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Dichiarazione: Dottrina Cattolica sulla Chiesa per difenderla da alcuni errori di oggi

Ultimo Aggiornamento: 06/04/2012 10:14
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02/04/2012 23:20
 
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(Declaratio circa catholicam doctrinam de Ecclesia contra nonnullos errores hodiernos tuendam), 24 giugno 1973
AAS 65 (1973) 396-408; DOCUMENTA 17; DeS 2 (1993)
OR 6.7.1973, 1-2; CEE 32-59 [Lat./Hisp.]; Communicationes 5 (1973) 132-145; EV 4, 1660-1685; LE 4212; Dokumenty, I, 17; Origins 3 (1973) 97-100



SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

DICHIARAZIONE
CIRCA LA DOTTRINA CATTOLICA SULLA CHIESA
PER DIFENDERLA DA ALCUNI ERRORI D'OGGI

 

Il mistero della Chiesa, illuminato di luce nuova dal Concilio Vaticano II, è stato poi ripetutamente riconsiderato in numerosi scritti di teologi. Mentre non pochi di essi hanno di certo contribuito a farlo meglio comprendere, altri invece, a causa del linguaggio ambiguo o addirittura erroneo, hanno oscurato la dottrina cattolica, giungendo, talvolta, al punto di opporsi alla fede cattolica anche in cose fondamentali.

Quando, dunque, è stato necessario, non sono mancati Vescovi di varie nazioni, i quali, nella loro responsabilità «di conservare puro ed integro il deposito della fede» e nel loro dovere «di annunciare incessantemente il Vangelo»(1) hanno avuto premura, con dichiarazioni convergenti, di premunire dal pericolo di errore i fedeli affidati alle loro cure. Ed anche la seconda Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, trattando del sacerdozio ministeriale, ha esposto alcuni punti dottrinali, importanti per quel che riguarda la costituzione della Chiesa.

Parimenti, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il cui compito è quello di «tutelare la dottrina circa la fede e i costumi in tutto il mondo cattolico»(2) rifacendosi anzitutto ai due Concili Vaticani, intende riassumere e spiegare alcune verità attinenti al mistero della Chiesa, le quali sono oggi negate o messe in pericolo.

1

L'unicità della Chiesa di Cristo

Unica è la Chiesa «che il nostro Salvatore, dopo la sua resurrezione, lasciò alla cura pastorale di Pietro (cf. Gv. 21, 17), della quale affidò a lui e agli altri Apostoli la diffusione e la guida (cf. Mt. 18, 18 ss.), e che costituì per sempre come colonna e sostegno della verità (cf. 1 Tim. 3, 15)»; e tale Chiesa di Cristo, «costituita e organizzata come società in questo mondo, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui».(3) Questa dichiarazione del Concilio Vaticano II è illustrata dalle parole dello stesso Concilio, quando afferma che «solo... mediante la Chiesa cattolica di Cristo, strumento universale di salvezza, è possibile entrare nel pieno possesso di tutti i mezzi di salvezza»; (4) e che la medesima Chiesa cattolica «è stata arricchita di tutta la verità divinamente rivelata e di tutti i mezzi di grazia»,(5) di cui Cristo ha voluto dotare la sua comunità messianica. Ciò non toglie che essa, mentre è ancora pellegrina sulla terra, «poiché comprende peccatori nel suo seno, sia insieme santa e bisognosa di continua purificazione»; (6) e nemmeno che «al di fuori della sua struttura» e, più espressamente, nelle Chiese o comunità ecclesiali, che non sono in perfetta comunione con la Chiesa cattolica, «si trovino in quantità elementi di santificazione e di verità che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono all'unità cattolica».(7)

Per tali ragioni, «è necessario che i cattolici riconoscano con gioia ed apprezzino i valori genuinamente cristiani, derivanti dallo stesso patrimonio comune, che si riscontrano presso i fratelli da noi separati»; (8 )e che, in un comune sforzo di purificazione e di rinnovamento, si impegnino per la ricomposizione dell'unità tra tutti i cristiani,(9) affinché la volontà di Cristo si compia e la divisione dei cristiani più non continui ad ostacolare la proclamazione del Vangelo nel mondo.(10) Ma, al tempo stesso, i cattolici son tenuti a professare di appartenere, per misericordioso dono di Dio, alla Chiesa fondata da Cristo e guidata dai succes­sori di Pietro e degli altri Apostoli, presso i quali permane, intatta e viva, l'originaria tradizione apostolica, che è patrimonio perenne di verità e di santità della medesima Chiesa.(11) Non possono, quindi, i fedeli immaginarsi la Chiesa di Cristo come la somma — differenziata ed in qualche modo unitaria insieme — delle Chiese e comunità ecclesiali; né hanno facoltà di pensare che la Chiesa di Cristo oggi non esista più in alcun luogo e che, perciò, debba esser soltanto oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e comunità.
 

2

L'infallibilità di tutta la Chiesa

«Nella sua immensa bontà Dio dispose che la Rivelazione, da lui fatta per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre nella sua interezza».(12) A tal fine, egli ha affidato alla Chiesa il tesoro della parola di Dio, alla cui conservazione, penetrazione ed applicazione alla vita concorrano insieme i Pastori e il Popolo santo.(13)

Dio stesso, dunque, l'assolutamente infallibile, ha voluto dotare il suo Popolo nuovo, che è la Chiesa, di un'infallibilità partecipata, circoscritta alle cose riguardanti la fede e i costumi; essa appunto si verifica quando tutto il Popolo di Dio ritiene senza incertezze qualche punto dottrinale attinente a tali cose; essa, ancora, è in permanente dipendenza dallo Spirito Santo che, con sapiente provvidenza e con l'unzione della sua grazia, guida la Chiesa alla verità intera, fino alla venuta gloriosa del suo Signore.(14) Circa questa infallibilità del Popolo di Dio il Concilio Vaticano II dichiara: «L'universalità dei fedeli, che hanno l'unzione ricevuta dal Santo (cf. 1 Gv. 2, 20 e 27), non può ingannarsi nel credere, e manifesta questa sua singolare proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando "dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici" (S. Agostino, De Praed. Sanct. 14, 27) esprime l'unanime suo consenso in cose riguardanti la fede e i costumi».(15)

Ma lo Spirito Santo illumina e soccorre il Popolo di Dio, in quanto è il corpo di Cristo, unito in comunione gerarchica. Lo dice il Concilio Vaticano II, quando alle parole ora riferite aggiunge: « Mediante quel senso della fede, suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il Popolo di Dio, sotto la guida del sacro Magistero, nella cui obbedienza fedele accoglie non già una parola d'uomini, ma, qual è veramente, la parola di Dio (cf. 1 Tess. 2, 13), indefettibilmente aderisce "alla fede trasmessa ai credenti una volta per tutte" (Giuda 3), con retto giudizio la penetra più a fondo e più perfettamente la applica nella vita ».(16)

Senza dubbio i fedeli, partecipi anch'essi, in certa misura, dell'ufficio profetico di Cristo,(17) in tante maniere contribuiscono ad accrescere la comprensione della fede nella Chiesa. «Cresce infatti — così dice il Concilio Vaticano II — la percezione delle realtà e delle parole trasmesse, sia mediante la riflessione e lo studio dei credenti che le meditano nel loro cuore (cf. Lue. 2, 19 e 51), sia mediante l'intelligenza interiormente sperimentata delle realtà spirituali, sia mediante la predicazione di coloro che, con la successione episcopale, hanno ricevuto un sicuro carisma di verità ».(18) Ed il Sommo Pontefice Paolo VI osserva che la «testimonianza» che è data dai Pastori della Chiesa è «saldamente ancorata nella sacra Tradizione e nella sacra Scrittura, e alimentata dalla vita di tutto il Popolo di Dio».(19)

Tuttavia, per istituzione divina, ammaestrare i fedeli autenticamente, cioè con l'autorità di Cristo a diverso titolo loro partecipata, è competenza esclusiva di questi Pastori, successori di Pietro e degli altri Apostoli; per questo i fedeli, lungi dal limitarsi ad ascoltarli semplicemente quali esperti della dottrina cattolica, son tenuti ad aderire al loro insegnamento impartito in nome di Cristo, proporzionatamente all'autorità che possiedono e che intendono esercitare.(20) Perciò il Concilio Vaticano II, in sintonia col Concilio Vaticano I, ha insegnato che Cristo ha stabilito in Pietro «il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità di fede e di comunione»; (21)e il Sommo Pontefice Paolo VI ha affermato che «il magistero dei Vescovi è, per i credenti, il segno e il tramite che consente loro di ricevere e di riconoscere là parola di Dio».(22) Per quanto, dunque, il sacro Magistero si avvalga della contemplazione, della condotta e della ricerca dei fedeli, il suo ufficio non si riduce, però, a ratificare il consenso da loro già espresso; anzi, nell'interpretazione e nella spiegazione della parola di Dio scritta o trasmessa, esso può prevenire ed esigere tale consenso.(23) Ed infine, dell'intervento ed aiuto del Magistero il Popolo di Dio ha particolarmente bisogno, quando dissensi interni insorgono e si diffondono su una dottrina che dev'essere creduta o ritenuta; ciò ad evitare che, all'interno dell'unico corpo del suo Signore, esso sia privato della comunione in un'unica fede (cf. Ef. 4, 4 è 5).

 

3

L'infallibilità del Magistero della Chiesa

Gesù Cristo, nell'affidare ai Pastori l'incarico di insegnare il Vangelo a tutto il suo Popolo e all'intera famiglia umana, volle dotare il loro Magistero di un adeguato carisma di infallibilità in cose riguardanti la fede e i costumi. Poiché tale carisma non proviene da nuove rivelazioni, di cui sarebbero gratificati il Successore di Pietro e il Collegio episcopale,(24) esso non li dispensa dall'impegno di scrutare, con l'uso di mezzi appropriati, il tesoro della divina Rivelazione contenuto nei Sacri Libri, che ci insegnano intatta la verità che Dio ha voluto fosse scritta in vista della nostra salvezza,(25) e nella viva Tradizione apostolica.(26) Ma nell'esercizio della loro funzione i Pastori della Chiesa sono convenientemente assistiti dallo Spirito Santo; e questa assistenza raggiunge il vertice, quando ammaestrano il Popolo di Dio in modo tale che, per le promesse di Cristo a Pietro e agli altri Apostoli, il loro insegnamento è necessariamente immune da errore.

Questo si verifica quando i Vescovi dispersi nel mondo, ma in comunione di magistero col Successore di Pietro, convergono in un'unica sentenza da ritenersi come definitiva.(27) Lo stesso avviene ancora in modo più evidente, sia quando i Vescovi con atto collegiale — come nel caso dei Concili ecumenici — unitamente al loro Capo visibile definiscono che una dottrina dev'esser ritenuta,(28) sia quando il Romano Pontefice «parla ex cathedra, quando cioè, nell'adempimento dell'ufficio di pastore e dottore di tutti i cristiani, con la sua suprema potestà apostolica definisce che una dottrina sulla fede o sui costumi dev'esser tenuta dalla Chiesa universale».(29)

Secondo la dottrina cattolica, l'infallibilità del Magistero della Chiesa si estende non solo al deposito della fede, ma anche a tutto ciò che è necessario perché esso possa esser custodito od esposto come si deve.(30 ) L'estensione, poi, di tale infallibilità al deposito stesso della fede è una verità che la Chiesa, fin dalle origini, ha ritenuto come certamente rivelata nelle promesse di Cristo. Fondandosi appunto su questa verità, il Concilio Vaticano I definì qual è l'oggetto della fede cattolica: «Si devono credere con fede divina e cattolica tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o trasmessa, e che dalla Chiesa, con solenne giudizio o nel magistero ordinario e universale, sono proposte a credere come divinamente rivelate».(31) Di conseguenza, l'oggetto della fede cattolica — che specificamente va sotto il nome di dogmi — come necessariamente è ed è sempre stato la norma immutabile per la fede, altrettanto lo è per la scienza teologica.

 

4

Non si deve attenuare il dono dell'infallibilità della Chiesa

Da quanto è stato detto circa l'estensione e le condizioni dell'infallibilità del Popolo di Dio e del Magistero ecclesiastico, consegue che in nessun modo è consentito ai fedeli di riconoscere nella Chiesa soltanto una « fondamentale » permanenza nella verità, conciliabile — come vorrebbero alcuni — con errori qua e là disseminati nelle sentenze insegnate come definitive dal Magistero della Chiesa, ovvero nel consenso senza incertezze del Popolo di Dio in cose di fede e di costumi.

È vero, sì, che è mediante la fede salvifica che gli uomini si orientano verso Dio,(32) rivelantesi nel Figlio suo, Gesù Cristo. Ma a torto da ciò si dedurrebbe che si possano deprezzare o addirittura negare i dogmi della Chiesa, che esprimono altri misteri. Anzi, il doveroso orientamento verso Dio mediante la fede è proprio un'obbedienza (cf. Rom 16, 26), tale da importare piena conformità alla natura della Rivelazione divina ed alle sue esigenze. Ora questa Rivelazione, in tutto l'ambito della salvezza, svela il mistero di Dio che ha mandato il suo Figlio nel mondo (cf. 1 Gv. 4, 14) e ne insegna l'applicazione alla condotta cristiana; essa esige, inoltre, che, in piena obbedienza dell'intelletto e della volontà a Dio rivelante,(33) sia accettato il lieto annuncio della salvezza, com'è infallibilmente insegnato dai Pastori della Chiesa. I fedeli, dunque, mediante la fede si orientano verso Dio, rivelantesi in Cristo, come si deve, aderendo a lui nella dottrina integrale della fede cattolica.

Esiste, certo, un ordine e come una gerarchia dei dogmi della Chiesa, dato che diverso è il loro nesso col fondamento della fede.(34) Ma questa gerarchia significa che alcuni dogmi si fondano su altri come principali e ne sono illuminati. Tutti i dogmi, però, perché rivelati, devono essere ugualmente creduti per fede divina.(35)

 

5

Non si deve falsificare il concetto di infallibilità della Chiesa

La trasmissione della divina Rivelazione da parte della Chiesa incontra difficoltà di vario genere. Esse derivano, primariamente, dal fatto che gli arcani misteri di Dio «per loro natura trascendono tanto l'intelletto umano che, quantunque comunicati dalla rivelazione ed accettati per fede, restano tuttavia velati dalla fede stessa e come avvolti d'oscurità»;(36) e derivano, poi, dal condizionamento storico che incide sull'espressione della Rivelazione.

In merito a tale condizionamento storico, si deve anzitutto osservare che il senso contenuto nelle enunciazioni di fede dipende, in parte, dalla peculiarità espressiva di una lingua usata in una data epoca ed in determinate circostanze. Inoltre, avviene talora che qualche verità dogmatica in un primo tempo sia espressa in modo incompleto, anche se falso mai, e che in seguito, considerata in un più ampio contesto di fede o anche di conoscenze umane, riceva più completa e perfetta espressione. La Chiesa, ancora, quando fa enunciazioni nuove, intende confermare o chiarire quel che, in qualche modo, è già contenuto nella Scrittura o in antecedenti espressioni della Tradizione, ma abitualmente si preoccupa anche di dirimere certe controversie o di sradicare errori; e di tutto questo si deve tener conto, perché quelle enunciazioni siano rettamente interpretate. Da aggiungere, infine, che, sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità dal sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni.

Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall'inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano per sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente.(37) Ma questo non vuol dire che ciascuna di esse lo sia stata o lo resterà in pari misura. Per tale motivo, i teologi si sforzano di delimitare con esattezza qual è l'intenzionalità d'insegnamento che è propria di quelle diverse formule, e con questo loro lavoro offrono una qualificata collaborazione al Magistero vivo della Chiesa, al quale rimangono subordinati. Per lo stesso motivo può, inoltre, accadere che antiche formule dogmatiche o altre ad esse connesse rimangano vive e feconde nell'uso abituale della Chiesa, ma con opportune aggiunte espositive ed esplicative, che ne mantengano e chiariscano il senso congenito. D'altra parte, è anche avvenuto che, nel medesimo uso abituale della Chiesa, ad alcune di quelle formule sono subentrate espressioni nuove che, proposte o approvate dal sacro Magistero, ne indicano l'identico significato in modo più chiaro e completo.

Quanto poi al significato stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa rimane sempre vero e coerente, anche quando è maggiormente chiarito e meglio compreso. Devono, quindi, i fedeli rifuggire dall'opinione la quale ritiene che le formule dogmatiche (o qualche categoria di esse) non possono manifestare la verità determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti, che sono, in certa maniera, deformazioni e alterazioni della medesima; e che le stesse formule, inoltre, manifestano soltanto in modo indefinito la verità, la quale dev'esser continuamente cercata attraverso quelle approssimazioni. Chi la pensasse così, non sfuggirebbe al relativismo dogmatico e falsificherebbe il concetto d'infallibilità della Chiesa, relativo alla verità da insegnare e ritenere in modo determinato.

