chiesa offre un mirabile esempio di rispetto delle tradizioni culturali e umanistiche, che richiama a base della formazione intellettuale e spirituale delle giovani generazioni, e predice, consiglia, impone la lingua latina quale efficacissimo, insostituibile mezzo di codesta saggia finalità. Né fallirà al fine». Fiorenzo Romita su Monitor ecclesiasticus di quello stesso 1962 affermava soddisfatto che, a norma dell’articolo 2 della Veterum sapientia, ormai non si poteva che parlare in favore (pro) di quanto prescritto dalla nuova costituzione, nessuno avrebbe più potuto parlare, neanche per i più nobili motivi, contro (contra). Ma poi l’ultimo rigo del suo commento, che in lungo e in largo aveva legittimato principi e norme della Veterum sapientia, riconosceva lapidariamente che il problema andava ben oltre il parlare. All’attuazione della costituzione e delle Ordinationes infatti «obiectivae difficultates eaeque gravissimae obstabunt» (per chi non sa il latino: faranno ostacolo difficoltà obiettive e per di più estremamente serie). Giusto La Civiltà Cattolica si distingueva, riportando in italiano la sola parte precettiva della Veterum sapientia accompagnata dalle parole del Papa, e senza alcun commento: un modo come un altro per commentare.

In realtà di lì a poco la Chiesa non riuscì a conservare il latino nemmeno entro i suoi confini. Tutti oggi, a quarant’anni di distanza, sanno che fine ha fatto il latino, non nella scuola media italiana o nei ginnasi tedeschi, ma nel cuore della liturgia e della fede della Chiesa, e proprio lo scarto fra le disposizioni indiscutibili della Veterum sapientia e il risultato discutibilissimo fa scintille. Cosa mai pretendeva quella costituzione per avere ottenuto un risultato così difforme dai suoi dichiarati intenti? In realtà non pretendeva niente altro che l’osservanza di ciò che già era prescritto. Ma quell’osservanza già da tempo era impraticabile. Il problema non sta nel documento, ma nei tempi cambiati. Anche giudicare il tempo fa parte dei consigli evangelici.
Giovanni XXIII impartisce la benedizione “Urbi et orbi”

Giovanni XXIII impartisce la benedizione “Urbi et orbi”


Le due parti
della Veterum sapientia
Il documento, assai breve, si compone di due parti ben distinte. Una prima in cui si tessono le lodi della lingua latina. Tanto per la sua storia che per la sua struttura, si dice, essa è stata sempre esaltata e raccomandata allo studio e all’uso dai pontefici e dai sinodi precedenti. La lingua latina infatti ha provvidenzialmente accompagnato la propagazione del cristianesimo nell’Occidente; è universale, immutabile, piena di maestà; è la porta d’accesso alle verità trasmesse dalla Tradizione; ha grande efficacia formativa.

Rispetto a questa prima parte espositiva si può forse dire, col senno del poi (ma padre Urbano Navarrete scriveva a caldo nel 1962 più o meno le stesse cose su Periodica de re canonica), che non giovò mettere insieme senza alcun ordine gerarchico motivazioni di diversa importanza e fondatezza. Non teme smentite infatti l’affermazione che la lingua latina è «quasi una porta che mette tutti a diretto contatto con le cristiane verità tramandate dalla Tradizione [oggi che non si passa più da quella porta “le cristiane verità tramandate dalla Tradizione” sono diventate “la verità”] e con i documenti dell’insegnamento della Chiesa; e un vincolo efficacissimo che ricollega con mirabile continuità la Chiesa di oggi con quella di ieri e di domani». Mentre molto più opinabile e secondaria è la perfetta congruità della lingua latina a «promuovere ogni forma di cultura presso qualsiasi popolo» o l’«efficacia tutta speciale che hanno sia la lingua latina sia in generale la cultura umanistica nello sviluppare e formare le tenere menti dei giovani».
Al termine della prima parte si trova introdotta la seconda: infatti, proprio perché «l’uso del latino viene ai nostri giorni messo in più luoghi in discussione», la seconda parte viene deputata a contenere provvedimenti per la rinascita dello studio e dell’uso del latino. In otto punti vengono emanate norme di cui alcune immediatamente efficaci (si fa per dire), altre che attendevano di essere seguite da specifici atti esecutivi a carico della Sacra Congregazione dei Seminari: le norme 8 e 6.

Il documento in effetti fu seguito, in data 22 aprile 1962, da Ordinationes (Ordinamento degli studi) che nel giugno successivo furono inviate ai vescovi e ai rettori delle università e facoltà ecclesiastiche: sarebbero dovute entrare in vigore col primo giorno dell’anno accademico 1963-64. Estremamente dettagliate (forniscono in appendice finanche un elenco di testi patristici dai quali attingere brani in latino e greco e la traccia della relazione che si sarebbe dovuta inviare annualmente per i primi cinque anni alla Congregazione) tali Ordinationes si aprono però colla constatazione di «quanto difficile e faticoso sia attuare questa importantissima e necessaria disposizione, sia per la presente infelice condizione dello studio e dell’uso della lingua latina, sia per concomitanti circostanze di luoghi, tempi e persone». Tanto che è prevista al cap. VIII § 2 una serie di norme transitorie per facilitare un’applicazione graduale. In effetti, mentre ufficialmente il terzo fascicolo del 1962 di Seminarium, la rivista della Congregazione, riporta l’elenco delle adesioni di eminenti ecclesiastici e delle maggiori università e facoltà ecclesiastiche, ufficiosamente si sa che fioccarono proteste di moltissimi vescovi e minacce di dimissioni così numerose da parte dei professori che anche le maggiori università si sarebbero trovate nell’impossibilità di offrire i corsi se si fosse applicato il nuovo Ordinamento degli studi. Così la Congregazione fu costretta a soprassedere, chiudendo non un occhio ma tutti e due.

A due anni di distanza dalla Veterum sapientia poi, in ottemperanza all’articolo 6 che prevedeva la creazione di un Istituto accademico di lingua latina, Paolo VI, succeduto nel frattempo a Giovanni XXIII, col motu proprio Studia latinitatis del 22 febbraio 1964 erigeva presso il Pontificio Ateneo Salesiano il Pontificium Institutum Altioris Latinitatis. Pur essendo nato già macilento per mancanza di materia prima, pur essendosi illanguidito fino al punto quasi da estinguersi negli anni Settanta, pur avendo formalmente e sostanzialmente cambiato nome e finalità, di tutti i propositi della Veterum sapientia è questo l’unico a essere ancora in piedi. Affidato alla Società Salesiana è oggi guidato da un preside umile, un siciliano autoironico e cordiale che affronta con passione e allo stesso tempo con il sorriso sulle labbra l’impresa impossibile di far studiare e amare una lingua che non importa nemmeno a chi di dovere sia studiata e amata. Un’armatura leggera è l’unica difesa, a volte.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Se almeno il Canone fosse rimasto in latino…


Parla don Biagio Amata, decano del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis per i 40 anni della Veterum sapientia


  gennaio 2002



Incipit del De civitate Dei di Agostino 
in un manoscritto del XV secolo conservato nella Biblioteca di Rimini

Incipit del De civitate Dei di Agostino in un manoscritto del XV secolo conservato nella Biblioteca di Rimini

Don Biagio Amata è l’attuale decano del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis fondato con motu proprio da Paolo VI nel 1964 in attuazione dell’esplicito mandato della costituzione Veterum sapientia. È al suo terzo anno di reggenza, dopo aver preso il posto di don Enrico dal Covolo, ora vicerettore della Pontificia Università Salesiana (UPS).

