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Il Risorgimento? Una pagina da ristudiare..... La Chiesa vera artefice dell'Unità (2)

Ultimo Aggiornamento: 19/01/2016 20:20
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11/06/2012 11:37
 
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[SM=g1740733] Cari amici,
dopo il successo del trhead dedicato al Risorgimento che trovate QUI, apriamo il nuovo thread in continuazione al precedente per facilitare la lettura... [SM=g1740758]


RISORGIMENTALISTI

 

&

 

ANTI-RISORGIMENTALISTI

 

 

SONO TUTTI QUI

 

 

Unità d’Italia e Risorgimento

una mappa (forse) completa

delle novità bibliografiche

e delle antiche scuole storiografiche

 

Questo avvicinamento di nomi di personaggi politici, che vengon usati come contrasto di ideologie e di interessi, e persino, di vita morale e immorale, non deve meravigliare degli Italiani che posson ricordarsi come Mazzini, cinque volte condannato a morte dal Re di Piemonte, e che Cavour avrebbe impiccato volentieri sopra un molo a Genova, figura nella storia a braccetto con Vittorio Emanuele II e con il suo ministro

(Giuseppe Prezzolini, “America in pantofole”, Vallecchi, 1950)

 

[NOTA DI REDAZIONE: naturalmente questo non vuol essere un “articolo”, ma un extra, un saggio piuttosto “tecnico”, una mappa bibliografica completa che potrà ritornare utilissima al cattolico e all'informatore religioso per orientarsi fra tutti i tentacoli e le esche avvelenate della storiografia risorgimentalista e antirisorgimentalista; e poterne poi parlare con cognizione di causa... raccontando tutta un'altra storia, quella che manu militari è stata taciuta e negata, ma che sovente – come sempre le cose taciute e negate– è quella più vicina al vero. Anche questo è “rendere ragione” della fede, e di quel Dio della Storia, ossia, di quella manzoniana “Mano Invisibile”, che la governa, infine, la storia umana, anche quando sembra scivolargli via, sopprattutto qualora le comparse di queste vicende umane di Dio s'illudono d'averne cancellato il nome, la memoria, la maestà. Così come della sua Chiesa e del suo popolo]

 

 

 

a cura di

Marino Pagano

 

Enrico Cialdini, il feroce sicario dei Savoia e della massoneria. Fu l'autore pluripremiato di vere e proprie stragi terroristiche soprattutto ai danni dei fedeli cattolici. Razziò e sterminò interi paesi

“Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e la Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile”.

A parlare è un futuro presidente del Consiglio, uno dei tanti presunti statisti di questo Paese: il ravennate Luigi Carlo Farini, inviato nel Mezzogiorno da Camillo Benso conte di Cavour, capo dell’ultimo governo del Regno di Sardegna e del primo del nuovo Regno d’Italia.

Siamo nell’ottobre del 1860.

Il 12 dello stesso mese Vittorio Emanuele II di Savoia (che tale dizione conserverà anche dopo l’Unità), nella sua discesa verso il Sud, passa sul fiume Tronto, oltrepassando il confine che separava lo Stato della Chiesa dal Regno delle Due Sicilie. Stato della Chiesa che già era stato invaso e violato nella sua sovranità l’11 settembre, senza alcuna preventiva dichiarazione di guerra, dalle truppe guidate dal generale Enrico Cialdini.

Una stele, in quel di Martinsicuro (Te), celebra ancora oggi il passaggio del re.

Conquistatore? Estensore dei suoi domini? Unificatore? Lungimirante e munifico monarca?

Le scuole storiografiche hanno provato a dare risposte a questo e a tanti altri quesiti che la stagione del Risorgimento ha inevitabilmente scatenato nel corso, ormai, di un secolo e mezzo: i famosi 150 anni che ci separano da quegli eventi e che la Repubblica ha festeggiato in pompa magna negli scorsi mesi (ma non è già una contraddizione in termini che uno stato repubblicano festeggi i sedicenti successi di una politica monarchica? Ad ogni modo, utile la lettura di “Una e indivisibile. Riflessione sui 150 anni della nostra Italia”, un libro che raccoglie gli interventi del presidente Giorgio Napolitano in occasione degli eventi di festa e delle ricorrenze legate all’anniversario).

Nelle pagine che seguono, proveremo a tracciare una breve sintesi delle novità bibliografiche (specialistiche o polemiste che siano) pubblicate negli ultimi tempi, con attenzione anche agli indirizzi classici degli studi sul tema del Risorgimento, nel cui solco spesso si collocano.

 

PIEMONTESI COME I NAZISTI?

“Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali”, saggio divulgativo a firma del giornalista Pino Aprile, è sicuramente stato l’evento editoriale che più ha fatto discutere e interessare gli appassionati. Edito dalla Piemme, il volume non cela il chiaro disegno polemico e pamphlettistico, ribadendo, grazie anche alla diffusione garantita dall’editore, ciò che una pubblicistica non nuova già ha più volte inteso denunciare in merito all’analisi del periodo risorgimentale.

A “Terroni” è già seguito un ulteriore volume di Aprile, dal titolo “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia”, 2011, sempre Piemme.

Aprile s’inserisce nel vasto filone della dura e netta critica rispetto ai processi che portarono all’Unità d’Italia: spesso inveratisi con strumenti di forza, obiettivamente violenti e crudeli, soprattutto quando si trattò di spegnere, con le armi e senza pietà, i bollori briganteschi, non già e non solo di natura criminale, non già e non solo legittimisti, non già e non solo antipiemontesi quanto, più semplicemente, dettati dalle tristi esigenze derivate dalla fame, dai soprusi e dalle angherie che un disegno unitario nato nei ristretti circoli del Nord, elitari e massonici (si legga, su questo, “L’invenzione dell’Italia unita. 1855-1864”, di Roberto Martucci, Sansoni, 1999), non poteva non perpetrare.

Nessuna liberazione dei Savoia dai Borboni, ci dice quindi Aprile.

Anzi, nacque allora un Sud occupato, violentato, spogliato delle sue attività produttive e depredato, in più “senza padri” perché costretto al fenomeno dell’emigrazione, fino ad allora quasi sconosciuto.

Un’Italia che, insomma, è stata fatta anche con il sangue degli italiani stessi.

Tra le faccende più spinose, indubbiamente quella della repressione del brigantaggio.

“Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quel che i nazisti fecero a Marzabotto”, esordisce Aprile, mettendo a paragone, in maniera per noi tutt’altro che azzardata, le disumane condotte dei soldati dell’esercito dei Savoia con le altrettanto feroci rappresaglie delle SS tedesche. Si pensi, in effetti, al massacro di intere città “ribelli”: Pontelandolfo e Casalduni su tutte. Massacro materialmente inflitto da un nome che non è difficile trovare scolpito in più iscrizioni italiche o in titolazioni di strade, quello del già citato generale Cialdini, secondo il quale di quei paesi non doveva rimanere più pietra.

I due centri del Matese distano solo cinque chilometri: tra trucidati nel sonno e fucilati senza processo, i morti furono sicuramente più di un migliaio. Due cittadine completamente rase al suolo.Di quell’eccidio parlò già, con encomiabile coraggio, l’impavido federalista e filosofo Giuseppe Ferrari in Parlamento (dicembre 1861).

Seguirono cent’anni di silenzio nonostante l’efferata ecatombe, l’autentica carneficina. Così come il silenzio coprì l’imbarazzante ipotesi di liberarsi dei prigionieri di guerra del Regno delle Due Sicilie previa deportazione di massa in Borneo, dove s’intese creare una vera e propria Caienna. Doverosa la lettura del saggio “I prigionieri dei Savoia. La storia della Caienna italiana nel Borneo”, SugarCo, 2011, di Michele Novero.

 

UN “ESERCITO” DI REVISIONISTI PER RISCRIVERE IL RISORGIMENTO

A paragonare per primo, in sede di ricerca, le atrocità volte a fermare il fenomeno del brigantaggio alle truci immagini legate al secondo conflitto mondiale fu, negli anni settanta, lo scrittore d’origine lucana Carlo Alianello, in questo senso divulgatore antesignano.

Data già al 1942 il suo romanzo storico e realista “L’Alfiere”, che racconta la storia dal punto di vista di un ufficiale borbonico rimasto fedele all’esercito di Francesco II; al 1972, invece, il celebre “La conquista del Sud” (Rusconi).

Un anno prima, approfondendo le ragioni e le trame economico-sociali, Nicola Zitara, originale e graffiante meridionalista scomparso nell’ottobre di quest’anno, aveva già scritto il suo “L’Unità d’Italia: nascita di una colonia”, per le edizioni Jaca Book.

Ad Alianello si è ispirata un’altra figura storica di ricercatore revisionista: Silvio Vitale, studioso del tradizionalismo cattolico (ma va ricordato, già negli anni ’30, il polemista Alessandro Muzio: siamo negli anni del Fascismo, anni spesso retorici in quanto a culto del mito risorgimentale). Portano la firma di Vitale molti studi e ricerche. Sua anche la rivista “L’Alfiere”, che ancora oggi si pubblica, legata sin dal titolo all’eredità di Alianello.

Numerosi (citiamo senza presunzione di esaurire tutti i nomi) gli studiosi di area cattolica, tradizionalista o comunque, a prescindere dalle disquisizioni ideologiche, decisamente revisionista: Piero Vassallo, Primo Siena, Ulderico Nisticò, Pino Tosca, Gerlando Lentini, Giovanni Cantoni, Marco Invernizzi, Francesco Maria Agnoli, Luigi Copertino, Antonio Pagano, Tommaso Romano, Giuseppe Brienza, Pierfranco Bruni, Gabriele Marzocco, Michele Topa, Corrado Gnerre, Gaetano Marabello, Rocco Biondi, Roberto Maria Selvaggi, Massimo Viglione, Elena Bianchi Braglia, Gianandrea de Antonellis, Rino Cammilleri, Adolfo Morganti, Roberto De Mattei fino anche ad Antonio Socci (“La dittatura anticattolica. Il caso don Bosco e l’altra faccia del Risorgimento”, Sugarco, 2004) e a Franco Cardini, noto e popolare medievista sensibile alle tematiche revisioniste, su cui ha scritto anche il giornalista e scrittore Marcello Veneziani in un capitolo del suo “I vinti”, 2004 (sulla questione meridionale, segnalabile pure “Sud. Un viaggio civile e sentimentale”, 2009, Mondadori come “I vinti”), anche se, spesso, egli ama richiamarsi al Risorgimento come momento culminante della formazione della nazione, pur non riconoscendovi alcuna “favola radiosa e idealistica” (“La Stampa”, 29.8.2000).

 

DANTE FECE L’ITALIA: ALTRO CHE GARIBALDI E COMPAGNI

Stimolante e suggestiva questa citazione di Veneziani (da un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Giornale”, il 1.10.10): “Risorgimentali e antirisorgimentali, mettetevi l’anima in pace. L’Italia non l’ha fatta Garibaldi, e nemmeno Cavour o Vittorio Emanuele. L’ha fatta la geografia, l’ha fatta la storia, l’ha fatta la letteratura. Ma se cercate il fondatore, se avete bisogno di un padre, un Enea per l’Italia, allora quel Fondatore non fu un condottiero, ma un poeta. L’Italia fu fatta da Dante Alighieri”.

Un indirizzo culturale, questo, che, pur con presumibili mutamenti, trae le mosse dall’insegnamento di uomini tradizionalisti e cattolici già dell’800 stesso: su tutti, Giuseppe Spada, storico e cronista delle vicende della Repubblica Romana, Giacinto de’ Sivo, studioso di parte borbonica (suo l’importante “Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861”, ristampato nel 2009 dalle edizioni Trabant di Brindisi) e Giuseppe Buttà (“Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta: memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861”, Napoli, 1883 –seconda edizione, con prefazione di Leonardo Sciascia, Bompiani, 1985- e “I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli”, opera in tre volumi, Perrone, Napoli, 1877).

E che troverà le proprie matrici e sintesi speculative nell’insegnamento di un maestro di pensiero come Augusto Del Noce, tra i maggiori filosofi cattolici del novecento. Del Noce ha riflettuto molto sulla filosofia italiana del Risorgimento, nel suo senso ideologico, messa quindi in relazione con quella della Rivoluzione e della stessa Reazione (“Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione”, Giuffrè, 1993). Ha poi concentrato le sue riflessioni sulle figure di Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti.

 

I BRIGANTI IN MOSTRA: È POLEMICA. SI INFURIA ANCHE IL “MITE GIACOBINO”

Tornando alla storiografia critica, suscitò clamore e polemiche a non finire, nell’estate del 2000, una mostra didattico-fotografica sul brigantaggio e sul Risorgimento, organizzata dal movimento cattolico di Comunione e Liberazione, all’interno del consueto ed annuale cartellone di eventi del Meeting di Rimini.

“Un tempo da riscrivere: il risorgimento italiano” (scritto proprio con la minuscola), il titolo della rassegna. Furono ben sessantasei gli intellettuali italiani che firmarono un durissimo appello (prime firme: Alessandro Galante Garrone, Massimo Salvadori, Nicola Tranfaglia) contro l’impianto culturale della mostra.

“La contestazione dei valori risorgimentali si collega a un rifluire di ideologie reazionarie, di speranze di rivincita di sconfitti della storia, di propositi di erosione dell’assetto democratico della società italiana che devono essere respinti”, era scritto nel documento.

Il giurista Alessandro Galante Garrone fu il più vivace e indignato gendarme della memoria risorgimentale, nel solco della sua formazione storica e saggistica improntata alla più ferma ed assoluta difesa dei principi giacobini (“mite giacobino”, si definiva, invece, egli stesso). Membro della “Société des études robespierristes”, tra i suoi titoli: “Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento”, “I radicali italiani, 1849-1925”, “Un affare di coscienza. Per una libertà religiosa in Italia”, “L’albero della libertà. Dai giacobini a Garibaldi”. Galante Garrone fu allievo di Piero Calamandrei (ma pure di Gaetano Salvemini), uomo di diritto e spirito azionista tra i più attivi, fondatore (nel 1945) della rivista “Il Ponte”, ancora oggi baluardo delle tesi più laiciste, anticlericali e filorisorgimentali.