Un'opinione del genere è in aperto contrasto con le dichiarazioni del Concilio Vaticano I, il quale, pur consapevole del progresso della Chiesa nella conoscenza della verità rivelata,(38) ha tuttavia insegnato: «Ai sacri (...) dogmi dev'esser sempre mantenuto il senso dichiarato una volta per tutte dalla santa madre Chiesa, e mai è permesso allontanarsi da quel senso col pretesto ed in nome di un'intelligenza più progredita».(39) Esso ha, inoltre, condannato la sentenza secondo la quale potrebbe accadere «che ai dogmi proposti dalla Chiesa si debba talvolta dare, in base al progresso della scienza, un senso diverso da quello che la Chiesa ha inteso ed intende».(40) Non c'è dubbio, secondo tali testi del Concilio, che il senso dei dogmi dichiarato dalla Chiesa sia ben determinato ed irreformabile.

Detta opinione è pure in disaccordo con quanto disse sulla dottrina cristiana il Sommo Pontefice Giovanni XXIII, durante l'inaugurazione del Concilio Vaticano II: «Bisogna che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale è dovuto ossequio fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l'epoca nostra richiede. Una cosa è, infatti, il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo della loro enunciazione, sempre però nel medesimo senso e significato».(41) Poiché il Successore di Pietro parla qui di dottrina cristiana certa ed immutabile, di deposito della fede da identificare con le verità contenute in tale dottrina, e di verità che devono esser conservate nel medesimo senso, è chiaro che egli ammette che il senso dei dogmi può esser da noi conosciuto, e che questo è esatto ed immutabile. E la novità da lui raccomandata, in considerazione delle esigenze dei nostri tempi, riguarda soltanto i modi di ricerca, di esposizione e di enunciazione della stessa dottrina nel suo senso permanente. In modo analogo, il Sommo Pontefice Paolo VI, nell'esortazione ai Pastori della Chiesa, ha dichiarato: «Da noi si richiede oggi un serio sforzo, perché la dottrina della fede conservi la pienezza del suo contenuto e del suo significato, pur esprimendola in maniera che le consenta di raggiungere la mente e il cuore degli uomini, ai quali è diretta».(42)

 

6

La Chiesa associata al sacerdozio di Cristo

Cristo Signore, Pontefice della nuova ed eterna alleanza, ha voluto associare e conformare al suo sacerdozio perfetto il popolo acquistato col proprio sangue (cf. Ebr. 7, 20-22 e 26-28; 10, 14 e 21). Egli, perciò, ha partecipato, come dono, alla Chiesa il suo sacerdozio, e ciò mediante il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale o gerarchico, i quali, sebbene differenti per essenza e non solo per grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro nella comunione ecclesiale.(43)

Il sacerdozio comune dei fedeli, chiamato giustamente anche sacerdozio regale (cf. 1 Pt. 2, 9; Apoc. 1, 6; 5, 9 s.), poiché effettua il congiungimento dei fedeli, in quanto membri del popolo messianico, col loro Re celeste, è conferito nel Sacramento del battesimo. In forza di questo Sacramento, a causa del segno inamissibile chiamato carattere, i fedeli «incorporati nella Chiesa, sono abilitati al culto della religione cristiana», ed insieme «essendo rigenerati in figli di Dio, son tenuti a professare pubblicamente la fede, da lui ricevuta attraverso la Chiesa».(44 )Tutti quelli, dunque, che son rigenerati nel battesimo, «in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all'offerta dell'Eucaristia, ed esercitano tale sacerdozio col ricevere i Sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e la carità operosa».(45)

Oltre a ciò, Cristo, Capo del suo corpo mistico che è la Chiesa, perché rappresentassero lui in persona nella Chiesa,(46) costituì come ministri del suo sacerdozio gli Apostoli e, per loro tramite, i Vescovi loro successori; e questi, a loro volta, comunicarono legittimamente il sacro ministero ricevuto, sebbene in grado subordinato, anche ai Presbiteri.(47) Si instaurò così nella Chiesa la successione apostolica del sacerdozio ministeriale, a gloria di Dio ed a servizio del suo Popolo e di tutta la famiglia umana, che a Dio dev'esser diretta.

In forza di questo sacerdozio, i Vescovi e i Presbiteri «sono in certo modo segregati in seno al Popolo di Dio, non però per esser separati da esso o da qualsiasi uomo, ma perché siano consacrati totalmente all'opera, per la quale il Signore li assume»,(48) cioè alla funzione di santificare, di insegnare e di governare, il cui esercizio è precisato in concreto dalla comunione gerarchica.(49) Questa opera multiforme ha come principio e fondamento l'ininterrotta predicazione del Vangelo,(50 )mentre come culmine e sorgente di tutta la vita cristiana ha il Sacrificio eucaristico,(51) che i sacerdoti, come rappresentanti di Cristo Capo in persona, in nome suo ed in nome delle membra del suo corpo mistico,(52) offrono nello Spirito Santo a Dio Padre; e che è poi integrato nella sacra Cena, nella quale i fedeli, partecipando all'unico corpo di Cristo, tutti diventano un corpo solo (cf. 1 Cor. 10, 16 s.).

La Chiesa ha cercato di indagare sempre più e meglio sulla natura del sacerdozio ministeriale, che fin dall'età apostolica risulta costantemente conferito mediante un rito sacro (cf. 1 Tim. 4, 14; 2 Tim. 1, 6). Con l'assistenza dello Spirito Santo, essa è così gradatamente arrivata alla chiara persuasione che Dio ha voluto manifestarle che questo rito conferisce ai sacerdoti non soltanto un aumento di grazia per compiere santamente le funzioni ecclesiali, ma imprime anche un sigillo permanente di Cristo, cioè il carattere, in forza del quale, dotati di appropriata potestà derivata dalla suprema potestà di Cristo, sono abilitati a compiere quelle funzioni. La permanenza poi di questo carattere, la cui natura è peraltro diversamente spiegata dai teologi, è stata insegnata dal Concilio di Firenze(53) e confermata in due decreti del Concilio di Trento.(54) Recentemente essa è stata, altresì, più volte ricordata dal Concilio Vaticano II,(55) e la seconda Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi giustamente ha rilevato che la permanenza per tutta la vita del carattere sacerdotale appartiene alla dottrina della fede.(56) Questa stabile permanenza del carattere sacerdotale dev'essere ammessa dai fedeli, e di essa si deve tener conto per dare un retto giudizio sulla natura del ministero sacerdotale e sulle corrispondenti modalità del suo esercizio.

Quanto, poi, alla potestà che è propria del sacerdozio ministeriale, il Concilio Vaticano II, in accordo con la sacra Tradizione e con numerosi documenti del Magistero, ha insegnato: «Se chiunque può battezzare i credenti, è tuttavia potestà esclusiva dei sacerdoti completare l'edificazione del Corpo col Sacrificio eucaristico»;(57) e ancora: «Il Signore stesso, affinché i fedeli fossero uniti in un unico corpo, nel quale però "le membra non hanno la medesima funzione " (Rom. 12, 4), costituì alcuni di loro come ministri, perché avessero, in seno alla società dei fedeli, la sacra potestà dell'Ordine per offrire il Sacrificio e rimettere i peccati».(58) Parimenti, la seconda Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi ha a buon diritto affermato che solo il sacerdote, quale rappresentante di Cristo in persona, può presiedere e compiere il convito sacrificale, nel quale il Popolo di Dio è associato all'oblazione di Cristo.(59) Senza voler ora toccare le questioni sui ministri dei singoli Sacramenti, stando alla testimonianza della sacra Tradizione e del sacro Magistero, è evidente che i fedeli i quali, senza aver ricevuto l'ordinazione sacerdotale, di proprio arbitrio si arrogassero la funzione di fare l'Eucaristia, agirebbero, oltre che in modo gravemente illecito, in modo anche invalido. Ed è evidente che abusi del genere, qualora si siano introdotti, devono essere stroncati dai Pastori della Chiesa.

La presente Dichiarazione non ha inteso — né era questo il suo scopo — dimostrare, con apposito studio circa i fondamenti della nostra fede, che la Rivelazione divina è stata affidata alla Chiesa, perché da essa fosse in futuro mantenuta inalterata nel mondo. Ma, insieme con altre verità attinenti al mistero della Chiesa, è stato richiamato anche questo dogma che è all'origine stessa della fede cattolica, affinché, nell'attuale turbamento delle menti, appaia chiaramente quale sia la fede e la dottrina che i fedeli devono fermamente tenere.

La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede è ben lieta che i teologi si applichino con grande impegno all'approfondimento del mistero della Chiesa. Essa riconosce pure che il loro lavoro, non di rado, tocca questioni che solo da ricerche complementari e da vari tentativi e congetture possono esser chiarite. Tuttavia, la giusta libertà dei teologi deve sempre mantenersi limitata dalla parola di Dio, così com'è stata fedelmente conservata ed esposta nella Chiesa, e com'è insegnata e spiegata dal vivo Magistero dei Pastori e, in primo luogo, dal Pastore di tutto il Popolo di Dio.(60)

La stessa Sacra Congregazione affida la presente Dichiarazione alla sollecitudine attenta dei Vescovi e di tutti quelli che, a qualunque titolo, condividono la responsabilità di salvaguardare il patrimonio di verità, che da Cristo e dagli Apostoli è stato consegnato alla Chiesa. E con fiducia la indirizza anche ai fedeli e, in particolare, a causa dell'importanza del loro incarico nella Chiesa, ai sacerdoti e ai teologi, perché tutti siano concordi nella fede e in sincera consonanza con la Chiesa.

Il Sommo Pontefice per divina Provvidenza Papa Paolo VI, nell'Udienza concessa al sottoscritto Prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il giorno 11 del mese di maggio 1973, ha ratificato e confermato questa Dichiarazione circa la dottrina cattolica sulla Chiesa per difenderla da alcuni errori d'oggi, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Dato a Roma, dalla sede della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il 24 giugno 1973, nella solennità di San Giovanni Battista.

 

Francesco Card. Seper
Prefetto

 

+ Girolamo Hamer O. P.
Segretario


(1) Paolo VI, Esort. Apost. Quinque iam anni, AAS 63 (1971), p. 99.

(2) Paolo VI, Cost. Apost. Regimini Ecclesiae universae, AAS 59 (1967), p. 897.

(3) Conc. Vat. II: Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 8; Constitutiones Decreta Declarationes, edizione della Segreteria Generale, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1966, p. 104 s.

(4) Conc. Vat. II: Decr. sull'Ecumenismo Unitatis redintegratio, n. 3; Const. Decr. Decl., p. 250.

(5) Ibid. n. 4; Const. Decr. Decl., p. 252.

(6) Conc. Vat. II: Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 8; Const. Decr. Decl., p. 106.

(7) Ibid.; Const. Decr. Decl., p. 105.

(8) Conc. Vat. II: Decr. sull'Ecumenismo Unitatis redintegratio, n. 4; Const. Decr. Decl., p. 253.

(9) Cf. ibid., nn. 6-8; Const. Decr. Decl., pp. 255-258.

(10) Cf. ibid., n. 1; Const. Decr. Decl., p. 243.

(11) Cf. Paolo VI, Lett. encicl. Ecclesiam suam, AAS 56 (1964), p. 629.

(12) Conc. Vat, II: Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, n. 7; Const. Decr. Decl., p. 428.

(13) Cf. ibid., n. 10; Const. Decr. Decl., p. 431.

(14) Cf. ibid., n. 8; Const. Decr. Decl., p. 430.

(15) Conc. Vat. II: Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 12; Const. Decr. Decl., p. 113 s.

(16) Ibid.; Const. Decr. Decl., p. 114.

(17) Cf. ibid., n. 35; Const. Decr. Decl., p. 157.

(18) Conc. Vat. II: Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, n. 8; Const. Decr. Decl., p. 430.

(19) Paolo VI, Esort. Apost. Quinque iam anni, AAS 63 (1971), p. 99.

(20) Cf. Conc. Vat. II: Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 25; Const. Decr. Decl., p. 138 s.

(21) Conc. Vat. II, ibid., n. 18; Const. Decr. Decl., p. 124 s. Cf. Conc. Vat. I: Cost dogm. Pastor aeternus, Prologo; Conciliorum Oecumenicorum Decreta(3), ed. Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, Herder, 1973, p. 812 (Denz-Schön. 3051).

(22) Paolo VI, Esort. Apost. Quinque iam anni, AAS 63 (1971), p. 100.

(23) Cf. Conc. Vat. I: Cost. dogm. Pastor aeternus, cap. 4; Conc. Oec. Decr.(3), p. 815 s. (Denz-Schön. 3069, 3074); Decr. S. Congr. S. Off. Lamentabili, n. 6, AAS 40 (1907), 471 (Denz-Schön. 3406).

(24) Conc. Vat. I: Cost. dogm. Pastor aeternus, cap. 4; Conc. Oec. Decr.(3), p. 816 (Denz-Schön. 3070). Cf. Conc. Vat. II: Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 25, et Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, n. 4; Const. Decr. Decl., p. 141 et 426.

(25) Cf. Conc. Vat. II: Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, n. 11; Const. Decr. Decl., p. 434.

(26) Cf. ibid., n. 9 s.; Const. Decr. Decl., pp. 430-432.

(27) Cf. Conc. Vat. II: Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 25; Const. Decr. Decl., p. 139.

(28) Cf. Ibid. n. 25 et 22; Const. Decr. Decl., p. 139 et 133.

(29) Conc. Vat. I: Cost. dogm. Pastor aeternus, cap. 4; Conc. Oec. Decr.(3), p. 816 (Denz-Schön. 3074). Cf. Conc. Vat. II: ibid., n. 25; Conc. Oec. Decl., pp. 139-141.

(30) Cf. Conc. Vat. II: Cost dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 25; Const. Decr. Decl., p. 139.

(31) Conc. Vat. I: Cost. dogm. Dei Filius, cap. 3; Conc. Oec. Decr.(3), p. 807 (Denz.-Schön. 3011). Cf. C.I.C., can. 1323, § 1 e 1325, § 2.

(32) Cf. Conc. Trid. Sess. 6; Decr. de Iustificatione, cap. 6; Conc. Oec. Decr.(3), p. 672 (Denz-Schön. 1526); cf. anche Conc. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, n. 5; Const. Decr. Decl., p. 426.

(33) Cf. Conc. Vat. I, Cost. sulla Fede Cattolica Dei Filius, cap. 3; Conc. Oec. Decr.(3), p. 807
(
Denz.-Schön. 3008); cf. anche Conc. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei verbum, n. 5; Const. Decr. Decl., p. 426.

(34) Cf. Conc. Vat. II, Decr. sull'Ecumenismo Unitatis redintegratio, n. 11; Const. Decr. Decl., p. 260.

(35) Réflexions et sugestions concernant le dialogue oecuménique, IV, 4 b, in Secrétariat pour l'Unité des Chrétiens: Service d'information, n. 12 (Dic. 1970, IV), p. 7 s.; Reflections and Suggestions Concerning Ecumenical Dialogue, IV, 4 b, in The Secretariat for Promoting Christian Unity: Information Service n. 12 (Dic. 1970, IV), p. 8.

(36) Conc. Vat. I: Cost. dogm. Dei Filius, cap. 4; Conc. Oec. Decr.(3), p. 808 (Denz.-Schön. 3016).

(37) Cf. Pio IX, Breve Eximiam tuam, AAS 8 (1874-75), p. 447 (Denz.-Schön. 2831); Paolo VI, Lett. encicl. Mysterium fidei, AAS 57 (1965), p. 757 s., e L'Oriente cristiano nella luce di immortali Concili, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. 5, Tipografia Poliglotta Vaticana, p. 412 s.

(38) Cf. Conc. Vat. I, Cost. Dei Filius, cap. 4; Conc. Oec. Decr.(3), p. 809 (Denz.-Schön. 3020)

(39) Ibid.

(40) Ibid., can. 3; Conc. Oec. Decr.(3), p. 811 (Denz.-Schön. 3043).

(41) Giovanni XXIII, Alloc. per l'inaugurazione del Concilio Vaticano II, AAS 54 (1962), p. 792. Cf. Conc. Vat. II: Cost  past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 62; Const. Decr. Decl., p. 780.

(42) Paolo VI, Esort. Apost. Quinque iam anni, AAS 63 (1971), p. 100 s.

(43) Cf. Conc. Vat. II: Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 10; Const. Decr. Decl., p. 110.

(44) Ibid., n. 11; Const. Decr. Decl, p. 111.

(45) Ibid., n. 10; Const. Decr. Decl., p. 111.

(46) Cf. Pio XI, Lett. encicl. Ad catholici sacerdotii, AAS 28 (1936), p. 10 (Denz.-Schön. 3755). Cf. Conc. Vat. II: Cost. dogm. Lumen gentium, n. 10, e Decr. sul ministero e la vita dei Presbiteri Presbyterorum ordinis, n. 2; Const. Decr. Decl., p. 110 s., p. 622 s.

(47) Cf. Conc. Vat. II, Const. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 28; Const. Decr. Decl., n. 145.

(48) Conc. Vat. II, Decr. sul ministero e la vita dei Presbiteri Presbyterorum ordinis, n. 3; Const. Decr. Decl., p. 625.

(49) Cf. Conc. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 24, 27 s.; Const. Decr. Decl., pp. 137, 143-149.

