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L'autentica meditazione nella pratica del Cattolico: NO! alle imitazioni ed ai sincretismi orientali

Ultimo Aggiornamento: 29/11/2016 15:07
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CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE 

LETTERA AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
SU ALCUNI ASPETTI DELLA MEDITAZIONE CRISTIANA
 *

(15 ottobre 1989)

 

 

I. INTRODUZIONE

1. In molti cristiani del nostro tempo è vivo il desiderio di imparare a pregare in modo autentico e approfondito, nonostante le non poche difficoltà che la cultura moderna pone all'avvertita esigenza di silenzio, di raccoglimento e di meditazione. L'interesse che forme di meditazione connesse a talune religioni orientali e ai loro peculiari modi di preghiera in questi anni hanno suscitato anche tra i cristiani è un segno non piccolo di tale bisogno di raccoglimento spirituale e di profondo contatto col mistero divino. Di fronte a questo fenomeno, tuttavia, da molte parti è sentita pure la necessità di poter disporre di sicuri criteri di carattere dottrinale e pastorale che consentano di educare alla preghiera, nelle sue molteplici manifestazioni, restando nella luce della verità rivelatasi in Gesù, tramite la genuina tradizione della Chiesa.

A tale urgenza intende rispondere la presente Lettera, affinché nelle varie Chiese particolari, la pluralità di forme, anche nuove, di preghiera non ne faccia mai perdere di vista la precisa natura, personale e comunitaria. Queste indicazioni sono rivolte anzitutto ai Vescovi perché le rendano oggetto di sollecitudine pastorale verso le Chiese, loro affidate, così che tutto il popolo di Dio – sacerdoti, religiosi e laici – sia richiamato a pregare, con rinnovato vigore, il Padre mediante lo Spirito di Cristo nostro Signore.

2. Il contatto sempre più frequente con altre religioni e con i loro differenti stili e metodi di preghiera, ha condotto negli ultimi decenni molti fedeli a interrogarsi sul valore che possono avere per i cristiani forme non cristiane di meditazione. La questione riguarda soprattutto i metodi orientali (1). C'è chi si rivolge oggi a tali metodi per motivi terapeutici: l'irrequietezza spirituale di una vita sottoposta al ritmo assillante della società tecnologicamente avanzata spinge anche un certo numero di cristiani a cercare in essi la via della calma interiore e dell'equilibrio psichico. Questo aspetto psicologico non sarà considerato nella presente Lettera, che intende invece evidenziare le implicazioni teologiche e spirituali della questione. Altri cristiani, sulla scia del movimento di apertura e di scambio con religioni e culture diverse, sono del parere che la loro stessa preghiera abbia molto da guadagnare da tali metodi. Rilevando che, in tempi recenti, non pochi metodi tradizionali di meditazione, peculiari del cristianesimo, sono caduti in disuso, costoro si chiedono: non sarebbe allora possibile, attraverso una nuova educazione alla preghiera, arricchire la nostra eredità incorporandovi anche ciò che le era finora estraneo?

3. Per rispondere a questa domanda, occorre anzitutto considerare, sia pure a grandi linee, in che cosa consista la natura intima della preghiera cristiana, per vedere in seguito se e come possa essere arricchita da metodi di meditazione nati nel contesto di religioni e culture diverse. È necessario a tale scopo formulare una decisiva premessa. La preghiera cristiana è sempre determinata dalla struttura della fede cristiana, nella quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura. Per questo essa si configura, propriamente parlando, come un dialogo personale, intimo e profondo, tra l'uomo e Dio. Essa esprime quindi la comunione delle creature redente con la vita intima delle Persone trinitarie. In questa comunione, che si fonda sul battesimo e sull'eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa, è implicato un atteggiamento di conversione, un esodo dall'io verso il Tu di Dio. La preghiera cristiana quindi è sempre allo stesso tempo autenticamente personale e comunitaria. Rifugge da tecniche impersonali o incentrate sull'io, capaci di produrre automatismi nei quali l'orante resta prigioniero di uno spiritualismo intimista, incapace di un'apertura libera al Dio trascendente. Nella Chiesa la legittima ricerca di nuovi metodi di meditazione dovrà sempre tener conto che a una preghiera autenticamente cristiana è essenziale l'incontro di due libertà, quella infinita di Dio con quella finita dell'uomo.

II. LA PREGHIERA CRISTIANA ALLA LUCE DELLA RIVELAZIONE

4. Come debba pregare l'uomo che accoglie la rivelazione biblica lo insegna la Bibbia stessa. Nell'Antico Testamento c'è una meravigliosa raccolta di preghiere, rimasta viva lungo i secoli anche nella Chiesa di Gesù Cristo, nella quale essa è diventata la base della preghiera ufficiale: il Libro delle Lodi o dei Salmi (2). Preghiere del tipo dei salmi si trovano già in testi più antichi o vengono riecheggiate in testi più recenti dell'Antico Testamento (3). Le preghiere del Libro dei Salmi narrano anzitutto le grandi opere di Dio per il popolo eletto. Israele medita, contempla e rende di nuovo presenti le meraviglie di Dio, facendone memoria attraverso la preghiera.

Nella rivelazione biblica Israele giunge a riconoscere e lodare Dio, presente in tutta la creazione e nel destino di ogni uomo. Così Lo invoca, ad esempio, come soccorritore nel pericolo, nella malattia, nella persecuzione, nella tribolazione. Infine, sempre alla luce delle sue opere salvifiche, Egli viene celebrato nella sua divina potenza e bontà, nella sua giustizia e misericordia, nella sua regale grandezza.

5. Grazie alle parole, alle opere, alla Passione e Risurrezione di Gesù Cristo, nel Nuovo Testamento la fede riconosce in lui la definitiva auto-rivelazione di Dio, la Parola incarnata che svela le profondità più intime del suo amore. È lo Spirito Santo che fa penetrare in queste profondità di Dio, lui che, inviato nel cuore dei credenti, "scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio" (1 Cor 2, 10). Lo Spirito, secondo la promessa di Gesù ai discepoli, spiegherà tutto ciò che Egli non poteva ancora dire loro. Però lo Spirito "non parlerà da sé, ... ma mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annunzierà" (Gv 16, 13s). Quello che Gesù chiama qui "suo" è, come spiega in seguito, anche di Dio Padre, perché "tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà" (Gv 16, 15).

Gli autori del Nuovo Testamento, con piena consapevolezza, hanno sempre parlato della rivelazione di Dio in Cristo all'interno di una visione illuminata dallo Spirito Santo. I Vangeli sinottici narrano le opere e le parole di Gesù Cristo in base alla comprensione più profonda, acquisita dopo la Pasqua, di ciò che i discepoli avevano visto e udito; tutto il Vangelo di Giovanni respira della contemplazione di colui che fin dall'inizio è il Verbo di Dio fatto carne; Paolo, al quale Gesù è apparso sulla via di Damasco nella sua maestà divina, tenta di educare i fedeli perché siano "in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità [del mistero di Cristo] e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, per essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio" (Ef 3, 18s). Per Paolo il "mistero di Dio è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza" (Col 2, 3) e – precisa l'Apostolo –: "Dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti" (v. 4).

6. Esiste quindi uno stretto rapporto fra la rivelazione e la preghiera. La Costituzione dogmatica Dei Verbum ci insegna che mediante la sua rivelazione Dio invisibile "nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3, 38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé" (4).

Questa rivelazione si è attuata attraverso parole e opere che rinviano sempre, reciprocamente, le une alle altre; fin dall'inizio e di continuo tutto converge verso Cristo, pienezza della rivelazione e della grazia, e verso il dono dello Spirito Santo. Questi rende l'uomo capace di accogliere e contemplare le parole e le opere di Dio e di ringraziarlo e adorarlo, nell'assemblea dei fedeli e nell'intimità del proprio cuore illuminato dalla grazia.

Per questo la Chiesa raccomanda sempre la lettura della Parola di Dio come sorgente della preghiera cristiana, e allo stesso tempo esorta a scoprire il senso profondo della Sacra Scrittura mediante la preghiera "affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo; poiché “gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini”" (5).

7. Da quanto è stato ricordato derivano subito alcune conseguenze. Se la preghiera del cristiano deve inserirsi nel movimento trinitario di Dio, il suo contenuto essenziale dovrà necessariamente essere anche determinato dalla duplice direzione di tale movimento: nello Spirito Santo il Figlio viene nel mondo per riconciliarlo col Padre attraverso le sue opere e le sue sofferenze; d'altra parte, nello stesso movimento e nel medesimo Spirito, il Figlio incarnato ritorna al Padre, compiendo la sua volontà mediante la Passione e la Risurrezione. Il "Padre nostro", la preghiera di Gesù, indica chiaramente l'unità di questo movimento: la volontà del Padre deve realizzarsi sulla terra come in cielo (le richieste di pane, di perdono, di protezione esplicitano le dimensioni fondamentali della volontà di Dio verso di noi) affinché una nuova terra viva e si sviluppi nella Gerusalemme celeste.

È alla Chiesa che la preghiera di Gesù viene consegnata ("così voi dovete pregare", Mt 6, 9) (6) e per questo la preghiera cristiana, anche quando avviene nella solitudine, in realtà è sempre all'interno di quella "comunione dei santi" nella quale e con la quale si prega, tanto in forma pubblica e liturgica quanto in forma privata. Pertanto, essa deve compiersi sempre nello spirito autentico della Chiesa in preghiera e quindi sotto la sua guida, che può concretizzarsi talvolta in una direzione spirituale sperimentata. Il cristiano, anche quando è solo e prega nel segreto, ha la consapevolezza di pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito Santo, insieme con tutti i santi per il bene della Chiesa (7).

III. MODI ERRONEI DI PREGARE

8. Già nei primi secoli s'insinuarono nella Chiesa modi erronei di pregare, di cui già alcuni testi del Nuovo Testamento (cfr. 1 Gv 4, 3; 1 Tm 1, 3-7 e 4, 3-4) fanno riconoscere le tracce. In seguito si possono rilevare due deviazioni fondamentali: la pseudognosi e il messalianismo, di cui si sono occupati i Padri della Chiesa. Da quella primitiva esperienza cristiana e dall'atteggiamento dei Padri si può imparare molto per affrontare la problematica contemporanea.

Contro la deviazione della pseudognosi (8) i Padri affermano che la materia è creata da Dio e come tale non è cattiva. Inoltre sostengono che la grazia, la cui sorgente è sempre lo Spirito Santo, non è un bene proprio dell'anima, ma dev'essere impetrata da Dio come dono. Perciò l'illuminazione o conoscenza superiore dello Spirito ("gnosi"), non rende superflua la fede cristiana. Infine, per i Padri, il segno autentico di una conoscenza superiore, frutto della preghiera, è sempre l'amore cristiano.

9. Se la perfezione della preghiera cristiana non può essere valutata in base alla sublimità della conoscenza gnostica, non può esserlo neppure in riferimento all'esperienza del divino, alla maniera del messalianismo (9). I falsi carismatici del IV secolo identificavano la grazia dello Spirito Santo con l'esperienza psicologica della sua presenza nell'anima. Contro di essi i Padri insistettero sul fatto che l'unione dell'anima orante con Dio si compie nel mistero, in particolare attraverso i sacramenti della Chiesa. Essa può inoltre realizzarsi perfino attraverso esperienze di afflizione e anche di desolazione. Contrariamente all'opinione dei Messaliani, queste non sono necessariamente un segno che lo Spirito ha abbandonato l'anima. Come hanno sempre chiaramente riconosciuto i maestri spirituali, possono invece essere un'autentica partecipazione allo stato di abbandono di nostro Signore sulla croce, il quale resta sempre modello e mediatore della preghiera (10).

10. Tutte e due queste forme di errore continuano ad essere una tentazione per l'uomo peccatore. Lo istigano a cercare di superare la distanza che separa la creatura dal Creatore, come qualcosa che non dovrebbe esserci; a considerare il cammino di Cristo sulla terra, con il quale egli ci vuole condurre al Padre, come realtà superata; ad abbassare ciò che viene accordato come pura grazia al livello della psicologia naturale, come "conoscenza superiore" o come "esperienza".

Riapparse di tanto in tanto nella storia ai margini della preghiera della Chiesa, tali forme erronee oggi sembrano impressionare nuovamente molti cristiani, raccomandandosi loro come rimedio, sia psicologico che spirituale, e come rapido procedimento per trovare Dio (11).

11. Ma queste forme erronee, dovunque sorgano, possono essere diagnosticate in maniera molto semplice. La meditazione cristiana orante cerca di cogliere nelle opere salvifiche di Dio in Cristo, Verbo Incarnato, e nel dono del suo Spirito la profondità divina, che vi si rivela sempre attraverso la dimensione umano-terrena. Invece, in simili metodi di meditazione, anche quando si prende lo spunto da parole e opere di Gesù, si cerca di prescindere il più possibile da ciò che è terreno, sensibile e concettualmente limitato, per salire o immergersi nella sfera del divino, che in quanto tale non è né terrestre, né sensibile, né concettualizzabile (12). Questa tendenza, presente già nella tarda religiosità greca (soprattutto nel "neoplatonismo"), si riscontra, in fondo, nell'ispirazione religiosa di molti popoli, non appena essi abbiano riconosciuto il carattere precario delle loro rappresentazioni del divino e dei loro tentativi di avvicinarvisi.

12. Con l'attuale diffusione dei metodi orientali di meditazione nel mondo cristiano e nelle comunità ecclesiali, ci troviamo di fronte ad un acuto rinnovarsi del tentativo, non esente da rischi ed errori, di fondere la meditazione cristiana con quella non cristiana. Le proposte in questo senso sono numerose e più o meno radicali: alcune utilizzano metodi orientali solo ai fini di una preparazione psicofisica per una contemplazione realmente cristiana; altre vanno oltre e cercano di generare, con diverse tecniche, esperienze spirituali analoghe a quelle di cui si parla in scritti di certi mistici cattolici (13); altre ancora non temono di collocare quell'assoluto senza immagini e concetti, proprio della teoria buddista (14), sullo stesso piano della maestà di Dio, rivelata in Cristo, che si eleva al di sopra della realtà finita e, a tal fine, si servono di una "teologia negativa" che trascende ogni affermazione contenutistica su Dio, negando che le cose del mondo possono essere una traccia che rinvia all'infinità di Dio. Per questo propongono di abbandonare non solo la meditazione delle opere salvifiche che il Dio dell'Antica e della Nuova Alleanza ha compiuto nella storia, ma anche l'idea stessa del Dio uno e trino, che è amore, in favore di un'immersione "nell'abisso indeterminato della divinità" (15).

Queste proposte o altre analoghe di armonizzazione tra meditazione cristiana e tecniche orientali dovranno essere continuamente vagliate con accurato discernimento di contenuti e di metodo, per evitare la caduta in un pernicioso sincretismo.

IV. LA VIA CRISTIANA DELL'UNIONE CON DIO

13. Per trovare la giusta "via" della preghiera, il cristiano considererà ciò che è stato precedentemente detto a proposito dei tratti salienti della via di Cristo, il cui "cibo è fare la volontà di colui che (lo) ha mandato a compiere la sua opera" (Gv 4, 34). Gesù non vive con il Padre un'unione più intima e più stretta di questa, che per lui si traduce continuamente in una profonda preghiera. La volontà del Padre lo invia agli uomini, ai peccatori, addirittura ai suoi uccisori ed egli non può essere più intimamente unito al Padre che ubbidendo a questa volontà. Ciò non impedisce in alcun modo che nel cammino terreno egli si ritiri anche nella solitudine per pregare, per unirsi al Padre e ricevere da Lui nuovo vigore per la sua missione nel mondo. Sul Tabor, dove certamente egli è unito al Padre in maniera manifesta, viene evocata la sua Passione (cfr. Lc 9, 31) e non viene neppure presa in considerazione la possibilità di permanere in "tre tende" sul monte della trasfigurazione. Ogni preghiera contemplativa cristiana rinvia continuamente all'amore del prossimo, all'azione e alla passione, e proprio così avvicina maggiormente a Dio.