Insieme hanno programmato la celebrazione del quarantennale della Veterum sapientia il 22 febbraio presso la medesima Università. Anche perché, scriveva don Biagio sull’Osservatore Romano nel luglio 2000 ricordando questo atto del pontificato di Giovanni XXIII, la Veterum sapientia «non si trova nemmeno indicizzata nella maggior parte delle pubblicazioni edite in occasione della prossima beatificazione [di Giovanni XXIII] né nel dvd multimediale tempestivamente messo in commercio; ed è pressoché assente anche nei siti internet a soggetto religioso cattolico», suonando «quasi offesa alla memoria di Giovanni XXIII così attento a coniugare tradizione e innovazione».

Ha pronte le dimissioni se non verrà presto un gesto significativo inteso al rilancio dell’Istituto da parte della Santa Sede che ne mantiene l’alto patronato. Parla schietto. È un siciliano simpatico, ne ho conosciuti altri.

Perché l’Istituto che lei dirige fu affidato ai Salesiani?

DON BIAGIO AMATA: L’Istituto fu assegnato alla Società Salesiana perché tradizionalmente in essa c’era stato un culto del latino, consacrato anche nelle regole: l’amore per il latino veniva ritenuto un segno specifico di vocazione. Don Bosco era stato il primo a dar vita a una collana scolastica di antichi scrittori cristiani. Questo fu il motivo per cui, con grande sacrificio e superando opposizioni interne, l’allora superiore maggiore non esitò a dire di sì all’invito della Santa Sede. Tanto più che un articolo del nostro don Gallizia, nel 1959, faceva intravedere la necessità della fondazione di un grande Istituto di livello universitario per lo studio della lingua latina. Bisogna dire anche che altri grandi ordini interpellati rifiutarono.

La débâcle del latino era già in atto nella Chiesa?

DON AMATA: Nei seminari c’era stato un crollo dell’insegnamento del latino. Crollo che divenne poi vuoto dopo la riforma scolastica in Italia (la Veterum sapientia cade proprio nell’anno della riforma della scuola media inferiore in Italia: 1962), una disgregazione a cui gli uomini di Chiesa non erano preparati; mai avrebbero immaginato un sovvertimento di quelle che erano le loro certezze e neanche un cambiamento nella politica italiana: erano convinti che tutto restasse nello statu quo ante. Pensavano che la riforma Misasi durasse qualche anno.
È durata quarant’anni!
Ma quell’atto di forza fu fatto anche per tappare la bocca a quanti volevano un adattamento della liturgia. E questo fu l’errore grave. In fondo l’intuizione del movimento liturgico era semplicemente di rendere comprensibili al popolo le parti della liturgia della Parola, non cambiare la dottrina o la stessa liturgia.


Poi si è andati molto oltre quella intuizione.

DON AMATA: Sì, finirono per prevalere certi fanatismi, le istanze avveniristiche e avventuristiche, nonostante le posizioni moderate del Concilio, obbligando Paolo VI a togliere la lingua latina anche dal Canone (anche se lui la usava durante le Messe pontificie).
I padri erano equilibratissimi, accettarono le istanze del movimento innovatore ma anche le istanze in favore dell’unità del rito, in modo che non ci si sentisse estranei da una nazione all’altra.
E' vero che la contestazione dei lefebvriani non solo della riforma liturgica ma anche dell’aspetto pastorale e di fede del Vaticano II irrigidì poi certe posizioni. Non so se si possa dire, ma Paolo VI non ebbe dei validi e degli intelligenti collaboratori. Il movimento lefebvriano poteva essere contenuto, le sue prime denunce non erano banali, piuttosto un grave campanello d'allarme che non sarebbe dovuto sfuggire ai più stretti collaboratori del papa.
Invece di imporre subito la riforma si potevano usare le nuove formule per un periodo di venti, venticinque anni ad experimentum. Potevano crearsi dei momenti di urto, di difficoltà, certo. Fatto sta che la Chiesa ha dovuto poi subire lo scisma lefebvriano. Si dice che altrimenti sarebbe stato peggio. Bisogna vedere se ciò è vero. Allo stato attuale dei fatti, sarebbe onesto ripensare ad un certo accanimento contro mons. Lefebvre e ad una imposizione della riforma che nella pratica si dissociò gravemente dalle richieste del Concilio.


Una più scrupolosa custodia del latino liturgico non avrebbe raggiunto lo scopo meglio della Veterum sapientia, favorendo indirettamente, per lo stupore di fronte alla bellezza di canti e preghiere, anche una volontà di apprendimento e di approfondimento?

DON AMATA: Ricordo come fosse oggi che, quando venne introdotto da Paolo VI l’uso della lingua nazionale anche nel Canone, due docenti che mi affiancavano (io ero preside allora) dissero chiaramente: questa è la morte del latino nella Chiesa.
Si rivelarono profetici. Non essendoci più nessuna preghiera in latino, che interesse c’è a celebrare in latino, e che motivo c’è di fare questo tipo di studi? Bisogna dire che la risonanza del latino era anche formatrice, la risonanza di certe preghiere, di certi salmi era, diciamo così, fortemente impegnativa per la propria vita ascetica, spirituale, morale. Ora improvvisamente sono cadute dalla memoria della Chiesa, non solo dei singoli sacerdoti.
Questo è un impoverimento troppo grande, ecco perché mi sto impegnando, per obbedienza al carisma della Società Salesiana, certo, ma anche perché in prima persona vedo che è una grande perdita umana, una grande perdita ecclesiale, la totale scomparsa del latino.
Sacerdoti che non sanno leggere neanche le lapidi che hanno nelle loro chiese, sacerdoti che non conoscono neanche l’abc del breviario perché, fatto nella forma in cui è stato fatto (salmi da un lato, antifone dall’altro, le letture da un altro ancora. Non parliamo poi della liturgia delle ore nel tempo di Avvento e del periodo di Natale che è veramente...), dà l’impressione che la preghiera sia una cosa complicata.
Guai a parlarne così ai liturgisti, eppure loro sono stati la causa di questa perdita: invece di rendere semplice la preghiera propria del popolo di Dio... Non si è capito l’animus, l’intenzione di allora (credo, o forse sono io a non aver capito...): nelle discussioni preparatorie si voleva che quella preghiera fosse la preghiera della Chiesa e quindi doveva essere alla portata di tutti. E invece, in questa maniera diventa sempre più una preghiera artificiosa. Cose che io ho scritto. Ma nessuno parla, perché se per caso uno si muove, ci sono cinquanta liturgisti che fanno i dottori della Legge dall’altra parte.