(50) Conc. Vat. II, Decr. sul ministero e la vita dei Presbiteri Presbyterorum ordinis, n. 4; Const. Decr. Decl., p. 627.

(51) Cf. Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 11; Const. Decr. Decl., p. 111 s. Cf. anche Conc. Trid. Sess. 22: Doctrina de Missae Sacrificio, cap. 1 e 2; Conc. Oec. Decr.(3), pp. 732-734 (Denz-Schön. 1739-1743).

(52) Cf. Paolo VI, Solenne Professione di fede, n. 24, AAS 60 (1968), p. 442.

(53) Conc. Fior.: Bulla unionis Armenorum Exsultate Deo; Conc. Oec. Decr.(3), p. 546 (Denz.-Schön. 1313).

(54) Conc. Trid.: Decr. de Sacramentis, can. 9, e Decr. de Sacramento ordinis, cap. 4 e can. 4; Corte. Oec. Decr.(3), pp. 685, 742, 744 (Denz.-Schön. 1609, 1767, 1774).

(55) Cf. Conc. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 21, e Decr. sul ministero e la vita dei Presbiteri Presbyterorum ordinis, n. 2; Const. Decr. Decl., pp. 130, 622 s.

(56) Cf. Documenta Synodi Episcoporum, I. De sacerdotio ministeriali, pars prima, n. 5, AAS 63 (1971), 907.

(57) Conc. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, n. 17; Const. Decr. Decl., p. 123.

(58) Conc. Vat. II, Decr. sul ministero e la vita dei Presbiteri Presbyterorum ordinis, n. 2; Const. Decr. Decl., p. 621 s. Cf. anche: 1) Innocenzo III, Epistola Eius exemplo con la Professione di fede prescritta ai Valdesi, PL, voi. 215, col. 1510 (Denz.-Schön. 794); 2) Conc. Lat. IV: Const. 1: De Fide catholica; Conc. Oec. Decr.(3), p. 230 (Denz.-Schön. 802), il luogo citato intorno al Sacramento dell'altare deve esser letto col contesto seguente intorno al Sacramento del battesimo; 3) Conc. Fior.: Bulla unionis Armenorum Exsultate Deo; Conc. Oec. Decr(3), p. 546 (Denz.-Schön. 1321), il luogo citato intorno al ministro dell'Eucaristia deve esser confrontato con i passi vicini relativi ai ministri degli altri Sacramenti; 4) Conc. Trid. Sess. 23: Decr. de Sacramento ordinis, cap. 4; Conc. Oec. Decr(3), p. 742 s. (Denz.-Schön. 1767, 4469); 5) Pio XII, Lett. encicl. Mediator Dei, AAS 39 (1947), pp. 552-556 (Denz.-Schön. 3849-3852).

(59) Documenta Synodi Episcoporum: I. De Sacerdotio ministeriali, pars prima, n. 4, AAS 63 (1971), p. 906.

(60) Cf. Synodus Episcoporum (1967), Relatio Commissionis Synodalis constitutae ad examen ulterius peragendum circa opiniones periculosas et atheismum, II, 4: De theologorum opera et responsabilitate, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1967, p. 11 (L'Osservatore Romano del 30-31 ott. 1967, p. 3).




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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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DECLARATIO
CIRCA CATHOLICAM DOCTRINAM DE ECCLESIA
CONTRA NONNULLOS ERRORES HODIERNOS TUENDAM *

 

Mysterium Ecclesiae, a Concilio Vaticano II nova luce illustratum, iterum iterumque considerationi subiectum est in pluribus theologorum editis scriptis. Ex quibus haud pauca profecto iuvarunt ad illud mysterium magis intellegendum; sed quaedam sermone ambiguo aut etiam erroneo doctrinam catholicam obscuraverunt, ac nonnunquam eo usque processerunt, ut etiam in rebus fundamentalibus fidei catholicae repugnarent.

Cum igitur opus fuit, non defuerunt plurium nationum Episcopi qui, pro suo officio « depositum fidei purum et integrum servandi » suoque munere « Evangelium indesinenter annuntiandi », declarationibus inter se affinibus, christifideles suae curae commissos a periculo errandi defenderent. Ac praeterea, secundus Synodi Episcoporum Generalis Cœtus, de sacerdotio ministeriali tractans, aliqua doctrinae capita haud levis ponderis, ad constitutionem Ecclesiae quod attinet, exposuit.

Sacra pariter Congregatio pro Doctrina Fidei, cuius officium est « doctrinam de fide et moribus in universo orbe catholico tutari », nonnullas veritates ad mysterium Ecclesiae pertinentes et hodie negatas aut in periculum adductas, vestigia in primis sequens utriusque Concilii Vaticani, colligere atque declarare intendit.

1. De unica Christi Ecclesia

Unica est Ecclesia, « quam Salvator noster, post resurrectionem suam Petro pascendam tradidit (cf. Io 21,17), eique ac ceteris Apostolis diffundendam et regendam commisit (cf. Matth 18,18 ss.) et in perpetuum ut columnam et firmamentum veritatis erexit (cf. 1 Tim 3,15) »; atque haec Christi Ecclesia, « in hoc mundo ut societas constituta et ordinata, subsistit in Ecclesia catholica, a Successore Petri et Episcopis in eius communione gubernata ». Haec Concilii Vaticani II declaratio illustratur eiusdem Concilii verbis, secundum quae « per solam... catholicam Christi Ecclesiam, quae generale auxilium salutis est, omnis salutarium mediorum plenitudo attingi potest », atque eadem catholica Ecclesia « omni a Deo revelata veritate et omnibus mediis gratiae ditata est », quibus Christus suam communitatem messianicam pollere voluit. Quod non impedit, quominus eadem Ecclesia, in hac sua terrena peregrinatione, « in proprio sinu peccatores complectens, sancta simul et semper purificanda » sit, et quominus « extra eius compaginem », nominatim in Ecclesiis vel communitatibus ecclesialibus, quae imperfecta communione cum Ecclesia catholica coniunguntur, « elementa plura sanctificationis et veritatis inveniantur, quae ut dona Ecclesiae Christi propria, ad unitatem catholicam impellunt ».

Quae cum ita sint, « necessarium est catholicos cum gaudio agnoscere et aestimare bona vere christiana, a communi patrimonio promanantia, quae apud fratres a nobis seiunctos inveniuntur », atque studiosos esse redintegrandae unitatis inter universos christianos, communi conatu purificationis atque renovationis, ut voluntas Christi adimpleatur et christianorum divisio desinat officere Evangelio per orbem proclamando. Confiteri tamen iidem catholici debent se divinae misericordiae dono ad illam Ecclesiam pertinere, quam Christus condidit et quae a successoribus Petri ceterorumque Apostolorum dirigitur, penes quos integra ac viva perstat primigenia communitatis apostolicae institutio atque doctrina, perenne eiusdem Ecclesiae veritatis et sanctitatis patrimonium. Quare christifidelibus sibi fingere non licet Ecclesiam Christi nihil aliud esse quam summam quamdam — divisam quidem, sed adhuc aliqualiter unam — Ecclesiarum et communitatum ecclesialium; ac minime iis liberum est tenere Christi Ecclesiam hodie iam nullibi vere subsistere, ita ut nonnisi finis existimanda sit, quem omnes Ecclesiae et communitates quaerere debeant.

2. De infallibilitate Ecclesiae Universae

« Quae Deus ad salutem cunctarum gentium revelaverat, eadem benignissime disposuit ut in aevum integre permanerent ». Quapropter Ecclesiae commisit thesaurum verbi Dei, in quo servando, scrutando atque vitae applicando Pastores et plebs sancta conspirant.

Ipse igitur omnimode infallibilis Deus Populum suum novum, qui est Ecclesia, dignatus est participata quadam infallibilitate donare, quae intra limites continetur rerum fidei et morum, quaeque valet cum universus ille populus aliquod caput doctrinae, ad eas res pertinens, indubitanter tenet; quae demum iugiter pendet e sapienti providentia et unctione gratiae Sancti Spiritus, qui Ecclesiam usque ad gloriosum Domini eius adventum, in omnem inducit veritatem. De hac Populi Dei infallibilitate Concilium Vaticanum II declarat: « Universitas fidelium, qui unctionem habent a Sancto Spiritu (cf. 1 Io 2,20 et 27), in credendo falli nequit, atque hanc suam peculiarem proprietatem mediante supernaturali sensu fidei totius populi manifestat, cum "ab Episcopis usque ad extremos laicos fideles" (S. Augustini, De Praed. Sanct., 14, 27) universalem suum consensum de rebus fidei et morum exhibet ».

Sanctus autem Spiritus Populum Dei illuminat et auxilio suo iuvat, prout est corpus hierarchica communione unitum. Quod Concilium Vaticanum II indicat addendo verbis suis modo allatis: « Illo enim sensu fidei, qui a Spiritu veritatis excitatur et sustentatur, Populus Dei sub ductu Sacri Magisterii cui fideliter obsequens, iam non verbum hominum, sed vere accipit verbum Dei (cf. 1 Thess 2,13), "semel traditae Sanctis fidei" (Iud. 3) indefectibiliter adhaeret, recto iudicio in eam profundius penetrat eamque in vita plenius applicat ».

Profecto christifideles, muneris prophetici Christi suo modo participes, multifarie ad id operam conferunt, ut intellegentia fidei in Ecclesia incrementum capiat. « Crescit enim — ita ait Concilium Vaticanum II — tam rerum quam verborum traditorum perceptio, tum ex contemplatione et studio credentium, qui ea conferunt in corde suo (cf. Luc 2,19 et 51), tum ex intima rerum spiritualium quam experiuntur intellegentia, tum ex praeconio eorum qui cum episcopatus successione charisma veritatis certum acceperunt ». Ac Summus Pontifex Paulus VI animadvertit Ecclesiae Pastores suum « testimonium » proferre « positum et infixum in sancta Traditione sacrisque Bibliis atque totius Populi Dei vita alitum ».

Sed ad solos hos Pastores, Petri ceterorumque Apostolorum successores, ex divina institutione pertinet authentice, id est auctoritate Christi diversis modis participata, docere fideles; quibus satis habere non licet eos audire velut doctrinae catholicae peritos, sed qui iis nomine Christi docentibus obsequi debent adhaesione congrua mensurae auctoritatis, qua pollent et qua uti intendunt. Ideo Concilium Vaticanum II, vestigia Concilii Vaticani I persequens, docuit Christum in Petro instituisse « perpetuum ac visibile unitatis fidei et communionis principium et fundamentum »: ac Summus Pontifex Paulus VI asseruit: « Magisterium Episcoporum credentibus signum est ac via qua verbum Dei recipiant atque agnoscant ». Quantumvis igitur Sacrum Magisterium ex contemplatione, vita et investigatione fidelium fructus percipiat, eius munus non reducitur ad sanciendum eorum iam expressum consensum; quin potius, in verbo Dei scripto vel tradito interpretando et explicando, illum consensum etiam praevenire et requirere potest. Ipse demum Populus Dei, ne, in uno corpore Domini sui, unius fidei communionem deperdat (cf. Eph 4,4 et 5), interventu et auxilio Magisterii tum maxime indiget, cum in eius sinu circa doctrinam credendam aut tenendam dissensiones oriuntur et manant.

3. De infallibilitate Magisterii Ecclesiae

Iesus Christus autem Magisterium Pastorum, quibus munus commisit docendi Evangelium universo Populo suo totique familiae humanae, congruo infallibilitatis charismate circa res fidei et morum instructum esse voluit. Quod, cum non procedat ex novis revelationibus, quibus Successor Petri Collegiumque Episcoporum fruantur, ipsos non eximit a cura perscrutandi, aptis mediis adhibitis, divinae revelationis thesaurum in Sacris Litteris, quibus veritas incorrupte docetur, quam Deus salutis nostrae causa conscribi voluit, atque in viva, quae est ab Apostolis, Traditione. In munere autem suo adimplendo, Ecclesiae Pastores assistentia Spiritus Sancti gaudent, quae apicem suum attingit, quando Populum Dei tali modo erudiunt, ut, ex promissionibus Christi in Petro ceterisque Apostolis datis, doctrinam necessario immunem ab errore tradant.

Quod quidem evenit, cum Episcopi per orbem dispersi, sed in communione cum Successore Petri docentes, in unam sententiam tamquam definitive tenendam conveniunt. Quod manifestius etiam habetur, et quando Episcopi actu collegiali — sicut in Conciliis Œcumenicis — una cum visibili eorum Capite, doctrinam tenendam definiunt, et quando Romanus Pontifex « ex cathedra loquitur, id est, cum omnium christianorum Pastoris et Doctoris munere fungens, pro suprema sua apostolica auctoritate doctrinam de fide vel moribus ab universa Ecclesia tenendam definit ».

Secundum autem catholicam doctrinam, infallibilitas Magisterii Ecclesiae non solum ad fidei depositum se extendit, sed etiam ad ea, sine quibus hoc depositum rite nequit custodiri et exponi. Extensio vero illius infallibilitatis ad ipsum fidei depositum, est veritas quam Ecclesia inde ab initiis pro comperto habuit in promissionibus Christi esse revelatam. Qua nixum veritate, Concilium Vaticanum I materiam fidei catholicae definivit: « Fide divina et catholica ea omnia credenda sunt, quae in verbo Dei scripto vel tradito continentur et ab Ecclesia sive sollemni iudicio, sive ordinario et universali magisterio tamquam divinitus revelata credenda proponuntur ». Ea ergo fidei catholicae obiecta — quae dogmatum nomine nuncupantur — necessario sunt et quovis tempore fuerunt incommutabilis norma, sicut pro fide, ita etiam pro scientia theologica.

4. De dono infallibilitatis Ecclesiae non extenuando

Ex iis quae dicta sunt de extensione et condicionibus infallibilitatis Populi Dei ac Magisterii Ecclesiae, consequitur nequaquam christifidelibus fas esse agnoscere in Ecclesia fundamentalem tantum, ut quidam contendunt, in vero permanentiam, quae componi possit cum erroribus passim diffusis in sententiis, quas Ecclesiae Magisterium definitive tenendas docet, aut in Populi Dei indubitanti consensu de rebus fidei et morum.

Verum quidem est fide salutari homines sese convertere ad Deum, qui in Iesu Christo Filio suo se revelat; sed perperam quis inde inferat Ecclesiae dogmata, quae alia mysteria exprimunt, parvi fieri aut etiam negari posse. Quinimmo conversio ad Deum, quam fide praestare debemus, obœditio quaedam est (cf. Rom 16,26), quae aptetur oportet naturae Revelationis divinae eiusque exigentiis. Haec autem Revelatio in toto ordine salutis enarrat, et christianorum moribus applicandum docet, mysterium Dei, qui Filium suum misit in mundum (cf. 1 Io 4,14); ac praeterea ipsa postulat, ut, plenum intellectus et voluntatis obsequium Deo revelanti praestantes, bono nuntio salutis assentiamur prout a Pastoribus Ecclesiae infallibiliter docetur. Christifideles igitur per fidem sese convertunt, sicut oportet, ad Deum in Christo sese revelantem, cum adhaerent ipsi in tota fidei catholicae doctrina.

Exsistit profecto ordo ac veluti hierarchia dogmatum Ecclesiae, cum diversus sit eorum nexus cum fundamento fidei. Haec autem hierarchia significat quaedam ex dogmatibus inniti aliis tamquam principalioribus isdemque illuminari. Omnia autem dogmata, quippe quae revelata sint, eadem fide divina credenda sunt.

5. De notione infallibilitatis Ecclesiae non corrumpenda

Transmissio Revelationis divinae ab Ecclesia in difficultates varii generis incurrit. Hae autem oriuntur ex eo, quod arcana Dei mysteria « suapte natura intellectum humanum sic excedunt, ut etiam revelatione tradita et fide suscepta, ipsius tamen fidei velamine contecta et quasi caligine obvoluta maneant »; atque etiam ex historica exprimendae Revelationis condicione.

Ad hanc historicam condicionem quod attinet, initio observandum est sensum, quem enuntiationes fidei continent, partim pendere e linguae adhibitae vi significandi certo quodam tempore certisque rerum adiunctis. Praeterea, nonnumquam contingit, ut veritas aliqua dogmatica primum modo incompleto, non falso tamen, exprimatur, ac postea, in ampliore contextu fidei aut humanarum cognitionum considerata, plenius et perfectius significetur. Deinde, Ecclesia novis suis enuntiationibus, ea quae in Sacra Scriptura aut in praeteritis Traditionis expressionibus iam aliquo modo continentur, confirmare aut dilucidare intendit, sed simul de certis quaestionibus solvendis erroribusve removendis cogitare solet; quarum omnium rerum ratio habenda est, ut illae enuntiationes recte explanentur. Denique, etsi veritates, quas Ecclesia suis formulis dogmaticis reapse docere intendit, a mutabilibus alicuius temporis cogitationibus distinguuntur et sine iis exprimi possunt, nihilominus interdum fieri potest, ut illae veritates etiam a Sacro Magisterio proferantur verbis, quae huiusmodi cogitationum vestigia secumferant.