14. Per accostarsi a quel mistero dell'unione con Dio, che i Padri greci chiamavano divinizzazione dell'uomo, e per cogliere con precisione le modalità secondo cui essa si compie, occorre tener presente anzitutto che l'uomo è essenzialmente creatura (16) e tale rimane in eterno, cosicché non sarà mai possibile un assorbimento dell'io umano nell'io divino, neanche nei più alti stati di grazia. Si deve però riconoscere che la persona umana è creata "ad immagine e somiglianza" di Dio, e l'archetipo di questa immagine è il Figlio di Dio, nel quale e per il quale siamo stati creati (cfr. Col 1, 16). Ora questo archetipo ci svela il più grande e il più bel mistero cristiano: il Figlio è dall'eternità "altro" rispetto al Padre e tuttavia, nello Spirito Santo, è "della stessa sostanza"; di conseguenza, il fatto che ci sia un'alterità, non è un male, ma piuttosto il massimo dei beni. C'è alterità in Dio stesso, che è una sola natura in Tre Persone, e c'è alterità tra Dio e la creatura, che sono per natura differenti. Infine, nella santa eucaristia, come anche negli altri sacramenti – e analogamente nelle sue opere e nelle sue parole – Cristo ci dona se stesso e ci rende partecipi della sua natura divina (17), senza per altro sopprimere la nostra natura creata, alla quale egli stesso partecipa con la sua incarnazione.

15. Se si considerano insieme queste verità, si scopre, con profonda meraviglia, che nella realtà cristiana vengono adempiute, oltre ogni misura, tutte le aspirazioni presenti nella preghiera delle altre religioni, senza che con questo l'io personale e la sua creaturalità debbano essere annullati e scomparire nel mare dell'Assoluto. "Dio è amore" (1 Gv 4, 8): questa affermazione profondamente cristiana può conciliare l'unione perfetta con l'alterità tra amante e amato, con l'eterno scambio e l'eterno dialogo. Dio stesso è questo eterno scambio, e noi possiamo in piena verità diventare partecipi di Cristo, quali "figli adottivi", e gridare con il Figlio nello Spirito Santo "Abba, Padre". In questo senso, i Padri hanno pienamente ragione di parlare di divinizzazione dell'uomo che, incorporato a Cristo Figlio di Dio per natura, diventa per la sua grazia partecipe della natura divina, "figlio nel Figlio". Il cristiano, ricevendo lo Spirito Santo, glorifica il Padre e partecipa realmente alla vita trinitaria di Dio.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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V. QUESTIONI DI METODO

16. La maggior parte delle grandi religioni che hanno cercato l'unione con Dio nella preghiera, hanno anche indicato le vie per conseguirla. Siccome "la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni" (18), non si dovranno disprezzare pregiudizialmente queste indicazioni in quanto non cristiane. Si potrà al contrario cogliere da esse ciò che vi è di utile, a condizione di non perdere mai di vista la concezione cristiana della preghiera, la sua logica e le sue esigenze, poiché è all'interno di questa totalità che quei frammenti dovranno essere riformulati ed assunti. Tra di essi si può annoverare anzitutto l'umile accettazione di un maestro esperto nella vita di preghiera e delle sue direttive; di ciò si è sempre avuto consapevolezza nell'esperienza cristiana sin dai tempi antichi, dall'epoca dei Padri del deserto. Questo maestro, esperto nel "sentire cum Ecclesia", deve non solo guidare e richiamare l'attenzione su certi pericoli, ma, quale "padre spirituale", deve anche introdurre in maniera viva, da cuore a cuore, nella vita di preghiera, che è dono dello Spirito Santo.

17. La tarda classicità non cristiana distingueva volentieri tre stadi nella vita di perfezione: la via della purificazione, dell'illuminazione e dell'unione. Questa dottrina è servita da modello per molte scuole di spiritualità cristiana. Questo schema, in se stesso valido, necessita tuttavia di alcune precisazioni, che ne permettano una corretta interpretazione cristiana, evitando pericolosi fraintendimenti.

18. La ricerca di Dio mediante la preghiera deve essere preceduta ed accompagnata dall’ascesi e dalla purificazione dai propri peccati ed errori, perché secondo la parola di Gesù soltanto "i puri di cuore vedranno Dio" (Mt 5, 8). Il Vangelo mira soprattutto a una purificazione morale dalla mancanza di verità e di amore e, su un piano più profondo, da tutti gli istinti egoistici che impediscono all'uomo di riconoscere ed accettare la volontà di Dio nella sua purezza. Non sono le passioni in quanto tali ad essere negative (come pensavano gli stoici e i neoplatonici) ma la loro tendenza egoistica. È da essa che il cristiano deve liberarsi: per arrivare a quello stato di libertà positiva che la classicità cristiana chiamava "apatheia", il Medio Evo "impassibilitas" e gli Esercizi spirituali ignaziani "indiferencia" (19). Ciò è impossibile senza una radicale abnegazione, come si vede anche in S. Paolo che usa apertamente la parola "mortificazione" (delle tendenze peccaminose) (20). Solo questa abnegazione rende l'uomo libero di realizzare la volontà di Dio e di partecipare alla libertà dello Spirito Santo.

19. Dovrà perciò essere interpretata rettamente la dottrina di quei maestri che raccomandano di "svuotare" lo spirito da ogni rappresentazione sensibile e da ogni concetto, mantenendo però un'amorosa attenzione a Dio, così che rimanga nell'orante un vuoto che può allora essere riempito dalla ricchezza divina. Il vuoto di cui Dio ha bisogno è quello della rinuncia al proprio egoismo, non necessariamente quello della rinuncia alle cose create che egli ci ha donato e tra le quali ci ha posti. Non vi è dubbio che nella preghiera ci si deve concentrare interamente su Dio ed escludere il più possibile quelle cose di questo mondo che ci incatenano al nostro egoismo. S. Agostino è su questo punto un maestro insigne: se vuoi trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore e rientra in te stesso. Tuttavia, prosegue, non rimanere in te stesso, ma oltrepassa te stesso, perché tu non sei Dio: Egli è più profondo e più grande di te. "Cerco la sua sostanza nella mia anima e non la trovo; ho meditato tuttavia sulla ricerca di Dio e, proteso verso di lui, attraverso le cose create, ho cercato di conoscere le “perfezioni invisibili di Dio” (Rm 1, 20)" (21). "Restare in se stessi": ecco il vero pericolo. Il grande Dottore della Chiesa raccomanda di concentrarsi in se stessi, ma anche di trascendere l'io che non è Dio, ma solo una creatura. Dio è "interior intimo meo, et superior summo meo" (22). Dio infatti è in noi e con noi, ma ci trascende nel suo mistero (23).

20. Dal punto di vista dogmatico, è impossibile arrivare all'amore perfetto di Dio se si prescinde dalla sua autodonazione nel Figlio incarnato, crocifisso e risuscitato. In Lui, sotto l'azione dello Spirito Santo, prendiamo parte, per pura grazia, alla vita intradivina. Quando Gesù dice: "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv 14, 9), non intende semplicemente la visione e la conoscenza esteriori della sua figura umana ("la carne non giova a nulla", Gv 6, 63). Ciò che intende è piuttosto un "vedere" reso possibile dalla grazia della fede: vedere attraverso la manifestazione sensibile di Gesù ciò che questi, quale Verbo del Padre, vuole veramente mostrarci di Dio ("È lo Spirito che dà la vita […]; le parole che vi ho dette sono spirito e vita", ibid.). In questo "vedere" non si tratta dell'astrazione puramente umana ("abs-tractio") dalla figura in cui Dio si è rivelato, ma del cogliere la realtà divina nella figura umana di Gesù, del cogliere la sua dimensione divina ed eterna nella sua temporalità. Come dice S. Ignazio negli Esercizi spirituali, dovremmo tentare di cogliere "il profumo infinito e la dolcezza infinita della divinità" (n. 124), partendo dalla finita verità rivelata dalla quale abbiamo iniziato. Mentre ci eleva, Dio è libero di "svuotarci" di tutto ciò che ci trattiene in questo mondo, di attirarci completamente nella vita trinitaria del suo amore eterno. Tuttavia, questo dono può essere concesso solo "in Cristo attraverso lo Spirito Santo" e non attraverso le proprie forze, astraendo dalla sua rivelazione.

21. Nel cammino della vita cristiana alla purificazione segue l'illuminazione mediante l'amore che il Padre ci dona nel Figlio e l'unzione che da Lui riceviamo nello Spirito Santo (cfr. 1 Gv 2, 20). Fin dall'antichità cristiana si fa riferimento alla "illuminazione" ricevuta nel battesimo. Essa introduce i fedeli, iniziati ai divini misteri, alla conoscenza di Cristo mediante la fede che opera per mezzo della carità. Anzi, alcuni scrittori ecclesiastici parlano in modo esplicito dell'illuminazione ricevuta nel battesimo come fondamento di quella sublime conoscenza di Cristo Gesù (cfr. Fil 3, 8) che viene definita come "theoria" o contemplazione (24).

I fedeli, con la grazia del battesimo, sono chiamati a progredire nella conoscenza e nella testimonianza dei misteri della fede mediante "la profonda intelligenza che essi esperiscono delle cose spirituali" (25). Nessuna luce di Dio rende superate le verità della fede. Le eventuali grazie di illuminazione che Dio può concedere aiutano piuttosto a chiarir meglio la dimensione più profonda dei misteri confessati e celebrati dalla Chiesa, in attesa che il cristiano possa contemplare Dio come Egli è nella gloria (cfr. 1 Gv 3, 2).

22. Il cristiano orante, infine, può arrivare, se Dio lo vuole, ad un'esperienza particolare di unione. I sacramenti, soprattutto il battesimo e l'eucaristia (26), sono l'inizio obiettivo dell'unione del cristiano con Dio. Su questo fondamento, per una speciale grazia dello Spirito, l'orante può essere chiamato a quel tipo peculiare di unione con Dio che, nell'ambito cristiano, viene qualificato come mistica.

23. Certamente il cristiano ha bisogno di determinati tempi di ritiro nella solitudine per raccogliersi e ritrovare, presso Dio, il suo cammino. Ma dato il suo carattere di creatura, e di creatura che sa di essere al sicuro solo nella grazia, il suo modo di avvicinarsi a Dio non si fonda su alcuna tecnica nel senso stretto della parola. Ciò contraddirebbe lo spirito d'infanzia richiesto dal Vangelo. La mistica cristiana autentica non ha niente a che vedere con la tecnica: è sempre un dono di Dio, di cui chi ne beneficia si sente indegno (27).

24. Ci sono determinate grazie mistiche, conferite ad esempio ai fondatori di istituzioni ecclesiali in favore di tutta la loro fondazione nonché ad altri santi, che caratterizzano la loro peculiare esperienza di preghiera e che non possono, come tali, essere oggetto di imitazione e di aspirazione per altri fedeli, anche appartenenti alla stessa istituzione, e desiderosi di una preghiera sempre più perfetta (28). Possono esserci diversi livelli e diverse modalità di partecipazione all'esperienza di preghiera di un fondatore, senza che a tutti debba venir conferita la medesima forma. Del resto l'esperienza di preghiera che ha un posto privilegiato in tutte le istituzioni autenticamente ecclesiali antiche e moderne, è sempre in ultima analisi qualcosa di personale. Ed è alla persona che Dio dona le sue grazie in vista della preghiera.

25. A proposito della mistica si deve distinguere tra i doni dello Spirito Santo e i carismi accordati in modo totalmente libero da Dio. I primi sono qualcosa che ogni cristiano può ravvivare in sé attraverso una vita zelante di fede, di speranza e di carità e così, attraverso una seria ascesi, arrivare ad una certa esperienza di Dio e dei contenuti della fede. Quanto ai carismi, S. Paolo dice che essi sono soprattutto in favore della Chiesa, degli altri membri del Corpo mistico di Cristo (cfr. 1 Cor 12, 7). A questo proposito, va ricordato sia che i carismi non possono essere identificati con dei doni straordinari ("mistici") (cfr. Rm 12, 3-21), sia che la distinzione fra i "doni dello Spirito Santo" e i "carismi" può essere fluida. Certo è che un carisma fecondo per la Chiesa non può, nell'ambito neotestamentario, venir esercitato senza un determinato grado di perfezione personale e che, d'altra parte, ogni cristiano "vivo" possiede un compito peculiare (e in questo senso un "carisma") "per l'edificazione del Corpo di Cristo" (cfr. Ef 4, 15-16) (29), in comunione con la Gerarchia, alla quale "spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono" (Lumen gentium, n. 12).

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VI. METODI PSICOFISICI-CORPOREI

26. L'esperienza umana dimostra che la posizione e l'atteggiamento del corpo non sono privi d'influenza sul raccoglimento e la disposizione dello spirito. È un dato al quale alcuni scrittori spirituali dell'Oriente e dell'Occidente cristiano hanno prestato attenzione.

Le loro riflessioni, pur presentando punti in comune con i metodi orientali non cristiani di meditazione, evitano quelle esagerazioni o unilateralità che, invece, spesso vengono oggi proposte a persone non sufficientemente preparate.

Questi autori spirituali hanno adottato quegli elementi che facilitano il raccoglimento nella preghiera, riconoscendone al contempo anche il valore relativo: essi sono utili se riformulati in vista del fine della preghiera cristiana (30). Ad esempio, il digiuno nel cristianesimo possiede anzitutto il significato di un esercizio di penitenza e di sacrificio, ma già presso i Padri, era anche finalizzato a rendere l'uomo più disponibile all'incontro con Dio ed il cristiano più capace di dominio di sé e allo stesso tempo più attento ai fratelli bisognosi.

Nella preghiera è tutto l'uomo che deve entrare in relazione con Dio, e dunque anche il suo corpo deve assumere la posizione più adatta per il raccoglimento (31). Tale posizione può esprimere in modo simbolico la preghiera stessa, variando a seconda delle culture e della sensibilità personale. In alcune aree, i cristiani, oggi, stanno acquisendo maggior consapevolezza di quanto l'atteggiamento del corpo possa favorire la preghiera.

27. La meditazione cristiana dell'Oriente (32) ha valorizzato il simbolismo psicofisico, spesso carente nella preghiera dell'Occidente. Esso può partire da un determinato atteggiamento corporeo, fino a coinvolgere anche le funzioni vitali fondamentali, come la respirazione e il battito cardiaco. L'esercizio della "preghiera di Gesù", ad esempio, che si adatta al ritmo respiratorio naturale, può – almeno per un certo tempo – essere di reale aiuto per molti (33). D'altra parte gli stessi maestri orientali hanno anche costatato che non tutti sono ugualmente idonei a far uso di questo simbolismo, perché non tutti sono in grado di passare dal segno materiale alla realtà spirituale ricercata. Compreso in modo inadeguato e non corretto, il simbolismo può diventare addirittura un idolo e di conseguenza un impedimento all'elevazione dello spirito a Dio. Vivere nell'ambito della preghiera tutta la realtà del proprio corpo come simbolo è ancora più difficile: ciò può degenerare in un culto del corpo e può portare ad identificare surrettiziamente tutte le sue sensazioni con esperienze spirituali.

28. Alcuni esercizi fisici producono automaticamente sensazioni di quiete e di distensione, sentimenti gratificanti, forse addirittura fenomeni di luce e di calore che assomigliano ad un benessere spirituale. Scambiarli per autentiche consolazioni dello Spirito Santo sarebbe un modo totalmente erroneo di concepire il cammino spirituale. Attribuire loro significati simbolici tipici dell'esperienza mistica, quando l'atteggiamento morale dell'interessato non corrisponde ad essa, rappresenterebbe una specie di schizofrenia mentale, che può condurre perfino a disturbi psichici e, talvolta, ad aberrazioni morali.

Ciò non toglie che autentiche pratiche di meditazione provenienti dall'Oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane, che esercitano un'attrattiva sull'uomo di oggi diviso e disorientato, possano costituire un mezzo adatto per aiutare l'orante a stare davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne.

Occorre tuttavia ricordare che l'unione abituale con Dio, o quell'atteggiamento di vigilanza interiore e di invocazione dell'aiuto divino che nel Nuovo Testamento viene chiamato la "preghiera continua" (34), non si interrompe necessariamente quando ci si dedica anche, secondo la volontà di Dio, al lavoro e alla cura del prossimo. "Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio", ci dice l'Apostolo (1 Cor 10, 31). La preghiera autentica infatti, come sostengono i grandi maestri spirituali, desta negli oranti un'ardente carità che li spinge a collaborare alla missione della Chiesa e al servizio dei fratelli per la maggior gloria di Dio (35).