 

E TRA I CRITICI DELL’EPOPEA RISORGIMENTALE SPUNTA ANCHE MESSORI…

Cattolico è anche lo scrittore di successo Vittorio Messori, spesso intervenuto in senso revisionista su questi temi (“Pensare la storia”, 1992, Sugarco). Ha detto in un’intervista al “Corriere della Sera” (21.9.2010): “Non ho simpatia particolare per don Luigi Sturzo (grande figura per noi da riscoprire di meridionalista cattolico, ndr), ma sto con lui quando, prima ancora dei Patti lateranensi, sintetizzò il giudizio cattolico sul Risorgimento così: l’Unità d’Italia fu un bene, una necessità storica, per raggiungere la quale si è fatto anche molto male. Io non sto con la retorica utopistica del Risorgimento, né con quella antiunitaria, sono un antiretorico”.

Val la pena, continuando, citare a parte le preziosissime ricerche di Angela Pellicciari: “L’altro Risorgimento”, Piemme, 2000; “Risorgimento anticattolico”, sempre Piemme, 2004; “Risorgimento da riscrivere”, Ares, 2007.

“Dal Regno delle Due Sicilie al declino del Sud” è, invece, l’ultimo lavoro del citato Tommaso Romano, edito da Thule. Tese a discutere Garibaldi (caro al politico socialista Bettino Craxi, che lo omaggerà con enfasi in occasione del centenario della morte, nel giugno 1982, come già aveva fatto, nell’anniversario del 1932, Benito Mussolini, da sempre suo ammiratore) sono, inoltre, le ricerche degli storici Francesco Pappalardo e Gilberto Oneto: rispettivamente “Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia”, 2010, edito da Sugarco e “L’iperitaliano. Eroe o cialtrone? Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi”, 2006, pubblicato da Il Cerchio.

Sul nizzardo, interessanti anche “Garibaldi fu ferito. Il mito, le favole”, di Mario Isneghi, edito per i tipi della Donzelli (sulle varie sfaccettature imposte al simbolico personaggio nel corso degli anni);“Garibaldi. L’invenzione di un eroe”, della storica inglese Lucy Riall, Laterza, 2007; il dissacrante “Contro Garibaldi. Quello che a scuola non vi hanno raccontato”, di Luca Marcolivio, Vallecchi, 2010 e “L’epopea infranta. Retorica e antiretorica per Garibaldi”, di Massimo Onofri, Medusa, 2011.

Da citare anche il saggio, a più voci e a cura di Pasquale Chessa, dal titolo “Se Garibaldi avesse perso. Storia controfattuale dell’Unità d’Italia”.

Nel 1990, nelle sedi istituzionali, sarà invece il parlamentare dell’Msi Angelo Manna a portare avanti con vivo slancio retorico le tesi revisioniste. Giornalista di razza, noto inviato del “Mattino” di Napoli, ruspante meridionalista, è rimasto negli annali per l’interpellanza, rivolta all’allora ministro della Difesa Giovanni Spadolini, con cui chiedeva la definitiva apertura degli archivi militari per la storia del Risorgimento e della repressione del brigantaggio, messa in atto, disse nell’imbarazzo dei suoi colleghi di gruppo “risorgimentalisti”, dalla “soldataglia piemontese ai danni delle popolazioni, per lo più inermi, delle usurpate province meridionali dal tempo della camorristica conquista di Napoli”.

 

IL RISORGIMENTO “CATTOLICO” CHE, PERÒ, PRESTO DIVENTA “LIBERALE” (IN REALTÀ, MASSONICO E PROTESTANTE)

Ma la questione cattolica, come si vede, è fondamentale per percepire i nodi più delicati del periodo risorgimentale. Non può negarsi come l’esigenza di tradurre in istituzione politica unitaria la già consolidata unità spirituale degli italiani si manifestò sin dalla fine del XVIII secolo, con l’invasione giacobina e napoleonica (1796, 1799).

Giovanni Gentile, ammiratore di Mazzini, filosofo conservatore ma non tradizionalista, riconobbe con onestà che fu già la spontanea insorgenza dei cattolici antigiacobini a destare le coscienze unitarie (lo ha ricordato egregiamente Piero Vassallo sulle pagine della rivista “Meridiano Sud”, il 31.10.10, seguendo anche il tracciato di antichi studi: si pensi a quelli del titolare torinese della cattedra di Storia del Risorgimento già negli anni ‘20 e ‘30, il pioniere Francesco Lemmi, cattolico: “Le origini del Risorgimento italiano”, 1925; “La politica estera di Carlo Alberto nei suoi primi anni di regno”, 1928. Altro storico pionieristico fu Michele Rosi, docente di Storia del Risorgimento a Roma e direttore di un “Dizionario del Risorgimento nazionale”, 4 volumi, Vallardi, 1930-37).

Il Risorgimento, dunque, nasce in gran parte cattolico e Pio IX, benedicendo l’Italia, approva e incoraggia l’insorgenza contro gli “illuminati” invasori europei, spingendo verso la nascita di una federazione degli Stati cattolici. Ma arrivano ben presto il 1848 e Clemente von Metternich, “continuatore anacronistico della tradizione ghibellina e interprete rigoroso dell’ideologia antiromana strisciante alla corte di Vienna” (ancora Vassallo).

Fu allora che entrarono in gioco poteri forti ed iniziatici e il Risorgimento cattolico si trasformò in Risorgimento “liberale”. Da Gioberti, Manzoni e Rosmini a un’unità guidata da massonerie, sette protestanti e governo inglese, che da sempre agivano contro la storia italiana (sul ruolo dei protestanti, ineludibile il saggio “Risorgimento e protestanti”, Mondadori, 1989 -nuova edizione, Claudiana, 1998- di Giorgio Spini, famoso storico azionista e di manifesta ispirazione e fede valdese. Sui britannici, interessante, di Nello Rosselli, Einaudi ’54, “Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847” ).

Carlo Alberto chiama al potere una minoranza davvero ristrettissima tra la popolazione: quella dei massoni, carbonari e liberali (si vedano: Pier Luigi Baima Bollone, “Esoterismo e personaggi dell’Unità d’Italia”, Priuli e Verlucca, 2011 e il precedente “Il Risorgimento esoterico”, di Cecilia Gatto Trocchi, Mondadori, 1996) .

 

LA SCELTA DEI SAVOIA: PRENDERSELA CON SANTA ROMANA CHIESA

Nasce così, con la scelta del Savoia, quella particolare forma di “odio alla Chiesa di Roma” che, come ha sostenuto Angela Pellicciari, fu la vera anima ideologica del Risorgimento.

Gli atti del parlamento piemontese del 1848 registrano un violento e scientifico piano teso a devastare la cristianità piemontese e a depredare i beni del clero (le terre ecclesiastiche, come si sa, una volta espropriate, spesso furono rivendute a bassissimo prezzo a proprietari senza scrupoli: a risentirne fu, ovviamente, la classe contadina, ridotta pressoché alla fame).

Piano che sarà poi continuato da Vittorio Emanuele II, re cosiddetto “galantuomo”, celebre per aver definito “vile et infecte race de canailles” (“vile e infetta razza di canaglie”) le innumerevoli vittime della carneficina di Genova, la città che, nel 1849, agitata da spiriti repubblicani, si ribellò alla casa regnante. La repressione militare del generale Alfonso La Marmora fu spietata. Pratiche note dei Savoia: si pensi al futuro 1898 e ai crudi atti di Umberto I (a sua volta detto “il re buono”) e Bava Beccaris a Milano. “Ella ha reso un grande servigio al Re e alla patria”, telegrafò al famigerato generale il garibaldino e presidente del Consiglio, Antonio di Rudinì.

La questione cattolica rimane, quindi, centrale.

Lo spirito italiano è cattolico e, non a caso, “Pio IX e Leone XIII, in decine d’interventi, ribadiscono che è grazie alla presenza della sede di Pietro a Roma, è grazie alla fede cattolica della popolazione, che l’Italia ha potuto continuare a svolgere un ruolo di assoluta preminenza dopo la scomparsa dell’Impero romano” (da Angela Pellicciari, “Risorgimento ed Europa”, testo edito da Fede e Cultura, 2008. Sul tema utilissimi anche: “L’Unità d’Italia. Centocinquant’anni: 1861-2011. Contributo di un italiano cardinale a una rievocazione multiforme e problematica”, volume a firma del porporato Giacomo Biffi, edizioni Cantagalli di Siena, 2011; “La fragile concordia. Stato e cattolici in centocinquant’anni di storia italiana”, di Andrea Tornielli, Rizzoli, 2011; “L’Unità d’Italia e la Santa Sede”, dello storico e padre gesuita Giovanni Sale, Jaca Book, uscito sempre nel 2011 e “Risorgimento e identità italiana. Una questione ancora aperta”, del teologo e storico, nonché vescovo di San Marino, Luigi Negri, pure Cantagalli, 2011).

Su questi temi, degno di attenzione il saggio-editoriale dello storico Giampaolo Romanato, dal titolo Dopo 150 anni, i cattolici per l’Italia unita”, apparso sulla rivista “Vita e Pensiero” (settembre-ottobre 2010), storica rassegna culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

 

SULL’ORIGINE CATTOLICA DEL RISORGIMENTO CI SONO PARERI DISCORDANTI

L'opera di Vittorio Messori sul beato Faà di Bruno: ottimo cattolico, cittadino esemplare ed operoso nella Torino savoiarda... e nonostante ciò duramente angariato dagli anticlericali massonici che avevano preso il potere e conquistato l'Italia

Si pone in aperta alternativa ai cattolici il giornalista Massimo Teodori, di area radicale, libertaria e anticlericale, nel saggio “Risorgimento laico. Gli inganni clericali sull’Unità d’Italia”, Rubbettino, 2011.

Il testo sembra ricalcare la stessa linea esposta in un’opera del lontano 1958 dal noto pubblicista liberale Vittorio Gorresio, redattore de “Il Mondo”, diretto da Mario Pannunzio, quest’ultimo, a sua volta, emblematicamente direttore anche del quotidiano “Risorgimento liberale”, nome del tutto non casuale.

L’opera di Gorresio, “Risorgimento scomunicato”, è stata ripubblicata, prima per i tipi delle edizioni Bompiani nel 1977 e poi per “La Zisa”, nel 2011, con prefazione del filosofo Gianni Vattimo dopo l’originale edizione con Parenti (Firenze).

Un dato appare però evidente: la massoneria internazionale e italiana avranno avuto un ruolo se, nel dicembre 1861, la prima assemblea costituente delle logge eleggerà Gran Maestro il fido collaboratore diplomatico di Garibaldi, Costantino Nigra, acclamando in più il capo dei Mille come primo libero muratore d’Italia.

Dirà e riconoscerà dal suo punto di vista Piero Gobetti, nel testo “L’eresia del Risorgimento”, del 1921: “Tutte le idee prevalenti nella penisola son cattoliche o cristiane (Gioberti, Manzoni, Mazzini). Solo le minoranze politiche, sicure del loro compito storico, sentono più forte di tutti il dovere della fedeltà allo stato e credono alle nuove esigenze economiche”.

[SM=g1740771] continua.....


[Modificato da Caterina63 14/05/2015 12:28]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/06/2012 11:39
 
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GLI INTERESSI BRITANNICI E QUELLI PIEMONTESI. MA IL PIEMONTE VOLEVA DAVVERO L’UNITÀ D’ITALIA?

Ma si accennava agli interessi britannici. Riassumendoli: il mantenimento del controllo sulle miniere siciliane di zolfo, l’irritazione per lo sviluppo della flotta borbonica, così come delle industrie manifatturiere napoletane, il malumore per i rapporti amichevoli tra il regno e l’impero russo e poi il decisivo: fermare la Francia attraverso l’unificazione dell’Italia.

Già, l’Unità. Ci sarà qualcuno a ricordare, nel gaio tempo delle feste, che, tanto per dirne una, la seconda Guerra d’indipendenza fu fatta soprattutto per conquistare il Lombardo-veneto e che il concetto di Unità d’Italia ai Savoia non interessò quasi per nulla, almeno fino al 1859?

Dove risiederebbe, dunque, l’illuminata monarchia? Il Piemonte non voleva unificare un bel nulla ma solo allargare il Piemonte stesso. Verità banali che, pur passando ancora quasi per eresie, appartengono solo alla storia (interessante la lettura de “Il Regno del Nord”, di Arrigo Petacco, Mondadori, 2010). Cavour, inoltre, era contrarissimo all’idea che fosse Garibaldi a “liberare” Napoli perché, ove ciò fosse avvenuto, diceva, “il sistema rivoluzionario prenderà il posto tenuto dal partito costituzionale monarchico”.

Due risorgimenti? Uno socialista (Mazzini e Garibaldi, pur con tutte le differenze tra i due), l’altro liberale (Cavour) e un altro ancora monarchico (i Savoia?).

Forse. Ma tutti, certo, anticattolici.

Dice e chiede bene Alberto Maria Banti, sul quotidiano “Il Foglio” (11.12.2010): “Che cosa vogliamo celebrare esattamente? Il Risorgimento moderato o quello democratico? Quello monarchico o quello repubblicano? Lo Statuto albertino o la costituzione della Repubblica Romana?”.

Ci sarà mai qualcuno dotato di quel coraggio che, nel lontano 1927, fece dire al tenace filosofo contrario a Croce Lorenzo Giusso che fu nient’altro che la cultura giacobina ad unire moti del primo ottocento e Risorgimento (nel testo “Le dittature democratiche dell’Italia”)?