His consideratis, dicendum est formulas dogmaticas Magisterii Ecclesiae veritatem revelatam ab initio apte communicasse et, manentes easdem, eam in perpetuum communicaturas esse recte interpretantibus ipsas. Exinde tamen non consequitur singulas earum pari ratione ad id efficiendum aptas fuisse aut aptas mansuras esse. Qua de causa theologi accurate circumscribere satagunt intentionem docendi, quam diversae illae formulae reapse continent, atque hac opera sua vivo Magisterio Ecclesiae, cui subduntur, conspicuum praestant auxilium. Eadem insuper de causa fieri solet, ut antiquae formulae dogmaticae et aliae iis veluti proximae, in consueto Ecclesiae usu, vivae ac frugiferae permaneant, ita tamen ut iis opportune novae expositiones enuntiationesque adiungantur, quae congenitum illarum sensum custodiant et illustrent. Porro aliquando etiam factum est, ut in consueto illo Ecclesiae usu, quaedam ex illis formulis cederent novis dicendi modis qui, a Sacro Magisterio propositi vel approbati, eundem sensum clarius pleniusve exhibebant.

Ipse autem sensus formularum dogmaticarum semper verus ac secum constans in Ecclesia manet, etiam cum magis dilucidatur et plenius intellegitur. Christifideles ergo se avertant oportet ab opinione secundum quam: primum quidem formulae dogmaticae (aut quaedam earum genera) non possint significare determinate veritatem, sed tantum eius commutabiles approximationes, ipsam quodammodo deformantes seu alterantes; deinde eaedem formulae veritatem indeterminate tantum significent iugiter quaerendam per supradictas approximationes. Qui talem opinionem amplectantur, relativismum dogmaticum non effugiunt et infallibilitatis Ecclesiae conceptum corrumpunt, qui ad veritatem determinate docendam et tenendam refertur.

Dissidet certe huiusmodi opinio a declarationibus Concilii Vaticani I, quod, etsi conscium progressus Ecclesiae in cognoscenda veritate revelata, nihilominus docuit: « Sacrorum... dogmatum is sensus perpetuo est retinendus quem semel declaravit sancta mater Ecclesia, nec umquam ab eo sensu, altioris intellegentiae specie et nomine, recedendum »;  et quod sententiam damnavit iuxta quam fieri posset « ut dogmatibus ab Ecclesia propositis aliquando secundum progressum scientiae sensus tribuendus sit alius ab eo quem intellexit et intellegit Ecclesia ». Dubium non est quin, iuxta illos Concilii textus, sensus dogmatum, quem Ecclesia declarat, determinatus et irreformabilis sit.

Discrepat quoque praefata opinio ab iis quae, cum inauguraret Concilium Vaticanum II, Summus Pontifex Ioannes XXIII de doctrina christiana enuntiavit; « Oportet ut haec doctrina certa et immutabilis, cui fidele obsequium est praestandum, ea ratione pervestigetur et exponatur, quam tempora postulant nostra. Est enim aliud depositum fidei, seu veritates quae doctrina veneranda continentur, aliud modus quo eaedem enuntiantur, eodem tamen sensu eademque sententia ». Cum Successor Petri hic loquatur de doctrina christiana certa et immutabili, de deposito fidei quod idem sit ac veritates in hac doctrina contentae, de his veritatibus denique eodem sensu servandis, liquet eum agnoscere sensum dogmatum nobis dignoscibilem, verum et immutabilem. Novitas autem quam ipse, pro temporum nostrorum necessitate, commendat, pertinet tantum ad modos pervestigandi, exponendi et enuntiandi illam doctrinam cum eius permanenti sensu. Haud dissimili modo Summus Pontifex Paulus VI Ecclesiae Pastores exhortans declaravit: « Nunc autem acriter anniti debemus ut doctrina fidei plenitudinem suae significationis suique ponderis servet, licet ea ratione enuntietur, quae mentes et corda hominum, quibus traditur, contingat ».

6. De Ecclesia cum sacerdotio Christi consociata

Christus Dominus, novi et aeterni fœderis Pontifex, populum quem suo sanguine acquisivit, cum perfecto suo sacerdotio (cf. Hebr 7,20-22 et 26-28; 10,14 et 21) consociare et configurare voluit. Donavit ergo Ecclesiam suam participatione sacerdotii sui, nempe sacerdotio communi fidelium et sacerdotio ministeriali seu hierarchico, quae, etsi non tantum gradu sed essentia differunt, mutuo tamen in Ecclesiae communione ordinantur.

Commune fidelium sacerdotium, quod iure etiam regale appellatur (cf. 1 Petr 2,9; Apoc 1,6; 5,9 s.), quia per ipsum christifideles, ut membra populi messianici, cum Rege suo caelesti coniunguntur, confertur sacramento baptismi. Hoc sacramento fideles « in Ecclesia incorporati, ad cultum religionis christianae... deputantur », per signum inamissibile, characterem appellatum, et ipsi « in filios Dei regenerati, fidem quam a Deo per Ecclesiam acceperunt, coram hominibus profiteri tenentur ». Qui igitur baptismo sunt renati, « vi regalis sui sacerdotii, in oblationem Eucharistiae concurrunt, illudque in sacramentis suscipiendis, in oratione et gratiarum actione, testimonio vitae sanctae, abnegatione et actuosa caritate exercent ».

Praeterea Christus, Ecclesiae, sui mystici corporis Caput, ministros sui sacerdotii, qui personam eius in Ecclesia gererent, constituit Apostolos suos et, per eos, successores eorum Episcopos, qui susceptum hoc sanctum ministerium, subordinato gradu, Presbyteris quoque legitime tradiderunt. Sic in Ecclesia orta est apostolica sacerdotii ministerialis successio ad gloriam Dei et in servitium Populi eius totiusque familiae ad Deum convertendae.

Hoc sacerdotio Episcopi et Presbyteri « quodam modo in sinu Populi Dei segregantur, non tamen ut separentur, sive ab eo, sive a quovis homine, sed ut totaliter consecrentur operi ad quod Dominus eos assumit », operi nempe sanctificandi, docendi et regendi, cuius exercitium hierarchica communione pressius determinatur. In hoc multiformi opere indolem principii et fundamenti habet non intermissa praedicatio Evangelii, indolem vero culminis et fontis totius vitae christianae, sacrificium eucharisticum, quod sacerdotes, personam Christi Capitis gerentes, ipsius et membrorum eius corporis mystici nomine, in Spiritu Sancto offerunt Deo Patri; quodque sacra cena integratur, qua christifideles, unum Christi corpus participantes, unum corpus omnes efficiuntur (cf. 1 Cor 10,16 s.).

Ecclesia magis magisque scrutata est indolem sacerdotii ministerialis, quod, ab aetate apostolica stabili modo sacro ritu collatum, in conspectu est (cf. 1 Tim 4,14; 2 Tim 1,6). Assistente igitur Spiritu Sancto, ipsa clarius in dies perspexit Deum ei significare voluisse hunc ritum non tantum conferre sacerdotibus augmentum gratiae ad ecclesiastica munia sancte obeunda, sed etiam inamissibilem Christi obsignationem, seu characterem, quo ad sua munera deputarentur, idonea potestate ditati, e suprema Christi potestate derivata. Permanens autem existentia huius characteris, cuius naturam theologi aliter atque aliter explicant, a Concilio Florentino tradita est  et a Concilio Tridentino in duobus decretis confirmata. Recens vero Concilium Vaticanum II non semel eam memoravit, et secundus Generalis Cœtus Synodi Episcoporum iure notavit ad doctrinam fidei pertinere existentiam characteris sacerdotalis per totam vitam permanentis. Haec stabilis characteris sacerdotalis existentia a fidelibus agnoscenda est atque ad ipsam attendere oportet, ut recte iudicetur de natura sacerdotalis ministerii et de congruis eius exercitii modis.

Sacrae autem Traditioni et pluribus Magisterii documentis inhaerens, Concilium Vaticanum II de potestate, quae sacerdotii ministerialis est propria, haec docuit: « Si quilibet credentes baptizare potest, sacerdotis tamen est aedificationem Corporis sacrificio eucharistico perficere »; atque: « Idem vero Dominus, inter fideles, ut in unum coalescerent corpus in quo "omnia membra non eundem actum habent" (Rom 12,4), quosdam instituit ministros qui, in societate fidelium, sacra Ordinis potestate pollerent Sacrificium offerendi et peccata remittendi ». Haud dissimili modo secundus Generalis Cœtus Synodi Episcoporum iure asseruit solum sacerdotem valere in personam Christi agere ad praesidendum sacrificali convivio idque perficiendum, in quo Populus Dei oblationi Christi consociatur. Praetermissis nunc quaestionibus de singulorum sacramentorum ministris, e Sacrae Traditionis et Sacri Magisterii testificatione constat christifideles qui, ordinatione sacerdotali non suscepta, proprio ausu munus sibi sumant eucharistiam conficiendi, id non solum prorsus illicite, sed etiam invalide tentare. Huiusmodi autem abusus, sicubi irrepserint, a Pastoribus Ecclesiae reprimendos esse patet.

* * *

Praesens Declaratio neque spectavit neque spectare debebat, ut investigatione de fundamentis nostrae fidei comprobaret divinam Revelationem commissam esse Ecclesiae, per quam deinceps incorrupte in mundo servaretur. Sed hoc dogma, a quo fides catholica exordium sumit, in memoriam revocatum est una cum aliis veritatibus ad mysterium Ecclesiae pertinentibus, ut in hodierna mentium perturbatione clare appareat quaenam sit fides doctrinaque christifidelibus amplectenda.

Sacra Congregatio pro Doctrina Fidei gaudet quod magno studio theologi mysterium Ecclesiae magis magisque explorant. Agnoscit quoque eos in opera sua pluries incidere in quaestiones, quae tantum inquisitionibus sese mutuo complentibus variisque tentaminibus et coniecturis dilucidari possint. Attamen iusta theologorum libertas contineri semper debet verbo Dei, prout in Ecclesia fideliter servatum et expositum est et a vivo Magisterio Pastorum, imprimisque Pastoris universi Populi Dei, docetur et explicatur.

Eadem Sacra Congregatio praesentem Declarationem concredit diligenti curae Sacrorum Antistitum eorumque omnium, qui officium quadam ratione participant tutandi patrimonium veritatis, a Christo et Apostolis commissum Ecclesiae. Ipsa tandem suam Declarationem fidenter dirigit ad Christifideles ac speciatim, propter grave munus quo in Ecclesia funguntur, ad sacerdotes et ad theologos, ut omnes in fide sint unanimes et cum Ecclesia sincere sentiant.

Declarationem hanc circa catholicam doctrinam de Ecclesia contra nonnullos errores hodiernos tuendam Summus Pontifex Paulus div. Prov. Pp. VI, in Audientia concessa infrascripto Praefecto Sacrae Congregationis pro Doctrina Fidei, die 11 mensis maii a. 1973, ratam habuit, confirmavit atque evulgari iussit.

Datum Romae, ex aedibus S. Congr. pro Doctrina Fidei, die XXIV mensis iunii, in festo Sancti Ioannis Baptistae, a. D. MCMLXXIII.

 

+ Franciscus Card. Šeper,
Praefectus

+ Hieronymus Hamer, Archiepiscopus tit. Lorensis,
a Secretis

 

 

* AAS 65 (1973), 396-408.


[SM=g1740733] 

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

RISPOSTE A QUESITI RIGUARDANTI ALCUNI ASPETTI
CIRCA LA DOTTRINA SULLA CHIESA


 

Introduzione

Il Concilio Vaticano II, con la Costituzione dogmatica Lumen gentium e con i Decreti sull'Ecumenismo (Unitatis redintegratio) e sulle Chiese orientali (Orientalium Ecclesiarum), ha contribuito in modo determinante ad una comprensione più profonda dell'ecclesiologia cattolica. Al riguardo anche i Sommi Pontefici hanno voluto offrire approfondimenti e orientamenti per la prassi: Paolo VI nella Lettera Enciclica Ecclesiam suam (1964) e Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Ut unum sint (1995).

Il conseguente impegno dei teologi, volto ad illustrare sempre meglio i diversi aspetti dell'ecclesiologia, ha dato luogo al fiorire di un'ampia letteratura in proposito. La tematica si è infatti rivelata di grande fecondità, ma talvolta ha anche avuto bisogno di puntualizzazioni e di richiami, come la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae (1973), la Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica Communionis notio (1992) e la Dichiarazione Dominus Iesus (2000), tutte pubblicate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.

La vastità dell'argomento e la novità di molti temi continuano a provocare la riflessione teologica, offrendo sempre nuovi contributi non sempre immuni da interpretazioni errate che suscitano perplessità e dubbi, alcuni dei quali sono stati sottoposti all'attenzione della Congregazione per la Dottrina della Fede. Essa, presupponendo l'insegnamento globale della dottrina cattolica sulla Chiesa, intende rispondervi precisando il significato autentico di talune espressioni ecclesiologiche magisteriali, che nel dibattito teologico rischiano di essere fraintese.



RISPOSTE AI QUESITI

Primo quesito: Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha forse cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa ?

Risposta:
Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente.

Proprio questo affermò con estrema chiarezza Giovanni XXIII all’inizio del Concilio[1]. Paolo VI lo ribadì[2] e così si espresse nell’atto di promulgazione della Costituzione Lumen gentium: "E migliore commento sembra non potersi fare che dicendo che questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione"[3].
I Vescovi ripetutamente manifestarono e vollero attuare questa intenzione[
4].

Secondo quesito: Come deve essere intesa l’affermazione secondo cui la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica ?

Risposta:
Cristo "ha costituito sulla terra" un’unica Chiesa e l’ha istituita come "comunità visibile e spirituale"[
5], che fin dalla sua origine e nel corso della storia sempre esiste ed esisterà, e nella quale soltanto sono rimasti e rimarranno tutti gli elementi da Cristo stesso istituiti[6]. "Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica […]. Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui"[7].

Nella Costituzione dogmatica Lumen gentium 8 la sussistenza è questa perenne continuità storica e la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo nella Chiesa cattolica[8], nella quale concretamente si trova la Chiesa di Cristo su questa terra.

Secondo la dottrina cattolica, mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse[9], la parola "sussiste", invece, può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica, poiché si riferisce appunto alla nota dell’unità professata nei simboli della fede (Credo…la Chiesa "una"); e questa Chiesa "una" sussiste nella Chiesa cattolica[10].


Terzo quesito: Perché viene adoperata l’espressione "sussiste nella" e non semplicemente la forma verbale "è" ?

Risposta:
L’uso di questa espressione, che indica la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica, non cambia la dottrina sulla Chiesa; trova, tuttavia, la sua vera motivazione nel fatto che esprime più chiaramente come al di fuori della sua compagine si trovino "numerosi elementi di santificazione e di verità", "che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all’unità cattolica"[
11].

"Perciò le stesse Chiese e Comunità separate, quantunque crediamo che hanno delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso. Infatti lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica"[12].


Quarto quesito: Perché il Concilio Ecumenico Vaticano II attribuisce il nome di "Chiese" alle Chiese orientali separate dalla piena comunione con la Chiesa cattolica ?

Risposta:
Il Concilio ha voluto accettare l’uso tradizionale del nome. "Siccome poi quelle Chiese, quantunque separate, hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora uniti con noi da strettissimi vincoli"[
13], meritano il titolo di "Chiese particolari o locali"[14], e sono chiamate Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche[15].

"Perciò per la celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce"[16]. Siccome, però, la comunione con la Chiesa cattolica, il cui Capo visibile è il Vescovo di Roma e Successore di Pietro, non è un qualche complemento esterno alla Chiesa particolare, ma uno dei suoi principi costitutivi interni, la condizione di Chiesa particolare, di cui godono quelle venerabili Comunità cristiane, risente tuttavia di una carenza[17].

D’altra parte l’universalità propria della Chiesa, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui, a causa della divisione dei cristiani, trova un ostacolo per la sua piena realizzazione nella storia[18].

Quinto quesito: Perché i testi del Concilio e del Magistero successivo non attribuiscono il titolo di "Chiesa" alle Comunità cristiane nate dalla Riforma del 16° secolo ?

Risposta:
Perché, secondo la dottrina cattolica, queste Comunità non hanno la successione apostolica nel sacramento dell’Ordine, e perciò sono prive di un elemento costitutivo essenziale dell’essere Chiesa. Le suddette Comunità ecclesiali, che, specialmente a causa della mancanza del sacerdozio ministeriale, non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico[
19], non possono, secondo la dottrina cattolica, essere chiamate "Chiese" in senso proprio[20].


Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha approvato e confermato queste Risposte, decise nella sessione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 29 giugno 2007, nella solennità dei Ss. Pietro e Paolo, Apostoli.