VII. "IO SONO LA VIA"

29. Ogni fedele dovrà cercare e potrà trovare nella varietà e ricchezza della preghiera cristiana, insegnata dalla Chiesa, la propria via, il proprio modo di preghiera; ma tutte queste vie personali confluiscono, alla fine, in quella via al Padre, che Gesù Cristo ha detto di essere. Nella ricerca della propria via ognuno si lascerà quindi condurre non tanto dai suoi gusti personali quanto dallo Spirito Santo, il quale lo guida, attraverso Cristo, al Padre.

30. Per chi si impegna seriamente verranno comunque tempi in cui gli sembrerà di vagare in un deserto e di non "sentire" nulla di Dio, malgrado tutti i suoi sforzi. Deve sapere che queste prove non vengono risparmiate a nessuno che prenda sul serio la preghiera. Ma egli non deve identificare immediatamente questa esperienza, comune a tutti i cristiani che pregano, con la "notte oscura" di tipo mistico. Ad ogni modo in quei periodi la preghiera, che egli si sforzerà di mantenere fermamente, potrà dargli l'impressione di una certa "artificiosità" benché si tratti in realtà di qualcosa di totalmente diverso: essa è infatti proprio allora espressione della sua fedeltà a Dio, alla presenza del quale egli vuole rimanere anche quando non è ricompensato da alcuna consolazione soggettiva.

In questi momenti apparentemente negativi diventa manifesto ciò che l'orante cerca realmente: se cerca proprio Dio che, nella sua infinita libertà, sempre lo supera, oppure se cerca solo se stesso, senza riuscire ad andare oltre le proprie "esperienze", sia che gli sembrino "esperienze" positive di unione con Dio che "esperienze" negative di "vuoto" mistico.

31. L'amore di Dio, unico oggetto della contemplazione cristiana, è una realtà della quale non ci si può "impossessare" con nessun metodo o tecnica; anzi, dobbiamo aver sempre lo sguardo fisso in Gesù Cristo, nel quale l'amore divino è giunto per noi sulla croce a tal punto che Egli si è assunto anche la condizione di allontanamento dal Padre (cfr. Mc 15, 34). Dobbiamo dunque lasciar decidere a Dio la maniera con cui egli vuole farci partecipi del suo amore. Ma non possiamo mai, in alcun modo, cercare di metterci allo stesso livello dell'oggetto contemplato, l'amore libero di Dio; neanche quando, per la misericordia di Dio Padre, mediante lo Spirito Santo mandato nei nostri cuori, ci viene donato in Cristo, gratuitamente, un riflesso sensibile di questo amore divino e ci sentiamo come attirati dalla verità, dalla bontà e dalla bellezza del Signore.

Quanto più viene concesso a una creatura di avvicinarsi a Dio, tanto maggiormente cresce in lei la riverenza davanti al Dio, tre volte santo. Si comprende allora la parola di S. Agostino: "Tu puoi chiamarmi amico, io mi riconosco servo" (36). Oppure la parola che ci è ancora più familiare, pronunciata da colei che è stata gratificata della più alta intimità con Dio: "Ha guardato l'umiltà della sua serva" (Lc 1, 48).

Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Lettera, decisa nella riunione plenaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 15 ottobre 1989, nella festa di Santa Teresa di Gesù.

Joseph Card. Ratzinger
Prefetto

 

+ Alberto Bovone
Arciv. Tit. di Cesarea di Numidia
Segretario

 

[SM=g1740771] seguono le Note...


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Note 

* AAS 82 (1990) 362-379.

1. Con l'espressione "metodi orientali" si intendono metodi ispirati all'Induismo e al Buddismo, come lo "Zen" o la "Meditazione trascendentale" oppure lo "Yoga". Si tratta quindi di metodi di meditazione dell'Estremo Oriente non cristiano, che non di rado oggi vengono adoperati anche da alcuni cristiani nella loro meditazione. Gli orientamenti di principio e di metodo contenuti nel presente documento intendono essere un punto di riferimento non solo in relazione a questo problema, ma anche, più in generale, per le diverse forme di preghiera oggi praticate nelle realtà ecclesiali, in particolar modo nelle Associazioni, Movimenti e Gruppi.

2. Sul Libro dei Salmi nella preghiera della Chiesa, cfr. Institutio generalis de Liturgia Horarum, nn. 100-109.

3. Cfr. ad es. Es 15; Dt 32; 1 Sam 2; 2 Sam 22; taluni testi profetici; l Cr 16.

4. Costit. dogm. Dei Verbum, n. 2. Questo documento offre altre indicazioni sostanziose per una comprensione teologica e spirituale della preghiera cristiana; si vedano, ad es., i nn. 3. 5. 8. 21.

5. Costit. dogm. Dei Verbum, n. 25.

6. Sulla preghiera di Gesù si veda Institutio generalis de Liturgia Horarum, nn. 3-4.

7. Cfr. ibid., n. 9.

8. La pseudognosi considerava la materia come qualcosa di impuro, di degradato, che avvolgeva l'anima in una ignoranza dalla quale la preghiera avrebbe dovuto liberarla per innalzarla alla vera conoscenza superiore e quindi alla purezza. Certamente non tutti ne erano capaci, ma solo gli uomini veramente spirituali; per i semplici credenti bastavano la fede e l'osservanza dei comandamenti di Cristo.

9. I messaliani furono già denunciati da S. EFREM SIRO (Hymni contra Haereses 22, 4: ed. E. BECK, CSCO 169, 1957, p. 79) e in seguito, tra gli altri, da EPIFANIO DI SALAMINA(Panarion, detto anche Adversus Haereses: PG 41, 156-1200; PG 42, 9-832) e ANFILOCHIO, Vescovo di Iconio (Contra Haereticos: G. FICKER, Amphilochiana 1, Leipzig 1906, 21-77).

10. Cfr., ad es., S. GIOVANNI DELLA CROCE, Subida del Monte Carmelo, II, cap. 7, 1l.

11. Nel Medio Evo esistevano correnti estremistiche ai margini della Chiesa, che vengono descritte, non senza ironia, da uno dei grandi contemplativi cristiani, il fiammingo Jan van Ruysbroek. Egli distingue nella vita mistica tre tipi di deviazione (Die gheestelike Brulocht 228, 12-230, 17; 230, 18-232, 22; 232, 23-236, 6) e riporta anche una critica generale riguardante queste forme (236, 7-237, 29). Tecniche simili sono state successivamente individuate e respinte da S. Teresa di Gesù la quale osserva acutamente che "la stessa cura che si mette a non pensare a nulla sveglierà l'intelletto a pensare molto" e che lasciare da parte il mistero di Cristo nella meditazione cristiana è sempre una specie di "tradimento" (si veda S. TERESA DI GESÙ, Vida, 12, 5 e 22, 1-5).

12. Additando a tutta la Chiesa l'esempio e la dottrina di Santa Teresa di Gesù, che a suo tempo dovette respingere la tentazione di certi metodi che invitavano a prescindere dall'umanità di Cristo a vantaggio di un vago immergersi nell'abisso della divinità, Papa Giovanni Paolo Il diceva in un'omelia dell’1 novembre 1982 che il grido di Teresa di Gesù in favore di una preghiera tutta centrata in Cristo "è valido anche ai nostri giorni contro alcuni metodi di orazione che non si ispirano al Vangelo e che in pratica tendono a prescindere da Cristo, a vantaggio di un vuoto mentale che nel cristianesimo non ha senso. Ogni metodo di orazione è valido in quanto si ispira a Cristo e conduce a Cristo, la Via, la Verità e la Vita (Gv 14, 6)". Si veda: Homilia Abulae habita in honorem Sanctae Teresiae: AAS 75 (1983) 256-257.

13. Si veda ad esempio La nube della non-conoscenza, opera spirituale di un anonimo scrittore inglese del sec. XIV.

14. Il concetto di "nirvana" viene inteso nei testi religiosi del buddismo come uno stato di quiete che consiste nell'estinzione di ogni realtà concreta in quanto transitoria, e quindi deludente e dolorosa.

15. Il maestro Eckhart parla d’una immersione "nell'abisso indeterminato della divinità", che è "una tenebra nella quale la luce della Trinità non è mai rifulsa". Cfr. Sermo "Ave gratia plena", in fine (J. QUINT, Deutsche Predigten und Traktate, Hanser 1955, 261).

16. Cfr. Costit. past. Gaudium et spes, n. 19, 1: "La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché creato per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non Lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore".

17. Come scrive S. Tommaso a proposito dell'eucaristia: "... proprius effectus huius sacramenti est conversio hominis in Christum, ut dicat cum Apostolo: Vivo ego, iam non ego; vivit vero in me Christus (Gal 2, 20)" (In IV Sent., d. 12, q. 2, a. 1).

18. Dich. Nostra aetate, n. 2.

19. S. IGNAZIO DI LOYOLA, Ejercicios espirituales, n. 23 e passim.

20. Cfr. Col 3, 5; Rm 6, 11ss; Gal 5, 24.

21. S. AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos XLI, 8: PL 36, 469.

22. S. AGOSTINO, Confessiones 3, 6, 11: PL 32, 688. Cfr. De vera Religione 39, 72: PL 34, 154.

23. Il senso cristiano positivo dello "svuotamento" delle creature risplende in maniera esemplare nel Poverello d'Assisi. San Francesco, proprio perché ha rinunciato alle creature per amore del Signore, le vede tutte riempite della sua presenza e fulgenti nella loro dignità di creature di Dio e ne intona la segreta melodia dell'essere nel suo Cantico delle Creature (cfr. C. ESSER, Opuscola Sancti Patris Francisci Assisiensis, Ed. Ad Claras Aquas, Grottaferrata - Roma 1978, pp. 83-86). Nello stesso senso scrive nella "Lettera a tutti i fedeli": "Ogni creatura che è in cielo e in terra e nel mare e nella profondità degli abissi (Ap 5, 13) renda a Dio lode, gloria e onore e benedizione, poiché egli è la nostra vita e la nostra forza. Egli che solo è buono (Lc 18, 19), che solo è altissimo, che solo è onnipotente e ammirabile, glorioso e santo, degno di lode e benedetto per gli infiniti secoli dei secoli. Amen" (Opuscola…, p. 124).

San Bonaventura fa notare come in ciascuna creatura Francesco percepiva il richiamo di Dio ed effondeva la sua anima nel grande inno della riconoscenza e della lode (cfr. Legenda S. Francisci, cap. 9, n. 1, in Opera omnia, ed. Quaracchi 1898, vol. VIII, p. 530).

24. Si vedano, ad esempio, S. GIUSTINO, Apologia I, 61, 12-13: PG 6, 420-421; CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedagogus I, 6, 25-31: PG 8, 281-284; S. BASILIO DI CESAREA, Homiliae diversae, 13, 1: PG 31, 424-425; S. GREGORIO NAZIANZENO, Orationes, 40, 3, 1: PG 36, 361.

25. Costit. dogm. Dei Verbum, n. 8.

26. L'eucaristia, definita dalla Costituzione dogmatica Lumen gentium "fonte e apice di tutta la vita cristiana" (n. 11) ci fa "partecipare realmente al corpo del Signore" (n. 7); in essa "siamo elevati alla comunione con Lui" (n. 7).

27. Cfr. S. TERESA DI GESÙ, Castillo Interior IV, 1, 2.

28. Nessun orante, senza una grazia speciale, ambirà ad una visione globale della rivelazione di Dio quale S. Gregorio Magno riconosce in San Benedetto, oppure a quello slancio mistico con cui S. Francesco d'Assisi contemplava Dio in tutte le sue creature, o ad una visione ugualmente globale, come quella donata a S. Ignazio al fiume Cardoner e della quale egli afferma che in fondo avrebbe potuto prendere per lui il posto della Sacra Scrittura. La "notte oscura" descritta da S. Giovanni della Croce, è parte del suo personale carisma d'orazione: ogni membro del suo ordine non ha bisogno di viverla nello stesso modo per arrivare a quella perfezione nella preghiera cui è chiamato da Dio.

29. La chiamata del cristiano a esperienze "mistiche" può includere tanto ciò che S. Tommaso qualifica come esperienza viva di Dio attraverso i doni dello Spirito, quanto le forme inimitabili (e quindi alle quali non si deve aspirare) di donazione della grazia. Cfr. S. TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, I (a)-II (ae), q. 68, a. 1 c, come pure a. 5 ad 1.

30. Si vedano, ad esempio, gli scrittori antichi, che parlano dell'atteggiamento dell'orante assunto dai cristiani in preghiera: TERTULLIANO, De oratione XIV: PL 1, 1170; XVII: PL 1, 1174-1176; ORIGENE, De oratione XXXI, 2: PG 11, 550-553, nonché del significato di tal gesto: BARNABA, Epistula XII, 2-4: PG 2, 760-761; S. GIUSTINO, Dialogus 90, 4-5: PG 6, 689-692; S. IPPOLITO ROMANO, Commentarium in Dan. III, 24: GCS I, 168, 8-17; ORIGIENE, Homiliae in Ex. XI, 4: PG 12, 377-378. Sulla posizione del corpo si veda anche ORIGENE, De oratione XXXI, 3: PG 11, 553-555.

31. Cfr. S. IGNAZIO DI LOYOLA, Ejercicios espirituales, n. 76.

32. Come ad esempio quella degli anacoreti esicasti. L'hesychia o quiete, esterna ed interna, viene considerata dagli anacoreti una condizione della preghiera; nella sua forma orientale è caratterizzata da solitudine e da tecniche di raccoglimento.

33. L'esercizio della "preghiera di Gesù", che consiste nel ripetere una formula densa di riferimenti biblici di invocazione e supplica (ad es. "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me"), si adatta al ritmo respiratorio naturale. A questo proposito si veda S. IGNAZIO DI LOYOLA, Ejercicios espirituales, n. 258.

34. Cfr. 1 Ts 5, 17. Si veda d'altra parte 2 Ts 3, 8-12. Da questi ed altri testi sorge la problematica: Come conciliare l'obbligo della preghiera continua con quello del lavoro? Si vedano, tra altri, S. AGOSTINO, Epistula 130, 20: PL 33, 501-502, e S. GIOVANNI CASSIANO, De institutis coenobiorum III, 1-3: SC 109, 92-93. Si legga anche la "Dimostrazione sulla preghiera" di Afraate, il primo padre della Chiesa siriaca, e in particolare i numeri 14-15 dedicati alle cosiddette "opere della preghiera" (cfr. J. PARISOT, Afraatis Sapientis Persae Demonstrationes IV: PS 1, 170-174).

35. Cfr. S. TERESA DI GESÙ, Castillo Interior VII, 4, 6.

36. S. AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos CXLII, 6: PL 37, 1849. Si veda anche: Tract. in Ioh. IV, 9: PL 35, 1410: "Quando autem nec ad hoc dignum se dicit, vere plenus Spiritu Sancto erat, qui sic servus Dominum agnovit, et ex servo amicus fieri meruit".

 

Fraternamente CaterinaLD

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[SM=g1740733] a quanto detto anche dall'allora cardinale Ratzinger, Prefetto per la Fede autentica, poniamo ulteriore materiale per la vostra riflessione.

NO al reiki ed altre meditazioni non cattoliche, spacciate come metodi buoni per il Cristiano: non fanno bene!

DIRETTIVE PER LA VALUTAZIONE DEL REIKI COME TERAPIA ALTERNATIVA

Commissione per la Dottrina della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, 25 marzo 2009

[Traduzione di Massimo Introvigne con questa Nota: Sono a conoscenza della traduzione pubblicata all’indirizzo www2.chiesacattolica.it/gris/forum/allegati/2009-04/03-55/Linneguida25marzo... ma non ho ritenuto opportuno seguirla perché, al di là delle buone intenzioni, contiene diverse imprecisioni, anche trascurando la strana idea di “tradurre” il cognome dell’esperta di Reiki Maggie Chambers rendendola con “Maggie Camere”]

1. Di tanto in tanto sono poste domande in merito a varie terapie alternative, che sono spesso disponibili negli Stati Uniti. Ai vescovi è talora chiesto: “Qual è la posizione della Chiesa su queste terapie?”. La Commissione per la Dottrina della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti ha preparato questa risorsa per assistere i vescovi nelle loro risposte.
 