 

SE SUL MERIDIONE SCRIVONO QUELLI DEL NORD…

I veli, fortunatamente, cadono ed ecco che occorre, necessariamente occorre, battere sulla consapevolezza di una storiografia sì di revisione ma pure profondamente meridionalista perché, come ben si sa, c’è stato un tempo in cui anche il meridionalismo (se così possiamo definirlo) non era fatto da meridionali ma da uomini della ricca borghesia del Nord. Si pensi a nomi come Arcangelo Ghisleri, Stefano Castagnola, Stefano Jacini, Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino. Dopo, solo dopo verranno Pasquale Villari, Giustino Fortunato, Napoleone Colajanni, lo stesso Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Antonio De Viti De Marco, Antonio Gramsci, don Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Michele Viterbo, Manlio Rossi-Doria .

C’è anche da riconoscere come il livornese Franchetti e il lucano di Rionero in Vulture Fortunato abbiano fondato assieme l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, ente culturale e morale meridionalista (primo presidente onorario fu il Villari).

Grandi intellettuali e politici, talvolta, i su citati, anche in contrasto tra loro: si pensi alla polemica occorsa, tra Salvemini e Fortunato da una parte e Nitti dall’altra, in merito alle cifre del disavanzo del Sud rispetto al Nord e ai relativi danni cagionati dall’unificazione del Paese.

I primi due arrivarono ad accusare il Nitti di aver falsificato i dati.

Egli, infatti, aveva denunciato con vigore, per primo in un’opera sistematica, le responsabilità, anche di tipo meramente economico, della classe dirigente post-unitaria nei ritardi del Sud, soprattutto nell’opera “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97. Prime linee di un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle spese e delle entrate dello Stato in Italia”, Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1900 -con un’edizione ridotta dal titolo “Nord e Sud”-.

Si veda, su questo, il volume “1912. La questione meridionale”, Palomar 2005, che raccoglie integralmente uno speciale “Quaderno della Voce”, uscito appunto nel 1912, della celebre rivista diretta da Giuseppe Prezzolini, dedicato alla questione meridionale con scritti dei già citati Fortunato, Nitti e Salvemini, ma anche di Giuseppe Cuboni, Agostino Lanzillo, Roberto Palmarocchi, Guglielmo Zagari, Alberto Caroncini, Giuseppe Donati, Gennaro Avorio, Ettore Ciccotti, Luigi Einaudi.

 

ALTARINI SCOPERTI. PER UNA REVISIONE SENZA COLORI

Come si è visto e si vedrà, non sono pochi, onestamente, i nomi di chi, serenamente e senza revanchismi di sorta, sta rivedendo e ha rivisto, ridiscusso ciò che si credeva acclarato, privando l’epoca risorgimentale della comoda coperta d’epopea e facendo tornare umani, troppo umani i supposti miti (di “Risorgimento senza eroi” parlava proprio Gobetti, in un’opera postuma pubblicata nel 1926).

Negli ultimi mesi ed anni, ad esempio, come non citare le opere di Gigi Di Fiore, già al “Giornale” di Montanelli ed oggi apprezzato opinionista del “Mattino”?

Da “Gli ultimi giorni di Gaeta”, Rizzoli, 2010 (Gaeta come momento di vero eroismo: cadde solo per inferiorità tecnologica), ai precedenti ed essenziali “Controstoria dell’Unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento”, Rizzoli, 2007; “1861, Pontelandolfo e Casalduni: un massacro dimenticato”, Grimaldi & C, 2005; “I vinti del Risorgimento”, Utet, 2004.

Altre opportune citazioni ci sembrano quelle dei lavori: “La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione”, di Patrick Keyes O’Clery, Ares, 2000; “O Roma o morte. Pio IX e il Risorgimento”, di Paolo Gulisano, Il Cerchio, 2000; “Dossier brigantaggio. Viaggio tra i ribelli al borghesismo e alla modernità”, di Francesco Maria Agnoli, Controcorrente, 2003; “Due Sicilie 1860. L’invasione”, di Bruno Lima, Fede e Cultura, 2008; “1861. La storia del Risorgimento che non c’è sui libri di storia”, di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, Sperling e Kupfer, 2010.

Né il tema è politico. La revisione non ha colori, né recinti, ed ecco Antonio Ciano e Valentino Romano, apprezzati interpreti della storiografia antirisorgimentale da sinistra.

Divulgatore infaticabile degli aspetti più violenti del periodo, il primo (“I Savoia e il massacro del Sud”, 1996, Grandmelò edizioni), fervido indagatore e topo d’archivi, il secondo (“Nacquero contadini, morirono briganti”, 2010, Capone;“Le Brigantesse”, 2009, Controcorrente; a sua cura anche la ristampa del testo dello scrittore francese Alexandre Dumas “Cento anni di brigantaggio”, 2009, parziale pubblicazione delle ricerche del romanziere sul tema, edizione promossa ancora da Capone).

 

SUI BRIGANTI, LE BRIGANTESSE… E SU TUTTA LA QUESTIONE MERIDIONALE

Sulle cosiddette brigantesse da segnalare: “Il canto delle pietre. Briganti e brigantesse nella letteratura dei vinti e il destino di Maria Sofia”, opera a più voci (G. Picardo, N. de Giovanni, M. Cavallo, M. Bruni, P. Bruni, I. Rauti) e “Il bosco nel cuore. Lotte e amori delle brigantesse che difesero il Sud”, di Giordano Bruno Guerri, Mondadori, 2011.

Sul fenomeno dei briganti anche, di Raffaele Nigro, romanziere e studioso, “Il brigantaggio postunitario. Dalle cronache al mito”, per l’editore barese Adda .

Ricercatore rilevante è Lorenzo Del Boca: su tutti il suo “Maledetti Savoia”, Piemme, edito già nel 1999, ma anche “Indietro Savoia. Storia controcorrente del Risorgimento”, di nuovo Piemme, 2003.

Non nasconde l’intento commerciale, purtroppo, il meno brillante “Maledetti Savoia, Savoia benedetti”, firmato a quattro mani nientemeno che con il rampollo Emanuele Filiberto di Savoia (Piemme, 2010).

Nel 2011 ha invece pubblicato “Risorgimento disonorato”, edizioni Utet.

Una netta critica al processo d’Unità appare, ancora, nel libro del giornalista barese, ex direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, Lino Patruno, “Fuoco del Sud. La ribollente galassia dei movimenti meridionali”, Rubbettino, 2011. Il volume dedica molto spazio all’esame di più realtà d’indirizzo storiografico, culturale e politico meridionalista.

Il giornalista e politico barese Federico Pirro, con “Uniti per forza”, Progedit 2010, ha pure detto la sua, in maniera analitica e sferzante al tempo stesso, sul periodo risorgimentale.

Più neutro, ma anche piuttosto corrosivo nell’evidenziare i limiti di ogni leggenda “nera”, nordista o meridionalista che sia, è Romano Bracalini, col suo “Brandelli d’Italia”, Rubbettino, 2010.

Approfondisce la questione meridionale anche lo storico docente a Palermo, ma di origini senesi, Salvatore Lupo, nel suo equilibrato “L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile”, Donzelli, 2011 (recensito con coraggio, sulle pagine del “Corriere della Sera”, da Paolo Mieli –“I moderati oltranzisti che piegarono il Sud”, 7.9.11-).

Una pietra miliare è lo studio “Mezzogiorno e questione meridionale. 1860-1980”, dello storico salernitano Francesco Barbagallo, Guida, 1980.

Davvero interessante, freschissima di stampa, l’opera “Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni di Napoli e Sicilia”, del prolifico storico Gianni Oliva (Mondadori, 2012).

E come non ricordare, inoltre, le sintetiche ma utili pubblicazioni di Gianni Custodero, per anni giornalista culturale della “Gazzetta del Mezzogiorno”: “Storia del Sud. Dai normanni ai Borboni”, 2001; “Borboni & Briganti: Intervista con Gianni Custodero”, scritto con Silvano Trevisani, 2005; “Il mistero del brigante”, 2008, editi tutti da Capone.

Sui Borboni, piace segnalare anche un saggio apparso sulla rivista pugliese “Studi Bitontini”, nel 1997 (n.62), vergato da Giuseppe Planelli: “Un problema storiografico: la leggenda nera dei Borboni delle Due Sicilie”.

 

C’È ANCHE UN INTERESSE CATTOLICO MENO CRITICO E LA SINISTRA CHE LEGGE IL RISORGIMENTO COME RIVENDICAZIONE SOCIALE

L’area cattolica, nei decenni, ha saputo però dividersi.

Oltre ai tradizionalisti, non è mancata, anzi ha sperimentato robusta incisività, una componente meno critica e più conciliante, d’impostazione liberale o democratica: Arturo Carlo Jemolo, Ettore Passerin D’Entrèves, Gabriele De Rosa, Giorgio Rumi, Pietro Scoppola. Attribuibili ai loro nomi (come si vede, nomi prestigiosi e accademici della storiografia e del pensiero) notevoli pubblicazioni su temi più vasti come il ruolo dei cattolici nella vita italiana post-unitaria o il rapporto Stato-Chiesa.

Anche l’area di sinistra, cronologicamente in parallelo agli studi d’impostazione tradizionalista, ha “scoperto” il tema del brigantaggio e dei soprusi alle genti meridionali, in un’ottica, però, strettamente rivendicativa e sociale (interessante, in tal senso, il numero speciale sul Risorgimento della storica rivista “Il Calendario del Popolo”, diretta ed edita da Sandro Teti, uscito per il centocinquantenario. Ricordiamo, inoltre, che nonostante l’immagine garibaldina scelta dal Fronte popolare nel ’48 per presumibili ragioni di tipo propagandistico, in realtà, lo stesso Palmiro Togliatti leggeva nel periodo risorgimentale impronte reazionarie).

I nomi più noti, tutti appartenenti all’impronta gramsciana: Franco Molfese, Franco Della Peruta (suo il recente lavoro “Il giornalismo italiano del Risorgimento”, Franco Angeli, 2011), Antonio Lucarelli, Tommaso Pedio, Giorgio Candeloro (a sua cura la monumentale “Storia dell’Italia moderna, undici volumi, Feltrinelli, 1956-1986), Ernesto Ragionieri, Francesco Gaudioso, Carlo Coppola, Salvatore Scarpino e Rosario Villari (il cui fratello Lucio ha dato alle stampe, per Laterza, il volume “Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento”, 2010).

In particolare, di Molfese, davvero una pietra miliare la sua “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, edita già nel lontano 1966 da Giangiacomo Feltrinelli. Un anno dopo, per Longanesi, ecco, di Mario Monti, l’imponente “I briganti italiani”, in due volumi (citato col Molfese per la mole del lavoro, ma dalla ben differente impostazione rispetto allo storico gramsciano).

Sul brigantaggio, utile anche, di Aldo De Jaco, “Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’Unità d’Italia”, Editori Riuniti, 1969

Nonché, di Salvatore Scarpino, già autore di “Tutti a casa terroni” (Camunia, 1979), l’opera “La guerra «cafona». Il brigantaggio meridionale contro lo Stato unitario”, edita da Boroli molto più tardi, nel 2005.

Tommaso Pedio, invece, fra i tanti studi, ha curato l’edizione della storica “Relazione Massari” sul brigantaggio (nel 1982, per le edizioni Lacaita di Manduria, Ta).

 

IL BRIGANTAGGIO “VERA IMMONDIZIA DI PLEBE”: PAROLA DEI FILOGOVERNATIVI. LA LEGGE PICA

Giuseppe Massari, tarantino, oppositore politico del regime borbonico esule in Piemonte, fu relatore della commissione governativa sul caso dei resistenti al Sud. Fu ascoltata soltanto la voce dei filogovernativi e mai quella dei briganti carcerati o delle vedove degli uccisi.

Su di lui, nel 2011, lo storico barese Nico Perrone ha editato, per Rubbettino, il suo “L’agente segreto di Cavour. Giuseppe Massari e il mistero del diario mutilato”. (A proposito di agenti, si veda anche l’illuminante diario di Filippo Curletti: “La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia. Rivelazioni di J. A., antico agente secreto del conte Cavour” (ripubblicato da Solfanelli nel 2010).

Il brigantaggio venne così declassato a volgare delinquenza comune, magari fomentata dai sostenitori dei Borboni. “Vera immondizia di plebe”, per tacere di tanti altri epiteti: questi erano i briganti per la commissione.

Nascerà da qui la famigerata legge Pica (promossa da Giuseppe Pica, deputato abruzzese: ancora una volta meridionali illustri e agiati in opposizione a meridionali poveri e disgraziati) contro gli insorgenti, pubblicata il 15 agosto 1863.

 

PER GRAMSCI, IL RISORGIMENTO È RIVOLUZIONE PASSIVA. MA NON TUTTI SONO D’ACCORDO

Antonio Gramsci, nella sua analisi, privilegia gli aspetti classisti del brigantaggio, rispetto a quelli patriottici o religiosi. Ma il suo ruolo è stato storicamente fondamentale nel creare la necessaria pluralità ideologica attorno ai temi d’indagine e revisione sui fenomeni post-unitari.

Donzelli ha dato alle stampe nel 2010 un volumetto che raccoglie tutti i testi del sardo sul tema risorgimentale (tratti dai Quaderni del Carcere e dalle pagine della rivista “Ordine Nuovo”), dal titolo “Il Risorgimento e l’Unità d’Italia”, a cura dello stesso Carmine Donzelli, editore e brillante intellettuale, fondatore dell’omonima casa editrice.

Operazione simile da parte della Einaudi, con la raccolta gramsciana “Il Risorgimento e l’Unità d’Italia”, sempre del 2010.

Le edizioni milanesi Mind hanno, invece, pubblicato alcuni testi di Gobetti e Gramsci nell’opera “Sul Risorgimento”, 2011, a cura di Enrico Mannari.

“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti”: celebri queste parole del pensatore comunista, tratte da un articolo intitolato “Il lanzo ubriaco” (edizione piemontese dell’“Avanti!”, 18.2.1920). Il Risorgimento appare come “rivoluzione passiva”, termine che Gramsci prenderà in prestito da Vincenzo Cuoco e che adotterà nell’analisi e definizione di più fenomeni storici e politici. I limiti, a suo parere, furono in gran parte degli intellettuali mazziniani, supini e appiattiti di fronte alla monarchia e impotenti rispetto alla necessaria (e latente) spinta rivoluzionaria.