Ritorniamo alla Veterum sapientia. Ebbe di fatto attuazione quella costituzione. Per quanto tempo effettivamente si insegnò in latino?

DON AMATA: Non sono uno storico e dunque non sono competente a rispondere, ma obbiettivamente i docenti non erano preparati a fare scuola in latino. Quindi ci furono minacce di dimissioni in massa e le università, compresa la Gregoriana, rischiarono di trovarsi sguarnite improvvisamente. Nelle altre nazioni fu un disastro totale: le proteste dei vescovi furono di tale ampiezza (questo si è sempre negato ufficialmente) che obbligarono la Congregazione a soprassedere, a far finta di niente. Anche il nostro Istituto, per il quale si prevedeva un enorme afflusso, il primo anno ebbe sì e no 64 iscritti, una cifra irrisoria, e gli anni successivi cifre ancora inferiori, fino al divieto del superiore nel 1972 di accettare iscrizioni.
Una dichiarazione di morte. Ma anche dopo si è vivacchiato. C’è bisogno di un forte ripensamento, di un gesto significativo da parte della Santa Sede perché questo Istituto, che è stato fondato da Paolo VI e di cui la Società Salesiana da quarant’anni si è accollata l’onere, ha avuto una impalcatura accademica che già allora non era adeguata alla situazione. Si supponeva che all’Istituto venissero sacerdoti che già avevano fatto gli studi teologici, si supponeva che avessero fatto gli studi classici: supposizioni che non corrispondevano e non corrispondono più alla realtà. È mancato il controllo della Santa Sede. Dopo 30-40 anni bisogna verificare che sia raggiunta la finalità per cui un Istituto è stato fondato! Mi si è detto: vai avanti, tranquillo, nella santa Chiesa anche cento anni può andare avanti qualcosa senza... Ma ci sono delle vite umane di mezzo! Almeno mons. Lefebvre è a questo che pensava, pagando di persona.

Un codice miniato

Un codice miniato


Delle ragioni che presiedevano alla Veterum sapientia sembra che la Sapientia christiana, il documento dell’aprile 1979 che disciplina attualmente gli studi ecclesiastici, abbia ritenuto solo la necessità di uno studio del latino (senza peraltro specificarne le modalità: «Nelle facoltà di Scienze sacre è richiesta una congrua conoscenza della lingua latina affinché gli studenti possano comprendere e usare le fonti di tali scienze e i documenti della Chiesa») per accedere alle fonti e ai documenti della Chiesa. Come in concreto viene attuata questa disposizione per quel che è la sua esperienza?

DON AMATA: Quel documento non recepisce la Veterum sapientia, non poteva recepirla per la mutata situazione. C’era stato il ’68, c’era il grande abbandono dello stato clericale: oggi nessuno se lo ricorda, ma centinaia, migliaia di sacerdoti hanno lasciato il sacerdozio e la Chiesa cattolica. L’intenzione del legislatore, magari, era dire che ci voleva una buona conoscenza della lingua latina; nelle intenzioni degli avversari quella dizione significa una qualche conoscenza della lingua latina, perché ci sono le traduzioni, si dice, e si può accedere ai testi mediante esse (ma la traduzione assolutizza, la traduzione in italiano non fa che vertere il testo in quella parte che si vuole risulti predominante). Ma c’è un’altra cosa da dire sugli studi ecclesiastici.

Dica.

DON AMATA: Qual è il concetto su cui sono costruite le facoltà teologiche e tutte le università pontificie che hanno come struttura la facoltà teologica? Che il sacerdote sappia di tutto, soprattutto le verità più contestate, per cui ci sono trattati e esami a sé stanti: ma questa parcellizzazione svilisce il tipo di studio di una materia. Avendo immesso nel 1971 l’Istituto all’interno del Pontificio Ateneo (poi Università) Salesiano come facoltà alla pari con le altre facoltà (noi ci chiamiamo indifferentemente Pontificium Institutum Altioris Latinitatis e Facultas Litterarum Christianarum et Classicarum o anche con entrambi i nomi...), si è arrivati a far assumere questo stesso carattere a un Istituto che avrebbe invece bisogno che si insegnasse, ad esempio, grammatica latina e greca per tutti i primi tre anni, anzi per tutti e cinque gli anni, non solo il primo anno, in modo che alla fine del quinto anno si conosca bene la grammatica latina e greca; e in contemporanea le rispettive letterature. Ma questo va contro gli statuti generali della Santa Sede. E, basta così, la prego.


[SM=g1740733]

[Modificato da Caterina63 26/08/2012 12:31]
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[SM=g1740733] ATTENZIONE......

ANDREA TORNIELLI COMUNICA OGGI QUANTO SEGUE:

CITTÀ DEL VATICANO


«Foveatur lingua latina».


Papa Ratzinger vuole far crescere la conoscenza della lingua di Cicerone, di Agostino e di Erasmo da Rotterdam, nell’ambito della Chiesa ma anche della società civile e della scuola e sta per pubblicare un «motu proprio» che istituisce la nuova «Pontificia Academia Latinitatis».


In questo POST  verrà inserito il Documento.....



[SM=g1740722]


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Nel novembre 2006, negli Stati Uniti d'America, si è tenuta l'annuale Gateway
Liturgical Conference, organizzata dall'arcidiocesi di St. Louis, nel Missouri, sul tema
Celebrating God's Love, conclusa da S. Em. il card. Francis Arinze, prefetto della
Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, con un discorso dal
titolo Language in the Roman Rite Liturgy: Latin and Vernacular.
La traduzione è stata pubblicata da “Cristianità” n. 399 del gennaio-febbraio 2007 e di
seguito sono riportati i brani più significativi.

La lingua nella liturgia di Rito
Romano: latino e lingua volgare

1. La dignità superiore della preghiera liturgica

La Chiesa fondata dal nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo si sforza di riunire insieme
uomini e donne di ogni tribù, lingua, popolo e nazione.
Questa Chiesa, questo nuovo popolo di Dio, questo corpo mistico di Cristo, prega. La sua
preghiera pubblica è la voce di Cristo e della Chiesa sua sposa. Capo e membra. La
liturgia è un esercizio del magistero sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, il culto pubblico
viene compiuto dall'intera Chiesa, ossia, da Cristo che associa a sé i suoi membri. «Perciò
ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo Sacerdote e del suo corpo, che è la
Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia
l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (1). Dalla sacra sorgente della liturgia tutti
noi, che abbiamo sete delle grazie della Redenzione, attingiamo acqua viva (cfr. Gv. 4,
10).
La consapevolezza che Gesù Cristo è il Sommo Sacerdote in ogni atto liturgico dovrebbe
instillare in noi una grande reverenza. Come afferma sant'Agostino d'Ippona (354-430),
«prega per noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo, dunque,
in lui la nostra voce, e in noi la sua voce» (2).