I. Guarigione per grazia divina e guarigione naturale

2. La Chiesa riconosce due tipi di guarigione: la guarigione per grazia divina e la guarigione che utilizza i poteri della natura. Per quanto riguarda la prima, possiamo guardare al ministero di Cristo, il quale ha operato molte guarigioni fisiche e ha incaricato i suoi discepoli di proseguire questo ministero. Fedele a questa missione, fin dal tempo degli Apostoli la Chiesa ha sempre proposto la sua intercessione in favore dei malati attraverso l’invocazione del nome del Signore Gesù, chiedendo la guarigione attraverso la potenza dello Spirito Santo, sia nella forma sacramentale dell’imposizione delle mani e dell’unzione con olio benedetto sia con le semplici preghiere di guarigione, che spesso includono anche un appello ai santi per ottenerne l’aiuto. Per quanto riguarda la seconda, la Chiesa non ha mai ritenuto che la richiesta di guarigione divina, che viene da Dio come dono, escluda il ricorso ai mezzi naturali di guarigione attraverso la pratica della medicina (1). Oltre al sacramento degl’infermi e alle varie preghiere di guarigione, la Chiesa ha una lunga storia di cura dei malati attraverso i mezzi naturali. Il segno più evidente di questa storia è il gran numero di ospedali cattolici che si trovano in tutto il nostro Paese.

3. I due tipi di guarigione non si escludono a vicenda. Il fatto che sia possibile essere guariti dalla potenza divina non significa che non dobbiamo usare i mezzi naturali a nostra disposizione. Se Dio guarirà o meno qualcuno con i mezzi soprannaturali non dipende dalla nostra decisione. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, “lo Spirito Santo dona ad alcuni un carisma speciale di guarigione per manifestare la forza della grazia del Risorto” (2). Ma questo potere di guarigione non è a disposizione dell’uomo, perché “neppure le preghiere più intense ottengono la guarigione di tutte le malattie” (3). Il ricorso a mezzi naturali di guarigione, nella misura in cui questi sono a disposizione dell’uomo, rimane dunque del tutto appropriato. In effetti, la carità cristiana esige che noi non trascuriamo i mezzi naturali per guarire le persone ammalate.

II. Reiki e guarigione
 
A) Le origini e le caratteristiche fondamentali del Reiki

4. Il Reiki è una tecnica di guarigione inventata in Giappone alla fine del secolo XIX  da Mikao Usui sulla base del suo studio di testi buddhisti (4). Secondo l'insegnamento del Reiki la malattia è causata da un qualche tipo di perturbazione o di squilibrio dell’“energia vitale”. Chi pratica il Reiki cura ponendo la sua mano in certe posizioni sul corpo del paziente, al fine di facilitare il flusso dell’“energia vitale universale” dalla persona che pratica la tecnica al paziente. Ci sono numerose posizioni delle mani destinate ad affrontare diversi problemi. I fautori del Reiki sostengono che chi lo pratica non è la fonte dell’energia che guarisce, ma un semplice canale attraverso il quale questa fluisce (5). Per diventare un “praticante” autorizzato del Reiki si deve ricevere una “iniziazione” o “sintonizzazione” da parte di un Maestro di Reiki. Questa cerimonia rende una persona “sintonizzata” con l’“energia vitale universale” e permette di fungere da canale per questa energia. Si dice che il Reiki comporti tre diversi livelli di “sintonia” o iniziazione (per alcuni quattro). Ai livelli più alti, si afferma che l’iniziato possa fungere da canale per l’energia Reiki e guarire a distanza, senza contatto fisico.

B) Il Reiki come mezzo naturale di guarigione

5. Benché i fautori del Reiki sembrino concordare sul fatto che il Reiki non rappresenta di per sé una religione, ma una tecnica che potrebbe essere utilizzata da persone provenienti da molte tradizioni religiose, in effetti ha molti aspetti di una religione. Il Reiki è spesso descritto come un mezzo “spirituale” di guarigione diverso dalle comuni procedure mediche di guarigione che utilizzano mezzi fisici. Gran parte della letteratura sul Reiki è piena di riferimenti a Dio, alla Dea, al “potere di guarigione divino” e alla “mente divina”. L’energia vitale è descritta come diretta da Dio, che è l’“Intelligenza più alta” o la “Coscienza Divina”. Allo stesso modo, le varie “iniziazioni” che il “praticante” di Reiki riceve da un Maestro di Reiki sono impartite tramite “cerimonie sacre” che comprendono la manifestazione e la contemplazione di certi “simboli sacri” (che tradizionalmente sono stati tenuti segreti dai Maestri di Reiki). Inoltre, il Reiki è spesso descritto come un “modo di vivere”, con una lista di cinque “precetti del Reiki” che prescrivono la condotta etica appropriata.

6. Nonostante tutto questo, vi sono alcuni “praticanti” del Reiki, soprattutto infermieri e infermiere, che tentano di accostarsi al Reiki semplicemente come a un mezzo naturale di guarigione. Considerato come un mezzo naturale di guarigione, tuttavia, il Reiki diventa soggetto ai criteri di valutazione delle scienze naturali. È vero che ci possono essere mezzi di guarigione naturale che non sono stati ancora compresi o riconosciuti dalla scienza. I criteri fondamentali per valutare se ciascuno si debba o meno affidare a un particolare mezzo di guarigione naturale, tuttavia, restano quelli della scienza.

7. Giudicato secondo questi criteri, il Reiki manca di credibilità scientifica. Il Reiki non è stato accettato dalla comunità scientifica e medica come una terapia efficace. Mancano studi davvero scientifici che confermino l'efficacia del Reiki, così come manca una spiegazione scientifica plausibile di perché il Reiki dovrebbe essere efficace. La spiegazione dell'efficacia del Reiki dipende interamente da una particolare visione del mondo, che è considerato pervaso da una “energia vitale universale” (di qui la stessa parola “Reiki”), la quale è oggetto di manipolazione da parte del pensiero e della volontà dell'uomo. I “praticanti” del Reiki sostengono che l’addestramento che hanno ricevuto permette loro di fungere da canali per l’“energia vitale universale” che è presente in tutte le cose. Questa “energia vitale universale” è però ignota alla scienza naturale. Poiché dunque la presenza di questa energia non è stata osservata tramite i mezzi della scienza naturale, la giustificazione di queste terapie deve necessariamente trovarsi in qualche cosa di diverso dalla scienza.

C) Il Reiki e la potenza di guarigione di Gesù Cristo

8. Alcune persone hanno cercato di identificare il Reiki con la guarigione divina ben nota ai cristiani (6.) Queste persone s’ingannano. La differenza radicale può essere vista immediatamente nel fatto che per il “praticante” del Reiki il potere di guarigione è a disposizione dell’uomo. Alcuni insegnanti vogliono evitare questa conclusione e sostengono che non è il “praticante” del Reiki personalmente che effettua la guarigione, ma piuttosto la stessa energia del Reiki diretta dalla Coscienza Divina. Tuttavia, resta il fatto che per i cristiani l'accesso alla guarigione divina è tramite la preghiera a Cristo come Signore e Salvatore, mentre
l'essenza del Reiki non è una preghiera, ma una tecnica che è trasmessa dal Maestro di Reiki al discepolo, una tecnica che una volta padroneggiata produrrà con ragionevole certezza i risultati attesi (7). Alcuni “praticanti” cercano di cristianizzare il Reiki aggiungendo una preghiera a Gesù Cristo, ma questo non cambia il carattere essenziale del Reiki. Per questi motivi il Reiki e altre tecniche terapeutiche simili non possono essere identificate con quella che i cristiani chiamano guarigione per mezzo della grazia divina.
 
9. La differenza tra quella che i cristiani riconoscono come guarigione per mezzo della grazia divina e la terapia Reiki è evidente anche nelle espressioni fondamentali utilizzate dai “praticanti”
del Reiki per descrivere quanto accade nella terapia Reiki, in particolare l’espressione “energia vitale universale”. Né le Scritture né la tradizione cristiana nel suo insieme ci parlano di un mondo naturale che sia fondato su una “energia vitale universale” che sarebbe soggetta alla manipolazione da parte dei poteri del pensiero e della volontà dell’uomo. In realtà questa visione del mondo trova le sue origini nelle religioni orientali e ha un certo carattere monista e panteista, in quanto le distinzioni tra il sé, il mondo e Dio tendono a essere eliminate (8). Abbiamo già visto che i “praticanti” del Reiki non sono in grado di distinguere chiaramente fra il potere divino di guarigione e il potere che è a disposizione dell’uomo.

III. Conclusione
 
10. La terapia Reiki non trova alcun sostegno né nei risultati delle scienze naturali né nella fede cristiana. Per un cattolico credere nella terapia Reiki presenta problemi insolubili. Quanto alla cura della salute fisica propria o altrui, affidarsi a una tecnica che non ha alcuna conferma scientifica (neppure in termini di mera plausibilità) è normalmente imprudente.

11. Quanto alla cura della salute spirituale, vi sono pericoli seri. Chi vuole utilizzare il Reiki dovrebbe accettare almeno implicitamente gli elementi centrali della visione del mondo che soggiace alla teoria del Reiki, elementi che non appartengono né alla fede cristiana, né alla scienza naturale. Senza una giustificazione che venga dalla fede cristiana o dalla scienza naturale, tuttavia, un cattolico che ponga la sua fiducia nel Reiki sta operando nell’ambito della superstizione, quella terra di nessuno che non è né fede né scienza (9). La superstizione corrompe il culto che la persona deve a Dio  deviando il sentimento e la pratica religiosa personali in una falsa direzione (10). Benché a volte le persone cadano nella superstizione per ignoranza, è responsabilità di tutti coloro che insegnano in nome della Chiesa cercare di eliminare tale ignoranza per quanto sia possibile.

12. Poiché la terapia Reiki non è compatibile né con la dottrina cristiana né con i risultati della ricerca scientifica, non è appropriato per istituzioni cattoliche come le strutture sanitarie cattoliche, le case di riposo o ritiro o le persone che rappresentano la Chiesa, come i cappellani cattolici negli ospedali, promuovere o fornire sostegno alla terapia Reiki.

Mons. William E. Lori (presidente),
Vescovo di Bridgeport

Mons. John C. Nienstedt
Arcivescovo di St. Paul e Minneapolis

Mons. Leonard P. Blair
Vescovo di Toledo

Mons Arthur J. Serratelli
Vescovo di Paterson

Mons. José H. Gomez

Arcivescovo di San Antonio

 Mons. H. Allen Vigneron
Vescovo di Oakland

 Mons. Robert J. McManus
Vescovo di Worcester

Mons. Donald W. Wuerl
Arcivescovo di Washington

 

Note

(1) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione circa le preghiere per ottenere da Dio la guarigione (14 settembre 2000), I, 2: “Ovviamente il ricorso alla preghiera non esclude, anzi incoraggia, a fare uso dei mezzi naturali utili a conservare e a ricuperare la salute, come pure incita i figli della Chiesa a prendersi cura dei malati e a recare loro sollievo nel corpo e nello spirito, cercando di vincere la malattia”.

(2) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1508.

(3) Ibidem.

(4) Si è anche preteso che egli abbia semplicemente riscoperto un’antica tecnica tibetana, ma manca la prova di quest’affermazione.

(5) Come vedremo più avanti, tuttavia, le distinzioni tra il sé, il mondo e Dio tendono a essere travolte nel pensiero del Reiki. Alcuni insegnanti di Reiki spiegano che alla fine dell’itinerario si raggiunge la convinzione che il sé e l’“energia vitale universale” sono la stessa cosa, “che noi siamo la forza vitale universale e che tutto è energia, compresi noi stessi” (Libby Barnett -Maggie Chambers, con Susan Davidson, Reiki Energy Medicine. Bringing Healing Touch into Home, Hospital, and Hospice, Healing Arts Press, Rochester [Vermont] 1996, p. 48, cfr. anche ibidem,p.102).

(6) Cfr. per esempio i testi “Reiki e cristianesimo” all’indirizzo iarp.org/articles/Reiki_and_Christianity.htm  e  “Il Reiki cristiano” all’indirizzo areikihealer.tripod.com/christianreiki.html; e il sito Web www.christianreiki.org.

(7) I Maestri di Reiki offrono corsi di formazione ai vari livelli di progressione nel Reiki, corsi per i quali gl’insegnanti richiedono una remunerazione in denaro significativa. L’allievo si aspetta, e il Maestro di Reiki assicura, che l’investimento in tempo e denaro permetterà di padroneggiare una tecnica che darà effettivamente risultati.

(8) Benché questo sembri implicito nell’insegnamento del Reiki, alcuni fautori del Reiki affermano esplicitamente che non vi è, in definitiva, alcuna distinzione tra il sé e il Reiki. “L'allineamento tra il vostro sé e il divenire del Reiki è un processo in corso. La disponibilità a impegnarsi continuamente in questo processo favorisce la vostra evoluzione e può portare alla convinzione ferma e all’esperienza definitiva che tu sei la forza vitale universale” (“The Reiki Healing Connection” [di Libby Barnett, M.S.W.]: reikienergy.com/classes.htm, accesso del  6 febbraio 2008, corsivo nell’originale). Diane Stein riassume il significato di alcuni dei “simboli sacri” utilizzati nel Reiki come segue: “La Dea in me saluta la Dea in te”; “L’uomo e Dio diventano uno” (Essential Reiki Teaching Manual. A Companion Guide for Reiki Healers Crossing Press, Berkeley [California] 2007, pp. 129-131). Anne Charlish e Angela Robertshaw spiegano che la più alta “sintonizzazione” del Reiki “segna il passaggio dall’ego e dal sé a un sentimento di unità con l’energia universale della forza vitale” (Secrets of Reiki, DK Publishing, New York 2001, p. 84).

(9) Alcune forme di Reiki insegnano la necessità di chiedere l’assistenza di esseri angelici o “spiriti guida del Reiki”. Questo introduce l'ulteriore pericolo di esposizione a forze o poteri maligni.

(10) Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2111; San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 92, a. 1.

[SM=g1740771]

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[SM=g1740758] La Chiesa non sostiene la pratica del reiki, innanzitutto perché la fede cristiana non condivide la cosmovisione spirituale orientalista, e in secondo luogo perché la ritiene una tecnica che non può dimostrare a livello scientifico la propria efficacia.

 

1.Il reiki si presenta come un metodo di guarigione che fa leva sulle energie e parte dal principio che tutto ciò che esiste è energia.

Il reiki, ideato in Giappone da Mikao Usui (1865-1926), si presenta come un metodo di guarigione che utilizza l'“energia universale di vita” e una congiunzione di due energie molto potenti. La prima sarebbe guidata da una coscienza superiore che alcuni chiamano “Rei” (Dio) o il proprio “essere superiore”, ovvero non sarebbe prodotta dal guaritore ma dallo stesso essere superiore. L'altra energia, quella personale, che muoverebbe l'essere umano, è chiamata “Ki”.

Chi pratica il reiki ritiene che tutto ciò che esiste sia energia, dal pensiero agli elementi, e noi saremmo quindi un'irradiazione di quell'energia. In base a questa concezione, il “campo elettromagnetico” che produce l'energia che ci circonda è composto da vari strati che ci avvolgono e nel corso della nostra vita va nutrendosi di traumi e problemi emotivi che restano imprigionati in esso come in una rete, producendo blocchi nel flusso dell'energia universale di vita. Questa energia presumibilmente esistenziale per la vita, più importante dell'aria e dell'acqua, si stabilizzerebbe mediante la guarigione reiki, che interviene ad aiutare il flusso della stessa e quindi a sbloccare i problemi energetici che sarebbero gli indicatori della malattia fisica.

Il reiki ha cinque principi che appaiono come una presunta guida per i “canali” (reikisti) e sono stati stabiliti da Mikao Usui e da altre persone come il dottor Hayashi e la signora Takata. Essi sono:

1) Solo per oggi, non ti irritare.

2) Solo per oggi, non ti preoccupare.

3) Onora i tuoi genitori, i maestri e gli anziani.

4) Guadagnati onestamente da vivere.

5) Dimostra gratitudine a tutti gli esseri viventi.