Alle conclusioni gramsciane s’opporrà con forza il lavoro di ricerca di Rosario Romeo, biografo di Cavour e storico dalla formazione liberale classica, che negherà, nel saggio “Risorgimento e capitalismo” (1959), la possibilità di una rivoluzione agraria nell’Italia meridionale.La proprietà contadina familiare, per i gramsciani (si ricordino le ricerche di Emilio Sereni) un lascito feudale, per Romeo non fu un ostacolo ma un sostegno allo stesso sviluppo industriale. Lo storico siciliano, esponente del Partito repubblicano e successivamente acuta firma culturale del “Giornale”, considerava le tesi gramsciane delle pure teorie, probabilmente suggestive, ma come tali intrise di ideologia e non fondate sulla ricerca storica. Romeo, incorreggibile difensore della Destra storica, scrisse le sue impressioni, molto spesso, sulle pagine di “Nord e Sud”, famosa rivista meridionalista fondata da Francesco Compagna, politico e ministro d’ascendenza liberale e repubblicana.

 

MASSE, EROI O FORZE REAZIONARIE: CHI FURONO I VERI PROTAGONISTI DEL RISORGIMENTO?

Il tema dell’assenza delle masse contadine nel percorso risorgimentale (già denunciato da pensatori classici del marxismo e del socialismo come Antonio Labriola e Rodolfo Mondolfo) sarà affrontato da Franco Della Peruta, noto come “il marxista innamorato di Mazzini” (“Corriere della Sera”, 9.5.2004), di cui ricordiamo, nel 1973, lo studio “Democrazia e socialismo nel Risorgimento”. Aveva detto, del resto, ben prima, Giuseppe Ferrari: “Non vale parlare di Repubblica se il popolo sovrano muore di fame”.

Per l’allievo di Gioele Solari e liberale di sinistra Piero Gobetti, già incontrato in queste pagine, nelle lotte risorgimentali mancò comunione tra il popolo e le classi che mossero gli eventi. Scrisse, come si è visto, “L’eresia del Risorgimento”, nel 1921, e, nel 1924, il famoso saggio “Rivoluzione liberale”.

Il Risorgimento fallisce nell’incapacità di rendere le masse “soggetti attivi sulla scena della storia”. Nel citato “Risorgimento senza eroi”, salverà soprattuttoCarlo Cattaneo e Cavour.

Il socialista Gaetano Salvemini, nello studio “Le origini della reazione”, pubblicato per la prima volta sulla rivista “Critica sociale” e poi, nel 1932, sui “Quaderni di Giustizia e Libertà”, metterà in evidenza come le forze “reazionarie”, legate alla monarchia piemontese, abbiano prevalso, nell’immaginario, rispetto alla figure di Mazzini, Garibaldi, Ferrari e Cattaneo (del pensatore e politico molfettese, nel 1961, uscì la raccolta “Scritti sul Risorgimento”, edizioni Feltrinelli).

 

RIDIMENSIONARE MAZZINI? SÌ, NO, FORSE…

Resterà poco noto, tre anni dopo, un acceso dibattito sul Risorgimento, che coinvolgerà i più noti intellettuali della sinistra liberalsocialista e azionista. Il confronto, tra la fine di marzo e il maggio del 1935, avrà luogo sulle pagine di “Giustizia e Libertà”, organo del movimento omonimo fondato a Parigi, nel ‘30, dall’antifascista Carlo Rosselli. La discussione prende le mosse da un articolo del socialista libertario Andrea Caffi, in cui si sosteneva come il mito “scolastico” del Risorgimento avesse ormai fatto il suo tempo e come bisognasse ridimensionare il valore di Mazzini (su cui, a tal proposito, segnaliamo il testo “L’apostolo a brandelli. L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo”, edito da Laterza nel 2010, a firma di Simon Levis Sullam).

Le sue tesi scatenano la discussione, provocando la reazione di Franco Venturi, Umberto Calosso e dello storico inglese Josilyn Oswald Griffith, filomazziniani. D’accordo con Caffi sarà invece Nicola Chiaromonte, suo discepolo e interessante figura di filosofo e politico, successivamente collaboratore di Ignazio Silone.

Intermedia la posizione di Carlo Rosselli: distinguerà il mito falso del Risorgimento, cercando però di salvaguardarne la portata collettiva e popolare.

 

CROCE, GENTILE E, INFINE, LA DESTRA “ERETICA”: TUTTI A FAVORE DEL RISORGIMENTO E DEI SUOI “EROI”

Continuando il nostro percorso, passiamo all’area liberale più moderata, rappresentata da Benedetto Croce, che si limita a collocare il Risorgimento nelle vicende europee dell’800, secolo da lui approfonditamente scandagliato in più opere, in un quadro nettamente positivo, come espressione della continentale tensione alla “religione della libertà”.

Negli stessi anni, anche la destra intellettuale esprime i suoi rilievi.

Giovanni Gentile, filosofo dell’idealismo e ministro, scrisse, nel 1923, un’opera capitale: “I profeti del Risorgimento italiano”, in cui evidenzia un’unica matrice tra Risorgimento e Fascismo, all’insegna del mito “religioso” della nazione (sul tema, converrebbe leggere l’ottimo “Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista”,di Massimo Baioni, Carocci, 2006). Mazzini, Garibaldi, De Sanctis, Rosmini, Cavour, Cuoco e Gioberti, dunque, nei loro propositi di dignità e unità, conducono all’esito fascista.

Gentile insiste sulla figura di Mazzini e sul suo pensiero, appunto, “religioso”, tema che fu di Gaetano Salvemini già in una pubblicazione del 1905 dedicata al famoso genovese.

Uomini illuminati, quelli di Gentile, espressione di minoranze elitarie che, se per Gramsci e per i critici del processo, anche della destra d’ispirazione cattolica, resteranno la causa prima del problema, per lo storico Gioacchino Volpe consisteranno nella “vera aristocrazia morale della nazione” (suo il saggio “L’Italia in cammino”, del 1927, ripubblicato, nel 1992, da Laterza).

Per non parlare, oltre che dei nazionalisti di Enrico Corradini, della vasta corrente dei fascisti “eretici” mazziniani, rivoluzionari e sansepolcristi: Delio Cantimori (illustre storico che da Gentile s’avvicinerà poi al Pci, da allievo del gentiliano di sinistra Giuseppe Saitta), Berto Ricci, Sergio Panunzio (molfettese d’origine socialista, preside della Facoltà di Scienze Politiche a Perugia, poi allontanatosi dal regime al momento delle leggi razziali del 1938), Armando Casalini. Ancora oggi, presso pubblicazioni di una destra eretica e dal vago sapore massonico-reghiniano, non è raro leggere sperticati elogi all’epopea garibaldina (si pensi al piccolo saggio dal titolo “Le basi dell’unità politica della nazione italiana”, apparso, a firma di Roberto Sestito, sulla rivista “Novum Imperium”, nel marzo del 2011 –ma la rivista accoglie nelle sue pagine anche visioni e conclusioni ideologiche dal differente tenore-).

 

L’ASSIMILAZIONE FASCISMO-RISORGIMENTO È POSSIBILE? PER ALCUNI NO

All’opposto di Volpe (contro di lui, sul quotidiano romano “Il Tevere”, si era già scagliato il fascista intransigente Telesio Interlandi, secondo cui l’idea di continuità col Risorgimento negava originalità al Fascismo) la visione del cavourriano Adolfo Omodeo: il Fascismo tradisce il sano spirito liberale del miglior Risorgimento (“L’età del Risorgimento italiano”, Vivarium, 1931; “Difesa del Risorgimento”, 1995, Einaudi, postumo).

Nella critica alla posizione pessimista di Gobetti, tacciò quest’ultimo di “orianesimo”, con riferimento allo scrittore Alfredo Oriani, controverso autore de La Lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale”(Torino, 1892), per il repubblicano Giovanni Spadolini (autore a sua volta di una sterminata produzione bibliografica e giornalistica sulle vicende risorgimentali, spesso in relazione alla presenza cattolica), invece, “il massimo interprete del Risorgimento”.

Luigi Salvatorelli, storico del cristianesimo e poi attivo polemista azionista, autore di un’opera come “Pensiero e azione del Risorgimento” (Einaudi, 1943), pure confuterà l’assimilazione Risorgimento-Fascismo.

Tra Croce, Gentile e Volpe, si colloca la lezione dello storico Walter Maturi, dal 1948 al 1961 professore ordinario di Storia del Risorgimento all’Università di Torino. Suo il citatissimo “Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia”, pubblicato postumo, per Einaudi, nel 1962.

Fu nel 1936, intanto, in pieno regime, che nacque l’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, sulle ceneri della vecchia Società Nazionale per la Storia del Risorgimento (sorta, nel 1906, per volontà dell’allora ministro della Pubblica istruzione e futuro presidente del Consiglio, Paolo Boselli).

 

IL RISORGIMENTO È UN “MIRACOLO”?

La tradizione nazionale di Gioacchino Volpe vede oggi un coerente erede nella figura di Domenico Fisichella, docente ed ex ministro, autore del testo “Il miracolo del Risorgimento”, Carocci, 2010. Leggiamo: “Il Risorgimento è un miracolo perché prodotto e produttore di un discorso di dignità”, “espressione, formulazione di una nuova, inusitata tradizione, quella dell’unità della Nazione”. Il Risorgimento appare così come discontinuità: “La tradizione risorgimentale, dunque, è la tradizione della modernità, mentre la tradizione dell’eccesso regionalistico e localistico è tradizione della vecchiezza”.

Una corrente in cui hanno avuto un ruolo anche giornalisti e divulgatori di cose storiche per il grande pubblico: Indro Montanelli (quasi ancestralmente legato all’epoca: Giuseppe Montanelli, politico e scrittore federalista, era un suo avo), Mario Cervi, Marcello Staglieno.

Pur nel rifiuto di ogni dimensione convenzionale, il Risorgimento è comunque il momento in cui si compie l’unità del Paese, con protagonista la casa regnante dei Savoia, del tutto (o quasi) assolta da eventuali misfatti compiuti (è la linea anche dello storico e pubblicista Francesco Perfetti o, in maniera ancora più partigianalmente giustificante, di Aldo Alessandro Mola, ricercatore monarchico e giolittiano, esperto di massoneria).

Convinti elogi alla Destra storica, malgrado ogni feroce, inumana repressione verso le genti del Sud, arrivano da Giorgio Ruffolo, economista ed ex ministro di provenienza socialista, nel suo “Un Paese troppo lungo”, Einaudi, uscito sempre nel 2010.

 

CRITICHE ALLA DESTRA STORICA. E IL CINEMA DICE PURE LA SUA

D’altro avviso Raffaele Romanelli, autore del prezioso volume “L’Italia liberale. 1861-1900” (Il Mulino, datato 1990): “Gli intellettuali e i politici della Destra storica avevano un distacco culturale e politico prima ancora che biografico con la nazione che governavano”.

Critico su più aspetti del Risorgimento e sulla guerra al brigantaggio è, invece, l’altrove citato Giordano Bruno Guerri, storico e giornalista appartenente all’area della destra liberale e libertaria: suo “Il sangue del Sud”, Mondadori, 2010.

Tornando all’ala idealista e repubblicana, e ai suoi attuali risvolti, va ricordato un altro filone, spesso anche di natura letteraria ed artistica, ultimamente in vigore e ripresa. Ci riferiamo al notevole successo di critica del film “Noi credevamo”, di Mario Martone, tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice Anna Banti (1967). Oppure ad un altro romanzo, “I traditori” (Einaudi, 2010), a firma dello scrittore e magistrato tarantino Giancarlo De Cataldo (non a caso sceneggiatore del film di Martone), che però, in più interviste, ha sottolineato come non possa cancellarsi il fatto che “nei discorsi di Mazzini per convincere dei ragazzi al martirio si colgano echi inquietanti”.

A proposito di film, coraggioso, anni fa (1999), fu il regista Pasquale Squitieri, ancor più di rottura col suo “Li chiamarono… briganti!”, inevitabilmente sospeso nelle sale e ritirato dal commercio. Discusso e non meno coraggioso, nel 1972, il regista Florestano Vancini, con “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”, sui tristi fatti dell’8 agosto 1860 (e dunque sulle chiare responsabilità criminali di Garibaldi e Nino Bixio), ispirato alla novella “Libertà” di Giovanni Verga e realizzato con la collaborazione di Leonardo Sciascia alla stesura della sceneggiatura (anche lo scrittore di Racalmuto, in numerosi interventi, ha espresso dure critiche sulle modalità attraverso cui fu conseguita l’Unità d’Italia, che egli riteneva chiaramente negative per il Sud).

 

ORGOGLIOSI DELL’UNITÀ D’ITALIA. MA MICA TANTO

Assai didascalico e deludente, con tratti di aperta superficialità, ci è parso, invece, il libello del giornalista del “Corriere della Sera” Aldo Cazzullo, dall’emblematico titolo “Viva l’Italia” e dal programmatico sottotitolo: “Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione” (della Resistenza come “secondo Risorgimento” ha sempre parlato la cultura antifascista di stampo azionista).

Un disegno, quello dell’autore, sul filo del tifo e non della ricerca.

Nella prefazione, affidata al cantautore Francesco De Gregori, si riesce a leggere: “E la stessa casa Savoia non seppe forse rinunciare in qualche modo a se stessa in nome di un sogno che sembrava impossibile, e combattere insieme al popolo per la riunificazione di un’Italia che si voleva ridotta a pura espressione geografica?”.