William Cardinale Levada
Prefetto

Angelo Amato, S.D.B.
Arcivescovo tit. di Sila
Segretario




[1] GIOVANNI XXIII, Allocuzione dell’11 ottobre 1962: "…il Concilio…vuole trasmettere pura e integra la dottrina cattolica, senza attenuazioni o travisamenti…Ma nelle circostanze attuali il nostro dovere è che la dottrina cristiana nella sua interezza sia accolta da tutti con rinnovata, serena e tranquilla adesione…E’ necessario che lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero compia un balzo in avanti, che la medesima dottrina sia conosciuta in modo più ampio e approfondito…Bisogna che questa dottrina certa e immutabile, alla quale è dovuto ossequio fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l’epoca nostra richiede. Altra è la sostanza del depositum fidei, o le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, ed altro è il modo in cui vengono enunciate, sempre tuttavia con lo stesso senso e significato" : AAS 54 [1962] 791; 792.

[2] Cf. PAOLO VI, Allocuzione del 29 settembre 1963: AAS 55 [1963] 847-852.

[3] PAOLO VI, Allocuzione del 21 novembre 1964: AAS 56 [1964] 1009-1010 (trad. it. in: L’Osservatore Romano, 22 novembre 1964, 3).

[4] Il Concilio ha voluto esprimere l’identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica. Ciò si trova nelle discussioni sul Decreto Unitatis redintegratio. Lo Schemadel Decreto fu proposto in Aula il 23. 9. 1964 con una Relatio (Act Syn III/II 296-344). Ai modi inviati dai vescovi nei mesi seguenti il Segretariato per l’Unità dei Cristiani risponde il 10.11.1964 (Act Syn III/VII 11-49). Da questa Expensio modorum si riportano quattro testi concernenti la prima risposta.

A) [In Nr. 1 (Prooemium) Schema Decreti: Act Syn III/II 296, 3-6]

"Pag. 5, lin. 3-6: Videtur etiam Ecclesiam catholicam inter illas Communiones comprehendi, quod falsum esset.

R(espondetur): Hic tantum factum, prout ab omnibus conspicitur, describendum est. Postea clare affirmatur solam Ecclesiam catholicam esse veram Ecclesiam Christi" (Act Syn III/VII 12).

B) [In Caput I in genere: Act Syn III/II 297-301]

"4 - Expressius dicatur unam solam esse veram Ecclesiam Christi; hanc esse Catholicam Apostolicam Romanam; omnes debere inquirere, ut eam cognoscant et ingrediantur ad salutem obtinendam...

R(espondetur): In toto textu sufficienter effertur, quod postulatur. Ex altera parte non est tacendum etiam in aliis communitatibus christianis inveniri veritates revelatas et elementa ecclesialia"( Act Syn III/VII 15). Cf. anche ibidem punto 5.

C) [In Caput I in genere: Act Syn III/II 296s]

"5 - Clarius dicendum esset veram Ecclesiam esse solam Ecclesiam catholicam romanam...

R(espondetur): Textus supponit doctrinam in constitutione ‘De Ecclesia’ expositam, ut pag. 5, lin. 24-25 affirmatur" (Act Syn III/VII 15). Quindi la commissione che doveva valutare gli emendamenti al Decreto Unitatis redintegratio esprime con chiarezza l’identità della Chiesa di Cristo e della Chiesa cattolica e la sua unicità, e vede questa dottrina fondata nella Costituzione dogmatica Lumen gentium.

D) [In Nr. 2 Schema Decreti: Act Syn III/II 297s]

"Pag. 6, lin. 1- 24: Clarius exprimatur unicitas Ecclesiae. Non sufficit inculcare, ut in textu fit, unitatem Ecclesiae.

R(espondetur): a) Ex toto textu clare apparet identificatio Ecclesiae Christi cum Ecclesia catholica, quamvis, ut oportet, efferantur elementa ecclesialia aliarum communitatum".

"Pag. 7, lin. 5: Ecclesia a successoribus Apostolorum cum Petri successore capite gubernata (cf. novum textum ad pag. 6, lin.33-34) explicite dicitur ‘unicus Dei grex’ et lin. 13 ‘una et unica Dei Ecclesia’ " (Act Syn III/VII).

Le due espressioni citate sono quelle di Unitatis redintegratio 2.5 e 3.1.

[5] Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.1.

[6] Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 3.2; 3.4; 3.5; 4.6.

[7] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.2.

[8] Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Mysterium Ecclesiae, 1.1: AAS 65 [1973] 397; Dich. Dominus Iesus, 16.3: AAS 92 [2000-II] 757-758; Notificazione sul libro di P. Leonardo Boff, OFM, "Chiesa: carisma e potere": AAS 77 [1985] 758-759.[

9] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, 11.3: AAS 87 [1995-II] 928.

[10] Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.2.

[11] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.2.

[12] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 3.4.

[13] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 15.3; cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, 17.2: AAS, 85 [1993-II] 848.

[14] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 14.1.

[15] Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 14.1; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, 56 s : AAS 87 [1995-II] 954 s.

[16] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 15.1.

[17] Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, 17.3: AAS 85 [1993-II] 849.

[18] Cf. ibid.

[19] Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 22.3.

[20] Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, 17.2: AAS 92 [2000-II] 758.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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ARTICOLO DI COMMENTO
ai
Responsa ad quaestiones de aliquibus sententiis
ad doctrinam de Ecclesia pertinentibus

Le diverse questioni alle quali la Congregazione per la Dottrina della Fede intende rispondere vertono sulla visione generale della Chiesa quale emerge dai documenti di carattere dogmatico ed ecumenico del Concilio Vaticano II, il concilio “della Chiesa sulla Chiesa”, che secondo le parole di Paolo VI ha segnato una «nuova epoca per la Chiesa» in quanto ha avuto il merito di aver «meglio tratteggiato e svelato il volto genuino della Sposa di Cristo»[1]. Non mancano inoltre richiami ai principali documenti dei Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II e agli interventi della Congregazione per la Dottrina della Fede, tutti ispirati ad una sempre più approfondita visione della Chiesa stessa, spesso finalizzati ad apportare chiarimenti alla notevole produzione teologica postconciliare, non sempre immune da deviazioni e inesattezze.


La stessa finalità è rispecchiata nel presente documento con il quale la Congregazione intende richiamare il significato autentico di alcuni interventi del Magistero in materia di ecclesiologia perché la sana ricerca teologica non venga intaccata da errori o da ambiguità. A questo riguardo va tenuto presente il genere letterario dei “Responsa ad quaestiones”, che di natura sua non comportano argomentazioni addotte a comprovare la dottrina esposta, ma si limitano a richiami del precedente Magistero e pertanto intendono dire una parola certa e sicura in materia.


Il primo quesito chiedese il Vaticano II abbia mutato la precedente dottrina sulla Chiesa.

L’interrogativo riguarda il significato di quel “nuovo volto” della Chiesa che, secondo le citate parole di Paolo VI, il Vaticano II ha offerto.


La risposta, fondata sull’insegnamento di Giovanni XXIII e di Paolo VI, è molto esplicita: il Vaticano II non ha inteso mutare, e di fatto non ha mutato, la precedente dottrina sulla Chiesa, ma piuttosto l’ha approfondita ed esposta in maniera più organica. In tal senso vengono riprese le parole di Paolo VI nel suo discorso di promulgazione della Costituzione dogmatica conciliare Lumen gentium, nelle quali si afferma che la dottrina tradizionale non è stata affatto mutata, ma «ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione».
[2]


Allo stesso modo c’è continuità tra la dottrina esposta dal Concilio e quella richiamata nei successivi interventi magisteriali che hanno ripreso e approfondito la stessa dottrina, costituendone nel contempo uno sviluppo. In questo senso, ad esempio la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede Dominus Iesus ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla.


Nonostante queste chiare attestazioni, nel periodo postconciliare la dottrina del Vaticano II è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa: se, da una parte, si vedeva in essa una “svolta copernicana”, dall’altra, ci si è concentrati su taluni aspetti considerati quasi in contrapposizione con altri.
In realtà l’intenzione profonda del Concilio Vaticano II era chiaramente di inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, proponendo una ecclesiologia nel senso propriamente teo-logico, ma la recezione del Concilio ha spesso trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni ecclesiologiche, si è concentrata su singole parole di facile richiamo, favorendo letture unilaterali e parziali della stessa dottrina conciliare.


Per quanto concerne l'ecclesiologia di Lumen gentium, sono restate nella coscienza ecclesiale alcune parole chiave: l'idea di popolo di Dio, la collegialità dei Vescovi come rivalutazione del ministero dei vescovi insieme con il primato del Papa, la rivalutazione delle Chiese particolari all’interno della Chiesa universale, l'apertura ecumenica del concetto di Chiesa e l'apertura alle altre religioni; infine, la questione dello statuto specifico della Chiesa cattolica, che si esprime nella formula secondo cui la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo, subsistit in Ecclesia catholica.


Alcune di queste affermazioni, specialmente quella sullo statuto specifico della Chiesa cattolica con i suoi riflessi in campo ecumenico, costituiscono le principali tematiche affrontate dal documento nei successivi quesiti.


Il secondo quesito chiede come si debba intendere che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica.

Quando G. Philips scrisse che l’espressione “subsistit in” avrebbe fatto «scorrere fiumi d’inchiostro»[3], probabilmente non aveva previsto che la discussione sarebbe continuata cosìa lungo e con tale intensità da spingere la Congregazione per la Dottrina della Fede a pubblicare il presente documento.


Tanta insistenza, d’altronde fondata sui testi conciliari e del Magistero successivo citati, riflette la preoccupazione di salvaguardare l’unità e l’unicità della Chiesa, che verrebbero meno se si ammettesse che vi possano essere più sussistenze della Chiesa fondata da Cristo. Infatti, come si dice nella Dichiarazione Mysterium Ecclesiae, se così fosse si giungerebbe ad immaginare «la Chiesa di Cristo come la somma - differenziata e in qualche modo unitaria insieme - delle Chiese e Comunità ecclesiali» o a «pensare che la Chiesa di Cristo oggi non esista più in alcun luogo e che, perciò, debba essere soltanto oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e comunità»
[4]. L'unica Chiesa di Cristo non esisterebbe più come ‘una’ nella storia o esisterebbe solo in modo ideale ossia in fieri in una futura convergenza o riunificazione delle diverse Chiese sorelle, auspicata e promossa dal dialogo.


Ancora più esplicita è la Notificazione della Congregazione per la Dottrina della Fede nei confronti di uno scritto di Leonardo Boff, secondo il quale l'unica Chiesa di Cristo «può pure sussistere in altre Chiese cristiane»; al contrario, - precisa la Notificazione - «il Concilio aveva invece scelto la parola “subsistit” proprio per chiarire che esiste una sola “sussistenza” della vera Chiesa, mentre fuori della sua compagine visibile esistono solo “elementa Ecclesiae”, che – essendo elementi della stessa Chiesa – tendono e conducono verso la Chiesa cattolica»
[5].


Il terzo quesito chiedeperché sia stata usata l’espressione “subsistit in” e non il verbo “est”.

É stato precisamente questo cambiamento di terminologia nel descrivere il rapporto tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica che ha dato adito alle più svariate illazioni, soprattutto in campo ecumenico. In realtà i Padri conciliari hanno semplicemente inteso riconoscere la presenza, nelle Comunità cristiane non cattoliche in quanto tali, di elementi ecclesiali propri della Chiesa di Cristo. Ne consegue che l’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica non è da intendersi come se al di fuori della Chiesa cattolica ci fosse un “vuoto ecclesiale”. Allo stesso tempo essa significa che, se si considera il contesto in cui è situata l'espressione subsistit in, cioè il riferimento all'unica Chiesa di Cristo «in questo mondo costituita e organizzata come una società... governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui», il passaggio da est a subsistit in non riveste un particolare significato teologico di discontinuità con la dottrina cattolica precedente.


Infatti, poiché la Chiesa così voluta da Cristo di fatto continua ad esistere (subsistit in) nella Chiesa cattolica, la continuità di sussistenza comporta una sostanziale identità di essenza tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica. Il Concilio ha voluto insegnare che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica. Ciò può avvenire una sola volta e la concezione secondo cui il “subsistit” sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire. Con la parola “subsistit” il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa di Cristo: esiste la Chiesa come unico soggetto nella realtà storica.


Pertanto la sostituzione di “est” con “subsistit in”, contrariamente a tante interpretazioni infondate, non significa che la Chiesa cattolica desista dalla convinzione di essere l'unica vera Chiesa di Cristo, ma semplicemente significa una sua maggiore apertura alla particolare richiesta dell'ecumenismo di riconoscere carattere e dimensione realmente ecclesiali alle Comunità cristiane non in piena comunione con la Chiesa cattolica, a motivo dei “plura elementa sanctificationis et veritatis” presenti in esse. Di conseguenza, benché la Chiesa sia soltanto una e “sussista” in un unico soggetto storico, anche al di fuori di questo soggetto visibile esistono vere realtà ecclesiali.


Il quarto quesito chiede perché il Concilio Vaticano II abbia attribuito il nome di “Chiese” alle Chiese orientali non in piena comunione con la Chiesa cattolica.


Nonostante l’esplicita affermazione che la Chiesa di Cristo “sussiste” nella Chiesa Cattolica, il riconoscimento che, anche al di fuori del suo organismo visibile, si trovano “parecchi elementi di santificazione e di verità”
[6], comporta un carattere ecclesiale, anche se diversificato, delle Chiese o Comunità ecclesiali non cattoliche. Anch’esse infatti «non sono affatto spoglie di significato e di peso» nel senso che «lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come strumenti di salvezza»[7].


Il testo prende in considerazione anzitutto la realtà delle Chiese orientali non in piena comunione con la Chiesa cattolica e, richiamandosi a vari testi conciliari, riconosce loro il titolo di “Chiese particolari o locali” e le chiama Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche, perché restano unite alla Chiesa cattolica per mezzo della successione apostolica e della valida eucaristia, «per cui in esse la Chiesa di Dio è edificata e cresce»
[8]. Anzi la Dichiarazione Dominus Iesus le chiama espressamente «vere Chiese particolari»[9].

Pur con questo esplicito riconoscimento del loro “essere Chiesa particolare” e del valore salvifico incluso, il documento non poteva non sottolineare la carenza (defectus), di cui risentono, proprio nel loro essere Chiesa particolare. Infatti, per la loro visione eucaristica della Chiesa, che pone l'ac­cento sulla realtà della Chiesa particolare riunita nel nome di Cristo nella celebrazione dell'Eucaristia e sotto la guida del vescovo, esse considerano le Chiese particolari complete nella loro particolarità[10].

Ne consegue che, stante la fondamentale uguaglianza fra tutte le Chiese particolari e fra tutti i vescovi che le presiedono, esse hanno ciascuna una propria autonomia interna, con evidenti riflessi sulla dottrina del primato, che secondo la fede cattolica è un “principio costitutivo interno” per l’esistenza stessa di una Chiesa particolare
[11].

Naturalmente sarà sempre necessario sottolineare che il primato del Successore di Pietro, Vescovo di Roma, non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei Vescovi delle Chiese particolari. Esso deve esercitarsi come servizio all’unità della fede e della comunione, entro i limiti che procedono dalla legge divina e dall’inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione
[12].

Il quinto quesito chiede perché non venga riconosciuto il titolo di “Chiese” alle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma.


Al riguardo si deve dire che «la ferita è ancora molto più profonda nelle comunità ecclesiali che non hanno conservato la successione apostolica e l’eucaristia valida»
[13]; pertanto esse «non sono Chiese in senso proprio»[14], ma “Comunità ecclesiali”, come attesta l’insegnamento conciliare e post-conciliare[15].

Nonostante queste chiare affermazioni abbiano creato disagio nelle Comunità interessate e anche in campo cattolico, non si vede, d’altra parte, come a tali Comunità possa essere attribuito il titolo di “Chiesa”, dal momento che non accettano il concetto teologico di Chiesa in senso cattolico e mancano di elementi considerati essenziali dalla Chiesa cattolica.


Occorre, comunque, ricordare che dette Comunità, come tali, per i diversi elementi di santificazione e di verità in esse realmente presenti, hanno indubbiamente un carattere ecclesiale e un conseguente valore salvifico.


Riprendendo sostanzialmente l’insegnamento conciliare e il Magistero post-conciliare, il nuovo documento, promulgato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, costituisce un chiaro richiamo alla dottrina cattolica sulla Chiesa. Oltre a fugare visioni inaccettabili, tuttora diffuse nello stesso ambito cattolico, esso offre preziose indicazioni anche per il proseguimento del dialogo ecumenico, che resta sempre una delle priorità della Chiesa cattolica, come ha confermato anche Benedetto XVI già nel suo
primo messaggio alla Chiesa (20 aprile 2005) e in tante altre occasioni, specie nel suo viaggio apostolico in Turchia (28 novembre – 1 dicembre 2006).

Ma perché il dialogo possa veramente essere costruttivo, oltre all’apertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica
. 
 
Solo in tal modo si potrà giungere all’unità di tutti i cristiani in “un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10, 16) e sanare così quella ferita che tuttora impedisce alla Chiesa cattolica la realizzazione piena della sua universalità nella storia.


L’ecumenismo cattolico può presentarsi a prima vista paradossale. Con l’espressione “subsistit in”, il Concilio Vaticano II volle armonizzare due affermazioni dottrinali: da un lato, che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa cattolica, e, dall’altro lato, l’esistenza di numerosi elementi di santificazione e di verità al di fuori della sua compagine, ovvero nelle Chiese e Comunità ecclesiali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica.