 

2. La sua terapia consiste nel porre le mani sul corpo umano affinché l'energia fluisca, curi e ci metta in collegamento con le guide spirituali.
 

Ponendo le mani sul corpo del paziente, il reikista farebbe sì che l'energia emani da due o più persone con l'unico proposito di condividere la cura. Il reiki può anche autoapplicarsi. Di fronte a una zona ritenuta di interesse, si possono mantenere le mani su di questa durante il tempo considerato necessario.

I sistemi variano in base al reikista, ma si lavora soprattutto in una prima sessione chiamata “pulizia dei 21 giorni”, durante i quali si suppone che l'energia lavori pulendo i chakra (centri di energia incommensurabile situati nel corpo umano, secondo alcune culture dell'Asia), iniziando dal chakra della radice e culminando con quello della corona. Questa energia fluirebbe tre volte attraverso i chakra nel corso di tre settimane, e poi si verificherebbe un “allineamento” in cui l'energia lavora a un livello maggiore.

Per alcuni reikisti, oltre che a curare il reiki aiuta a collegarsi con le nostre “Guide spirituali”.

 

3. Si basa su una cosmovisione spirituale orientalista panteista e subisce l'influenza di varie religioni e pratiche.

Prima dell'arrivo della filosofia buddista in Giappone, esisteva in quelle isole un tipo di religiosità primitiva, simile a quella di vari popoli arcaici, che nell'VIII secolo si denominò scintoismo per differenziarsi dal buddismo. Sorse il culto della natura delle religioni popolari. Ciò si riflette in cerimonie che invocano i poteri misteriosi della natura. Nel 1945 lo scintoismo statale (che credeva l'imperatore discendente dal dio sole) perse il suo rango ufficiale e attualmente il culto è privato.

Il buddismo è stato fondato da Gautama (563-483 a.C.) ed è una religione filosofica, anche se in senso stretto è più una filosofia, perché Gautama negò l'utilità di qualsiasi divinità. Basa le sue convinzioni sul fatto che la sofferenza (dukkha) è provocata dagli dei e per eliminarla è necessario eliminare il desiderio. Ciò si raggiungerebbe mediante la finalizzazione delle successive reincarnazioni attraverso l'ottuplice sentiero e il suo culmine nel nirvana (scioglimento) o liberazione spirituale.

La cosmovisione spirituale orientalista (induismo e buddismo) è panteista. Il panteismo è una dottrina secondo cui Dio è la sostanza di tutte le cose, ovvero “tutto è Dio” (immanenza). La sintesi di questa dottrina applicata alle religioni orientali citate è la credenza nell'Atman o anima spirituale dell'uomo e nel Brahman, Dio senza forma o spirito del mondo. Per la concezione religiosa orientalista, Dio sarebbe un'energia e noi parte, riflesso o elementi materiali di questa energia cosmica.

Sia negli upanishad induisti che nel credo vajrayāna, tantrico o esoterico del buddismo tibetano si menziona e si crede nell'esistenza dei sei punti energetici situati in diverse parti del nostro corpo e chiamati chakra (circoli). Questi farebbero parte di un corpo di energia sottile e sarebbero più sottili del corpo fisico. Il loro stato di equilibrio si rifletterebbe sulla nostra salute fisica e mentale e l'energia reiki stabilizzerebbe questi centri energetici.

Mikao Usui non è stato estraneo alle influenze di queste religioni e pratiche, ed è stato inoltre un “monaco cristiano”. L'utilizzo della tecnica reiki come sistema di guarigione può aver tratto origine dall'apertura culturale vissuta dal Giappone in quell'epoca e dall'influenza delle religioni orientali già citate oltre a quelle del “nuovo pensiero” occidentale (tra le altre), che hanno promosso la creazione di molti nuovi movimenti religiosi giapponesi (shinshūkyō) già dalla fine del XIX secolo.

 

4. Il reiki non è una scienza: la sua conoscenza si raggiunge mediante una certa forma di illuminazione. Si presenta come un modo per curare malattie fisiche, ma la sua terapia non è verificabile.

La conoscenza scientifica si riassume in tre tipologie: generale, sociale e legale. Quella generale si riferisce alla validità dell'esperienza, che può ripetersi e nutrirsi di conoscenze generali e non individuali.

Quella sociale fa riferimento al fatto che questa conoscenza possa essere comunicata di modo che qualsiasi persona con capacità e impegno possa accedervi. Tale caratteristica distingue la scienza per come è conosciuta in Occidente dalle conoscenze che integrano le dottrine esoteriche, come lo yoga o lo zen, che non possono essere comunicate attraverso il linguaggio, ma solo essere acquisite mediante una certa forma di illuminazione.

La terza qualità della conoscenza scientifica, quella legale, si riferisce alle leggi che integrano le scienze e all'applicazione pratica delle scienze che costituiscono la tecnica. Sicuramente alcuni reikisti e i loro “pazienti” non attribuiscono al reiki il carattere di scienza, ma sostengono ugualmente che è in grado di curare malattie fisiche, e in base alla scienza può farlo solo la medicina.

Tuttavia, il reiki non è una scienza, non è fattuale, non può diagnosticare, la sua terapia non è verificabile, non previene e non apporta prove, né può confutare altri risultati ottenuti dalla scienza. A causa del suo retroterra orientalista, possiede un determinismo filosofico, secondo cui le conseguenze sono causali (causa-conseguenza) e nulla avverrebbe per caso. Un altro aspetto da sottolineare è il suo soprannaturalismo, perché considera nella sua pratica la mediazione di forze non appartenenti all'ambito scientifico, il che lo farebbe allontanare dal campo che pretende essere di sua competenza.

 

5. È una pratica magica guaritrice e in quanto tale è legata alla superstizione.

L'essere umano primitivo ha raggiunto una tappa nella quale ha creduto, mediante varie pratiche, di poter pacificare e controllare le forze della natura attraverso la magia o teurgia (stregoneria). Il reiki sostiene di riuscire ad ammministrare e dominare un'“energia universale di vita” che proviene da una coscienza cosmica (che molti chiamerebbero Dio) e che ben utilizzata può curare malattie fisiche.

Nello studio della mente religiosa primitiva sarà utile puntualizzare che a volte religione e magia vengono equiparate non essendoci prove realmente dimostrate per determinare una dissociazione tra questo concetto religioso primitivo e la magia stessa.

C'è chi ha affermato che religione e magia sono la stessa cosa, e che il dualismo magia-religione è successivo a un periodo più primitivo nel quale entrambe le pratiche erano coinvolte. Frazer ha sostenuto che la magia sarebbe più antica della religione ed ha osservato che questa è un fenomeno magico e non religioso. La religione coinvolge così l'uomo in un vincolo di reciprocità diverso con la divinità, manifestazione propria del fatto religioso, mentre la magia non si sofferma sull'adorazione di alcun essere. L'influenza orientalista (buddista) nel reiki rimuove ogni divinità sostituendola con quella forza o energia cosmica, quella coscienza che agirebbe attraverso il reiki.

Il reiki non si differenzierebbe troppo da una pratica “sciamanica” o “druidica”, pur non utilizzando alcuna medicina o intruglio allucinogeno. Allo stesso modo, dice di non essere e di non voler sostituire la medicina tradizionale o allopatica. La medicina allopatica è quella i cui farmaci provocano in un organismo sano fenomeni distinti da quelli che caratterizzano le malattie nelle quali sono impiegati, ed è scientifica perché è conoscenza vera delle cose attraverso i loro principi e le loro cause.

Considerando che non è e dichiara di non voler neanche sostituire la medicina tradizionale o allopatica, di non avere base scientifica (anche se afferma di guarire e di considerarsi una terapia alternativa) e di non essere una religione (anche se attribuisce i suoi risultati a un'energia soprannaturale che alcuni conoscerebbero come Dio o il proprio “essere superiore”), si conclude che il reiki si inserirebbe allora nella definizione di una pratica magica guaritrice. Il reiki dice di amministrare e trasmettere una presunta energia soprannaturale per un beneficio, e il presunto controllo di una forza di uguale natura per fini diversi si conosce come magia.

La magia è concepita nel pensiero dell'uomo primitivo e dei bambini. È legata alla superstizione popolare e, anche se è messa in pratica da alcune persone che vi credono, i suoi effetti sono inesistenti.

 

6. Il suo preteso effetto curativo si allontana molto dal concetto cristiano di guarigione mediante la grazia, per imposizione sacramentale o attraverso la preghiera.

Chi si avvicina alla pratica del reiki è portato ad abbandonare l'adorazione di Dio. La magia è superstizione e questa è estranea alla fede (e alla scienza), deviando il credo per una via errata.

Quanto al presunto effetto curativo del reiki, il concetto cristiano di “guarigione per grazia divina”, per imposizione sacramentale o mediante la preghiera dista molto dall'“energia universale di vita” che il reiki dice di amministrare in modo individualista e confuso sulla provenienza di questa presunta energia.

La superstizione nasce dall'ignoranza, e tale ignoranza può portare all'allontanamento della “guarigione mediante poteri naturali” (medicina tradizionale), potendo la persona utilizzare il reiki non solo come terapia alternativa complementare, ma come terapia unica, mettendo a rischio (forse ancor di più) la propria salute. Vari vescovi della Chiesa hanno affermato che il reiki “non sarebbe appropriato per le istituzioni cattoliche”.



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[Modificato da Caterina63 09/10/2015 23:30]
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Meditazione e meditazioni
Data: Domenica, 31 ottobre @ 00:12:36 CEST
Argomento: Vita cattolica: Matrimonio, laicato...

...Don Pietro Cantoni, esposizione della Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana ... sopra riportata integralmente


PIETRO CANTONI, Cristianità n. 178 (1990)

 

"Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana"

 

La lettura del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana (1) richiama il famoso assioma lex orandi lex credendi che — abbreviazione di un passo dell’Indiculus de gratia Dei — ha espresso per secoli una consapevolezza definitiva della Chiesa, quella di un legame profondo fra la fede, intesa non solo come insieme di contenuti normativi — la fides quae, quanto si deve credere —, ma anche come struttura dell’atto di fede — fides qua, la fede con cui si crede —, e la preghiera nella sua globalità, quindi non solo quella liturgica, ma anche quella personale, che, in un contesto cristiano, non è mai preghiera puramente individuale.

Si tratta di una lettera molto articolata e tanto densa che un commento inteso a passarne in rassegna in modo esauriente tutti i contenuti sfocerebbe inevitabilmente in un trattato teologico sulla preghiera. Dopo l’introduzione, che mette a fuoco l’occasione e la finalità dell’intervento del Magistero (nn. 1-3), in sei parti vengono enucleate in positivo l’essenza della preghiera cristiana alla luce della Rivelazione (nn. 4-7), in negativo gli errori che l’hanno deformata nella sua storia e conservano ancora un loro valore "tipico" (nn. 8-12); quindi si passa al fine a cui conduce l’itinerario della preghiera cristiana (nn. 13-15) e, alla sua luce, si esaminano alcune questioni di metodo (nn. 16-25), in particolare i metodi psicofisici-corporei (nn. 26-28), quindi si conclude riaffermando l’unicità della via che è Cristo (nn. 29-31).

L’occasione del documento è duplice: da un lato, il crescente interesse per la preghiera nella Chiesa e nella società; dall’altro, il diffondersi, anche nella Chiesa, di metodi e di tecniche orientali di meditazione come yoga, zen, "meditazione trascendentale", e così via. In ultima analisi, la domanda a cui il testo intende rispondere si può formulare in questi termini: "Come far fronte a questo bisogno in modo corretto e teologico — ossia alla luce di una ragione integralmente e profondamente illuminata dalla fede — e non sentimentale o empirico? Quale atteggiamento assumere in presenza di proposte molteplici e, almeno apparentemente, allettanti, provenienti da altre religioni, proposte che non si possono più ignorare perché ormai ci interpellano, letteralmente, in casa?". L’esigenza di interiorità è un dato empiricamente rilevabile e non soltanto il frutto di un esame incorreggibilmente ottimistico, anche perché, appunto, si tratta di un fenomeno globalmente ambiguo. Basta entrare in una libreria per constatare quanto "tiri" il mercato di pubblicazioni orientaleggianti, o comunque genericamente e vagamente "spiritualistiche", a volte con modalità perfino morbose (2). E non è indispensabile entrare in librerie "laiche" per incontrare copertine che recano il volto sorridente di qualche guru, perché anche l’editoria cattolica è ampiamente interessata dal fenomeno. Basta poi soffermarsi con attenzione sul ramificato e silenzioso diffondersi di "gruppi di preghiera", spesso ispirati da rivelazioni private, per cogliere i sintomi certamente interessanti di qualcosa di assolutamente reale.

In sintesi, la risposta offerta dal documento suona così: "La preghiera autentica, nei suoi tratti fondamentali ed essenziali, non è da inventare e neppure da cercare altrove: essa è consegnata nella Scrittura, nella Tradizione della Chiesa e nelle indicazioni del suo Magistero, cioè in quel tesoro immenso spesso non solo sconosciuto ai suoi stessi depositari — per pigrizia, per ignoranza, per "prurito di novità" e per altre ragioni storiche —, ma che non può essere esaurito neppure dall’attenzione più generosa proprio per la sua indicibile ricchezza, e al quale si deve continuamente ricorrere, magari sotto la spinta di esigenze storiche impellenti e di sfide di dimensioni mondiali. Gli apporti di altre tradizioni religiose non possono essere rifiutati a priori, perché questo significherebbe semplicemente misconoscere la natura umana e il suo intrinseco bisogno di Dio, e dimenticare che è natura ferita ma non distrutta dal peccato. Tuttavia, nell’eventuale integrazione, deve esser salvo il punto di vista della fede, anzi, esso deve costituire l’elemento determinante e trasformante".

Il legame inscindibile tra fede e preghiera è stato espresso in modo molto sintetico ed efficace dal card. Joseph Ratzinger nella conferenza di presentazione del documento: "[...] la preghiera è fede in atto: la preghiera senza fede diviene cieca, la fede senza preghiera si disgrega" (3). Di qui la preoccupazione del testo di fornire ai vescovi — e, quindi, ai fedeli — i dati essenziali per un giudizio di fede su preghiera e su metodi di preghiera e, nello stesso tempo, di incoraggiare, con la forza della verità, la preghiera cristiana ovunque essa si manifesti (4). Infatti, non si può pensare che la restaurazione-riforma di cui oggi la Chiesa ha tanto bisogno possa trovare diversamente e altrove la sua forza propulsiva.

Proprio il legame stretto con la struttura della fede, e quindi della Rivelazione, fa della preghiera cristiana essenzialmente un dialogo, un colloquio (5): "È necessario a tale scopo formulare una decisiva premessa. La preghiera cristiana è sempre determinata dalla struttura della fede cristiana, nella quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura. Per questo essa si configura, propriamente parlando, come un dialogo personale, intimo e profondo, tra l’uomo e Dio. Essa esprime quindi la comunione delle creature redente con la vita intima delle Persone trinitarie" (n. 3). È importante soffermarsi brevemente su questa "decisiva premessa", perché vi si coglie il fondamento di tutto il discorso. La fede è strutturalmente la risposta alla rivelazione di Dio. Quindi non si può cogliere pienamente il significato della fede senza prima comprendere cosa si intende per rivelazione. Perciò il documento indica la Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei verbum, del Concilio Ecumenico Vaticano II, come il riferimento dogmatico più recente e fondamentale su questo tema (cfr. n. 6, nota 4). Dio si rivela in due modi: attraverso la creazione, le "cose", ed è la Rivelazione naturale, e attraverso la parola, cioè attraverso i profeti e, ultimamente, attraverso la sua Parola eterna fatta carne, ed è la Rivelazione soprannaturale (6). Nel primo modo di rivelazione Dio è colto con il lume naturale della ragione per mezzo delle cose create e quindi, soprattutto, per mezzo di quella realtà creata, di cui l’uomo può fare esperienza, perché più di tutte riflette la realtà di Dio: l’uomo stesso e, in particolare, l’anima umana, il suo "sé" profondo. Ma in questo modo Dio può essere conosciuto solo come causa prima del cosmo e del proprio io. Nel secondo modo, che è quello della rivelazione profetica, Dio si rivela parlando "agli uomini come ad amici" (7), per mezzo della parola, dunque nella sua realtà personale, che è trinitaria, e il rapporto che gratuitamente intrattiene è un rapporto dialogico. Allora emergono differenze strutturali: da una parte, un rapporto con Dio frutto integralmente dello sforzo personale, che perviene, di per sé, non direttamente a una Persona, quanto piuttosto a un Principio ultimo del cosmo e di sé stessi; dall’altra, un rapporto che si fonda su un dono — cioè sulla grazia — e sfocia in una comunione personale e trinitaria. Quindi, se si deve riconoscere una preghiera e anche una mistica autentiche al di fuori dell’ambito della Chiesa e dello stesso cristianesimo, bisogna però porle, di per sé, nel contesto della Rivelazione naturale o cosmica, tenendo presenti due aspetti: a. la legittimità di un "rientrare in sé stessi", alla ricerca dell’immagine di Dio che portiamo in noi; e b. il rischio di scambiare l’immagine per la realtà, deviando nel panteismo, e quello di rimanere in sé stessi, risolvendo la preghiera non nell’amore, che è "esodo" da sé, ma nell’egoismo. E si tratta di un egoismo tanto più pericoloso, quanto più è spiritualmente sublimato e tecnicamente raffinato.