2. Diversi Riti nella Chiesa

Possiamo individuare quattro Riti originali: Antiocheno, Alessandrino, Romano e Gallicano.
Essi diedero vita a nove Riti principali nell'attuale Chiesa Cattolica: nella Chiesa Latina
domina il Rito Romano e fra le Chiese Orientali troviamo il Rito Bizantino, Armeno, Caldeo,
Copto, Etiopico, Malabarese, Maronita e Siriaco. Ogni rito rappresenta una miscela di liturgia,
di teologia, di spiritualità e di diritto canonico. Le caratteristiche fondamentali di ogni Rito
risalgono ai primi secoli, i tratti essenziali all'era apostolica, se non addirittura all'epoca
di nostro Signore.
Il Rito Romano, che è oggetto della nostra riflessione, nella sua epoca moderna, come
abbiamo detto, è l'espressione liturgica predominante della cultura ecclesiastica da noi
chiamata Rito Latino. Come saprete, all'interno dell' arcidiocesi di Milano è in uso un «rito
gemello» che prende il nome da sant'Ambrogio (339-397), il grande vescovo di Milano: il
Rito Ambrosiano. In alcuni luoghi e in alcune occasioni speciali in Spagna la liturgia è
celebrata secondo un antico Rito Ispanico o Mozambico, Queste rappresentano due
venerabili eccezioni di cui non ci occuperemo in questa sede.
La Chiesa di Roma utilizzò il greco fin dal principio. Solo gradualmente fu introdotto il
latino fin quando, nel secolo IV, la Chiesa di Roma fu definitivamente latinizzata (3).
Il Rito Romano si diffuse ampiamente in quella che oggi chiamiamo Europa Occidentale e
nei continenti evangelizzati per lo più da missionari europei: in Asia, in Africa, in America e
in Oceania. Oggi, con la più facile circolazione delle persone, vi sono cattolici di altri Riti
— generalmente chiamate Chiese Orientali — in tutti questi continenti.
La maggior parte di tali Riti possiede una lingua originale, che dà anche a ogni Rito la
propria identità storica. Il Rito Romano ha il latino come lingua ufficiale. Le edizioni tipiche
dei suoi libri liturgici fino a oggi sono state sempre pubblicate in latino.
È un fenomeno importante il fatto che molte religioni del mondo, o le loro ramificazioni
principali, abbiano una lingua che è a esse cara. Non possiamo pensare alla religione ebraica
senza pensare alla lingua ebraica. L'islam ha l'arabo come lingua sacra nel Corano.
L'induismo classico considera il sanscrito come lingua ufficiale, il buddhismo ha i propri testi
sacri in pali.
Sarebbe superficiale da parte nostra considerare questa tendenza come qualcosa di
esoterico, strano o fuori moda, vecchio o medioevale. Vorrebbe dire ignorare un fine
elemento della psicologia umana. Nelle questioni religiose, le persone tendono a
conservare quanto hanno ricevuto dalle origini, il modo in cui i loro antenati hanno
articolato la propria religione e pregato. Le parole e le formule usate dalle prime
generazioni sono care a quanti oggi le ereditano. Se è vero che non si può certo identificare
una religione con una lingua, il modo in cui essa viene compresa può avere un legame
affettivo con la particolare espressione linguistica in uso nel periodo classico del suo primo
sviluppo.







  continua....


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3. Vantaggi del latino nella liturgia romana

Fra i Padri latini più importanti della Chiesa, che scrissero molto e bene in latino, figurano
sant'Ambrogio, sant'Agostino, Papa san Leone Magno (440-461) e Papa san Gregorio
Magno (590-604). Papa Gregorio, in particolare, portò il latino ai massimi splendori nella
sacra liturgia, nei suoi sermoni e nell'uso generale della Chiesa.
La Chiesa di Rito Romano mostrò un eccezionale dinamismo missionario. Questo
spiega perché gran parte del mondo fu evangelizzata dagli araldi del Rito Latino. Molte
lingue europee, che oggi consideriamo moderne, affondano le proprie radici nella lingua
latina, alcune più di altre. Esempi sono l'italiano, lo spagnolo, il rumeno, il portoghese e
il francese. Ma anche l'inglese e il tedesco possiedono molti elementi di latino.
I Papi e la Chiesa romana trovarono il latino molto adatto per molte ragioni. È la lingua
giusta per una Chiesa che è universale, una Chiesa in cui tutti i popoli, tutte le lingue
e tutte le culture dovrebbero sentirsi a casa e nessuno viene considerato straniero.
Inoltre, la lingua latina ha una certa stabilità che non possono avere le lingue parlate
quotidianamente, in cui le parole spesso cambiano di sfumature di significato. Un esempio
è la traduzione del latino propagare. La Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli,
quando fu fondata nel 1627 fu chiamata Sacra Congregatio de Propaganda Fide. Ma
all'epoca del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) molte lingue moderne usavano
il termine «propaganda» nel senso in cui noi intendiamo la «propaganda politica».
Perciò nella Chiesa oggi si preferisce evitare l'espressione «de propaganda fide», a
favore di «evangelizzazione dei popoli». Il latino ha la caratteristica di possedere parole ed
espressioni che mantengono il loro significato di generazione in generazione. Questo è un
vantaggio quando si tratta di articolare la nostra fede cattolica e di preparare documenti
papali o altri testi della Chiesa. Anche le moderne università apprezzano questa
caratteristica e alcuni dei loro titoli accademici solenni sono in latino.
Il beato Papa Giovanni XXIII (1958-1963), nella Costituzione Apostolica «Veterum
sapientia» pubblicata il 22 febbraio 1962, dà queste due ragioni e ne fornisce una terza: la
lingua latina ha una nobiltà e una dignità non trascurabili (4). Possiamo aggiungere che il
latino è conciso, preciso e poeticamente misurato.

Non è straordinario che persone, specialmente chierici, se ben formati, possano incontrarsi
a riunioni internazionali ed essere capaci di comunicare fra loro almeno in latino? Ma vi è di
più: è forse cosa da poco che oltre un milione di giovani si siano potuti incontrare in occasione
della Giornata Mondiale della Gioventù a Roma nel 2000, a Toronto nel 2002 e a
Colonia nel 2005, e cantare parti della Messa, e specialmente il Credo, in latino? I teologi
possono studiare i testi originali dei primi Padri latini e degli scolastici senza troppe difficoltà
perché questi testi sono stati scritti in latino.
L'esortazione di Papa Benedetto XVI ai docenti e agli studenti della Facoltà di Lettere
Cristiane e Classiche della Pontificia Università Salesiana di Roma, alla fine dell' udienza
generale di mercoledì 22 febbraio 2006, mantiene la sua validità e rilevanza. E la pronunciò
in latino! Ve ne do qui una libera traduzione: «A giusto titolo i Nostri Predecessori hanno
insistito sullo studio della grande lingua latina in modo che si possa imparare meglio la
dottrina salvifica che si trova nelle discipline ecclesiastiche e umanistiche. Allo stesso modo
vi invitiamo a coltivare questa attività in modo che il maggior numero di persone possibile
possa avere accesso a questo tesoro e apprezzare la sua importanza» (5).