Al centro di polemiche tra storici e giornalisti anche le riflessioni del già citato studioso Alberto Maria Banti, autore del volume “Nel nome dell’Italia”, Laterza, 2010. L’ottica è contraria al nazionalismo: Banti si oppone al ricordo del Risorgimento perché convinto che, “pur non avendo causato il Fascismo”, quel periodo ha dato al regime mussoliniano “una parte essenziale dei suoi simboli e dei suoi valori”. Da qui numerose critiche da parte, tra gli altri, di Giovanni Belardelli, Lucio Villari, Massimo Salvadori (di cui è uscito, nel 2011, per Laterza, “L’Italia e i suoi tre stati. Il cammino di una nazione”), Ernesto Galli della Loggia (a sua difesa, invece, Giovanni Sabbatucci). La discussione è apparsa sulle pagine de “Il Foglio”, in più interventi nel dicembre 2010, a cura di Marina Valensise, secondo cui il merito di Banti è di aver superato l’impostazione dello storico valdostano Federico Chabod sull’idea di nazione, “in cui si distingueva il nazionalismo cattivo alla tedesca, nativista e reazionario, dal nazionalismo democratico, alla francese, iniziato con le rivoluzioni del XVIII secolo e continuato nel Risorgimento italiano”.

Da leggere, per rimanere alle opinioni di storici apprezzabili e profondi, il libro-intervista, a cura di Simonetta Fiori, di Emilio Gentile, Laterza 2011, “Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento”.

Diceva il politico britannico Benjamin Disraeli –la citazione ci sembra opportuna, giunti al termine delle nostre divagazioni- che “il mondo è governato da personaggi ben diversi da quelli creduti da coloro che non sanno guardare dietro le quinte”. A molti italiani, per tanto tempo, è stato impedito di poter guardare dietro le quinte della spacciata verità.

Massimo Taparelli, marchese d’Azeglio, ad esempio, passa per essere stato un padre della patria, eppure, al solo pensiero di unirsi a Napoli, rispose che sarebbe stato “come mettersi a letto con un vaioloso”.

A patrioti così, soprattutto da meridionali, sarebbe più giusto preferirne altri di segno diverso. Uno di questi, futuro presidente della Repubblica italiana, piemontese di Carrù (Cn), ebbe l’animo di dire e riconoscere: “Sì, è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo stato italiano dopo la conquista dell’Unità e dell’indipendenza nazionale, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale, con la conseguenza di impoverire l’agricoltura, unica industria del Sud; è vero che abbiamo spostato molta ricchezza dal Sud al Nord con la vendita dell’asse ecclesiastico e del demanio e coi prestiti pubblici”.

Parole di Luigi Einaudi, statista.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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14/05/2015 12:30
 
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DON ALBERTARIO

Don Davide Albertario arrestato

 



I moti di Milano del 1898 si ricordano per il nome di Bava Beccaris. Il generale massacrò trecento civili che protestavano per l'aumento del prezzo del pane. Fra gli arrestati ci fu don Davide Albertario, direttore dell'Osservatore Cattolico. Non fu la prima né l'ultima vittima cattolica del Regno unitario.



di Matteo Borghi



A sentirlo così il termine “Moti di Milano” a molti suggerirà poco o nulla. Qualcuno, sbagliando, penserà si stia parlando delle Cinque giornate di Milano del 1848, mentre a qualcun altro non si accenderà proprio nessuna lampadina. Tant’è che a Milano, nei giorni scorsi, non le ha ricordate nessuno a parte un consigliere di zona, Alessandro Giacomazzi, che sabato ha deposto una corona sotto Porta Ticinese.

A suggerire qualcosa è semmai il nome di Fiorenzo Bava Beccarisdiventato, col tempo, un simbolo per non dire quasi una personificazione della repressione violenta. Siamo nel 1898 e la popolazione di Milano è allo stremo: il prezzo del grano è passato in breve da 35 a 60 centesimi, a causa di un raccolto andato male, della guerra ispano-americana che ha alzato i costi di importazione e delle imposte. Povertà e disoccupazione interessano ampi strati della popolazione e, come non bastasse, la politica è a dir poco latitante: il ministro delle Finanze Luigi Luzzatti, ad esempio, invece di destinarli a scopi sociali ha deciso di spendere i 17 milioni di lire di avanzo primario del bilancio statale del 1897 per infoltire la burocrazia e supportare il settore bancario.

Come conseguenza le rivolte scoppiano in tutta Italia, dalla Puglia all’Emilia Romagna, per poi culminare a Milano fra il 5 e il 9 maggio. Di fronte ai manifestanti che, al massimo, lanciano qualche pietra (altro cheblack bloc) l’esercito al comando di Bava Beccaris reagisce con la forza - scariche di fucileria, ma anche cannonate - provocando decine di morti: 88 secondo le stime ufficiali, più di trecento secondo più affidabili osservatori indipendenti.

La vulgata comune vuole che siano tutti anarchici, socialisti o repubblicani ed invece no: fra loro c’è un numero cospicuo di cattolici. Il loro ispiratore è una figura interessante quanto dimenticata: si tratta di don Davide Albertario, direttore dell’Osservatore Cattolico, quotidiano radicato sul territorio lombardo sul quale, al termine dei Moti, scrive: «Il popolo vi ha chiesto pane e voi avete risposto piombo». Frase per cui viene processato e condannato a tre anni di carcere e mille lire di multa, con l’accusa di essere fomentatore della protesta. Ne sconta uno a seguito del quale esce fiaccato nel fisco e nell’animo: ritorna al timone del proprio giornale che deve però lasciare, nel 1901, all’allievo Filippo Meda. Muore un anno dopo, ad appena 56 anni.

A conti fatti Albertario è una delle vittime di una repressione violenta e ingiustificata. Basti pensare che a fronte di trecento manifestanti falciati sul selciato, i morti fra le forze di sicurezza sono solo due: uno si spara inavvertitamente, l’altro viene fucilato dopo essersi rifiutato di sparare sulla folla.

D’altro canto la sua figura è emblematica del trattamento irriguardoso che i cattolici ricevettero dallo Stato unitario dalla breccia di Porta Pia, che con la forza privò il Pontefice del proprio territorio, fino ai primi anni del Novecento in cui i cattolici furono di fatto esclusi dalla vita politica (certo in parte fu una autoesclusione a seguito del Non Expedit di Pio IX, ma di certo il Regno d’Italia non fece nulla per includerli).

Ma ancor di più la sua figura è il simbolo dell’oblio in cui, troppo spesso, cadono i cattolici. Così come nei Moti di Milano è spesso dimenticato il loro ruolo nel corso della Prima Guerra Mondiale, di cui si può leggere e ascoltare un interessante dibattito storiografico su Radio Vaticana, così come dimenticato è il ruolo dei partigiani “bianchi” (come le Brigate Fiamme verdi) durante la Seconda Guerra Mondiale. In pochi ricordano l’eccidio di Porzus del febbraio 1945 in cui 17 partigiani della Brigata Osoppo vennero sterminati dai partigiani comunisti, alleatisi con gli iugoslavi. Così come non ci si ricorda degli 80 preti uccisi dai partigiani comunisti e di Rolando Rivi, seminarista ammazzato nel “Triangolo della morte” (nel modenese) dopo tre giorni di brutali torture, con l’accusa di essere una spia fascista. Aveva appena quattordici anni.

Come allora assistiamo oggi, esterrefatti, all’incessante massacro di cristiani: un massacro di fronte al quale, al di là di qualche denuncia sollevata di tanto in tanto, gli Stati occidentali non sanno reagire con la dovuta fermezza.

Certo si tratta di vicende molto diverse e forse metterle tutte insieme può apparire avventato. Ad accomunarle è però l’oblio in cui, nel tempo, sono cadute. I morti cattolici, troppo spesso, si dimenticano in fretta. 




DIZIONARIO
La copertina del Dizionario del liberalismo italiano
 

Risorgimento laicista? No, fu opera anche del pluralismo cattolico-liberale. Pensatori cattolici come Rosmini e Manzoni ebbero chiarissimo il nesso tra proprietà privata, libertà economica e libertà religiosa.  Se ne discuterà domani, 13 maggio, a Milano, alla presentazione del Dizionario del liberalismo italiano

di Maria Gabriella Riccobono

La recentissima pubblicazione di un grande Dizionario del liberalismo italiano in due tomi (Rubbettino editore) induce a una rivisitazione dell'avventura cattolico-liberale ottocentesca. Mai il fiore della cultura cattolica umanistica fedele alla Chiesa ha espresso posizioni politiche tanto variegate quanto nel periodo risorgimentale. Per non citare che alcuni tra i maggiori: padre Gioacchino Ventura di Raulica (1792-1861), gesuita e poi, dopo la soppressione di quest'ordine, teatino, i sacerdoti Vincenzo Gioberti (1801-1852), piemontese, Antonio Rosmini (1797-1855) nato in Trentino e piemontese di adozione, Raffaello Lambruschini (1788-1873) toscano di adozione, lo studioso e scrittore dalmata Niccolò Tommaseo (Sebenico, 1802-Firenze 1874) e il sommo scrittore milanese Alessandro Manzoni (1785-1873) si impegnarono a vario titolo in prima persona, durante i moti antitirannici del 1848, in favore della indipendenza, della unificazione italiana e della instaurazione di un ordine politico liberale.

Gioacchino Ventura era stato inizialmente conservatore e contrario alla soppressione del maggiorascato perché lo spezzettamento della proprietà avrebbe dato luogo alla disgregazione della «società domestica»; così aveva di fatto caldeggiato la rendita in luogo della imprenditorialità e del lavoro di tutti, proprietari-imprenditori, operai e contadini. Successivamente, convinto della funzione primaria della proprietà privata (una «donazione» consacrata dal Vangelo — ma «donazione a titolo oneroso»), propugnò gli enti intermedi tra individuo e Stato. Decentralizzare divenne la parola d'ordine. Allo Stato attribuiva soltanto i poteri militare e giudiziario e sosteneva, felicemente, i limiti di quello legislativo. Lo Stato non ha il diritto di intervenire sulle società naturali presenti in esso, a partire dalla famiglia, né di ledere i diritti di quelle «famiglie sviluppate» che sono i corpi intermedi né di ostacolare la libertà d'insegnamento. Lo Stato deve limitarsi a vigilare che i Pastori della Chiesa e i Comuni non trasformino l'insegnamento in veleno morale e politico. 

Vincenzo Gioberti, leader intellettuale e carismatico del neoguelfismo cattolico, influenzò profondamente il clima del Risorgimento italiano con l'opera Del primato morale e civile degli italiani. Il cristianesimo, di cui la Chiesa cattolica è custode fedele e Roma, sede del papato, centro di diffusione dall'Italia all'Europa intera, sono il vero principio dell'unità italiana. L'Italia deve riprendere la sua missione di civiltà all'interno della storia dell'umanità e anzitutto dell'Europa. Antigesuita e repubblicano, si procurò l'inimicizia degli ambienti cattolici e delle autorità ecclesiastiche più conservatrici. In concreto Gioberti vagheggiava una federazione di Stati italiani che avesse a capo il Papa e della quale il Piemonte (il Regno di Sardegna) costituisse lo strumento secolare, specie ai fini della sicurezza dei cittadini all'interno e della protezione delle frontiere. L'attacco sferrato contro Rosmini nel voluminoso Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (1841-43) gli procurò anche l'inimicizia di parecchi cattolici fedeli alla Chiesa, ma favorevoli al costituzionalismo politico e all'iniziativa piemontese. Dopo la repressione delle sollevazioni patriottiche del 1848 (basti pensare alle Cinque giornate di Milano) Gioberti comprese che le sue concezioni neoguelfe erano illusorie: il Papato non si sarebbe messo a capo dell'unificazione nazionale e tale compito spettava al Regno di Sardegna. 

Ventura e Gioberti, fino al '48, erano giunti a pensarla all'unisono: solo una confederazione, non una fusione, dei diversi Stati italiani con i loro sovrani legittimi presieduta del Sovrano Pontefice avrebbe garantito, allo stesso tempo, sia la cultura cattolica del popolo sia la tradizione e la storia del Paese. Ventura prese le distanze, molto fermamente, dal progetto piemontese cui era approdato da ultimo Gioberti e dall'accettazione del fatto compiuto di Rosmini. Quest'ultimo fu vicino, con moderazione, alle idee di Gioberti. Su instanza di questo era andato a Roma per proporre a Pio IX un concordato con la Santa sede e stabilire una Confederazione di Stati italiani con a capo il Papa. Pio IX però, nell'aprile 1848, abbandonò la guerra contro l'Austria, motivando la decisione con alte parole: il Papa, capo al contempo della Chiesa universale e di uno Stato italiano con poteva farsi coinvolgere in una guerra contro un altro Paese cattolico. Ancor prima che gli eventi precipitassero, per i moti insurrezionisti di stampo mazziniano che sfociarono nella creazione della Repubblica romana, il regno di Sardegna cominciò a perseguire la politica di separazione tra Chiesa e Stato. Rosmini, come il  suo amico Alessandro Manzoni ebbe chiarissimo il nesso che rende indisgiungibili la proprietà privata, la libertà economica e le libertà delle singole persone (libertà religiosa, libertà di espressione, uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge). La proprietà privata è l'esatto contrario di quel che andavano dicendo socialisti ed economicisti puri: essa è uno strumento di difesa della persona dall'invadenza dello Stato. Per altro verso, la Chiesa è il rimedio principale contro la tirannia dello Stato alle libertà civili.

Raffaello Lambruschini predicò che «le istituzioni politiche sono un mezzo e non un fine» e che  «L'uso della libertà economica è scuola all'uso della libertà politica». Pedagogista insigne, si impegnò nella diffusione presso il popolo di tecniche agricole atte a migliorare e razionalizzare lo sfruttamento della terra. Collaborò intensamente con l’élite dei liberali toscani cattolici e non (Gino Capponi, Cosimo Ridolfi, Bettino Ricasoli Giuseppe Montanelli e Silvestro Centofanti, questi due ultimi fervidi federalisti giobertiani) che si adoperavano fattivamente per la istituzione di scuole di mutuo insegnamento, d’arti e mestieri, di casse di risparmio, di asili infantili e rivista di stampa periodica. Fu egli pure un federalista affiatato con il Primato di Gioberti, ma spesso fu ingiustamente accusato di essere filo-piemontese. 