Così, di fatto, il discorso sulla religiosità naturale deve sempre tenere presente la realtà del peccato originale e attuale, con il conseguente indebolimento dell’intelletto, proclive perciò alla confusione e all’errore, nonché l’azione del mysterium iniquitatis all’opera nella storia (8). Anche in questo caso si tratta di un mistero a dimensione personale, perché è il mistero di come persone — Satana e gli angeli malvagi —, anche se in un’attribuzione analogica di questo termine, inducono al male altre persone freddamente e consapevolmente, con suggerimenti che possono essere anche "geniali" (9). Queste considerazioni potrebbero forse aiutare a concepire l’"uomo naturale" non più sul modello del deista settecentesco, ma piuttosto su quello dell’uomo religioso e metafisico dell’Occidente ellenico e del mondo orientale. Certamente, il valore dell’intellettualità umana tornerebbe allora a rivestirsi di una dignità diversa rispetto a quella assai pallida della "ragione" — si chiami essa raison oppure Vernunft, sia essa cartesiana oppure kantiana —, a cui ci avevano abituato le elucubrazioni astratte e i baloccamenti sistematici della modernità. Certamente, ancora, le tecniche orientali di meditazione affascinano per il livello di perfezione e di sofisticazione a cui sono giunte (10), ma la preghiera cristiana rappresenta, rispetto a esse, insieme un’alternativa e un superamento: un’alternativa, perché il suo orientamento è in qualche modo opposto, dal momento che essa spinge all’esodo da sé, e soprattutto perché si fonda sulla gratuita iniziativa di Dio; un superamento, perché anch’essa conosce il "rientrare in sé stessi", ma come tappa e non come termine dell’itinerario spirituale. "Sant’Agostino è, su questo punto, un maestro insigne: se vuoi trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore e rientra in te stesso. Tuttavia, prosegue, non rimanere in te stesso, ma oltrepassa te stesso, perché tu non sei Dio: egli è più profondo e più grande di te. "Cerco la sua sostanza nella mia anima e non la trovo; ho meditato tuttavia sulla ricerca di Dio e, proteso verso di lui, attraverso le cose create, ho cercato di conoscere le ’perfezioni invisibili di Dio’ (Rm 1, 20)". "Restare in se stessi": ecco il vero pericolo. Il grande dottore della chiesa raccomanda di concentrarsi in se stessi, ma anche di trascendere l’io che non è Dio, ma solo una creatura. Dio è "interior intimo meo, et superior summo meo". Dio infatti è in noi e con noi, ma ci trascende nel suo mistero" (n. 19).

La via cristiana rifugge dall’isolamento nel proprio io e "[...] rinvia continuamente all’amore del prossimo, all’azione e alla passione, e proprio così avvicina maggiormente a Dio" (n. 13). Infatti, anche il contemplativo più solitario non è mai isolato, ma collegato profondamente a tutta la Chiesa nel vincolo dell’amore. Allo stesso modo, la via cristiana è pure consapevole di non poter evitare il passaggio obbligato della Croce. La preghiera cristiana non si riduce mai a un metodo per liberarsi dal dolore, o addirittura per "star bene" fisicamente (11), ma è un’apertura all’amore di Dio, a quell’amore che non ha esitato davanti alla morte, e alla morte di Croce. È significativo come questo costituisca ancor oggi una "follia per i pagani" (12): "Se Cristo ha veramente sofferto, allora non può essere [il Salvatore]... Dov’è la salvezza se la gente soffre? Cristo non ha tolto il karma di tutto il popolo", dice Maharishi Mahesh Yogi, il fondatore di Meditazione Trascendentale (13).

Anche il tema della divinizzazione — caro ai Padri greci (cfr. n. 14) — non deve essere inteso come un’esaltazione egolatrica, ma come un ingresso nel circolo dell’amore trinitario. E proprio per questo implica sempre un’alterità. Perciò la creaturalità dell’uomo, che tutte le prospettive non-dualiste e pseudognostiche (14) tendono vanamente a oscurare o a rifiutare, lungi dall’essere un triste limite, si rivela un necessario presupposto della comunione divina: "[...]l’uomo è essenzialmente creatura e tale rimane in eterno, cosicché non sarà mai possibile un assorbimento dell’io umano nell’io divino, neanche nei più alti stati di grazia. Si deve però riconoscere che la persona umana è creata "a immagine e somiglianza" di Dio, e l’archetipo di questa immagine è il Figlio di Dio, nel quale e per il quale siamo stati creati (cf. Col 1, 16). Ora questo archetipo ci svela il più grande e il più bel mistero cristiano: il Figlio è dall’eternità "altro" rispetto al Padre e tuttavia, nello Spirito santo, è "della stessa sostanza"; di conseguenza, il fatto che ci sia un’alterità non è un male, ma piuttosto il massimo dei beni. C’è alterità in Dio stesso, che è una sola natura in tre persone, e c’è alterità tra Dio e la creatura, che sono per natura differenti" (n. 14).

Il problema del rapporto fra metodo e contenuto è di particolare importanza, anche per i risvolti che può avere in altri campi. In sintesi, il documento afferma che il metodo non può essere staccato dal contenuto e concepito come neutrale rispetto a ciò che veicola e al contesto culturale in cui nasce (15). In proposito, sembra fare due esempi: quello di un legittimo suggerimento che ci viene dall’Oriente, ma che può essere soddisfatto riandando semplicemente alla nostra tradizione, relativo al ruolo indispensabile di una guida spirituale (cfr. n. 16); e quello di una dottrina che l’antichità cristiana aveva desunto dalla tarda classicità, trasformandola però intimamente, relativa ai tre stadi della vita spirituale (cfr. n. 17). Ne emerge un modello di rapporto fra metodo e contenuto che investe anche altre problematiche: l’inculturazione nelle terre di missione e, in definitiva, tutto il rapporto fra la Chiesa e la cultura moderna, che fu il problema del modernismo. I suggerimenti che vengono dall’esterno devono essere intesi come un rimando a quanto vi è già, anche se magari non se ne ha ancora una piena coscienza. L’assolutezza e la pienezza convengono costitutivamente alla Rivelazione cristiana, in modo tale che rinunciarvi o accettare compromessi su questo punto significa semplicemente staccarsi da essa. Nella Chiesa, intesa come realtà con una dimensione sovraempirica, vi è una tale pienezza derivante dal suo intimo legame con Cristo — "nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza" (16) —, che ogni apporto esterno non può essere inteso come un’addizione, ma piuttosto come un rimando alla propria ricchezza. Perciò l’integrazione ha come fermo presupposto l’identità della fede e la sua vitalità prorompente, capace di assimilare ciò con cui viene a contatto, senza porsi sincretisticamente "accanto" a esso o addirittura in un rapporto di subordinazione, che la ridurrebbe al ruolo di cornice "essoterica".

Chi ha avuto la grazia di una certa familiarità con gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola non può che constatare con gioia come il documento ricorra frequentemente a essi (cfr. nn. 18, 20, 26 e nota 31, e 27 e nota 33) nell’esemplificare le fonti della tradizione spirituale cristiana. Si tratta di una conferma di come il Magistero continui a considerarli una guida sicura della vita spirituale, tale da rispondere adeguatamente alle sfide del nostro tempo. Perché anche gli uomini del nostro tempo possano "sentire e gustare le cose internamente" (17) ed essere condotti, rispondendo generosamente alla "chiamata del Re" (18) e della sua santissima Madre, mai separabile da Lui, a realizzare quell’incontro della loro libertà finita con l’infinita libertà del Dio unitrino in cui risiede essenzialmente l’autentica preghiera (19).

Pietro Cantoni

 ***

(1) Congregatio pro Doctrina Fidei, Epistula ad totius Catholicae Ecclesiae Episcopos de quibusdam rationibus christianae meditationis, del 15-10-1989, in L’Osservatore Romano, 15-12-1989. La traduzione utilizzata è quella comparsa sul medesimo quotidiano, lo stesso giorno, in inserto tabloid, con il titolo Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana. I riferimenti al documento contenuti nel testo rimandano alla suddivisione in paragrafi.

(2) Alla quantità, a detta di esperti, non corrisponde però sempre la qualità: per esempio, un missionario verbita — perito al Concilio Ecumenico Vaticano II e, per oltre trent’anni, professore di filosofia e scienza comparata delle religioni in Giappone — afferma che "più del novanta per cento della letteratura sul tema "Oriente" deve essere catalogata come giornalismo superficiale" (Henri van Straelen S.V.D., Selbstfindung oder Hingabe. Zen und das Licht der christlichen Mystik [Autorealizzazione oppure dono. Zen e la luce della mistica cristiana], Kral, Abensberg s. d., ma 1982, p. 7).

(3) L’Osservatore Romano, cit.

(4) Il card. Joseph Ratzinger fa esplicitamente menzione dei gruppi di preghiera: "[...] stava a cuore alla Congregazione anche offrire un aiuto ai numerosi gruppi di preghiera, che ovunque nel mondo si vanno formando" (ibidem).

(5) Non a caso sant’Ignazio di Loyola pone, a conclusione dei metodi principali di preghiera proposti nei suoi Esercizi Spirituali, come culmine e frutto, appunto il colloquio: cfr. in particolare il n. 54.

(6) Cfr. il mio La Chiesa cattolica e lo spiritismo, in Massimo Introvigne (a cura di), Lo spiritismo, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1989, pp. 227-232.

(7) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei verbum, n. 2.

(8) Cfr. 2 Ts. 2, 7.

(9) "Si può dire — osserva Hans Urs von Balthasar — che la religiosità orientale è l’ultima e più raffinata espressione del tentativo dell’uomo naturalmente religioso, per sfuggire alla prigione di questo mondo limitato e alla sua esistenza terrena nello spazio e nel tempo, che non ha evidentemente nulla di divino, al fine — come dice Paolo — "di cercare Dio se potessero, forse, avvicinarsi a lui e trovarlo" (At 17, 27). Questo desiderio naturale di evadere dal finito, nella speranza di raggiungere l’infinito, è così profondamente ancorato nel cuore umano, che esso è "inquieto finché non riposa in Te", secondo sant’Agostino. Non si deve dunque — come fa Karl Barth — accusarlo subito di titanismo e di costruzione di torre di Babele, di impresa presuntuosa per prendere d’assalto il cielo con i propri mezzi e impadronirsi "dell’esperienza" del "divino" e dell’assoluto. Senza dubbio questo peccato originale e personale di titanismo verrà presto a sovrapporsi alla mistica scalata del trono di Dio e sarà molto difficile, in concreto, separare le due sfere: quello che in un tale metodo proviene dal semplice desiderio di Dio nella creatura e quello che è impazienza e presunzione di voler cogliere da sé il frutto dell’albero della vita. In queste invenzioni culturali dell’uomo nulla è, a priori, del tutto puro da questo eccesso di orgoglio (Hybris); anche la diffidenza dei Padri della Chiesa nei riguardi di tutta la cultura non cristiana era giustificata, in particolare quando si trattava di assumere alcuni elementi" (Una meditazione... piuttosto un tradimento, in AA. VV., Dalle sponde del Gange alle rive del Giordano, trad. it., Àncora, Milano 1986, p. 179). Sugli aspetti "oscuri" della meditazione non cristiana, cfr. ibid., pp. 54-56, 210-212, 216-217, 227 e, soprattutto, la testimonianza di R. C. Zaehner — indologo, islamologo e iranologo di fama internazionale, approdato alla fede proprio attraverso i suoi studi di orientalistica — riportata da Louis Bouyer: "Quanto allo zen e alla sua diffusione, in particolare tra i cristiani, egli non esitava a denunciarlo nella maniera più formale, basandosi su esperienze studiate da vicino, come una vera impresa diabolica. [...]

"[...] Si verifica una specie di temibile magia interiore che si sforza, con abilità diabolica, di produrre delle illusioni di esperienze mistiche di ogni ordine, e che innegabilmente vi riesce. Ma la contropartita stessa di questi successi è lo sviluppo di un orgoglio dell’io, o piuttosto del super io, che rischia di farne, e frequentemente ne fa, la vittima senza difesa di ossessioni e poi di possessi in cui, egli mi diceva, la realtà di Satana sembrava affermarsi come non mai" (ibid., p. 175).

(10) Ci si può chiedere se lo sforzo nella conoscenza del "sé" in vista di una autorealizzazione, che caratterizza la cultura orientale, non sia il corrispondente dello sforzo di conoscenza tecnica del mondo materiale per una sua trasformazione e un suo asservimento all’uomo, che costituisce, con il nome di progresso scientifico, l’orgoglio dell’Occidente moderno: cfr. Louis Gardet e Olivier Lacombe, L’esperienza del sé. Studio di mistica comparata, trad. it. Massimo, Milano 1988, pp. 6-7.

(11) Anche se gli effetti terapeutici della preghiera sono innegabili: cfr. Benito Goya O.C.D., Importanza psicologica dell’ascolto integrale, in Rivista di vita spirituale, anno XLIII, n. 4-5, luglio-ottobre 1989, pp. 439-440.

(12) 1 Cor. 1, 23.

(13) Cit. in AA. VV., Dalle sponde del Gange alle rive del Giordano, cit., p. 217; sul movimento Meditazione Trascendentale, cfr. M. Introvigne, Le nuove Religioni, SugarCo, Milano 1989, pp. 314-315.

(14) Da segnalare la comparsa — forse per la prima volta — in un documento del Magistero, del termine pseudognosi, evidentemente per sottolineare come la giusta esigenza di un sapere profondo ed "esperienziale" si trovi solo superficialmente soddisfatta in tutte quelle prospettive che vogliono basarsi in modo esclusivo sulla "conoscenza", mentre lo è nella prospettiva della fede. Infatti, la fede è la vera gnosi.

(15) Klaus M. Becker vede nella facilità di considerare il metodo come qualcosa di puramente "formale", nel senso di contenutisticamente "vuoto", un tributo indebitamente pagato alla filosofia kantiana: "Ritengo sia assai problematica l’assunzione di determinate tecniche psicosomatiche, come si ritrovano nel buddismo, nell’induismo e nel taoismo. [...] Si obietterà forse che si tratta soltanto di un metodo, e non di un concreto contenuto spirituale, anche perché tali metodi cercano proprio il vuoto di contenuto. [...] La dialettica di forma e contenuto potrà anche avere una funzione in determinati schemi mentali, come appunto nel pensiero di Kant. Io non condivido questo schema. E non so neppure perché un tale schema deve avere per noi un valore così straordinario e aprioristico. Già nel diciannovesimo secolo i Papi avevano definito la filosofia di Kant la radice di tutti gli errori moderni. Più verosimile, per lo meno, è la tesi secondo cui la forma, e quindi anche il metodo, è la realizzazione di un contenuto" (cit. in H. van Straelen S.V.D., op. cit., p. 39).

(16) Col. 2, 3.

(17) Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 2.

(18) Ibid., n. 91.

(19) "Nella chiesa la legittima ricerca di nuovi metodi di meditazione dovrà sempre tener conto che a una preghiera autenticamente cristiana è essenziale l’incontro di due libertà, quella infinita di Dio con quella finita dell’uomo" (n. 3); cfr. sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 234.