4. Il Canto gregoriano

«L'azione liturgica assume una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati
solennemente in canto» (6). Vi è un vecchio detto: bis orat qui bene cantar, che vuol dire,
«chi canta bene prega due volte». Questo perché l'intensità che la preghiera acquista
quando viene cantata, aumenta il suo ardore e moltiplica la sua efficacia (7). La buona
musica aiuta a promuovere la preghiera, a elevare gli animi dei fedeli a Dio e a dare alle
persone un assaggio della bontà di Dio.
Nel Rito Latino il cosiddetto canto gregoriano è sempre stato tradizionale. Un canto
liturgico caratteristico esisteva invero a Roma prima di san Gregorio Magno. Ma è stato
questo grande Pontefice a dare a tale canto la più grande rilevanza. Dopo san Gregorio
questa tradizione del canto continuò a svilupparsi e a essere arricchita fino agli sconvolgimenti
che posero fine al Medioevo. I monasteri, specialmente quelli dell'ordine
benedettino, hanno fatto molto per preservare questa eredità.
Il canto gregoriano è caratterizzato da una cadenza meditativa emozionante. Tocca le
profondità dell'animo. Mostra gioia, dispiacere, pentimento, petizione, speranza, lode o
ringraziamento, come può indicare una festa particolare, una parte dellaMessa o un' altra
preghiera. Rende più vivi i Salmi. Possiede un fascino universale che lo rende adatto a tutte
le culture e a tutti i popoli. È apprezzato a Roma, a Solesmes, a Lagos, a Toronto e a
Caracas. Risuona nella cattedrali, nei seminari, nei santuari, nei centri di pellegrinaggio e
nelle parrocchie tradizionali.
Il santo Papa Pio X celebrò il canto gregoriano nel 1904 (1). Il Concilio Ecumenico Vaticano
II lo lodò nel 1963: «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della
liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto
principale» (9). Il servo di Dio Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) ripeté questa lode nel
2003 (10). In occasione dell'incontro a Roma alla fine del 2005, Papa Benedetto XVI ha
incoraggiato l'associazione internazionale dei Pueri Cantores, che attribuisce un posto
privilegiato al canto gregoriano (11). A Roma e in tutto il mondo la Chiesa è
benedetta da molti cori importanti, sia professionisti che amatoriali, che interpretano in
modo molto bello il canto e comunicano il loro entusiasmo per esso.

Non è vero che i fedeli laici non vogliono cantare il canto gregoriano. Chiedono che i
sacerdoti, i monaci e le religiose condividano questo tesoro con loro. I compact disc prodotti
dai monaci benedettini di Silos, dalla loro casa madre a Solesmes e da molte altre comunità
sono molto venduti fra i giovani. I monasteri vengono visitati da persone che vogliono
cantare lodi e specialmente vespri. Nel corso di una cerimonia per l'ordinazione di undici
sacerdoti, che ho celebrato in Nigeria lo scorso luglio, circa centocinquanta sacerdoti hanno
cantato la prima preghiera eucaristica in latino. I fedeli presenti, anche se non erano
studiosi di latino, l'hanno molto apprezzata. Dovrebbe essere normale che nelle parrocchie,
dove la domenica vi sono quattro o cinque Messe, una di queste fosse cantata in latino.


  continua...........



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5. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha scoraggiato l'uso del latino?

Non è così. Appena prima di aprire il Concilio, il beato Papa Giovanni XXIII nel 1962
scrisse una Costituzione Apostolica per insistere sull' uso del latino nella Chiesa. Il Concilio
Ecumenico Vaticano II, sebbene abbia ammesso una certa introduzione della lingua
volgare, insistette sul posto del latino: «L'uso della lingua latina, salvo il diritto particolare,
sia conservato nei Riti Latini» (12). Il Concilio richiese anche ai seminaristi di «[...]
acquistarsi quella conoscenza della lingua latina che è necessaria per comprendere le fonti
di tante scienze e i documenti della Chiesa e per potersene servire» (13). Il Codice di Diritto
Canonico, pubblicato nel 1983, decreta: «La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua
latina o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati» (14).
Quindi sbagliano quanti vogliono dare l'impressione che la Chiesa abbia voluto togliere il
latino dalla liturgia. Una manifestazione dell'accettazione della liturgia latina ben celebrata
da parte delle persone si è avuta a livello mondiale nell' aprile del 2005, quando milioni di
persone seguirono in televisione le esequie del servo di Dio Papa Giovanni Paolo II e, due
settimane dopo, la Messa d'insediamento di Papa Benedetto XVI.
E’ importante il fatto che i giovani accettino volentieri la Messa celebrata a volte in latino.
Certo i problemi non mancano. Vi sono anche malintesi o approcci sbagliati da parte dei
sacerdoti sull' uso del latino. Ma per meglio centrare la questione, è necessario prima
esaminare l'uso del volgare oggi nella liturgia di Rito Romano.

6. La lingua volgare. Introduzione, diffusione, condizioni

Dopo la parziale esperienza acquisita in alcuni paesi negli anni precedenti, già il 5 e 6
dicembre 1962, dopo lunghi dibattiti a volte molto accesi, i Padri del Concilio Ecumenico
Vaticano II adottarono il principio secondo il quale l'uso della madrelingua, nella Messa o in
altre parti della liturgia, poteva essere spesso vantaggioso per le persone. L'anno
seguente il Concilio votò l' applicazione di questo principio alla Messa, al Rituale e alla
Liturgia delle Ore (15).
Seguì poi un uso più esteso del volgare. Ma come se i Padri del Concilio avessero previstola
possibilità che il latino perdesse sempre più terreno, insistettero perché il latino fosse
mantenuto.
L'articolo 36 della Costituzione sulla sacra Liturgia, già citato, comincia con il decretare che
«l'uso della lingua latina, salvo il diritto particolare, sia conservato nei Riti Latini». Gli articoli
54 e 101 dettavano i passi da seguire: «Si abbia cura [ ... ] che i fedeli sappiano recitare o
cantare insieme, anche in latino, le parti dell'Ordinario della Messa che spettano ad essi» (16);
e «Secondo la secolare tradizione del Rito Latino, per i chierici sia conservata nell'Ufficio
Divino la lingua latina» (17).