Al riguardo lo stesso Decreto del Concilio Vaticano II sull’ecumenismo Unitatis redintegratio aveva introdotto il termine plenitudo (unitatis/catholicitatis) proprio per aiutare a comprendere meglio questa situazione in certo qual modo paradossale. Benché la Chiesa cattolica abbia la pienezza dei mezzi di salvezza, «tuttavia le divisioni dei cristiani impediscono che la Chiesa stessa attui la pienezza della cattolicità ad essa propria in quei figli, che le sono bensì uniti col battesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione»
[16]. Si tratta dunque della pienezza della Chiesa cattolica, che è già attuale e che deve crescere nei fratelli non in piena comunione con essa, ma anche nei propri figli che sono peccatori «fino a che il popolo di Dio pervenga nella gioia a tutta la pienezza della gloria eterna nelle celeste Gerusalemme»[17]. Il progresso nella pienezza è radicato nel dinamismo dell’unione con Cristo: «L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori da me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani»[18].




[1] PAOLO VI, Discorso a chiusura del III periodo del Concilio (21 novembre 1964): EV 1, 290*.

[2] Ibid., 283*.

[3] G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II (Milano 1975), I, 111.

[4] CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Mysterium Ecclesiae, 1: EV 4, 2566.

[5] CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Notificazione in merito allo scritto di p. Leonardo Boff: Chiesa. carisma e potere: EV 9, 1426. Il passo della Notificazione, pur non essendo formalmente citato nel “Responsum”, si trova riportato integralmente nella Dichiarazione Dominus Iesus, nella nota 56 del n. 16.

[6] CONC. ECUMEN. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 8.

[7] CONC. ECUMEN. VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, n. 3.4.

[8] CONC. ECUMEN. VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, n. 15.1.

[9] CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, n. 17: EV 19, 1183.

[10] Cf. COMITATO MISTO CATTOLICO-ORTODOSSO IN FRANCIA, Il primato romano nella comunione delle Chiese, Conclusioni: in “Enchiridion oecumenicum” (1991), vol. 4, n. 956.

[11] Cf. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio, n. 17: EV 13, 1805.

[12] Cf. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni su Il primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 7 e n.10, in: Il primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, Documenti e Studi, Libreria Editrice Vaticana, 2002, 16 e 18.

[13] CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio, n. 17: EV 13, 1805.

[14] CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione Dominus Iesus, n. 17: EV 19, 1184.

[15] Cf. CONC. ECUMEN. VATICANO II, Decreto Unitatis redintegratio, n. 4; GIOVANNI PAOLO II, Lettera apost. Novo millennio ineunte (2001), n. 48: EV 20, 99.

[16] CONC. ECUMEN. VATICANO II, Decreto Unitatis redintegratio, n. 4.

[17] CONC. ECUMEN. VATICANO II, Decreto, Unitatis redintegratio, n. 3.

[18] BENEDETTO XVI, Lettera Enc. Deus caritas est, n.14: AAS 98 (2006) 228-229.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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L'Ecclesiologia della costituzione «Lumen Gentium»

Card. JOSEPH RATZINGER
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
Da L'osservatore romano del 4 marzo 2000


Nel tempo della preparazione al Concilio Vaticano II ed anche durante il Concilio stesso il Cardinale Frings mi ha spesso raccontato un piccolo episodio, che evidentemente lo aveva toccato profondamente.

Papa Giovanni XXIII non aveva da parte sua fissato alcun tema determinato per il Concilio, ma aveva invitato i Vescovi del mondo a proporre le loro priorità, così che dalle esperienze vive della Chiesa universale emergesse la tematica di cui il Concilio si sarebbe dovuto occupare. Anche nella Conferenza Episcopale Tedesca si discusse su quali temi si dovessero proporre per la riunione dei Vescovi. Non solo in Germania, ma praticamente in tutta la Chiesa cattolica si era del parere che il tema dovesse essere la Chiesa: il Concilio Vaticano I interrotto innanzi tempo a motivo della guerra franco-tedesca non aveva potuto condurre a termine la sua sintesi ecclesiologica, ma aveva lasciato un capitolo di ecclesiologia isolato.

Riprendere le fila di allora e così cercare una visione globale della Chiesa appariva essere il compito urgente dell'imminente Concilio Vaticano II. Ciò emergeva anche dal clima culturale dell'epoca: la fine della prima guerra mondiale aveva portato con sé un profondo rivolgimento teologico. La teologia liberale orientata in modo del tutto individualistico si era eclissata come da se stessa, si era ridestata una nuova sensibilità per la Chiesa. Non solo Romano Guardini parlava di risveglio della Chiesa nelle anime; il Vescovo evangelico Otto Dibelius coniava la formula del secolo della Chiesa, e Karl Barth dava alla sua dogmatica fondata sulle tradizioni riformate il titolo programmatico di «Kirchliche Dogmatik» (Dogmatica ecclesiale): la dogmatica presuppone la Chiesa, così egli spiegava; senza Chiesa non esiste.

Fra i membri della Conferenza Episcopale Tedesca pertanto era ampiamente prevalente un consenso sul fatto che la Chiesa dovesse essere il tema. L'anziano Vescovo Buchberger di Regensburg, che come ideatore del Lexikon für Theologie und Kirche in dieci volumi, oggi alla sua terza edizione, si era conquistato stima e rinomanza molto al di là della sua diocesi, chiese la parola — così mi raccontava l'Arcivescovo di Colonia — e disse: cari fratelli, al Concilio voi dovete innanzitutto parlare di Dio. Questo è il tema più importante. I Vescovi rimasero colpiti; non potevano sottrarsi alla gravità di questa parola. Naturalmente non potevano decidersi a proporre semplicemente il tema di Dio. Ma un'inquietudine interiore è nondimeno rimasta almeno nel Cardinale Frings, che si chiedeva continuamente come potessimo soddisfare a questo imperativo.

Questo episodio mi è ritornato in mente, quando lessi il testo della conferenza con la quale Johann Baptist Metz si congedò nel 1993 dalla sua cattedra di Münster. Di questo importante discorso vorrei citare almeno alcune frasi significative.
Metz dice: «La crisi, che ha colpito il cristianesimo europeo, non è più primariamente o almeno esclusivamente una crisi ecclesiale... La crisi è più profonda: essa non ha affatto le sue radici solo nella situazione della Chiesa stessa: la crisi è divenuta una crisi di Dio».
«Schematicamente si potrebbe dire: religione, sì — Dio no, ove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi. L'ateismo di oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio — distrattamente o tranquillamente — senza intenderlo veramente...».
«Anche la Chiesa ha una sua concezione della immunizzazione contro le crisi di Dio. Essa non parla più oggi — come ad esempio ancora al Concilio Vaticano II — di Dio, ma soltanto — come ad esempio nell'ultimo Concilio — del Dio annunciato per mezzo della Chiesa. La crisi di Dio viene cifrata ecclesiologicamente».

Parole del genere dalla bocca del creatore della teologia politica devono rendere attenti. Esse ci ricordano innanzitutto giustamente che il Concilio Vaticano II non fu solo un concilio ecclesiologico, ma prima e soprattutto esso ha parlato di Dio e questo non solo all'interno della cristianità, ma rivolto al mondo — di quel Dio, che è il Dio di tutti, che tutti salva e a tutti è accessibile. Forse che il Vaticano II, come Metz sembra dire, ha raccolto solo metà dell'eredità del precedente Concilio? Una relazione, che è dedicata all'ecclesiologia del Concilio, deve evidentemente porsi questa domanda.

Vorrei subito anticipare la mia tesi di fondo: il Vaticano II voleva chiaramente inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre una ecclesiologia nel senso propriamente teologico, ma la recezione del Concilio ha finora trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni ecclesiologiche, si è gettata su singole parole di facile richiamo e così è restata indietro rispetto alle grandi prospettive dei Padri conciliari.

Qualcosa di analogo si può per altro dire a proposito del primo testo, che il Vaticano II mise a punto — la Costituzione sulla Sacra Liturgia.
Il fatto che essa si collocasse all'inizio, aveva dapprincipio motivi pragmatici. Ma retrospettivamente si deve dire che nell'architettura del Concilio questo ha un senso preciso: all'inizio sta l'adorazione. E quindi Dio. Questo inizio corrisponde alla parola della Regola benedettina: Operi Dei nihil praeponatur.
 
La Costituzione sulla Chiesa, che segue poi come secondo testo del Concilio, la si dovrebbe considerare ad essa interiormente collegata. La Chiesa si lascia guidare dalla preghiera, dalla missione di glorificare Dio. L'ecclesiologia ha a che fare per sua natura con la liturgia. E quindi è poi anche logico che la terza Costituzione parli della parola di Dio, che convoca la Chiesa e la rinnova in ogni tempo.

La quarta Costituzione mostra come la glorificazione di Dio si propone nella vita attiva, come la luce ricevuta da Dio viene portata nel mondo e solo così diviene totalmente la glorificazione di Dio.
 
Nella storia del postconcilio certamente la Costituzione sulla liturgia non fu più compresa a partire da questo fondamentale primato dell'adorazione, ma piuttosto come un libro di ricette su ciò che possiamo fare con la liturgia.
Nel frattempo ai creatori della liturgia sembra che sia uscito di mente, occupati come sono in modo sempre più incalzante a riflettere come si possa configurare la liturgia in modo sempre più attraente, comunicativo, coinvolgendovi attivamente sempre più gente, che la liturgia in realtà è «fatta» per Dio e non per noi stessi. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno attraente essa è, perché tutti avvertono chiaramente che l'essenziale va sempre più perduto.

Per quanto concerne ora l'ecclesiologia di «Lumen gentium», sono innanzitutto restate nella coscienza alcune parole chiave:
- l'idea di Popolo di Dio,
- la collegialità dei Vescovi come rivalutazione del ministero del Vescovo nei confronti del primato del Papa,
- la rivalutazione delle Chiese locali nei confronti della Chiesa universale,
- l'apertura ecumenica del concetto di Chiesa e
- l'apertura alle altre religioni;
- infine la questione dello stato specifico della Chiesa cattolica, che si esprime nella formula secondo cui la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo, « subsistit in Ecclesia catholica»: lascio questa famosa formula qui dapprima non tradotta, perché essa — come era previsto — ha trovato le spiegazioni più contraddittorie — dall'idea, che qui si esprima la singolarità della Chiesa cattolica unita al Papa fino all'idea che qui sia stata raggiunta un'equiparazione con tutte le altre Chiese cristiane e la Chiesa cattolica abbia abbandonato la sua pretesa di specificità.

In una prima fase della recezione del Concilio domina insieme con il tema della Collegialità il concetto di popolo di Dio, che compreso assai presto totalmente a partire dall'uso linguistico politico generale della parola popolo, nell'ambito della teologia della liberazione fu compreso con l'uso della parola marxista di popolo come contrapposizione alle classi dominanti e più in generale ancora più ampiamente nel senso della sovranità del popolo, che ora finalmente sarebbe da applicare anche alla Chiesa.

Ciò a sua volta diede occasione ad ampi dibattiti sulle strutture, nei quali fu interpretato a seconda della situazione in modo più occidentale come «democratizzazione» ovvero più nel senso delle «Democrazie popolari» orientali.

Lentamente questo «fuoco d'artificio di parole» (N.Lohfink) intorno al concetto di popolo di Dio si è andato spegnendo, da una parte e principalmente perché questi giochi di potere si sono svuotati da se stessi e dovevano lasciare il posto al lavoro ordinario nei consigli parrocchiali, dall'altra però, anche, perché un solido lavoro teologico ha mostrato in modo incontrovertibile l'insostenibilità di tali politicizzazioni di un concetto di per sé proveniente da un ambito totalmente diverso.

Come risultato di analisi esegetiche accurate l'esegeta di Bochum Werner Berg, ad esempio, afferma: «Malgrado l'esiguo numero di passi, che contengono l'espressione “popolo di Dio” — da questo punto di vista “popolo di Dio” è un concetto biblico piuttosto raro — può nondimeno rilevarsi qualcosa di comune: l'espressione “popolo di Dio” esprime la “parentela” con Dio, la relazione con Dio, il legame fra Dio e quello che è designato come “popolo di Dio”, quindi una “direzione verticale”. L'espressione si presta meno a descrivere la struttura gerarchica di questa comunità, soprattutto se il “popolo di Dio” viene descritto come “controparte” dei ministri...
A partire dal suo significato biblico l'espressione non si presta neppure ad un grido di protesta contro i ministri: “Noi siamo il popolo di Dio”».

Il professore di teologia fondamentale di Paderborn Josef Meyer zu Schlochtern conclude la rassegna sulla discussione intorno al concetto di popolo di Dio con l'osservazione che la Costituzione sulla Chiesa del Vaticano II termina il capitolo relativo in modo tale da «designare la struttura trinitaria come fondamento dell'ultima determinazione della Chiesa...». Così la discussione è ricondotta al punto essenziale: la Chiesa non esiste per se stessa, ma dovrebbe essere lo strumento di Dio, per radunare gli uomini a lui, per preparare il momento, in cui «Dio sarà tutto in tutto» (1 Cor 15, 28).

Proprio il concetto di Dio era stato lasciato da parte nel «fuoco d'artificio» intorno a questa espressione e in tal modo era stato privato del suo significato. Infatti una Chiesa, che esiste solo per se stessa, è superflua. E la gente lo nota subito. La crisi della Chiesa, come essa si rispecchia nel concetto di popolo di Dio, è «crisi di Dio»; essa risulta dall'abbandono dell'essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere. Di questa ve ne è abbastanza altrove nel mondo, per questa non c'è bisogno della Chiesa.

Si può certamente dire che all'incirca a partire dal Sinodo straordinario del 1985, che doveva tentare una specie di bilancio di vent'anni di postconcilio, un nuovo tentativo si va diffondendo, quello di riassumere l'insieme dell'ecclesiologia conciliare in un concetto base: l'ecclesiologia di comunione. Ho accolto con gioia questo nuovo ricentramento dell'ecclesiologia ed ho anche cercato secondo le mie capacità di prepararlo. Si deve comunque innanzitutto riconoscere che la parola «communio» nel Concilio non ha una posizione centrale. Nondimeno, compresa rettamente, essa può servire come sintesi per gli elementi essenziali dell'ecclesiologia conciliare. Tutti gli elementi essenziali del concetto cristiano di «communio» si trovano riuniti nel famoso passo di 1 Giov 1, 3, che si può considerare come il criterio di riferimento per ogni corretta comprensione cristiana della «communio»: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta».

Qui emerge in primo piano il punto di partenza della «communio»: l'incontro con il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che nell'annuncio della Chiesa viene agli uomini. Così nasce la comunione degli uomini fra di loro, che a sua volta si fonda sulla comunione con il Dio uno e trino. Alla comunione con Dio si ha accesso tramite quella realizzazione della comunione di Dio con l'uomo, che è Cristo in persona; l'incontro con Cristo crea comunione con lui stesso e quindi con il Padre nello Spirito Santo; e a partire di qui unisce gli uomini fra di loro. Tutto questo ha come fine la gioia piena: la Chiesa porta in sé una dinamica escatologica.

Nell'espressione gioia piena si avverte il riferimento ai discorsi d'addio di Gesù, quindi al mistero pasquale ed al ritorno del Signore nelle apparizioni pasquali, che tende al suo pieno ritorno nel nuovo mondo: «Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia... vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà... Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» ( Gv 16, 20.22.24).
Se si confronta l'ultima frase citata con Lc 11, 13 — l'invito alla preghiera in Luca — appare chiaramente che «gioia» e «Spirito Santo» si equivalgono e che dietro la parola gioia si nasconde in 1 Giov 1, 3 lo Spirito Santo qui non espressamente menzionato. La parola «communio» ha quindi a partire da questo ambito biblico un carattere teologico, cristologico, storico salvifico ed ecclesiologico. Porta quindi in sé anche la dimensione sacramentale, che in Paolo appare in modo del tutto esplicito: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo...» (1 Cor 10, 16s).

L'ecclesiologia di comunione è fin dal suo intimo una ecclesiologia eucaristica. Essa si colloca così assai vicino all'ecclesiologia eucaristica, che teologi ortodossi hanno sviluppato in modo convincente nel nostro secolo. In essa l'ecclesiologia diviene più concreta e rimane nondimeno allo stesso tempo totalmente spirituale, trascendente ed escatologica. Nell'Eucaristia Cristo, presente nel pane e nel vino e donandosi sempre nuovamente, edifica la Chiesa come suo corpo e per mezzo del suo corpo di risurrezione ci unisce al Dio uno e trino e fra di noi. L'Eucaristia si celebra nei diversi luoghi e tuttavia è allo stesso tempo sempre universale, perché esiste un solo Cristo e un solo corpo di Cristo.

L'Eucaristia include il servizio sacerdotale della «repraesentatio Christi» e quindi la rete del servizio, la sintesi di unità e molteplicità, che si palesa già nella parola «Communio». Si può così senza dubbio dire che questo concetto porta in sé una sintesi ecclesiologica, che unisce il discorso della Chiesa al discorso di Dio ed alla vita da Dio e con Dio, una sintesi, che riprende tutte le intenzioni essenziali dell'ecclesiologia del Vaticano II e le collega fra di loro nel modo giusto.