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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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30/01/2013 14:26
 
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[SM=g1740758] Un sacerdote risponde

Se lo Yoga sia una religione o solo una disciplina e se un cristiano lo possa esercitare

      Quesito

      Caro Padre Angelo,
     
      Mi chiamo Stefano, ho 45 anni e frequento la scuola di formazione teologica della mia città.
     
      Durante una delle ultime lezioni sul "Monachesimo" di una insegnante, tra le altre cose mia amica, è nata una diatriba riguardo allo "Yoga". Io ho esordito dicendogli che lo Yoga è una religione, per cui un cristiano non può praticarla neppure come ginnastica, senza correre dei rischi: infatti, un insegnante di Yoga, non può non conoscere tutta la filosofia che stà dietro e che basta documentarsi un pò, per trovare testimonianze di persone, che raccontano dei danni che lo Yoga ha loro prodotto in campo spirituale e fisico.
      Tengo a precisare che ho letto alcune testimonianze sul libro "Come leone ruggente" di Tarcisio Mezzetti.
      Ho così preso atto che molte delle persone che frequentano i corsi, la conoscono solamente come una ginnastica e niente più...
      Perfino l'insegnante (laureata in teologia) ci ha detto che lo Yoga non è una religione e che come semplice ginnastica può essere praticata tranquillamente; questo è quello che lei ha studiato.
      Allora mi sono messo a cercare qualche scritto di autori cristiani, per vedere come essi potevano posizionarsi in merito allo Yoga.
      Mi sono così trovato a leggere tutto, ed il suo contrario, per arrivare perfino a leggere di uno "Yoga Cristiano" (ma se non è una religione e non comporta alcun rischio, che senso ha specificare " Yoga Cristiano"???).
      Padre Angelo, ma se lo Yoga comportasse anche solo dei rischi minimi, perchè nei documenti ufficiali della Chiesa non ho trovato alcuna presa di posizione precisa, che tuteli l'integrità di quanti pensano di potervisi accostare senza rischiare niente?
      Mi piacerebbe che ci fosse una chiara presa di posizione da parte della Chiesa....... ma così non mi sembra.
      Sono confuso....... non mi interessa di avere ragione nei confronti di nessuno, sento invece dentro di me, la necessità di avere chiarezza.
      Le sarei grato se potesse farlo Lei, Padre.
     
      La pace sia con Lei.


     
Risposta del sacerdote


      Caro Stefano,
      ti riporto ampi stralci di un editoriale della Civiltà Cattolica (7 aprile 1990, n. 3355, pp. 3-15), la prestigiosa rivista dei gesuiti italiani che ha dedicato all’argomento da te suscitato un editoriale.
      Gli editoriali della Civiltà Cattolica hanno una certa autorevolezza perché passano sempre sotto la revisione della Segreteria di Stato della Santa Sede.
      Come potrai vedere, lo Yoga in se stesso si confonde con la religione induista, nel senso che è un insieme di mezzi per portare alla liberazione dalle reincarnazioni.
      Mentre alcuni dalle nostre parti vorrebbero prendere dallo Yoga solo come un mezzo per giungere all’unione con Dio. Ma anche in questa seconda accezione vi sono moltissimi rischi, come puoi vedere dagli ampi stralci che ti riporto.
      Ti seguo con la preghiera e ti benedico.
      Padre Angelo
     
      L’editoriale ha per titolo: «Yoga» e «Zen» possono aiutare la meditazione cristiana?
     
      1. Lo Yoga per la massima parte degli occidentali consiste in una serie di esercizi fisici e di posizioni del corpo che danno un senso di benessere, di calma interiore e di armonia e giovano a mantenere il corpo giovane e in perfetta salute.
      In realtà, taluni guru orientali, convinti che gli occidentali in generale siano poco propensi a impegnarsi nella durissima e lunga disciplina dello Yoga, e sapendo d’altra parte quale importanza essi attribuiscano all’efficienza e alla salute del corpo, hanno ideato uno «Yoga per gli occidentali», che non è lo Yoga autentico, o meglio, comprende posizioni e tecniche respiratorie che, nell’insieme della disciplina yogica formano la parte preparatoria (detta Hatha-yoga) al vero Yoga (il Raja-yoga, lo Yoga regale). Mentre, infatti, lo Hatha-yoga è lo Yoga del benessere fisico, il Raja-yoga è lo Yoga della consapevolezza e quindi la forma di Yoga più alta, perché mediante essa lo yogin raggiunge l’enstasi. Ci sono certamente molte forme di Yoga, o meglio, tutte le «vie» (marga) indiane della salvezza, che consiste nella liberazione dal samsãra, cioè dalla necessità di rinascere a una nuova esistenza segnata dal dolore e dall’impermanenza, possono servirsi delle tecniche di meditazione insegnate dallo Yoga. Tuttavia, lo Yoga nella sua forma più autentica è quello insegnato nello Yoga-sutra (un’opera attribuita a Pàtañjali, vissuto nel sec. II a. C., ma probabilmente del sec. V d. C.). È di esso che qui parleremo.
     
      2. Lo Yoga è precisamente la disciplina pratica per giungere alla «liberazione». Esso si deve intraprendere sotto la guida di un “maestro” (guru) sperimentato, sia perché si apprende non dai libri, ma dall’esperienza, sia perché solo una guida sperimentata può dire quali pratiche yogiche sono adatte a una data persona. È costituito da otto tappe (anga).
     
      La prima è costituita dalle «astinenze», che sono cinque: la non-violenza, la veracità, il non-rubare, la castità assoluta e la non-avarizia.
     
      La seconda comprende le «osservanze» e sono: la pulizia interna ed esterna, dello spirito e del corpo; il controllo nel mangiare, usando preferibilmente cibo vegetariano; la contentezza, cioè l’essere sempre sereno e tranquillo in ogni circostanza della vita, bella o brutta; l’austerità, che è autodisciplina, penitenza, mortificazione, sopportazione della fame e della sete, del caldo e del freddo, e silenzio interno ed esterno; lo studio assiduo delle Scritture; e, infine, la devozione verso Dio.
      Come si vede, lo Yoga esige una preparazione ascetica estremamente dura. Esso comprende anche la «devozione a Jshvara», ma non è propriamente religioso, nel senso che non ha come fine la purificazione del cuore affinché questo possa aprirsi all’amore e all’azione di Dio. L’ascesi yogica ha solo lo scopo di togliere gli ostacoli che potrebbero impedire allo yogin d’intraprendere il cammino dello Yoga o distoglierlo da esso.
     
      La terza consiste nell’assumere modi di sedere che favoriscono la «meditazione»: devono essere «stabili», cioè immobili, «gradevoli» e quindi facili a prolungarsi, e «adatti» alla concentrazione. La posizione migliore è quella del «fior di loto», che consiste nel mettete il piede destro sulla coscia sinistra e il piede sinistro sulla coscia destra con le piante dei piedi rivolte verso l’alto, nel tenere le mani sulle ginocchia con le palme rivolte verso l’alto o verso il basso, il capo, il collo e il torso ben diritti e in rettilineo, gli occhi chiusi oppure concentrati su un punto, per esempio, sulla punta del naso. Si deve evitare ogni sforzo violento: perciò, lo yogin sceglierà la posizione in cui potrà restare a lungo senza eccessiva fatica.
     
      La quarta consiste nella regolazione del respiro e completa la «concentrazione fisiologica» iniziata con la terza: si tratta di rallentare e ridurre al minimo il ritmo respiratorio, in modo da giungere alla respirazione lenta e tranquilla che si ha nel sonno profondo. Il controllo della respirazione dà calma e tranquillità di spirito. Lo si deve praticare in un luogo calmo, pulito e solitario, accompagnando i movimenti dell’inspirazione-ritenzione-espirazione con la recita di un mantra (nome o formula sacra).
     
      La quinta consiste nel ritirare i sensi dai loro oggetti. I sensi, infatti, trascinano l’uomo ad attaccarsi agli oggetti: ma, «da tale attaccamento nasce il desiderio e dal desiderio sorge l’ira, dall’ira deriva l’offuscamento e dall’offuscamento la turbata memoria, dalla turbata memoria la distruzione della ragione e dalla distruzione della ragione l’ultima rovina». È dunque necessario controllare i sensi con una particolare tecnica di ritrazione, in modo da rivolgerli verso l’interno, cosicché possano venire stimolati solo quando si vuole.
      In tal modo, yogin non è più distratto e attirato dagli oggetti dei sensi, ma è entrato in se stesso ed è perciò pronto a passare alle tappe superiori, puramente mentali. In realtà, più che di tre tappe, si tratta di una sola che a mano a mano si approfondisce, sfociando nell’«enstasi»: essi sono la «concentrazione», la «meditazione» e l’«assorbimento» o «enstasi»
     
      La sesta tappa consiste dunque nella «concentrazione», nel fissare la mente su una cosa sola e nel mantenerla concentrata su di essa. Qualsiasi cosa, interna o esterna, può essere oggetto di concentrazione. Si consiglia di concentrarsi su una parte del corpo, come la punta del naso, lo spazio tra le sopracciglia, l’ombelico, il «loto del cuore», ma si può usare anche un fiore, un’immagine sacra, sempre però controllando il respiro e ritraendo i sensi, e facendo tutto senza rilassamento e divagazione. È essenziale rilevare che la concentrazione yogica non ha lo scopo di concentrare l’attenzione su un oggetto per meglio conoscerlo, ma al contrario ha lo scopo di arrestare la fluttuazione della mente, facendo sì che essa s’identifichi con l’oggetto senza nessun processo d’immaginazione o di ragionamento.
     
      La settima tappa consiste nella «meditazione», che altro non è se non la concentrazione divenuta più intensa e, soprattutto, più prolungata: la mente è talmente fissa sull’oggetto che non è conscia di nient’altro; essa non ragiona sull’oggetto, ma solo lo fissa con un semplice sguardo mentale prolungato, senza sforzo. In tal modo la mente si pacifica, s’immobilizza e si svuota: è quindi preparata, col meditare oggetti sempre più sottili, all’«assorbimento».
     
      Questa (l’«assorbimento») è l’ottava tappa, che si verifica quando l’atto di coscienza coincide con il suo oggetto e si fonde con la natura dell’oggetto meditato ed è così totalmente immerso nell’oggetto che si perde in esso ed è conscio soltanto di esso. È la “liberazione”, poiché, liberato da tutte le limitazioni del mondo fenomenico e da tutti i condizionamenti del corpo e della psiche, lo spirito realizza la propria autonomia e identità originaria, riconoscendosi come identico all’Assoluto. Il Sé può ormai risplendere nella sua piena luce.
     
      Lo Zen non è che la settima tappa dello Yoga: la “meditazione».
      Lo scopo dello Zen è diventare cosciente della propria natura di Buddha. Ognuno possiede tale natura, ma non ne è cosciente. Quando ne prende coscienza, egli si rende conto che quello che egli considerava il suo io non è veramente l’Io nella sua pienezza: l’«illuminazione» consiste precisamente nella «realizzazione del Sé», nel prendere coscienza della propria esistenza trascendente. Non basta, cioè, «essere» Buddha; bisogna prenderne «coscienza».
     
      3. Queste due tecniche di «meditazione» possono aiutare la «meditazione» cristiana? Prima di rispondere a questa domanda, rileviamo che il termine «meditazione» non ha lo stesso significato nel cristianesimo e nello Yoga-Zen.
      Nel cristianesimo la meditazione è uno sforzo di riflessione e di approfondimento delle verità rivelate da Dio fatto in un clima di silenzio e di raccoglimento e ascoltando la Parola di Dio. Fatto alla presenza di Dio, tale sforzo sfocia naturalmente nel colloquio con Lui: la «meditazione», cioè, è preparazione alla «preghiera» propriamente detta e ha senso solo se porta al colloquio con Dio. È, dunque, rivolta «verso l’Altro», verso il Tu di Dio-Trinità.
      Nello Yoga la «meditazione» è la concentrazione intensa e prolungata del soggetto sull’oggetto spinta fino all’«assorbimento» dell’io nell’oggetto. È perciò rivolta «verso il Sé», verso l’immersione dell’io nel Sé e dunque verso un’interiorità «solitaria».
      È quindi un’esperienza «spirituale», ma non «religiosa» né «morale».
      Nello Zen la «meditazione» è lo sforzo di giungere al Vuoto assoluto di pensiero. È, dunque, l’esatto opposto della meditazione cristiana, che è lo sforzo di riflettere sulla Parola di Dio per farla propria, per pensare come pensa Dio.
[SM=g1740733] Meditazione cristiana e meditazione orientale sono, quindi, realtà non solo diverse, ma opposte.
Tanto più che alla meditazione cristiana è essenziale la persona di Cristo nella sua umanità, la quale non è di ostacolo all’esperienza dell’infinito, ma è invece la via che dà accesso alla forma più elevata di tale esperienza; soprattutto, sono essenziali la Croce e la Risurrezione, che sono il criterio ultimo della validità di ogni forma di meditazione.

      A motivo di questa radicale opposizione tra la meditazione cristiana e la meditazione Yoga e Zen alcuni sono nettamente contrari al ricorso, da parte dei cristiani, alla pratica dello Yoga e dello Zen e non ammettono che si possa parlare di «Yoga cristiano» e di “Zen cristiano». Essi sono contrari anche al ricorso alle tecniche meditative dello Yoga e dello Zen, perché ritengono che tali tecniche non siano «neutre», tali cioè che possano applicarsi a qualsiasi religione, ma siano indissolubilmente legate ai sistemi filosofici e religiosi da cui sono state elaborate.
      In realtà, l’opposizione rilevata tra la meditazione cristiana e la meditazione orientale pone il problema se le tecniche meditative dello Yoga e dello Zen possano essere impiegate nella meditazione e nella preghiera cristiana. Poiché lo Yoga e lo Zen sono sistemi di pensiero e di prassi fortemente coerenti, nel senso che tutte le loro parti hanno un posto ben preciso nel raggiungimento del fine e sono indirizzate a raggiungere quello scopo e non un altro, non si vede facilmente come tecniche di meditazione rivolte a raggiungere l’isolamento dell’Io nell’enstasi e il Vuoto mentale assoluto possono essere usate per raggiungere uno scopo totalmente diverso e, anzi, opposto: il «dialogo Io-Tu» del cristiano col Padre e con Cristo, e la «Pienezza» di conoscenza e di amore nella partecipazione alla vita trinitaria.
      Tanto più che i cristiani - in particolare i religiosi e le religiose - hanno a loro disposizione una serie di metodi di orazione elaborati e sperimentati da sante e santi cristiani che hanno raggiunto le più alte vette dell’esperienza mistica: tali metodi non solo non hanno perduto vigore e attualità, ma sono pienamente in armonia col mistero cristiano.

      Tuttavia, non possiamo ignorare un fatto: alcuni, dopo aver praticato a lungo e con serietà lo Yoga e lo Zen, affermano di aver ricavato grandi vantaggi sia per la propria vita interiore e di relazione, sia per la propria preghiera. Non solo hanno imparato a controllare i propri sentimenti, hanno preso possesso quasi perfettamente di se stessi e perciò sono divenuti calmi e spiritualmente liberi; e migliorando la propria capacità di concentrazione, hanno reso di più nel loro lavoro; non solo la loro capacità di comprensione delle cose, diventando meno discorsiva e più intuitiva, è divenuta più profonda; ma la loro vita di preghiera ne ha tratto un grande beneficio, divenendo più tranquilla e recettiva, più attenta e concentrata, quindi più raccolta e più profonda e anche più facile e spontanea. Si tratta però di persone particolarmente preparate teologicamente e spiritualmente e, soprattutto, sane psicologicamente, capaci quindi di cogliere ciò che in tali metodi è positivo, ma anche di vederne le deficienze e i pericoli.
      Per parte nostra riteniamo che, generalmente parlando, coloro che possono trarre veri vantaggi dalle tecniche meditative orientali sono i cristiani di cultura indiana e giapponese, per i quali tali tecniche fanno parte della vita di ogni giorno e per i quali tali tecniche possono essere di aiuto per pregare, non da occidentali, ma da «indiani» e da «giapponesi».