Ma, pur stabilendo dei limiti, i Padri del Concilio anticiparono la possibilità di un uso più
esteso del volgare. L' articolo 54, infatti, aggiunge: «Se poi in qualche luogo sembrasse
opportuno un uso più ampio della lingua nazionale nella Messa, si osservi quanto prescrive
l'articolo 40 di questa Costituzione» (18). L'articolo 40 dà direttive sul ruolo delle
Conferenze Episcopali e della Sede Apostolica su una materia così delicata. Il volgare era
stato introdotto. Il resto è storia. Gli sviluppi furono così rapidi che alcuni chierici, religiosi
e fedeli laici oggi non sono consapevoli del fatto che il Concilio Ecumenico Vaticano II non
introdusse la lingua volgare in tutte le parti della liturgia.
Richieste ed estensioni dell'uso del volgare non si fecero attendere. Su urgente richiesta
di alcune Conferenze Episcopali, Papa Paolo VI prima autorizzò la celebrazione del Prefazio
della Messa in volgare (11), poi dell'intero Canone e delle Preghiere di Ordinazione nel
1967.
Infine, il 14 giugno 1971, la Congregazione per il Culto Divino mandò una
comunicazione in cui si affermava che le Conferenze Episcopali potevano autorizzare l'uso
del volgare in tutti i testi della Messa, e ogni ordinario poteva dare la stessa autorizzazione
per la celebrazione corale o privata della Liturgia delle Ore (20).
Le ragioni dell' introduzione della madrelingua non sono difficili da ricercare. Essa
promuove una miglior comprensione di quel che la Chiesa prega, poiché «la Madre Chiesa
desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena, consapevole e attiva
partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura della stessa liturgia e
alla quale il popolo cristiano [ ... ] ha diritto e dovere in forza del battesimo» (21).
Nello stesso tempo non è difficile immaginare quanto sia complicato e delicato il lavoro di
traduzione. Ancora più difficile è la questione dell' adattamento e dell' inculturazione,
specialmente quando pensiamo alla sacralità della liturgia, alla tradizione secolare del Rito
Latino e allo stretto legame fra fede e culto riscontrabile nell' antica formula: lex orandi lex
credendi.
Passiamo ora alla questione spinosa delle traduzioni in volgare della liturgia.

7. Le traduzioni in volgare

La traduzione di testi liturgici dall'originale latino nelle varie lingue volgare è un elemento
molto importante nella vita di preghiera della Chiesa. Non è una questione di preghiera
privata, ma di preghiera pubblica offerta dalla santa Madre Chiesa, che ha il suo Capo in
Cristo. I testi latini sono stati preparati con grande cura per la dottrina, per un'esatta
formulazione, «[ ... ] immuni da qualsiasi pregiudizio ideologico e del resto ricchi di quelle
caratteristiche mediante le quali vengono trasmessi con efficacia nell'orazione attraverso il
linguaggio i sacri misteri della salvezza e l'indefettibile fede della Chiesa ed è reso a Dio
Altissimo un culto degno» (22). Le parole usate nella sacra liturgia manifestano la fede della
Chiesa e sono guidate da essa. La Chiesa pertanto necessita di una gran cura nel dirigere,
preparare e approvare le traduzioni, in modo che neanche una parola inappropriata possa
essere inserita nella liturgia da un individuo che abbia uno scopo personale o che
semplicemente non sia consapevole della serietà dei riti.
Pertanto le traduzioni dovrebbero essere fedeli al testo originale latino. Non dovrebbero
essere libere composizioni. Come ribadisce l'Instructio «Liturgiam authenticam», il principale
documento della Santa Sede che fornisce direttive sulle traduzioni, «[...] la traduzione dei
testi liturgici della liturgia romana non sia un'opera di innovazione creativa quanto piuttosto
la trasposizionefiedele e accurata dei testi originali in lingua vernacola» (23).

Il genio del Rito Latino dovrebbe essere rispettato. La triplice ripetizione è una delle sue
caratteristiche. Alcuni esempi sono: «mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa»;
«Kyrie Eleison, Christe eleison, Kyrie eleison», «Agnus Dei qui tollis ... », tre volte. Un
attento studio del Gloria in Excelsis Deo mostra anch'esso una triplice ripetizione. Le
traduzioni non dovrebbero eliminare o appiattire tale caratteristica.

La liturgia latina esprime non solo fatti ma anche sentimenti, sensazioni, per esempio di
fronte alla trascendenza di Dio, alla sua maestà, alla sua misericordia e al suo amore infinito
(24). Espressioni come «Te igitur, clementissime Pater», «Supplices te rogamus»,
«Propitius e-sto», «veneremur cernui», «Omnipotens etmisericors Dominus», «nos servi
tui», non dovrebbero essere sgonfiate o democratizzate da una traduzione iconoclasta.
Alcune di queste espressioni latine sono difficili da tradurre. Sono necessari i migliori esperti
di liturgia, di lingue classiche, di patrologia, di teologia, di spiritualità, di musica e di letteratura
in modo da elaborare traduzioni che risultino belle sulle labbra della santa Madre Chiesa.
Le traduzioni dovrebbero riflettere reverenza, gratitudine e adorazione davanti alla maestà
trascendente di Dio e alla fame dell'uomo di Dio, che sono molto chiare nei testi latini. Papa
Benedetto XVI, nel suo Messaggio allariunione del Comitato Vox Clara per la traduzione dei
testi latini in inglese del 9 novembre 2005, parla di traduzioni che «[...] riusciranno a
trasmettere i tesori della fede e la tradizione liturgica nel contesto specificodi una
celebrazione eucaristica devota e riverente» (25).

Molti testi liturgici sono ricchi di espressioni bibliche, segni e simboli. Essi possiedono
modelli di preghiera che risalgono ai Salmi. Il traduttore non lo può ignorare.
Una lingua parlata oggi da milioni di persone avrà senza dubbio molte sfumature e
variazioni. Vi è una differenza fra l'inglese usato nella Costituzione di un paese, quello
parlato dal presidente di una Repubblica, la lingua convenzionale dei lavoratori del
porto o quella degli studenti o la conversazione fra genitori e bambini. Il modo di
esprimersi non può essere lo stesso in tutte queste situazioni, anche se tutti usano l'inglese.
Quale forma dovrebbero adottare le traduzioni liturgiche? Senza dubbio il volgare liturgico
dovrebbe essere intelligibile e facile da proclamare e da capire. Allo stesso tempo dovrebbe
essere dignitoso, sobrio, stabile e non soggetto a cambiamenti frequenti. Non si dovrebbe
esitare a usare alcune parole non generalmente usate nel linguaggio quotidiano, o parole
che sono associate alla fede e al culto cattolico. Pertanto si dovrebbe dire «calice» e non
semplicemente «coppa», «patena» e non «piatto», «ciborio» e non», «recipiente»
«sacerdote» e non «celebrante», «ostia sacra» e non «pane consacrato», «abito» e non
«vestito». Pertanto l'Instructio «Liturgiam authenticam» afferma: «Poiché conviene che la
traduzione trasmetta il tesoro perenne di orazioni tramite un linguaggio comprensibile nel
contesto culturale a cui è destinata, [...] non c'è da meravigliarsi se può differire alquanto
dal linguaggio ordinario» (26).

L' intelligibilità non dovrebbe voler dire che ogni parola dev'essere capita da tutti
immediatamente. Guardiamo attentamente al Credo. È un «simbolo», una dichiarazione
solenne che riassume la nostra fede. La Chiesa ha dovuto convocare alcuni Concili
Generali per un'esatta formulazione di alcuni articoli della nostra fede. Non tutti i cattolici
a Messa capiscono immediatamente e appieno alcune espressioni liturgiche cattoliche quali
Incarnazione, Creazione, Passione, Risurrezione, «consustanziale», «che procede dal Padre
e dal Figlio», Transustanziazione, Presenza Reale e «Dio onnipotente». Questa non è
una questione d'inglese, di francese, d'italiano, di hindi o di swahili. I traduttori non
dovrebbero diventare iconoclasti che distruggono o danneggiano man mano che traducono.
Non tutto può essere spiegato durante la liturgia.