Per tutti questi motivi ero grato e contento, quando il Sinodo del 1985 riportò al centro della riflessione il concetto di «communio». Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi, neppure la migliore e la più profonda.
Nella misura in cui «communio» divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata.
Come per il concetto di popolo di Dio così si doveva anche qui rilevare una progressiva orizzontalizzazione, l'abbandono del concetto di Dio.

L'ecclesiologia di comunione cominciò a ridursi alla tematica della relazione fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l'una e l'altra. Naturalmente si diffuse nuovamente il motivo egualitaristico, secondo cui nella «communio» potrebbe esservi solo piena uguaglianza. Si è così arrivati di nuovo esattamente alla discussione dei discepoli su chi fosse il più grande, che evidentemente in nessuna generazione intende placarsi. Marco ne riferisce con maggiore insistenza. Nel cammino verso Gerusalemme Gesù aveva parlato per la terza volta ai discepoli della sua prossima passione. Arrivati a Cafarnao egli chiese loro di che cosa avevano discusso fra di loro lungo la via. «Ma essi tacevano», perché avevano discusso su chi di loro fosse il più grande — una specie di discussione sul primato ( Mc 9, 33-37). Non è così anche oggi? Mentre il Signore va verso la sua passione, mentre la Chiesa e in essa egli stesso soffre, noi ci soffermiamo sul nostro tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti di precedenza. E se egli venisse fra di noi e ci chiedesse di che cosa abbiamo parlato, quanto dovremmo arrossire e tacere.

Questo non vuol dire che nella Chiesa non si debba anche discutere sul retto ordinamento e sulla assegnazione delle responsabilità. E certamente vi saranno sempre squilibri, che esigono correzioni. Naturalmente può verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali questioni non possono distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa: la Chiesa non deve parlare primariamente di se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga in modo puro, vi sono allora anche rimproveri intraecclesiali, per i quali la correlazione del discorso su Dio e sul servizio comune deve dare la direzione. In conclusione non a caso ritorna nella tradizione evangelica in diversi contesti la parola di Gesù secondo cui l'ultimo diverrà il primo ed il primo l'ultimo — come uno specchio, che riguarda sempre tutti.

Di fronte alla riduzione, che a riguardo del concetto di «communio» si verificò negli anni dopo il 1985, la Congregazione per la Dottrina della Fede ritenne opportuno preparare una «Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione», che fu pubblicata con la data del 28 giugno 1992.

Poiché oggi per teologi, che tengono alla propria rinomazione, sembra essere divenuto un dovere dare una valutazione negativa dei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, su questo testo cadde una gragnola di critiche, da cui ben poco riuscì a salvarsi.
Soprattutto fu criticata la frase, che la Chiesa universale sarebbe nel suo mistero essenziale una realtà, che ontologicamente e temporalmente precede le singole Chiese particolari. Questo nel testo era brevemente fondato con il richiamo al fatto che secondo i padri l'una e singola Chiesa precede la creazione e partorisce le Chiese particolari (9).

I padri continuano così una teologia rabbinica, che aveva concepito come preesistenti la Thora ed Israele: la creazione sarebbe stata concepita, perché in essa vi fosse uno spazio per la volontà di Dio; questa volontà però aveva bisogno di un popolo, che vive per la volontà di Dio e ne fa la luce del mondo. Poiché i padri erano convinti dell'identità ultima fra Chiesa ed Israele, essi non potevano vedere nella Chiesa qualcosa di casuale sorto all'ultima ora, ma riconoscevano in questa riunione dei popoli sotto la volontà di Dio la teleologia interna della creazione.
A partire dalla cristologia l'immagine si allarga e si approfondisce: la storia — di nuovo in relazione con l'Antico Testamento — viene spiegata come storia d'amore fra Dio e l'uomo. Dio trova e si prepara la sposa del Figlio, l'unica sposa, che è l'unica Chiesa. A partire dalla parola della Genesi, che uomo e donna diverranno «due in una carne sola» ( Gen 2, 24), l'immagine della sposa si fuse con l'idea della Chiesa come corpo di Cristo, metafora che a sua volta deriva dalla liturgia eucaristica. L'unico corpo di Cristo viene preparato; Cristo e la Chiesa saranno «due in una sola carne», un corpo, e così «Dio sarà tutto in tutto».

Questa precedenza ontologica della Chiesa universale, dell'unica Chiesa e dell'unico corpo, dell'unica sposa, rispetto alle realizzazioni empiriche concrete nelle singole Chiese particolari mi sembra così evidente, che mi riesce difficile comprendere le obiezioni ad essa.
Mi sembrano in realtà essere possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la grande Chiesa ideata da Dio — forse per disperazione a motivo della sua insufficienza terrena; essa appare ora come una fantasticheria teologica, e rimane quindi solo l'immagine empirica delle Chiese nella loro relazione reciproca e nella loro conflittualità. Questo però significa che la Chiesa come tema teologico viene cancellato. Se si può vedere la Chiesa ormai solo nelle organizzazioni umane, allora in realtà rimane solo desolazione.
Ma allora non si è abbandonato solo l'ecclesiologia dei padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e la concezione di Israele dell'Antico Testamento.

Nel Nuovo Testamento del resto non è necessario attendere le epistole deutero-paoline e l'Apocalisse per riscontrare la priorità ontologica — riaffermata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede — della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari. Nel cuore delle grandi Lettere paoline, nella lettera ai Galati, l'Apostolo ci parla della Gerusalemme celeste e non come di una grandezza escatologica, ma come una realtà che ci precede: «Questa Gerusalemme è la nostra madre» ( Gal 4, 26). Al riguardo H.Schlier rileva che per Paolo come per la tradizione giudaica cui si ispira la Gerusalemme di lassù è il nuovo eone. Per l'apostolo però questo nuovo eone è già presente «nella Chiesa cristiana. Questa è per lui la Gerusalemme celeste nei suoi figli».

Se la priorità ontologica dell'unica Chiesa non si può seriamente negare, nondimeno la questione riguardante la precedenza temporale è senza dubbio già più difficile. La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede rimanda qui all'immagine lucana della nascita della Chiesa a Pentecoste per opera dello Spirito Santo. Non si vuol qui discutere la questione della storicità di questo racconto. Ciò che conta è l'affermazione teologica, che sta a cuore a Luca.
 
La Congregazione per la Dottrina della Fede richiama l'attenzione sul fatto che la Chiesa ha inizio nella comunità dei 120 radunata intorno a Maria, soprattutto nella rinnovata comunità dei dodici, che non sono membri di una Chiesa locale, ma sono gli apostoli, che porteranno il vangelo ai confini della terra. Per chiarire ulteriormente si può aggiungere che essi nel loro numero di dodici sono allo stesso tempo l'antico ed il nuovo Israele, l'unico Israele di Dio, che ora — come fin dall'inizio era contenuto fondamentalmente nel concetto di popolo di Dio — si estende a tutte le nazioni e fonda in tutti i popoli l'unico popolo di Dio.

Questo riferimento viene rafforzato da due ulteriori elementi: 

la Chiesa in questa ora della sua nascita parla già in tutte le lingue. I padri della Chiesa hanno giustamente interpretato questo racconto del miracolo delle lingue come un anticipo della Catholica — la Chiesa fin dal primo istante è orientata «kat'holon» — abbraccia tutto l'universo.
A ciò fa da corrispettivo il fatto che Luca descriva la schiera degli ascoltatori come pellegrini provenienti da tutta quanta la terra, sulla base di una tavola di dodici popoli, il cui significato è quello di alludere alla onnicomprensività dell'uditorio; Luca ha arricchito questa tavola dei popoli ellenistica con un tredicesimo nome: i romani, con cui senza dubbio voleva sottolineare ancora una volta l'idea dell'Orbis.

Non si rende del tutto esattamente il senso del testo della Congregazione per la Dottrina della Fede, quando al riguardo Walter Kasper dice che la comunità originaria di Gerusalemme sarebbe stata di fatto Chiesa universale e Chiesa locale allo stesso tempo e poi continua: «Certamente questo rappresenta un'elaborazione lucana; infatti dal punto di vista storico esistevano presumibilmente sin dall'inizio più comunità, accanto alla comunità di Gerusalemme anche comunità in Galilea».
Qui non si tratta della questione per noi ultimamente insolubile, quando esattamente e dove per la prima volta sono sorte delle comunità cristiane, ma dell'inizio interiore della Chiesa nel tempo, che Luca vuol descrivere e che egli al di là di ogni rilevamento empirico riconduce alla forza dello Spirito Santo. Soprattutto però non si rende giustizia al racconto lucano, se si dice che la «comunità originaria di Gerusalemme» sarebbe stata allo stesso tempo Chiesa universale e Chiesa locale.
La realtà prima nel racconto di san Luca non è una comunità originaria gerosolimitana, ma la realtà prima è che nei dodici l'antico Israele, che è unico, diviene quello nuovo e che ora questo unico Israele di Dio per mezzo del miracolo delle lingue, ancora prima di divenire la rappresentazione di una Chiesa locale gerosolimitana, si mostra come una unità che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi.

Nei pellegrini presenti, che provengono da tutti i popoli, essa coinvolge subito anche tutti i popoli del mondo. Forse non è necessario sopravvalutare la questione della precedenza temporale della Chiesa universale, che Luca nel suo racconto propone chiaramente. Importante resta nondimeno che la Chiesa nei dodici viene generata dall'unico Spirito fin dall'inizio per tutti i popoli e pertanto anche sin dal primo istante è orientata ad esprimersi in tutte le culture e proprio così ad essere l'unico popolo di Dio: non una comunità locale si allarga lentamente, ma il lievito è sempre orientato all'insieme e quindi porta in sé una universalità sin dal primo istante.
La resistenza contro le affermazioni della precedenza della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari è teologicamente difficile da comprendere o addirittura incomprensibile.

Comprensibile diviene solo a partire da un sospetto che sinteticamente è stato così formulato da Walter Kasper: «Totalmente problematica diventa la formula, se l'unica Chiesa universale viene tacitamente identificata con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia. Se questo avviene, allora la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede non può essere intesa come un aiuto alla chiarificazione della ecclesiologia di comunione, ma deve essere compresa come il suo abbandono e come il tentativo di una restaurazione del centralismo romano».
In questo testo l'identificazione della Chiesa universale con il Papa e la Curia viene dapprima introdotta come ipotesi, come pericolo, ma poi sembra di fatto essere attribuita alla Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, che così viene ad apparire come restaurazione teologica e quindi come distacco dal Concilio Vaticano II. Questo salto interpretativo sorprende, ma rappresenta senza dubbio un sospetto largamente diffuso; esso da voce ad un'accusa che si ode tutt'intorno, ed esprime bene anche una crescente incapacità a rappresentarsi sotto la Chiesa universale, sotto la Chiesa una, santa, cattolica qualcosa di concreto. Come unico elemento configurabile restano il Papa e la Curia, e se si da ad essi una classificazione troppo alta dal punto di vista teologico, è comprensibile che ci si senta minacciati.

Così ci si trova qui molto concretamente, dopo quello che solo apparentemente è un Excursus, di fronte alla questione dell'interpretazione del Concilio. La domanda, che ora ci si pone, è la seguente: quale idea di Chiesa universale ha propriamente il Concilio?

Non si può dire in verità che la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede «identifichi tacitamente la Chiesa universale con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia». Questa tentazione insorge se in precedenza si era già identificato la Chiesa locale di Gerusalemme e la Chiesa universale, cioè se si è ridotto il concetto di Chiesa alle comunità che appaiono empiricamente e la sua profondità teologica è stata persa di vista. È proficuo ritornare con questi interrogativi al testo stesso del Concilio.

Subito la prima frase della Costituzione sulla Chiesa chiarisce che il Concilio non considera la Chiesa come una realtà chiusa in se stessa, ma la vede a partire da Cristo: «Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini... ».

Sullo sfondo riconosciamo l'immagine presente nella teologia dei padri, che vede nella Chiesa la luna, la quale non ha da se stessa luce propria, ma rimanda la luce del sole Cristo. L'ecclesiologia si manifesta come dipendente dalla cristologia, ad essa legata. Poiché però nessuno può parlare correttamente di Cristo, del Figlio, senza allo stesso tempo parlare del Padre e poiché non si può parlare correttamente di Padre e Figlio senza mettersi in ascolto dello Spirito Santo, la visione cristologica della Chiesa si allarga necessariamente in una ecclesiologia trinitaria ( LG n. 2-4). Il discorso sulla Chiesa è un discorso su Dio, e solo così è corretto. In questa ouverture trinitaria, che offre la chiave per la giusta lettura dell'intero testo, noi apprendiamo che cosa è la Chiesa una, santa a partire dalle ed in tutte le concrete realizzazioni storiche, che cosa significa «Chiesa universale».

Questo si chiarifica ulteriormente quando successivamente viene mostrato il dinamismo interiore della Chiesa verso il Regno di Dio. Proprio perché la Chiesa è da comprendersi teologicamente, essa autotrascende sempre se stessa; essa è il raduno per il Regno di Dio, irruzione in esso. Vengono poi presentate brevemente le diverse immagini della Chiesa, che rappresentano tutte l'unica Chiesa, sia che si parli della sposa, che della casa di Dio, della sua famiglia, del tempio, della città santa, della nostra madre, della Gerusalemme di lassù o del gregge di Dio, ecc.

Alla fine ciò si concretizza ulteriormente. Riceviamo una risposta molto pratica alla domanda: che cosa è questo, quest'unica Chiesa universale che precede ontologicamente e temporalmente le Chiese locali? Dov'è? Dove possiamo vederla agire? La Costituzione risponde parlandoci dei sacramenti. Vi è innanzitutto il battesimo: esso è un evento trinitario, cioè totalmente teologico, molto più che una socializzazione legata alla Chiesa locale, come oggi è purtroppo così spesso travisato. Il battesimo non deriva dalla singola comunità, ma in esso si apre a noi la porta all'unica Chiesa, esso è la presenza dell'unica Chiesa, e può scaturire solo a partire da essa — dalla Gerusalemme di lassù, dalla nuova madre. Al riguardo il noto ecumenista Vinzenz Pfnür ha detto recentemente al riguardo: il battesimo è essere inseriti «nell 'unico corpo di Cristo aperto per noi sulla croce (cfr Ef 2, 16), nel quale essi... vengono battezzati per mezzo dell'unico Spirito (1 Cor 12, 13), ciò che è essenzialmente di più che non l'annuncio battesimale in uso in molti luoghi: abbiamo accolto nella nostra comunità...».

Membra di questo unico corpo noi diveniamo nel battesimo, «ciò che non va scambiato con l'appartenenza ad una Chiesa locale. Di ciò fa parte l'unica sposa e l'unico episcopato..., al quale con Cipriano si partecipa solo nella comunione dei vescovi». Nel battesimo la Chiesa universale precede continuamente la Chiesa locale e la costituisce. A partire di qui la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla «communio» può dire che nella Chiesa non vi sono stranieri: ognuno è ovunque a casa sua e non solo ospite. E sempre l'unica Chiesa, l'unica e la medesima. Chi è battezzato a Berlino, è nella Chiesa a Roma o a New York o a Kinshasa o a Bangalore o in qualunque altro posto, altrettanto a casa sua come nella Chiesa in cui è stato battezzato. Non deve registrarsi di nuovo, è l'unica Chiesa. Il battesimo viene da essa e partorisce in essa. Chi parla del battesimo parla, tratta di per se stesso anche della parola di Dio, che per la Chiesa intera è solo una e continuamente la precede in tutti i luoghi, la convoca e la edifica. Questa parola è sopra la Chiesa, e nondimeno è in essa, affidata ad essa come soggetto vivo. La parola di Dio ha bisogno, per essere presente in modo efficace nella storia, di questo soggetto, ma questo soggetto da parte sua non sussiste senza la forza vivificante della parola, che innanzitutto la rende soggetto.
 Quando parliamo della parola di Dio, intendiamo anche il Credo, che sta al centro dell'evento battesimale; esso è la modalità, con cui la Chiesa accoglie la parola e se la appropria, in qualche modo parola e risposta allo stesso tempo. Anche qui la Chiesa universale è presente, l'unica Chiesa in modo assai concreto e qui percepibile.

Il testo conciliare passa dal battesimo all'Eucaristia, nella quale Cristo dona il suo corpo e ci rende così suo corpo. Questo corpo è unico, e così nuovamente l'Eucaristia per ogni Chiesa locale è il luogo dell'inserimento nell'unico Cristo, il divenire una cosa sola di tutti i comunicandi nella «communio» universale, che unisce cielo e terra, vivi e morti, passato, presente e futuro e apre all'eternità. L'Eucaristia non nasce dalla Chiesa locale e non finisce in essa. Essa manifesta continuamente che Cristo dall'esterno attraverso le nostre porte chiuse viene a noi; essa viene continuamente a noi a partire dall'esterno, dal totale, unico corpo di Cristo e ci conduce entro di esso. Questo «extra nos» del Sacramento si rivela anche nel ministero del vescovo e del presbitero: che l'eucaristia abbia bisogno del sacramento del servizio sacerdotale, ha il suo fondamento esattamente nel fatto che la comunità non può darsi essa stessa l'eucaristia; essa deve riceverla a partire dal Signore per mezzo della mediazione dell'unica Chiesa.
 