      Abbiamo, invece, forti dubbi che persone di cultura occidentale possono normalmente giovarsi di metodi e tecniche di meditazione che, oltre al fatto d’ispirarsi a concezioni filosofiche e antropologiche radicalmente diverse e anzi opposte, sono nate e si sono sviluppate in culture molto lontane da quella occidentale, per la quale, perciò, tali tecniche non sono «naturali», bensì «innaturali»: tanto che la massima parte del tempo e un enorme impiego di energie devono essere spesi da un occidentale solo per impararle.
     
      A questo proposito, è importante rilevare che quegli stessi i quali hanno fatto serie e prolungate esperienze di Yoga e di Zen, sentono il dovere di mettere in guardia contro i pericoli di tali tecniche. Un benedettino che ha praticato per lunghi anni lo Yoga, J. M. Déchanet, osserva che il Raja-yoga nella sua integrità «è incompatibile con l’essenza del cristianesimo e, senza alcun dubbio, è in contraddizione con l’esperienza dei Santi», ma aggiunge che anche le «discipline» da esso utilizzate controllo del respiro prolungato durante alcune ore, concentrazione intensa e prolungata, visualizzazione dell’oggetto da parte del soggetto fino a identificarsi con esso - «sono pericolose e la più grande prudenza è di regola nei loro confronti». Egli nega perciò che si possa «cristianizzare» lo Yoga, pur ammettendo i «vantaggi incontestabili» che il cristianesimo può ricavare dalle «discipline yogiche», a condizione, tuttavia, che queste non vengano maggiorate, col farne delle tecniche di «ricerca mistica di Dio».

      In realtà, i pericoli a cui si va incontro nell’uso delle tecniche dello Yoga e dello Zen sono molteplici: che si metta tutta la propria attenzione nel praticarle correttamente e si trascuri o si metta da parte il colloquio con Dio: in tal modo tali tecniche diventano un fine da perseguire e cessano di essere un semplice mezzo per una preghiera più profonda; che ci si ripieghi su se stessi, sulla propria persona, sul proprio corpo e ci si compiaccia delle proprie performances fisiche e mentali nell’esecuzione degli esercizi, ritenendo che l’essere bravi in tali esercizi equivalga ad essere cresciuti nello spirito di preghiera; che si confondano i risultati di maggiore tranquillità interiore e più profonda concentrazione e raccoglimento che con tali esercizi si possono raggiungere con gli effetti soprannaturali di santificazione che la preghiera produce nel cristiano e che, generalmente, non sono sperimentabili: che quindi, si creda di pregare meglio, perché si controllano meglio i propri pensieri e i propri sensi e perciò si è meno distratti.
     
Ricordiamo ancora una volta che il valore della preghiera cristiana non dipende né dalla concentrazione, né dall’attenzione, né dalla mancanza di distrazioni, ma dalla fede e dall’amore. Quanto maggiore è la fede e più intenso è l’amore per il Signore e più ardente il desiderio di Lui, tanto più profonda ed efficace è la preghiera. [SM=g1740733]

      A questo proposito è utile richiamare un insegnamento di san Tommaso d’Aquino: chiedendosi se la preghiera debba essere «attenta», egli osserva che l’attenzione è assolutamente necessaria alla preghiera affinché essa raggiunga «meglio» il suo fine; ma affinché sia meritoria ed efficace, non si richiede di necessità l’attenzione per tutta la durata della preghiera, ma basta la prima intenzione con la quale una persona si accosta alla preghiera: «Si deve dunque dire che prega in spirito e verità colui che si mette a pregare per impulso dello Spirito Santo, anche se poi la mente divaga per qualche debolezza, non di proposito» (Summa Theol, II-II, q. 83, a. 13, ad 1 et 3).

      In altre parole, le distrazioni, se non sono volontarie, non impediscono la «preghiera profonda», a condizione che questa nasca e sia sostenuta da una fede viva e da ardente amore: fede e amore che sono doni dello Spirito Santo e che nessuna tecnica umana può meritare e tanto meno produrre, anche se con l’impegno umano ci si può in qualche misura «disporre» a riceverli più abbondantemente e con più frutto.
     
Ma il punto sul quale bisogna maggiormente insistere è un altro. Nello Yoga e nello Zen le tecniche di meditazione sono «necessarie», nel senso che senza di esse è impossibile giungere allo scopo che lo Yoga e lo Zen si propongono; inoltre, le tecniche di meditazione, se sono praticate correttamente, a lungo e con costanza, portano “necessariamente” al raggiungimento dell’obiettivo.

      Invece, nel cristianesimo, i metodi e le tecniche di meditazione e di preghiera sono utili e, nei primi tempi, anche necessari per aiutare e sostenere lo sforzo della preghiera; ma non sono per sé assolutamente necessarie, poiché Dio si può comunicare al cristiano e questi può entrare in contatto con Dio senza l’ausilio di nessuna tecnica particolare.
      A mano a mano, poi, che lo spirito di preghiera e di unione con Dio diviene più profondo, metodi e tecniche di preghiera si semplificano e si riducono fino a scomparire quasi del tutto. La preghiera perde allora ogni carattere complicato e artificioso per divenire attenzione amorosa a Dio e silenzio adorante.
     
Quello che possiamo dire con certezza è che l’esperienza mistica “cristiana” è soprannaturale, è puro dono di Dio, e il suo carattere essenziale è la «passività», cioè il fatto che l’uomo, che Dio per pura grazia ha ammesso alla sua intimità, non può far nulla, ne per causare e coadiuvare l’azione di Dio in lui né per impedirla. Non c’è, dunque, nel cristianesimo nessuna tecnica capace di causare necessariamente l’unione mistica con Dio.

      Siamo qui al punto centrale dell’opposizione tra il cristianesimo da una parte e lo Yoga e lo Zen dall’altra e quindi tra i metodi di orazione cristiani e le tecniche della meditazione orientale: qui l’uomo si salva da sé col suo sforzo; nel cristianesimo l’uomo è salvato da Dio per grazia.


Pubblicato 03.07.2006




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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 l'eccellente contributo di Don Matteo de Meo, esorcista.

SPIRITUALITA' ORIENTALEGGIANTE

Incontrando tante persone e con le storie più diverse , ho notato che una certa mentalità sincretista nella pratica della fede è più diffusa di quanto immaginavo. Ma mi sono deciso a condivider con voi queste riflessioni dopo aver notato in diverse abitazioni di famiglie cattoliche praticanti, la compresenza di vari simboli religiosi soprattutto di matrice orientale. E non mi riferisco a semplici souvenir di provenienza esotica.Ma un immagine di Gesù e al suo fianco il budda, una immagine della Beata Vergine Maria e nel contempo la dea Kalì, o Visnù,…
e tutti debitamente ornati con fiori, incensi o lampade votive ecc…!

Per molti questa modalità è stata attinta frequentando corsì yoga, reiki, o affini,come il Theta heiling. Pratiche in larga diffusione, in cui si scoprirebbe la bellezza e soprattutto il “benessere” della meditazione, della concentrazione, del rilassamento. Ci vuole poco a capire che con una vita frenetica come quella attuale tutto ciò risulta essere molto interessante! Ma non tutti sanno la reale origine di tali pratiche e soprattutto i loro oggettivi contenuti. Ancor più inquietante se per molti cattolici tali pratiche risultano essere compatibili con la fede professata.

E nel richiamare l’incompatibilità di tutto ciò con la fede della Chiesa mi sento continuamente rispondere che le spiritualità sono tutte uguali, tutte buone e che in fondo Dio è uno!
Ma la differenza c è ed è sostanziale! 

Cercherò di essere sintetico ma esaustivo e il più chiaro possibile! Per comprendere bene bisogna innanzitutto partire dal concetto di “spiritualità”!

Allora, qual è la differenza tra la spiritualità e la meditazione cattolica ed i “metodi” estremo orientali di “concentrazione”? La spiritualità cristiana si fonda sulla Fede in un Dio personale e trascendente, Creatore dell’uomo, il quale Lo prega come Padre divino, Lo conosce e Lo ama soprannaturalmente, mediante le Virtù infuse di Fede, Speranza e Carità. Per la Grazia santificante Dio abita realmente e fisicamente nell’anima del giusto. Onde la vita spirituale è conoscenza ed amore reciproco, altruistico e di convivenza tra Dio e l’uomo. Tuttavia Dio è sempre infinitamente distinto dall’uomo, il quale partecipa della vita intima divina in maniera finita e limitata o creaturale. Vi è unione, ma non confusione tra Dio e uomo, che cercherà di conformare la sua volontà a quella di Dio.
Questo è il fondamento della spiritualità cattolica

La filosofia estremo-orientale (induista e buddista) è tendenzialmente panteista ed esoterica o gnosticheggiante, perché identifica l’uomo e la “divinità”. Non concepisce Dio come Persona trascendente il mondo, infinito, immutabile, determinato, Atto puro, Creatore, ma come un “Tutto immanente al mondo” (induismo) o un “Silenzio o Vuoto universale” (buddismo), che non trascende il mondo, ma s’identifica con esso; più che di Dio si tratta di una “vaga divinità” indeterminata, indifferenziata, anonima ed identificata al mondo, che è assorbito in essa. 

●La “preghiera” o meglio la “concentrazione” orientale induista o buddista (che non è una religione, la quale unisce l’uomo a Dio, ma una filosofia immanentistica, naturalistica e panteistica) non è una conoscenza amorosa tra l’uomo e Dio, che sfocia in un colloquio vicendevole “come un Amico parla all’amico” (Sant’Ignazio da Loyola), ma è piuttosto un ripiegamento dell’uomo su se stesso, poiché la “concentrazione” orientale non conosce un Essere distinto dall’uomo e quindi il pensiero umano deve concentrarsi su se stesso, coincidente con la “divinità”, concepita come un “Grande Sé indifferenziato ed impersonale”. 

●Nelle filosofie misteriche ed esoteriche dell’estremo oriente non c’è spazio per una conoscenza amorosa di Dio, in quanto non c’è un Dio distinto dall’uomo; non c’è un colloquio tra uomo e Dio, ma un soliloquio dell’«uomo-“dio”» con se stesso o un’immersione dell’uomo nel Tutto impersonale ed indeterminato. ●Il fine della concentrazione orientale è far prendere coscienza all’uomo di non essere una creatura di Dio, ma una Totalità di identità con la “divinità”. Perciò, concentrandosi l’uomo deve giungere a concepirsi come impersonale e come un amalgama tra mondo, “divinità” e se stesso personalmente inesistente, ossia una particella del Tutto indeterminato. L’annullamento della coscienza della propria personalità, individualità (essere indiviso in sé e distinto da ogni altro) e la coscienza dell’unità con il Tutto o ‘Sé indeterminato’ è il fine ultimo della concentrazione e della filosofia orientale. Il fatto di conoscersi come “individuo”, io, persona è una illusione (“maya”) che l’uomo deve perdere tramite concentrazione, che lo libera così dalla sofferenza (“nirvana”, stato d’indifferenza o liberazione), la quale è la coscienza della realtà oggettiva, che spesso ostacola i desideri dell’iniziato. 

●La preghiera cristiana ci fa prendere coscienza di questa difficoltà e coll’aiuto di Dio ci ottiene la forza di accettarla e sormontarla; mentre la “concentrazione” o “sdoppiamento” orientale ci fa perdere la nozione della realtà oggettiva e ci illude di non essere “illusi”, ossia di essere una parte del Tutto. 

●Un’altra grande differenza tra preghiera cristiana e “concentrazione” orientale è che i metodi orientali sono tecniche puramente umane e naturali di natura psicologica atte a far dimenticare all’uomo la sua individualità e i suoi problemi, portandolo allo stato d’indifferenza o felicità nella propria identificazione col Tutto “dio-mondo”. L’esoterismo è la base e il fondamento della concentrazione orientale: esso è una conoscenza naturale (gnosis) che “salva”, libera o perfeziona l’uomo facendolo giungere alla coscienza della propria identità col «mondo-“divinità”». La Religione cristiana, invece, è la Rivelazione divina alla quale si aderisce per il dono soprannaturale e gratuito della Grazia e della Fede e si vive tramite la preghiera o orazione mentale, con l’ausilio della Grazia divina o soprannaturale. Tra le due vi è una differenza qualitativa infinita, la stessa che intercorre tra la natura e la sopra-natura. Detto ciò anticipo qualcosa sullo Yoga riservandomi di parlarne più diffusamente in un prossimo post!

●Lo yoga è una delle forme più conosciute di “concentrazione”. Essa deriva dalla filosofia orientale induista, mentre lo zen da quella buddista. Tutte e due sono immanentistiche e panteistiche. Ci tengo a precisare che non si ha a che fare con semplici pratiche sportive! Esse sono a tutti gli effetti una sorta di “rito religioso”. Pertanto è importante sapere che le posizioni assunte dal corpo dello yogin (colui che pratica lo yoga) non sono forme ginniche di rilassamento muscolare, ma sono dottrine speculativo-pratiche che servono ad aiutare l’iniziato a giungere a dimenticare di avere un corpo, di essere un individuo distinto da tutti gli altri.
Occorre muoversi e respirare il meno possibile, intervallando il più a lungo possibile l’inspirazione e l’espirazione, sempre per permettere alla coscienza dello yogin di liberarsi dall’impaccio del corpo, che è essenzialmente malvagio, come tutto ciò che è corporeo o materiale (una pista di studio per chi ama la ricerca: qui vede chiaramente l’influsso reciproco tra cabala, manicheismo, gnosticismo, catarismo e filosofie orientali, che ha influenzato non poco anche la filosofia europea antica in Platone e moderna soprattutto in Cartesio e Schopenhauer).
Quindi lo yogin deve astrarre i suoi sensi da ogni oggetto esterno e concentrarli solo su se stesso o il suo pensiero (per chi studia o ha studiato filosofia v. il “pensiero pensato” di Giovanni Gentile). Qui l’iniziato arriva a conoscere direttamente ossia a intuire senza mediazione dei sensi e del ragionamento, come se fosse un angelo, l’essenza di tutte le cose (per i giovani studenti alle prese con la filosofia chiedete al prof qualche parola in merito all’ontologismo di Malebranche, Gioberti e Rosmini).
Infine si arriva all’identificazione del soggetto con l’oggetto (chiedete sempre al prof di filosofia o di lettere v. l’idealismo classico tedesco) per annullare la coscienza dell’oggetto extramentale e rendere il soggetto un oggetto di concentrazione. Il soggetto che coincide coll’oggetto sospende in tal modo ogni desiderio di cose esterne ed è liberato o illuminato.
L’individuo umano è dissolto come una goccia che cade in un grande oceano (v. Nichilismo filosofico post-moderno di Nietzsche, Freud, Scuola di Francoforte e Strutturalismo francese, per gli studenti chiedete sempre al prof di filosofia). 

●Tutti i metodi di “concentrazione” delle filosofie misteriche orientali, sin dall’inizio, tendono a portare l’iniziato ad annullare la coscienza della sua identità di individuo umano, distinto dagli altri, dal mondo e da Dio. I metodi o le tecniche sono una parte integrante della teoria o filosofia immanentistica e panteistica orientale che vuole distruggere nell’uomo la coscienza razionale del proprio io, della propria personalità ed individualità sino al suo assorbimento nel Tutto impersonale o nel Vuoto indeterminato. 

Per questo non si tratta solo di una ginnastica dell'anima, ma ha delle implicazioni e dei fondamenti religiosi molto evidenti. Il dizionario della lingua italiana alla parola Yoga afferma chiaramente: 
"Dottrina filosofica indiana e sistema morale-religioso la cui essenza è la meditazione. Ammette l'esistenza di un'anima primordiale anteriore alla materia e sostiene che dall'unione della prima con la seconda nasca lo spirito della vita. La pratica Yoga consiste quindi in una specie di processo di divinizzazione di chi la segue".

Mi fermo qui per il momento. Credo che ciò sia sufficiente per capire che è altamente sconsigliato per un cattolico abbeverarsi a dottrine incompatibili con la sua fede. In tal modo si espone a non pochi rischi anche spirituali e certamente di grande confusione.

Nel prossimo post cercherò di approfondire la pratica dello yoga nel suo significato oggettivo spesso sconosciuto ai più!
Don Matteo De Meo



 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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