Niccolò Tommaseo, cattolico fervente e tuttavia proclive al disordine sessuale, legato da amicizia saldissima a Rosmini e a Manzoni, si trasferì nel 1827 a Firenze per lavorare come collaboratore fisso all'Antologia di Viesseux e strinse amicizia con il fiore dei liberali toscani sopra menzionati. Nello scritto Dell’Italia (1835) indicò come possibile soluzione del problema italiano una forma di repubblica federale a base fortemente cattolica, il che lo colloca in una posizione singolare e originale tra l’area del federalismo democratico (il cui maggiore esponente fu Carlo Cattaneo) e il federalismo cattolico di Gioberti. Antipiemontese intransigente, dopo l’elezione di Pio IX si recò a Roma per visitare il Papa. Era mosso, come il suo grande amico Ozanam (fondatore della Società San Vincenzo de' Paoli) dalla speranza di una riscossa popolare sostenuta dal Papa e ispirata dalla fede cattolica. Nel libro Rome et le monde, composto nel 1850 e pubblicato a Capolago nel 1851, afferma coraggiosamente la necessità, per il Papa, di rinunziare al potere temporale e di farsi nuovamente servo di tutti i servi della terra, trasferendosi di popolo in popolo e dedicandosi evangelicamente all’esercizio della carità.

Alessandro Manzoni, di gran lunga il più importante tra i cattolici liberali italiani del sec. XIX, dopo il matrimonio con Enrichetta Blondel e la conversione di entrambi a un cattolicesimo fedelissimo alla Chiesa e tinto di giansenismo, si dedicò con spirito imprenditoriale moderno all’agricoltura, al fine di mettere in valore le eredità pervenutegli, e molto apprendendo dal colloquio diretto con i contadini. Coltivò anche delle specie allora poco usate e studiò con attenzione le «forme di rapporto con fittavoli e operai applicate al suo tempo». Tracce degli studi allora intrapresi sull’economia di mercato si trovano negli appunti contenuti nel quadernettoDell’economia politica nei suoi rapporti con la religione cattolica, scritti tra il 1818 e il 1823 e nelle memorabili pagine dei Promessi sposi (cap. XII) circa la carestia e gli effetti perversi del calmiere sulla farina e sul pane. Temperamento assai schivo, Manzoni si tenne sempre lontano dalla politica attiva pur non occultando i propri ideali indipendentisti e liberali, bene armonizzati con la sua profonda fede cristiana. 

I Promessi sposi uscirono per la prima volta in tre tomi entro il giugno 1827 (edizione Ferrario, antecedente alla revisione linguistica toscaneggiante del 1840-42) e ottennero enorme successo. Per la prima volta assurgono al ruolo di protagonisti della narrativa di livello supremo personaggi del popolo costretti a fronteggiare avversità riconducibili all’assolutismo politico cieco e alle conseguenze efferate di un assetto sociale basato sui privilegi dell’aristocrazia e di altri corpi e caste. L’autore dona risalto, con ironia volterriana, alle barriere sociali, e adombra le virtù della libertà economica e il primo delinearsi della mobilità sociale. Il "gran romanzo" esercitò una influenza enorme, patriottica, indipendentista e politicamente modernizzatrice (all'inglese) sulle coscienze degli Italiani non analfabeti. Contrario alle idee neoguelfe, Manzoni fu favorevole alla soluzione piemontese.  

Nel 1860 ricevette le visite di Cavour e di Garibaldi. Nel 1861, nominato senatore, partecipò alla seduta del senato in cui Roma fu proclamata capitale d'Italia. L'esempio dato da una personalità ortodossa e moralmente superiore, la quale godeva di prestigio mondiale, contribuì a rasserenare le coscienze dei cattolici italiani al cospetto della "breccia di Porta Pia" e della fine del temporalismo dei papi; e contribuì, per altro verso, a far sì che le voci dei cattolici più legati alle istituzioni politiche di ancien régime, assolutiste se non tiranniche, non avessero il sopravvento nell'ormai variegatissimo panorama del cattolicesimo di tardo Ottocento; pur accusando lo Stato italiano di aver compiuto un abuso illegittimo, le più alte gerarchie ecclesiastiche reagirono a quell'abuso in maniera mite e non tale da creare solchi troppo profondi all'interno dell'unico popolo italiano.

La presentazione letteraria del Dizionario del liberalismo italiano (1912-1915) si terrà mercoledì il 13 maggio 2015 dalle ore 15. nella Sala Napoleonica della Università statale di Milano, in via Sant'Antonio 10 (MI).

   

Maria Gabriella Riccobono è docente di Letterature comparate, Università degli Studi di Milano





[Modificato da Caterina63 14/05/2015 12:32]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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30/05/2015 01:00
 
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Il contributo dei cattolici al processo di unificazione

Come la Chiesa si reinventò dopo l'unità d'Italia

 

di LUCETTA SCARAFFIA

Sarà dal 24 marzo in libreria la raccolta di saggi, curata da Lucetta Scaraffia, I cattolici che hanno fatto l'Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all'Unità d'Italia (Torino, Lindau, 2011, pagine 251, euro 23). Anticipiamo ampi stralci dell'ultimo capitolo scritto dalla curatrice. Allo stesso tema è dedicata la mostra "Un'amicizia all'opera. La santità piemontese nella Torino dell'Unità" promossa dal centro culturale Pier Giorgio Frassati, in collaborazione con il consorzio Beni culturali Italia, e aperta dal 21 marzo al 10 maggio a Torino, a Palazzo Barolo.

Nel settembre 1860 le monache del monastero delle clarisse di Monteluce di Perugia vedono la loro vita tranquilla sconvolta dall'arrivo dei piemontesi, e lo narrano spaventate nel loro Memoriale: "Tornato il sullodato padre quasi correndo dal Vescovado ci annunziò che a momenti si doveva partire per andare in altro monastero dovendo in breve arrivare l'armata piemontese che si sarebbe qui accampata. Immagini ognuno il disturbo, la confusione, lo sbigottimento di tutte noi".
Altre clarisse entrate successivamente nello stesso monastero, il 24 maggio 1915, al momento dell'entrata in guerra dell'Italia scrivono sempre sul Memoriale: "L'ora terribile è suonata e la guerra tanto temuta e scongiurata con tante preghiere fatte dì e notte è stata dichiarata dal nostro re Vittorio Emanuele III all'Austria (...) mentre un esercito si batte per la patria, noi pregheremo per essi e la preghiera affilerà le armi loro e le renderà robuste".

È una testimonianza, questa, del cambiamento di atteggiamento dei religiosi cattolici in poco più di cinquant'anni nei confronti della nuova nazione italiana, una prova di come, in un tempo relativamente breve, sia avvenuto un capovolgimento della situazione: da una forte contrapposizione iniziale a una sostanziale condivisione. È stato solo un adeguarsi alla realtà per ragioni di forza maggiore, oppure, fin dall'inizio, il rapporto così conflittuale fra nuovo Stato e Chiesa cattolica ha conosciuto una storia più complessa e in fondo più positiva di quella a cui spesso è stata ridotta?
I problemi da affrontare erano di due tipi, entrambi gravi e complicati: da una parte la Chiesa, con la sua realtà di Stato territoriale che occupava il centro della penisola, si opponeva di fatto alla sua unificazione, dall'altra le condizioni di assoluto privilegio di cui il clero e tutte le istituzioni ecclesiastiche godevano all'interno degli Stati peninsulari erano incompatibili con i principi liberali, e ancor di più con quelli democratico-mazziniani che animavano il movimento risorgimentale.
Il problema è stato affrontato dagli storici cattolici solo nella seconda metà del Novecento, con un atteggiamento sostanzialmente comprensivo verso le esigenze di formazione del nuovo Stato e la necessità della modernizzazione liberale: storici come Traniello, Scoppola, Rumi, Martina, hanno preferito guardare al cattolicesimo più favorevole alla modernizzazione, più vicino alla nuova entità nazionale, dimenticando l'intransigenza e la separazione che hanno segnato - se pure con intensità diversa - gli anni che vanno dall'Unità alla prima guerra mondiale.

Ma nel frattempo la storiografia cattolica, spesso anche interna alle stesse congregazioni religiose, ha avviato un interessante allargamento degli studi alla storia delle congregazioni di vita attiva nate nell'Ottocento, protagoniste di importanti interventi sociali nell'Italia appena riunificata, che hanno permesso di guardare al problema da un punto di visto più informale e positivo di quello del rapporto fra le istituzioni. Inoltre, negli ultimi decenni, è nata anche una storiografia cattolica tesa a recuperare in positivo le ragioni dell'intransigenza, descrivendo però il processo unitario in modo piuttosto unilaterale e negativo, cioè come una dura e violenta sopraffazione delle ragioni della Chiesa e dei cattolici da parte del nuovo Regno. Non si deve dimenticare, però, che il contributo di questo gruppo di storici è stato determinante per riaprire il dibattito e far conoscere la realtà di un processo storico in gran parte rimosso.
Certo, nei confronti della Chiesa lo Stato sabaudo fu ingiusto e prevaricatore, negandole la libertà proprio quando la concedeva a tutti, ma oggi studi recenti offrono la possibilità di una nuova sintesi interpretativa più equilibrata, come quella avviata da Andrea Riccardi, che pure ha riconosciuto che "l'intransigenza è stata qualcosa di più che una serie di battaglie contro nemici esterni: ha realizzato una ricomposizione profonda della Chiesa dopo la sua emarginazione dai quadri istituzionali". La Chiesa si ricentra su Roma e sul papato, e così si ricostruisce e si rafforza in una dimensione mondiale invece di spezzarsi in segmenti nazionali.

Quasi sempre, questi studi hanno mantenuto una prospettiva strettamente nazionale, senza prendere in considerazione il fatto che la costituzione del nuovo Regno d'Italia, con la fine del potere temporale della Chiesa, ha determinato un cambiamento sostanziale di una istituzione universale, che avrebbe poi coinvolto, nel giro di pochi anni, il cattolicesimo mondiale.
In sostanza, si può affermare che lo stretto legame fra Italia e sede del Papa provocò un positivo effetto di modernizzazione e di spiritualizzazione della struttura ecclesiastica che ebbe benefici effetti sullo stato del cattolicesimo nel mondo. Un vero esempio di eterogenesi dei fini, dal momento che i molti nemici della Chiesa pensavano invece che, privata del potere temporale, la Chiesa sarebbe scomparsa.

Non è un caso che, nell'Inghilterra dell'inizio Novecento, esca per la penna di Robert Benson, intellettuale anglicano appena convertitosi al cattolicesimo, un romanzo che si può definire di fantascienza religiosa dove si immagina che Roma sia rimasta sotto il dominio del Papa, in un'Italia unificata. Il protagonista, un sacerdote cattolico inglese, arriva a Roma e la trova ferma a vent'anni prima: "Il mondo aveva camminato molto: ma Roma non si era mossa". Questa volontà di rimanere impermeabile alla modernizzazione sembra essere la condizione, secondo l'autore, per il mantenimento di una tradizione a cui lui stesso aderisce.
La storia ci insegna invece che non furono indispensabili queste condizioni per mantenere la trasmissione della tradizione cattolica, dal momento che tanto male si è volto in bene, nel giro di pochi decenni. Ma questo è accaduto anche perché, pure all'interno della Chiesa, i punti di vista erano molti e diversi tra loro, e c'erano cattolici pronti a cogliere anche la perdita di beni e di poteri come un'occasione per riformare la vita religiosa. E fra costoro, come vedremo, un posto particolare lo ebbero le donne.

Senza dubbio, a confermare l'interpretazione più pessimista circa le intenzioni distruttive dello Stato italiano nei confronti della Chiesa sono state le leggi di espropriazione delle proprietà ecclesiastiche, che però, proprio mentre sembravano distruggere la Chiesa, hanno contribuito a rinnovare la vita religiosa. E che il risultato finale fosse poi stato ben diverso da quello che si proponevano gli anticlericali fautori delle leggi lo rivela Crispi, in un discorso tenuto alla Camera nel 1895, in cui presenta i risultati di un'inchiesta sulle associazioni religiose: "Il movimento religioso è tale da doversi impensierire (...). In Francia le congregazioni religiose sono attualmente aumentate e vanno al di là di quante erano nel 1789; hanno rifatto la manomorta e la stanno rifacendo in Italia (...). La legge del 1866 e quella del 1873 per la soppressione delle corporazioni religiose furono impotenti. Noi abbiano negato alle corporazioni religiose la personalità giuridica, ma non abbiamo impedito alle medesime di potersi raccogliere. E si sono raccolte; e possiedono più liberamente di quello che possedevano prima del 1866 e del 1873".

Il risultato della politica economica antiecclesiastica, alla fine, fu poi una sorta di compromesso che permise alle congregazioni di vivere, rinnovando le loro forme di vita. Ed è importante sottolineare che "le leggi del 1866 e del 1873 non soppressero alcun Ordine religioso e nessun Ordine religioso scomparve a seguito di esse".

Le pressioni a ridurre la Chiesa all'interno del diritto comune, mettendo fine ai suoi privilegi, che non trovano voce esplicita nello Statuto albertino del 1848, sfoceranno invece nel 1850 nelle leggi Siccardi: la prima era rivolta a sopprimere l'autonomia del foro ecclesiastico, togliendo ogni privilegio al clero, e indirizzando così la legislazione successiva sulla strada dell'uguaglianza dei culti; la seconda invece toccava proprio la proprietà ecclesiastica, con l'intento di limitare la concentrazione di beni nella cosiddetta manomorta. Ma la legge più rilevante fu quella, presentata da Cavour e da Rattazzi, del 1854, oggetto di discussione intensa nel Parlamento: con questo provvedimento cessavano di esistere, quali enti morali, le case degli Ordini religiosi, tranne quelli socialmente utili.

Gli Ordini soppressi furono 21 maschili e 13 femminili, per un complesso di 335 case e 5.489 persone nei soli Stati sardi. I beni incamerati, per il momento, furono mantenuti all'interno dei bisogni religiosi, ma ciò nonostante fu forte l'opposizione dei cittadini piemontesi: di loro infatti 69.000 firmarono una petizione contraria alla legge, un numero ben superiore a quello dei votanti.