La successione apostolica, che costituisce il ministero sacerdotale, implica allo stesso tempo l'aspetto sincronico come quello diacronico del concetto di Chiesa: l'appartenere all'insieme della storia della fede a partire dagli apostoli e lo stare in comunione con tutti coloro che si lasciano radunare dal Signore nel suo corpo. La Costituzione sulla Chiesa ha notoriamente trattato il ministero episcopale nel terzo capitolo e chiarito il suo significato a partire dal concetto fondamentale del «collegium». Questo concetto che appare solo in modo marginale nella tradizione serve a illustrare l'interiore unità del ministero episcopale.

Vescovo non si è come singoli, ma attraverso l'appartenenza ad un corpo, ad un collegio, che a sua volta rappresenta la continuità storica del «collegium apostolorum».
In questo senso il ministero episcopale deriva dall'unica Chiesa e introduce in essa. Proprio qui diviene visibile che non esiste teologicamente alcuna contrapposizione fra Chiesa locale e Chiesa universale. Il Vescovo rappresenta nella Chiesa locale l'unica Chiesa, ed egli edifica l'unica Chiesa, mentre edifica la Chiesa locale e risveglia i suoi doni particolari per l'utilità di tutto quanto il corpo.

Il ministero del successore di Pietro è un caso particolare del ministero episcopale e connesso in modo particolare con la responsabilità per l'unità di tutta quanta la Chiesa.
Ma questo ministero di Pietro e la sua responsabilità non potrebbero neppure esistere, se non esistesse innanzitutto la Chiesa universale. Si muoverebbe infatti nel vuoto e rappresenterebbe una pretesa assurda. Senza dubbio la retta correlazione di episcopato e primato dovette essere continuamente riscoperta anche attraverso fatica e sofferenze. Ma questa ricerca è impostata in modo corretto solo quando viene considerata a partire dal primato della specifica missione della Chiesa e ad esso in ogni tempo orientata e subordinata: il compito cioè di portare Dio agli uomini, gli uomini a Dio. Lo scopo della Chiesa è il Vangelo, e attorno ad esso tutto in lei deve ruotare.

Vorrei a questo punto interrompere l'analisi del concetto di «communio» e prendere ancora posizione almeno brevemente nei confronti del punto più discusso di «Lumen gentium»: il significato della già menzionata frase di «Lumen gentium» 8, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo, che confessiamo nel Simbolo come l'unica, santa, cattolica ed apostolica, «sussiste» nella Chiesa cattolica, che è guidata da Pietro e dai vescovi in comunione con lui.

La Congregazione per la Dottrina della Fede si vide obbligata nel 1985 a prendere posizione nei confronti di questo testo molto discusso a motivo di un libro di Leonardo Boff, nel quale l'autore sosteneva la tesi, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo come sussiste nella Cattolico-romana, così sussisterebbe anche in altre Chiese cristiane. Superfluo dire che il pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede fu sopraffatto da critiche pungenti e poi messo da parte. Nel tentativo di riflettere su dove oggi siamo nella recezione dell'ecclesiologia conciliare, la questione dell'interpretazione del « subsistit » è inevitabile, ed al riguardo l'unico pronunciamento ufficiale del Magistero dopo il Concilio su questa parola, cioè la menzionata Notificazione, non può essere trascurato.

A distanza di 15 anni emerge con più chiarezza, di quanto non fosse allora, che non si trattava qui tanto di un singolo autore teologico, ma di una visione di Chiesa che circola con diverse variazioni e che anche oggi è molto attuale. La chiarificazione del 1985 ha presentato estesamente il contesto della tesi di Boff già brevemente riferita. Questi particolari non è necessario che li approfondiamo ulteriormente, perché ci sta a cuore qualcosa di più fondamentale. La tesi, il cui rappresentante allora è stato Boff, si potrebbe caratterizzare come relativismo ecclesiologico. Essa trova la sua giustificazione nella teoria secondo cui il «Gesù storico» di per sé non avrebbe pensato ad una Chiesa, tanto meno quindi l'avrebbe fondata.

La Chiesa come realtà storica sarebbe sorta solo dopo la resurrezione, nel processo di perdita di tensione escatologica, a motivo delle inevitabili necessità sociologiche dell'istituzionalizzazione, ed all'inizio non sarebbe neppure esistita una Chiesa universale «cattolica», ma solo diverse Chiese locali con diverse teologie, diversi ministeri ecc. Nessuna Chiesa istituzionale potrebbe quindi affermare di essere quell'una Chiesa di Gesù Cristo voluta da Dio stesso; tutte le configurazioni istituzionali sono quindi nate da necessità sociologiche e pertanto come tali sono tutte costruzioni umane, che si possono o addirittura si devono anche nuovamente radicalmente mutare in nuove circostanze. Nella loro qualità teologica si differenziano in modo molto secondario, e pertanto si potrebbe dire che in tutte o in ogni caso almeno in molte sussiste l'«unica Chiesa di Cristo» — a proposito della quale ipotesi sorge naturalmente la domanda con che diritto in una tale visione si possa semplicemente parlare di un'unica Chiesa di Cristo.

La tradizione cattolica invece ha scelto un altro punto di partenza: essa fa fiducia agli evangelisti, crede ad essi. Allora risulta evidente che Gesù, il quale annunciò il regno di Dio, per la sua realizzazione radunò attorno a sé dei discepoli; egli donò loro non solo la sua parola come nuova interpretazione dell'Antico Testamento, ma nel sacramento dell'ultima cena fece loro dono di un nuovo centro unificante, per mezzo del quale tutti coloro che si confessano cristiani, in un modo totalmente nuovo divengono una cosa sola con lui — tanto che Paolo poté designare questa comunione come l'essere un solo corpo con Cristo, come l'unità di un solo corpo nello Spirito.
Allora risulta evidente che la promessa dello Spirito Santo non era un vago annuncio, ma intendeva la realtà di Pentecoste — il fatto dunque che la Chiesa non fu pensata e fatta da uomini, ma fu creata per mezzo dello Spirito, è e rimane creatura dello Spirito Santo.

Allora però istituzione e Spirito stanno nella Chiesa in una relazione ben diversa da quella che le menzionate correnti di pensiero vorrebbero suggerirci.
Allora l'istituzione non è semplicemente una struttura che si può mutare o demolire a piacere, che non avrebbe niente a che vedere con la realtà della fede come tale.
Allora questa forma di corporeità appartiene alla Chiesa stessa. La Chiesa di Cristo non è nascosta in modo inafferrabile dietro le molteplici configurazioni umane, ma esiste realmente, come Chiesa vera e propria, che si manifesta nella professione di fede, nei sacramenti e nella successione apostolica.

Il Vaticano II con la formula del « subsistit » — conformemente alla tradizione cattolica — voleva quindi dire esattamente il contrario del «relativismo ecclesiologico»: la Chiesa di Gesù Cristo esiste realmente. Egli stesso l'ha voluta, e lo Spirito Santo la crea continuamente a partire dalla Pentecoste pur di fronte ad ogni fallimento umano e la sostiene nella sua identità essenziale. L'istituzione non è una inevitabile, ma teologicamente irrilevante o addirittura dannosa esteriorità, ma appartiene nel suo nucleo essenziale alla concretezza dell'incarnazione. Il Signore mantiene la sua parola: «Le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa».

A questo punto diviene necessario indagare un po' più accuratamente circa la parola « subsistit ».

Il Concilio si differenzia con questa espressione dalla formula di Pio XII, che nella sua Enciclica «Mystici Corporis Christi» aveva detto: la Chiesa cattolica «è» ( est ) l'unico corpo mistico di Cristo. Nella differenza fra « subsistit » e « est » si nasconde tutto quanto il problema ecumenico.
La parola subsistit deriva dall'antica filosofia ulteriormente sviluppatasi nella scolastica. Ad essa corrisponde la parola greca «hypostasis», che nella cristologia ha un ruolo centrale, per descrivere l'unione di natura divina ed umana nella persona di Cristo. «Subsistere» è un caso speciale di «esse». È l'essere nella forma di un soggetto a sé stante.
Qui si tratta proprio di questo.
Il Concilio vuol dirci che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica. Ciò può avvenire solo una volta e la concezione secondo cui il subsistit sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire.

Con la parola subsistit il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa cattolica: esiste la Chiesa come soggetto nella realtà storica.

La differenza fra subsistit e est rinchiude però il dramma della divisione ecclesiale.
Benché la Chiesa sia soltanto una e sussista in un unico soggetto, anche al di fuori di questo soggetto esistono realtà ecclesiali — vere Chiese locali e diverse comunità ecclesiali.
Poiché il peccato è una contraddizione, questa differenza fra subsistit ed est non si può ultimamente dal punto di vista logico pienamente risolvere.

Nel paradosso della differenza fra singolarità e concretezza della Chiesa da una parte e esistenza di una realtà ecclesiale al di fuori dell'unico soggetto dall'altra si rispecchia la contraddittorietà del peccato umano, la contraddittorietà della divisione. Tale divisione è qualcosa di totalmente altro dalla sopra descritta dialettica relativistica, nella quale la divisione dei cristiani perde il suo aspetto doloroso ed in realtà non è una frattura, ma solo il manifestarsi delle molteplici variazioni di un unico tema, nel quale tutte le variazioni in qualche modo hanno ragione ed in qualche modo non ce l'hanno.
Una necessità intrinseca per la ricerca dell'unità in realtà allora non esiste, perché in verità comunque l'unica Chiesa è ovunque e da nessuna parte. Il cristianesimo quindi in realtà esisterebbe solo nella dialettica correlazione di variazioni contrapposte. L'ecumenismo consiste nel fatto che tutti in qualche modo si riconoscono reciprocamente, perché tutti sarebbero solo frammenti della realtà cristiana. L'ecumenismo sarebbe quindi il rassegnarsi ad una dialettica relativistica, perché il Gesù storico appartiene al passato e la verità rimane comunque nascosta.

La visione del Concilio è tutt'altra
: che nella Chiesa cattolica sia presente il subsistit dell'unico soggetto Chiesa, non è affatto merito dei cattolici, ma solo opera di Dio, che egli fa perdurare malgrado il continuo demerito dei soggetti umani.
Essi non possono gloriarsene, ma solo ammirare la fedeltà di Dio vergognandosi dei loro propri peccati e allo stesso tempo pieni di gratitudine. Ma l'effetto dei loro propri peccati si può vedere: tutto il mondo vede lo spettacolo delle comunità cristiane divise e contrapposte, che rivendicano reciprocamente le loro pretese di verità e così apparentemente vanificano la preghiera di Cristo alla vigilia della sua passione. Mentre la divisione come realtà storica è percepibile ad ognuno, la sussistenza dell'unica Chiesa nella figura concreta della Chiesa cattolica si può percepire come tale solo nella fede.

Poiché il Concilio Vaticano II ha avvertito questo paradosso, proprio per questo ha proclamato come un dovere l'ecumenismo quale ricerca della vera unità e l'ha affidato alla Chiesa del futuro.

Arrivo alla conclusione.

Chi vuol comprendere l'orientamento dell'ecclesiologia conciliare, non può tralasciare i capitoli 4-7 della Costituzione, nei quali si parla dei laici, della vocazione universale alla santità, dei religiosi e dell'orientamento escatologico della Chiesa. In questi capitoli torna ancora una volta in primo piano lo scopo intrinseco della Chiesa, ciò che è più essenziale alla sua esistenza: si tratta cioè della santità, della conformità a Dio — che nel mondo vi sia spazio per Dio, che egli possa abitare in esso e così il mondo divenga il suo «regno».
Santità è qualcosa di più che una qualità morale: essa è il dimorare di Dio con gli uomini, degli uomini con Dio, la «tenda» di Dio fra di noi ed in mezzo a noi ( Giov 1, 14). Si tratta della nuova nascita — non da carne e sangue, ma da Dio ( Giov 1, 13).

L'orientamento alla santità è identico con l'orientamento escatologico, e di fatto ora esso a partire dal messaggio di Gesù è fondamentale per la Chiesa. La Chiesa esiste, perché divenga dimora di Dio nel mondo e così sia «santità»: per questo si dovrebbe competere nella Chiesa, non su un più o un meno in diritti di precedenza, sull'occupazione dei primi posti. Tutto questo è poi ancora una volta ripreso e sintetizzato nell'ultimo capitolo della Costituzione sulla Chiesa, che tratta della Madre del Signore.

A prima vista l'inserimento della mariologia nell'ecclesiologia, che il Concilio ha intrapreso, potrebbe apparire piuttosto casuale. È vero dal punto di vista storico che di fatto una maggioranza assai ridotta di padri decise per questo inserimento. Ma da un punto di vista più interiore questa decisione corrisponde perfettamente all'orientamento dell'insieme della Costituzione: solo se si è compresa questa correlazione, si è compresa rettamente l'immagine della Chiesa, che il Concilio voleva tracciare.

In questa decisione sono state messe a frutto le ricerche di H.Rahner, A.Müller, R.Laurentin e Karl Delahaye, grazie ai quali mariologia ed ecclesiologia sono state allo stesso tempo rinnovate e approfondite. Soprattutto Hugo Rahner ha mostrato in modo grandioso a partire dalle fonti, che tutta quanta la mariologia è stata pensata e impostata dai padri prima di tutto come ecclesiologia: la Chiesa è vergine e madre, essa è concepita senza peccato e porta il peso della storia, essa soffre e nondimeno è già ora assunta in cielo. Molto lentamente si rivela nel corso dello sviluppo successivo che la Chiesa è anticipata in Maria, in Maria è personificata e che viceversa Maria non sta come individuo isolato chiuso in se stesso, ma porta in sé tutto quanto il mistero della Chiesa.

La persona non è chiusa individualisticamente e la comunità non è compresa collettivisticamente in modo impersonale; entrambe si sovrappongono l'una all'altra in modo inseparabile. Questo vale già per la donna dell'Apocalisse, così come appare nel capitolo 12: non è corretto limitare questa figura esclusivamente in modo individualistico a Maria, perché in lei è insieme contemplato tutto quanto il popolo di Dio, l'antico ed il nuovo Israele, che soffre e nella sofferenza è fecondo; ma non è neppure corretto escludere da questa immagine Maria, la madre del Redentore.

Così nella sovrapposizione fra persona e comunità, come la troviamo in questo testo, già è anticipato l'intreccio di Maria e Chiesa, che poi è stato lentamente sviluppato nella teologia dei Padri e finalmente ripreso dal Concilio. Che più tardi entrambe si siano separate, che Maria sia stata vista come un individuo ricolmato di privilegi e perciò da noi infinitamente lontano, la Chiesa a sua volta in modo impersonale e puramente istituzionale, ha danneggiato in eguale misura sia la mariologia che l'ecclesiologia. Operano qui le divisioni, che il pensiero occidentale ha particolarmente attuato e che per altro hanno i loro buoni motivi.

Ma se vogliamo comprendere rettamente la Chiesa e Maria, dobbiamo saper ritornare a prima di queste divisioni, per comprendere la natura sovraindividuale della persona e sovraistituzionale della comunità proprio là, ove persona e comunità vengono ricondotte alle loro origini a partire dalla forza del Signore, del nuovo Adamo. La visione mariana della Chiesa e la visione ecclesiale, storico-salvifica di Maria ci riconducono ultimamente a Cristo e al Dio trinitario, perché qui si manifesta ciò che significa santità, cosa è la dimora di Dio nell'uomo e nel mondo, cosa dobbiamo intendere con tensione «escatologica» della Chiesa. Così solo il capitolo di Maria porta a compimento l'ecclesiologia conciliare e ci riporta al suo punto di partenza cristologico e trinitario.

Per dare un assaggio della teologia dei Padri, vorrei a conclusione proporre un testo di sant'Ambrogio, scelto da Hugo Rahner: «Così dunque state saldi sul terreno del vostro cuore!... Che cosa significa stare, l'apostolo ce lo ha insegnato, Mosè lo ha scritto: “Il luogo, sul quale tu stai, è terra santa”. Nessuno sta, se non colui che sta saldo nella fede... ed ancora una parola sta scritta: “Tu però sta saldo con me”. Tu stai saldo con me, se tu stai nella Chiesa. La Chiesa è la terra santa, sulla quale noi dobbiamo stare... Sta dunque saldo, sta nella Chiesa. Sta saldo colà, ove io ti voglio apparire, là io resto presso di te. Ove è la Chiesa, là è il luogo saldo del tuo cuore. Sulla Chiesa si appoggiano i fondamenti della tua anima. Infatti nella Chiesa io ti sono apparso come una volta nel roveto ardente. Il roveto sei tu, io sono il fuoco. Fuoco nel roveto io sono nella tua carne. Fuoco io sono, per illuminarti; per bruciare le spine dei tuoi peccati, per donarti il favore della mia grazia».


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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