La liturgia non esaurisce l'intera
azione della Chiesa (27. Vi è bisogno anche di teologia, di catechesi e di predicazione.
E,
anche quando si offre una buona catechesi, un mistero della nostra fede rimane un mistero.
In realtà possiamo dire che la cosa più importante nel culto divino non è quella di
capire ogni parola o concetto. No. La considerazione più importante è che ci troviamo in un
atteggiamento di reverenza e di timore di fronte a Dio, che adoriamo, lodiamo e
ringraziamo. Il sacro, le cose di Dio, vanno affrontate senza idee preconcette.
Nella preghiera la lingua è prima di tutto un contatto con Dio. Senza dubbio la lingua
serve anche per una comunicazione intelligibile fra esseri umani. Ma il contatto con Dio
ha la priorità. Nella mistica tale contatto con Dio si avvicina all'ineffabile e a volte lo
raggiunge: allora si dà il silenzio mistico dove cessa il linguaggio.
Non sorprende dunque che il linguaggio liturgico differisca in qualche modo dal nostro
linguaggio quotidiano. Il linguaggio liturgico cerca di esprimere la preghiera cristiana nella
quale si celebrano i misteri di Cristo.

Allo scopo di riunire i vari elementi necessari per produrre buone traduzioni liturgiche,
permettetemi di citare il discorso del servo di Dio Papa Giovanni Paolo II ai vescovi
americani provenienti dalla California, dal Nevada e dalle Hawaii durante la loro visita a
Roma nel 1993. Il Papa chiedeva a loro di preservare tutta l'integrità dottrinale e la bellezza
dei testi originali. « Una delle vostre responsabilità a questo proposito [ ... ] è quella di
fornire traduzioni esatte e appropriate dei testi liturgici ufficiali cosicché, subendo la
necessaria revisione e ottenendo l'approvazione della Santa Sede, possano essere
strumento e garanzia di un'autentica condivisione del mistero di Cristo e della Chiesa: lex
orandi, lex credendi. Il difficile compito della traduzione deve tutelare la piena integrità dottrinale
e, secondo lo spirito di ogni lingua, la bellezza dei testi originali. Poiché tante
persone hanno sete del Dio vivente — la cui maestà e misericordia sono al centro della
preghiera liturgica — la Chiesa deve rispondere con un linguaggio di lode e di culto che
promuova il rispetto e la gratitudine per la grandezza, la compassione e la potenza di Dio.
Quando i fedeli si riuniscono per celebrare l'opera della nostra Redenzione, il linguaggio
della loro preghiera — libero da ambiguità dottrinali e influenze teologiche — dovrebbe
promuovere la dignità e la bellezza della celebrazione stessa, esprimendofedelmente la fede
e l'unità della Chiesa » (28).
Da queste considerazioni consegue che la Chiesa deve esercitare un' attenta
sorveglianza sulle traduzioni liturgiche. La responsabilità per la traduzione dei testi spetta
alla Conferenza Episcopale, che sottopone le traduzioni alla Santa Sede per la necessaria
recognitio, «revisione» (29).
Ne consegue che nessun individuo, nemmeno un sacerdote o un diacono, ha l' autorità
di cambiare la dizione approvata nella sacra liturgia. Questo è anche buon senso. Ma a
volte notiamo che il buon senso non è molto diffuso. Perciò l'Istruzione «Redemptionis
sacramentum» ha dovuto dire espressamente: «Sipongafine al riprovevole uso con il
quale i Sacerdoti, i Diaconi o anche i fedeli mutano e alterano a proprio arbitrio qua e là i
testi della sacra Liturgia da essi pronunciati. Così facendo, infatti, rendono instabile la
celebrazione della sacra Liturgia e non di rado ne alterano il senso autentico (30).

  continua..........


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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26/10/2012 14:10
 
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8. Che cosa ci si aspetta da noi?

Dovremmo fare del nostro meglio per apprezzare la lingua che la Chiesa usa nella liturgia
e unire i nostri cuori e le nostre voci, seguendo le indicazioni di ogni Rito liturgico. Non
tutti sanno il latino, ma i fedeli laici possono almeno imparare le risposte più semplici in
latino. I sacerdoti dovrebbero prestare più attenzione al latino, celebrando una Messa in
latino di tanto in tanto. Nelle grandi chiese dove si celebrano molte Messe la domenica o
nei giorni festivi, perché non celebrare una di queste Messe in latino? Nelle parrocchie rurali
una Messa latina dovrebbe essere possibile, diciamo una volta al mese. Nelle assemblee
internazionali, il latino diventa ancora più urgente. Ne consegue che i seminari dovrebbero
prestare attenzione a preparare e a formare i sacerdoti anche all'uso del latino (3I)
Tutti i responsabili delle traduzioni in lingua volgare dovrebbero sforzarsi di fornire il meglio,
seguendo la guida dei documenti della Chiesa, specialmente l'Instructio «Liturgiam
authenticam». L' esperienza insegna che non è superfluo osservare che i sacerdoti, i
diaconi e quanti proclamano i testi liturgici, dovrebbero leggerli con chiarezza e con la
dovuta reverenza.

La lingua non è tutto. Ma è uno degli elementi più importanti che necessitano di
attenzione per buone celebrazioni, che siano belle e ricche di fede.
È un onore per noi diventare parte della voce della Chiesa nella preghiera pubblica. La
beata Vergine Maria, Madre del Verbo fatto carne, i cui misteri celebriamo nella sacra
liturgia, ottenga per tutti noi la grazia di fare la nostra parte per partecipare con il canto alle
lodi del Signore sia in latino che in volgare.