In sostanza, il Piemonte cattolico aveva pagato questo prezzo all'anticlericale Rattazzi per trovare un punto in comune fra gruppi politici estremamente eterogenei che condividevano solo il desiderio di unificare la penisola e di darle un'autonomia politica dai Paesi stranieri: monarchici, repubblicani, liberali di destra e di sinistra, esuli politici di tutti gli Stati italiani che erano stati accolti in Piemonte. Questa scelta assicurava anche al Piemonte l'alleanza della classe politica inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell'imperatore Napoleone III. "Fu, dunque, la difficile gestione del rapporto con il movimento moderato del resto d'Italia e poi con Garibaldi e i democratici - ancora una volta i problemi della strategia principale di Cavour - a dominare il campo; e il problema del rapporto con la Chiesa ne restò, tutto sommato, strumento tattico, come era stato - secondo la nostra interpretazione - in partenza. È forse uno di quei casi in cui la creazione politica avviene a spese dell'aggravamento di problemi di cui dovranno farsi carico le generazioni future" scrive Cafagna.

Dopo l'unificazione, la legge piemontese di eversione dei beni ecclesiastici venne subito applicata al resto della penisola, mentre il Codice civile dichiarava che "i beni degli istituti ecclesiastici sono soggetti alle leggi civili". Il Sillabo - che segna l'inevitabile inasprirsi dei rapporti con il pontefice - ribadisce invece la tesi opposta, cioè la piena autonomia della Chiesa dal potere civile e il diritto di questa di acquistare e possedere.
La crisi finanziaria in cui versava il nuovo Stato, unito all'inasprirsi dei rapporti con la Chiesa, costituì quindi il terreno favorevole alla promulgazione delle leggi del 1866-1867, che negavano alle organizzazioni religiose la personalità giuridica, cioè la possibilità di possedere dei beni.

Nonostante questi provvedimenti drastici, che segnarono una forte diminuzione del numero dei religiosi, il mondo monastico e conventuale italiano sopravvisse, purificandosi e modernizzandosi.
L'espropriazione ebbe conseguenze soprattutto dal punto di vista amministrativo: gli istituti religiosi, infatti, cercarono di utilizzare al massimo le possibilità offerte dalle leggi civili per garantire la propria sussistenza e le proprie opere. Molti tentarono di salvarsi, optando per diverse soluzioni: "O intestando i beni a singoli religiosi o religiose, o costituendo società tontinarie - come fece don Bosco - cioè intestavano i beni a un gruppo di persone, il cui numero poteva essere sempre ricostituito, con il vantaggio di pagare meno al momento della successione. O vendendo gli immobili a secolari ed ecclesiastici di loro fiducia, oppure fondando società immobiliari, società per azioni, società cooperative, o chiedendo l'approvazione civile come enti morali". Per operare queste strategie di sopravvivenza, i religiosi - in quanto fortemente limitati nelle loro attività economiche dal diritto canonico - avevano bisogno di apposite dispense, che la Santa Sede concesse rapidamente. In sostanza, alle congregazioni religiose fu chiesto un intervento nuovo, una rottura con la tradizione che rivelò spesso anche positivi effetti di modernizzazione.

Ma la via più moderna, battuta da molti istituti, fu quella della creazione di società anonime per azioni: la prima fu quella del Pontificio istituto missioni estere di Milano, nel 1866, e nello stesso anno la Società educativa delle Marcelline, di cui veniva nominata direttrice Marina Videmari, la fondatrice, che rimase in vita fino al 1940. Seguirono questa strada anche le suore di Carità fondate da Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, che costituirono l'associazione civile Sorelle della Carità in Milano. E l'elenco delle nuove società è lungo: Società anonima San Giuseppe, Società anonima San Pietro, Società anonima proprietà fondiarie, Istituto ligure dei beni stabili, Società ligure-emiliana di beni immobili, Società anonima per azioni San Paolo, La Immobiliare Valtellinese, e così via. Denominazioni che congiungono il nome di un santo antico con la moderna finanza capitalistica, creando spesso uno strano effetto di mescolanza di sacro e profano. Si tratta dunque di una forte spinta alla modernizzazione amministrativa, che conobbe parecchi successi, come cogliamo subito dal susseguirsi di nomi che ancora oggi ci richiamano l'esistenza di fiorenti società finanziarie.

A fine Ottocento, le innovazioni nella vita e nell'impegno religioso cominciano a coinvolgere anche le regioni meridionali. Un esempio interessante di questa commistione fra pietà popolare antica e nuove forme di vita religiosa assistenziale sviluppatosi negli ultimi decenni dell'Ottocento fu l'avvocato napoletano Bartolo Longo, a cui si deve l'"invenzione" di una nuova devozione di grande e duraturo successo - quella alla Madonna di Pompei, dove costruì un santuario - che seppe diffondere in tutta Italia, anche presso gli emigrati, con nuovi sistemi di diffusione per mezzo stampa, spedendo cioè a moltissimi nominativi, anche sconosciuti, libretti di preghiera e pubblicazioni del santuario. Accanto a questa opera devozionale, Longo volle realizzare istituti caritativi finalizzati sia all'educazione dei ragazzi della valle di Pompei sia all'educazione dei figli dei carcerati.
Longo costruisce la sua impresa seguendo le orme di don Bosco, che si reca visitare a Torino nel 1885, per capire, nel corso del breve colloquio, come aveva fatto a "conquistare il mondo". La tradizione narra che il prete torinese gli avrebbe risposto "mando il mio giornale a chi lo vuole e a chi non lo vuole" e Bartolo Longo, così, avrebbe capito che "la forza propulsiva della sua grande idea di fede e di carità" doveva essere la stampa periodica, "diffusa più ampiamente possibile e inviata anche a coloro che non pagavano".

Significava superare modi di comportarsi tipici del cattolicesimo della restaurazione, ma anche usi collaudati nel mercato librario e giornalistico, e sperimentare un nuovo tipo di utilizzazione della stampa periodica. "In altre parole - scrive Stella, biografo di don Bosco - don Bosco aveva capito l'importanza dell'opinione pubblica in un mondo che elevava i propri livelli d'istruzione e ch'era traversato dai messaggi più diversi mediante la stampa. In chiave economica aveva capito l'importanza dell'investimento di capitali a scopo di propaganda, di consenso e di ulteriore sicura mobilitazione di capitali in favore di opere di cui si faceva percepire il bisogno e l'utilità".

Come il "Bollettino salesiano", che rifletteva l'euforia di una impresa attiva e in espansione, così Longo ottenne analogo successo con il proprio periodico "Il Rosario e la Nuova Pompei", conquistando offerte per le sue opere di assistenza, prima locali, poi rivolte ai figli dei carcerati di tutta la penisola con un'opera che mirava, oltre all'assistenza dei figli, anche alla conversione dei genitori.
Anche l'iniziativa di Longo aveva una forte valenza culturale intransigente: gli scienziati positivisti della Scuola antropologica criminale sostenevano l'"impossibilità di educare i nati delinquenti", e lo accusarono di creare a Pompei "un covo di belve", usando per di più metodi educativi inadeguati, se non addirittura dannosi.
Bartolo Longo rispose proponendo i suoi come "sperimenti di fatto" che avrebbero negato l'atavismo e l'innata delinquenza, a favore della libertà dell'essere umano. Molto simile fu la risposta che don Bosco diede nei fatti a chi, come Darwin, sosteneva che gli indigeni della Patagonia fossero più simili alle bestie che agli umani, mandando i suoi missionari a convertirli e quindi a trasformarli in persone civili.

Si possono senza dubbio trovare molti elementi comuni fra i due benefattori: sia don Bosco che Longo erano promotori di santuari mariani, additavano ai fedeli la Madre di Dio come aiuto ai cristiani in ogni momento della vita, e si proponevano di affiancarle opere di assistenza rivolte alla gioventù povera, ma una certa differenza era segnata anche dal differente livello di alfabetizzazione fra il Piemonte e la Campania. Anche l'avvocato meridionale, però, dovette affrontare il problema di come collocare le sue opere all'interno dei sistemi politici e giuridici dell'epoca liberale, proponendosi come unico responsabile legale.
Fra i cambiamenti nella direzione della modernizzazione provocati dall'eversione dei beni ecclesiastici il più vistoso - e forse inaspettato - fu, senza dubbio, quello delle religiose che, fino all'Ottocento, erano state costrette dal concilio di Trento alla clausura.

Dopo la Rivoluzione francese, e la conseguente brusca interruzione della continuità secolare nella vita dei monasteri, la ripresa della vita religiosa femminile era infatti avvenuta in modo nuovo: le comunità nascevano per iniziativa di una candidata alla vita religiosa - quasi mai per desiderio di un fondatore esterno - ed escludevano la clausura e la perennità dei voti. Questo nuovo corso fu rafforzato dalle leggi di soppressione del Regno sabaudo, che comportarono la chiusura di 527 case femminili di clausura su un totale di 9.700; rimasero in vita quelle in cui le religiose svolgevano compiti di assistenza sociale. In questa fase di mutamento, durante la quale cominciò a manifestarsi un calo delle vocazioni maschili a cui corrispose un notevole aumento di quelle femminili, le religiose svolsero un ruolo particolarmente importante: fra il 1801 e il 1973 furono fondati quasi 350 nuovi istituti, di cui ben 185 nell'Ottocento e 162 nel Novecento. Norma pressoché comune di questi nuovi istituti fu la temporalità dei voti e la possibilità di conservare la proprietà dei beni, che fu chiamata "povertà semplice".

Le gerarchie ecclesiastiche hanno guardato a questo sviluppo con molto sospetto. Le primissime fondatrici, infatti, si appoggiavano sempre a un sacerdote, fingendo che egli fosse il fondatore o cofondatore, consapevoli che l'istituzione ecclesiastica non avrebbe mai accettato una fondazione solo femminile. Soprattutto, la gerarchia non accettava che ci fossero superiore generali sempre in viaggio, che cioè si comportavano come i superiori degli istituti maschili.
Le badesse, naturalmente, c'erano sempre state, ma appunto in un monastero, cioè stanziali, mentre la superiora generale di una congregazione di vita attiva, invece, doveva visitare tutti gli istituti e quindi viaggiare. Quando le suore parlavano di superiore generali, la Santa Sede rispondeva che, poiché le donne non potevano viaggiare, non poteva esistere una superiora donna. Contro questa tendenza ha combattuto una battaglia vittoriosa Teresa Eustochio Verzeri (1801-1852), nobildonna bergamasca che nel 1830 aveva fondato, dopo molte vicissitudini e con l'appoggio del canonico Benaglio, le Figlie del Sacro Cuore di Gesù, che realizzarono in pochi decenni una vera e propria catena di scuole inferiori e magistrali per le ragazze.

Teresa, di nobile famiglia, è stata una delle più ardenti fautrici dell'autonomia economica e organizzativa delle nuove congregazioni: è la prima fondatrice a chiedere esplicitamente la centralizzazione dei beni dell'istituto e la loro amministrazione diretta - "per quanto possibile", scrive, le donne "facciano da sé" - da parte della superiora generale, figura nuova e ancora molto controversa all'interno della Chiesa. L'intensa vita spirituale, testimoniata dai suoi numerosi scritti, non le impedisce di occuparsi con successo della gestione economica delle sue case e della loro espansione.
Le prime a richiedere di potersi organizzare con una superiora generale erano state, nel 1839, le suore della Carità di Lovere, che avevano incontrato in proposito un netto rifiuto. La Santa Sede temeva di diminuire l'autorità del vescovo, e mostrava preoccupazione per i viaggi che le superiore avrebbero necessariamente dovuto compiere per recarsi da un istituto all'altro. La Verzeri però procedette lo stesso nella sua richiesta, sicura del suo progetto - "questa libertà non è soltanto utile, è necessaria", scrive al Papa - forte anche dell'appoggio della sua famiglia di provenienza.

La nobile bergamasca avanzò così la richiesta direttamente a Pio IX nel 1847, dicendo che si trattava in realtà di un potere domestico, interno alla comunità, e riuscì a ottenere l'assenso, ma solo per il suo caso specifico. Però, rendendosi conto che il decreto di approvazione delle costituzioni del suo istituto non faceva menzione dell'abolizione della Quamvis justo - la costituzione di Benedetto XIV che impediva la superiora generale - la fondatrice non esitò a intervenire nuovamente presso la Curia romana, ottenendo che il breve pontificio contenesse quanto esplicitamente approvato, in modo che la possibilità di essere governate da una superiora generale fosse esteso a tutte le congregazioni femminili.
Volendo trarre qualche conclusione, che l'Italia fosse innanzi tutto una terra cattolica lo conferma il fatto che i due principali libri dell'Ottocento - prima di arrivare al libro Cuore di Edmondo De Amicis uscito nel 1886 - cioè Le mie prigioni e I promessi sposi, usciti nello stesso anno, 1832, siano due libri fortemente cattolici come i loro autori, Silvio Pellico e Alessandro Manzoni, entrambi convertiti dal liberalismo agnostico al cattolicesimo. In entrambe le opere, le ragioni della decadenza italiana seguita alle glorie del Rinascimento vengono spiegate con il dominio straniero, e questo costituirà un paradigma interpretativo condiviso almeno fino alle sconfitte delle rivoluzioni del 1848.

In realtà un'anticipazione delle polemiche anticattoliche risorgimentali era stata fatta dallo storico ed economista svizzero protestante Sismonde de Sismondi, autore di una Storia delle repubbliche italiane nel medioevo (1818), che aveva sostenuto che all'origine della decadenza italiana, della corruzione e superstizione delle sue plebi, stava la morale cattolica. Alessandro Manzoni, su suggerimento di Luigi Tosi, nel 1819 aveva confutato questi argomenti con il pacato ragionamento delle sue Osservazioni sopra la morale cattolica. Ma soprattutto dopo il 1848 - dopo cioè la fine del progetto neoguelfo - nella individuazione delle cause che avevano fino a quel momento impedito il formarsi di uno Stato nazione la presenza dello straniero viene sostituita o affiancata sistematicamente da quella della Chiesa.
I cattolici italiani infatti sono messi sul banco degli imputati non solo per la marcia indietro di Pio IX nei confronti della prima guerra d'indipendenza, ma soprattutto come responsabili dell'arretratezza culturale e sociale del Paese: in una caccia di tutto quello che risulta estraneo ad un rigido parametro di modernità razionalistica, ambito nel quale viene compresa anche la Riforma protestante, viene attribuita "alla Chiesa la responsabilità di aver tenuto lontano le masse dal progresso e dalla modernità".