+ Francis Card. Arinze
Prefetto della Congregazione
per il Culto Divino

(1) CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», del 4-12-1963, n.
7.
(2) SANT'Aurelio AGOSTINO, Esposizione sul salmo 85, 1, in IDEM, Enarrationes in Psalmos. Esposizione sui Salmi, testo
latino dell'Edizione Maurina ripresa sostanzialmente dal Corpus Christianorum, traduzione, revisione e note illustrative a cura di
Vincenzo Taralli, vol. II. Città Nuova. Roma 1970, pp. 1242 – 1289
(3) Cfr. MONSIGNOR ~-GEORGES MARTIMORT (1911-2000) (a cura di), La Chiesa in preghiera. Introduzione alla Liturgia,
vol. I, I Principi della Liturgia, trad. it. Queriniana, Brescia, 1987, pp. 182-188
(4) Cfr. BEATO GIOVANNI XXIII, Costitutio Apostolica de Latinitatis studio provehendo «VeterumSapientia», del 22-2-1962,
nn. 5, 6 e 7, in Discorsi Messaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. IV, pp. 965-973 (pp. 971-973).
(5) BENEDETTO XVI, Saluto ai docenti e agli studenti della Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche della Pontificia
Università Salesiana, del 22-2-2006, in L'Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23-2-
2006.
(6) CONCILIO ECUMENICO VATICANO Il, Costi
tuzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 113.
(7) Cfr. PAOLO VI, Discorso alle «Scholae Cantorum» dell'Associazione Italiana Santa Cecilia per la Musica Sacra, del 25-9-
1977, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. XV, pp. 866-868.
(8) Cfr. SAN Pio X, Motu proprio «Tra le sollecitudini» sulla musica sacra, del 22-111903, n. 3, in Tutte le encicliche e i
principali documenti pontifici emanati dal 1740.250 anni di storia visti dalla Santa Sede, a cura di Ugo Bellocchi, vol. VII,
PioX(1903-1914), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 49-56 (p. 51).
(9) Concilio Ecumenico VATICANO 11, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 116.
(10) Cfr. SERVO DI Dio GIOVANNI PAOLO II, Chirografo «Mosso dal vivo desiderio» per il centenario del Motu proprio
«Tra la sollecitudini» sulla musica sacra, del 22-11-2003, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XXVI, 2, nn. 4 – 7; e Idem,
Lettera Apostolica “Lo Spirito” del 4-12-2003, n.4
(11) Cfr. BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale dei «Pueri Cantores », del 30-12-2005, in
Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. I, pp. 1136-1137.
(12)CONCILIO ECUMENICO VATICANO 11, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 36 § I.
(13)IDEM, Decreto sulla formazione sacerdotale «optata totius», del 28-10-1965, n. 13.
(14) Codice di Diritto Canonico, can. 928, Testo ufficiale e versione italiana sotto il patrocinio della Pontificia Università
Lateranense e della Pontificia Università Salesiana, Unione Editori Cattolici Italiani, terza edizione riveduta, corretta e
aumentata, Roma 1997, p. 681.
(15)Cfr. Concilio Ecumenico VATICANO II, Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., nn. 36, 54, 63,
(16) Ibid., n. 54
(17) ) Ibid., n. 101
(19)Cfr. De praefatione in Missa [lettera del card. segretario di Stato Amleto Giovanni Cicognani (1883-1973) al card.
Giacomo Lercaro (1891-1976)], 27-4-1965, in DON REINER KACZYNSKI (a cura di), Enchiridion DocumentorumkstaurationisLiturgiche,
vol. I, (19631973), Marietti, Torino 1976, ristampa a cura delle C.L.V. Edizioni Liturgiche,
Roma 1990, n. 30, p. 129.
(20) Cfr. l'intero sviluppo, in MONSIGNOR A. G. MARTIMORT, Op. cit., pp. 186-188.
(21)Concilio ECUMENICO VATICANO II, Costituzione
sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 14.
(22)CONGREGATIO DE CULTU Divino ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM, De usu linguarum popularum in libris
liturgiae romance edendis Instructio Quinta «Ad executionem Constitutionis Concilii Vaticani Secundi de Sacra Liturgia rette
ordinanda» (Ad Const. art. 36) «Liturgiam authenticam», del 28-3-200 1, n. 3, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della
Santa Sede, vol. 20, 2001, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2004, pp. 276-371 (p. 279). larum in libris liturgiae
romance edendis Instructio Quinta «Ad executionem Constitutionis Concilii Vaticani Secundi de Sacra Liturgia rette
ordinanda» (Ad Const. art. 36) «Liturgiam authenticam», del 28-3-200 1, n. 3, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali
della Santa Sede, vol. 20, 2001, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2004, pp. 276-371 (p. 279).
(23) Ibid., n. 20, p. 293.
(24) cfr. Ibid., n. 25, p. 247
(25)BENEDETTO XVI, Message on occasion of the recent meeting of the «Vox Clara Committee», del 9-11-2005, in
Notitiae. Congregatio de CultuDivino et Disciplina Sacramentorum, n. 471-472. Città del Vaticano novembre-dicembre
2005, pp. 557-558 (p. 557).
(26) Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum De usu linguarum popularum in libris liturgiae romance
edendis Instructio Quinta «Ad executionem Constitutionis Concilii Vaticani Secondi de Sacra Liturgia rette
ordinanda» (Ad Const. art. 36) «Liturgiam authenticam», cit., n. 47, p. 315.
(27) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium,
cit. n. 9
(28) SERVO DI Dio GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Vescovi statunitensi della California, del Nevada e delle
Hawaii in visita «elimina», del 4-12-1993, in Insegnamenti di Giovanni Paolo 11, vol. XVI, 2, pp. 1397-1403 (pp. 1399-
1400).
(29) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II,
Costituzione sulla sacra Liturgia «Sacrosanctum Concilium», cit., n. 36 §§ 3-4; Codice di Diritto Canonico, can. 838,
ed. cit., pp. 627 e 629; e CONGREGATIO DE CULTU DIVINO ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM, De usu
linguarum popularum in libris liturgiae romance edendis Instructio Quinta «Ad executionem Constitutionis
Concilii Vaticani Secundi de Sacra Liturgia rette ordinanda» (Ad Const. art. 36) «Liturgiam authenticam», cit., n.
80, p. 337.
(30) CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Istruzione
«Redemptionis sacramentum» su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima
Eucaristia, del 25-3-2004, n. 59, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 22,2003-2004,
EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2006, pp. 12921403 (p. 1333); cfr. pure Principi e norme per l'uso del Messale
romano, del 20-4-2000, n. 24, ibid., vol. 19, 2000, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2004, pp. 112-319 (p. 137).
(11) Cfr. XI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, L'Eucaristia: fonte e culmine
della vita e della missione della Chiesa, Roma 2-23 ottobre 2005, Proposizione 36, L'uso del latino nelle celebrazioni
liturgiche: [«Nella celebrazione dell'Eucaristia durante gli incontri internazionali, oggi sempre più frequenti, per
meglio esprimere l'unità e l'universalità della Chiesa, si propone:
«— di suggerire che la (con)celebrazione della Santa Messa sia in latino (eccetto le letture, l'omelia e la
preghiera dei fedeli). Così pure siano recitate in latino le preghiere della tradizione della Chiesa ed eventualmente
eseguiti brani del canto gregoriano;
«— di raccomandare che i sacerdoti, fin dal Seminario, siano preparati a comprendere e celebrare la Santa
Messa in latino, nonché a utilizzare preghiere latine e a saper valorizzare il canto gregoriano;
«— di non trascurare la possibilità che gli stessi fedeli siano educati in questo senso»] «www.vatican.va/news–
services/press/sinod o/documents/bollettino 21 xi-ordinaria-2005/ 01 italiano/b31 0 I.htn-A



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[SM=g1740733]ATTENZIONE: il santo Padre Benedetto XVI, citando la Veterum Sapientia, istituisce la Pontificia Accademia Latinitatis....


IL PAPA ISTITUISCE LA PONTIFICIA ACCADEMIA DI LATINITÀ

Città del Vaticano, 10 novembre 2012 (VIS). Con il Motu Proprio "Latina Lingua", reso pubblico oggi, il Santo Padre Benedetto XVI ha istituito la Pontificia Accademia di Latinità, dipendente dal Pontificio Consiglio della Cultura. L'Accademia sarà retta da un Presidente, coadiuvato da un Segretario, nominati dal Papa e da un Consiglio Accademico. La Fondazione "Latinitas", costituita dal Papa Paolo VI, con il Chirografo "Romani Sermonis", del 30 giugno 1976, è estinta.


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