La cultura cattolica fa infatti molta fatica ad accettare il liberalismo, che consiste, ai suoi occhi, nel mettere l'errore e la verità sullo stesso piano, mettendo in pericolo la fede e l'anima dei meno culturalmente preparati. Proprio contro questa libertà, che viene percepita come una pericolosa confusione, si muove con creatività e coraggio la cultura intransigente. Tipico esempio ben riuscito di mobilitazione intransigente sono le attività editoriali di don Bosco, e in particolare i libretti inseriti in una collana periodica iniziata nel 1853 con il titolo Letture cattoliche, libretti modesti di prezzo molto accessibile, volevano essere di lettura amena con apertura ai problemi sociali e naturalmente fondate su una ortodossa morale cattolica. Già dopo il 1870 avevano oltrepassato la tiratura di dodicimila copie, ed erano servite da modelli ad altri periodici pubblicati altrove con lo stesso titolo.
L'interesse per la stampa, intesa come impresa moderna, capitalistica, era centrale nel progetto di don Bosco, come dimostra la partecipazione dei salesiani all'esposizione universale di Torino del 1884, in cui trovava posto un padiglione dove essi avevano rappresentato tutto il ciclo della produzione libraria - dalla fabbricazione della carta fino alla stampa, alla legatoria e al banco vendita - con l'intento di presentarsi all'avanguardia del progresso.

Ma il più profondo cambiamento che si è impresso nell'Ottocento all'interno della cultura cattolica è stato proprio nel modo di essere e sentirsi cattolici: l'identità di appartenenza non è più determinata da nascita e tradizione, ma si basa su una "appartenenza sempre più consapevole", e la presenza cattolica in Italia si fa così un'alterità sempre più consapevole, migliorando quindi di qualità.
Se si vuole tentare un bilancio del conflitto scatenatosi fra Stato e Chiesa in occasione dell'unificazione del Paese dopo 150 anni, si può concludere che, nonostante indubbie violenze e prevaricazioni nei confronti della Chiesa e dei cattolici, la Chiesa non è stata indebolita da questa battaglia, ma ne è uscita più forte e purificata, e anche fortemente modernizzata, processo che era inevitabile e che trovava però molte difficoltà a essere accettato al suo interno. Un caso particolarmente significativo è quello delle religiose che, proprio a causa dell'eversione dei beni ecclesiastici, ottengono finalmente la possibilità di agire in campo sociale, dimostrando capacità e creatività tali da cambiare il posto delle donne nella Chiesa - basti pensare che quasi tutte le sante sono state canonizzate dopo l'Ottocento - e da proporre un modello interessante di emancipazione femminile: non attraverso la rivendicazione dei diritti, ma assumendosi le responsabilità e dimostrando di essere in grado di sostenerle.

Rimane comunque sempre aperto il problema che questa positiva metamorfosi è avvenuta sotto costrizione esterna, e non possiamo fare a meno di domandarci: "Perché la Chiesa del tempo subì anziché provocare essa stessa un mutamento che, alla lunga, si rivelò un guadagno? Perché non rinunciò essa stessa allo Stato temporale che già in occasione della guerra federale del 1848 era apparso un peso e una contraddizione?". Possiamo rispondere con le parole di Romanato che questo è un "nodo difficile e sempre riaffiorante del rapporto della Chiesa con il tempo e la storia, una storia che essa vorrebbe dominare e dalla quale invece, non infrequentemente, è dominata; e non sempre, aggiungo, ricevendone un danno".



(©L'Osservatore Romano 21-22 marzo 2011)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740758] Pubblicato il 04 ott 2012

Incontro sul B. Pio IX, Firenze 20 settembre 2012. Intervengono i Professori Massimo de Leonardis, Massimo Viglione e Roberto de Mattei

www.youtube.com/watch?v=t3nx1m5829w






[SM=g1740771]


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2015/12/29

Conquistare Roma. Intervista alla storica Angela Pellicciari

 

ROMA, 29 dicembre, 2015 / 12:15 AM (ACI Stampa).- Conquistare Roma, perché Roma è il mondo. Ma soprattutto, perché Roma è il centro della cattolicità. Quella Chiesa che, unica al mondo, ha portato a compimento l’universalità di Roma, e ne ha fatto uno strumento per il bene dell’uomo. Angela Pellicciari, storica del Risorgimento, ha appena dato alle stampe il volume “Una storia della Chiesa” (Cantagalli). Con rigore storico, riproducendo documenti che raramente vengono menzionati, ha messo in luce nel corso degli anni come il Risorgimento italiano sia stato soprattutto un movimento in chiave anti-cattolica. Un piano che aveva come scopo la sostituzione della verità teologica con la presunta libertà massonica. Storie che si sono dipanate in libri (tra gli altri) come “L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata” (Piemme), “I panni sporchi dei Mille. L’invasione del Regno delle Due Sicilie” (Cantagalli), “Risorgimento anticattolico” (Piemme) e “I Papi e la Massoneria” (Ares). In una intervista con ACI Stampa, racconta perché, da sempre, l’attacco è stato mosso verso Roma. Ovvero verso la cattolicità. Un attacco che passa dall’attacco alla sovranità della Santa Sede.

Professoressa, perché, nel piano dell’Unità di Italia, si punta a Roma, alla distruzione dello Stato pontificio?

Perché Roma è il mondo. I Romani, che avevano un impero smisurato, avevano la consapevolezza che Roma era unica. Roma era universale, era la città in cui tutti si sentivano a casa. Il cristianesimo eredita e porta a compimento l’universalità romana. Lo spiega bene Paolo nella lettera ai Galati e nella lettera ai colossesi, quando dice che “non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna” perché tutti sono uno in Cristo Gesù. Le lettere di Paolo dimostrano che l’universalità cui Roma aspira è realizzata appieno dalla Chiesa romana.

È dunque questa universalità che fa di Roma un obiettivo?

Certo. Ogni nemico di Cristo vuole arrivare a Roma, distruggere Roma e creare una nuova Roma. Cioè un nuovo potere universale. Tutti gli imperi ci hanno provato, ma finora non ci sono riusciti. Solo Napoleone è riuscito, per poco tempo, ad arrivare a Roma e renderla territorio francese. Napoleone voleva trasformare Parigi in una nuova capitale universale. Per questo trasferì a Parigi l’Archivio Vaticano. Non si tratta di una mossa priva di valore. Il fatto è simbolicamente molto importante perché l’Archivio Vaticano, il più antico dell’occidente, documenta ciò che Roma è, e cioè il mondo.

Perché la massoneria è interessata ad arrivare a Roma?

Perché la massoneria vuole il potere, vuole riuscire a dominare ovunque, e perché l’unico ostacolo che incontra è rappresentato dalla chiesa cattolica. E’ una volontà di dominio che parte da lontano, radicata nella riforma protestante.

In che modo?

Basti pensare che James Anderson, l’autore della Costituzione dei Liberi Muratori, è un pastore presbiteriano. Protestantesimo e massoneria sono collegati dall’idea del libero esame promossa dal protestantesimo. L’esaltazione della libertà da Roma e dal magistero che Lutero incarna, diventa l’esaltazione della libertà dalla rivelazione propugnata dalla massoneria. La verità non è rivelata, è prodotta volta a volta dalla libera discussione nelle logge. E l’odio per Roma passa da Lutero alla Massoneria.

Si parla di uno Stato pontificio che era arretrato, fuori dal tempo…

Lo Stato pontificio era un gioiello, e a suo favore non c’è bisogno di tante parole perché bastano le pietre: le città, i villaggi, i borghi. È sufficiente un tour in Umbria, nelle Marche e nel Lazio, per comprendere come era amministrato lo Stato Pontificio. Quanti ospedali, quante chiese, cappelle, opere d’arte, fontane, oratori, conventi, opere di beneficenza, quante scuole. Quanta bellezza c’era ovunque. Quanto rispetto e amore per la vita delle persone.

Ma se era così ben organizzato, perché cadde?

Perché tutto il mondo era coalizzato contro i cattolici e il loro Stato. Non c’erano più potenze cattoliche. Il Papa non aveva più sponde. Gli Stati rimasti cattolici, lo erano nominalmente e non di fatto. E l’esercito dello Stato Pontificio era più che altro simbolico perché il Papa non aveva bisogno di difendersi essendo in Italia tutti cattolici.

Il Regno d’Italia nasce dallo sbarco di Garibaldi in Sicilia. Anche quello era un Regno ben organizzato…

Il regno delle Due Sicilie era il regno più antico, più grande, con l’esercito più forte d’Italia. Purtroppo il giovane re Francesco II era inesperto, incapace di governare e si fidava dei suoi consiglieri. Quando i Mille stavano per arrivare a Napoli, Liborio Romano, che era ministro dell’Interno, convinse Francesco II a lasciare Napoli senza combattere, per evitare la distruzione della città. Così Garibaldi poté entrare a Napoli senza alcuna resistenza, accolto dallo stesso Liborio Romano. È un episodio che racconta molto di come i Mille siano riusciti a conquistare il Regno delle Due Sicilie. Buona parte dei vertici militari era composto da massoni e corrotti. Lo sbarco dei Mille a Marsala è preparato dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che si reca in Sicilia con un fido illimitato di Cavour per corrompere i vertici militari. E così la Marina non si accorge degli sbarchi di uomini, armi e munizioni. Ce lo racconta lo stesso Persano, che pubblica le lettere che spediva a Cavour (si tratta di segreti di Stato!) per raccontargli come andava la preparazione dell’invasione antiborbonica.

C’era un disegno generale per prendere Roma?

Sia gli interventi dei Pontefici che gli scritti della massoneria dicono chiaramente che la scomparsa dello Stato pontificio era il principale obiettivo che le potenze protestanti e massoniche si ripromettevano unificando l’Italia. Perché i massoni erano convinti che, se fossero riusciti a distruggere il potere temporale, anche il potere spirituale del Papa sarebbe crollato. Per propagandare in tutto il mondo il loro attacco alla Chiesa spacciato per “Risorgimento”, i Savoia e i massoni si sono serviti di una propaganda capillare e della falsificazione sistematica dei dati storici. Hanno definito se stessi come campioni della morale e hanno fatto consistere la morale nella realizzazione di una monarchia costituzionale e di un stato liberale. Se non che il primo articolo dello Statuto albertino definiva la chiesa cattolica “unica religione di stato”. Ebbene, non appena il regno di Sardegna diventa liberale, i governanti cominciano a sopprimere uno dopo l’altro tutti gli ordini religiosi della chiesa di stato. In nome della “libera chiesa in libero stato” i Savoia cacciano dalle proprie case tutti i membri degli ordini religiosi: 57.943 persone. In nome della libertà tanti preti sono uccisi o sbattuti in prigione perché si rifiutano di dare i sacramenti ai liberali che il papa, ovviamente, ha scomunicato. Il risorgimento italiano è molto simile nelle sue decisioni e nelle sue dinamiche alle rivoluzioni protestanti del secolo XVI. I Protestanti però, mossi dall’odio per la chiesa romana, hanno pubblicamente dichiarato guerra a Roma. I liberali italiani invece hanno fatto una guerra spietata contro la chiesa cattolica in nome della chiesa cattolica.Avendo fatto consistere la moralità nel rispetto della costituzione non potevano dichiarare apertamente il loro odio per Roma e il papa.

Cosa è successo poi?

E’ successo che un’enorme quantità di ricchezza è passata di mano: migliaia di palazzi meravigliosi, di chiese, di oggetti d’arte, di archivi, di biblioteche, di terreni, tutte le proprietà che erano state regalate alla chiesa nel corso dei secoli, sono state acquistate per due lire dall’élite liberale, circa l’1% della popolazione. Con la conseguenza che per la prima volta nella sua storia l’Italia, invece di risorgere, si è trasformata in una colonia di poveri costretti in massa all’emigrazione. Il papa che assiste impotente a questa svendita della ricchezza e della dignità nazionale, Pio IX, dal 1846 profetizza ai liberali cosa sarebbe successo: alla rapina dei beni della chiesa fatta in nome della libetà e della costituzione sarebbe seguita la rapina dei beni dei borghesi in nome del comunismo.

Ma quale era il ruolo dello Stato Pontificio?

Lo Stato Pontificio era il punto di riferimento dei cattolici di tutto il mondo. Sia Pio IX che Leone XIII hanno insistito sull’importanza del potere temporale del pontefice. Il potere temporale era funzionale a garantire la libertas ecclesiae, la libertà del potere spirituale. Pio IX lo scrive in molti documenti: i cattolici di tutto il mondo non avrebbero mai potuto essere certi dell’effettiva indipendenza del Papa, e quindi anche dell’effettiva indipendenza del suo Magistero, se non avessero avuto la sicurezza che il Papa fosse libero dalla pressione dei principi regnanti. Nel 1870, in questo contesto drammatico in cui l’attacco alla chiesa è arrivato a Roma, Pio IX proclama il dogma dell’infallibilità.

Perché questa decisione di proclamare l’infallibilità?

La Chiesa da sempre sa che Pietro è Pietro, e sempre nel corso dei secoli questo è stato rispettato. Negli Atti degli Apostoli, quando Pietro e Giovanni -ovvero l’apostolo che aveva tradito e l’unico apostolo che era rimasto sotto la croce e che Gesù amava- parlano al popolo, è sempre Pietro a prendere la parola. Tutti riconoscevano il primato di Pietro. Allora perché Pio IX proclama un dogma che tutti da sempre rispettavano? Lo fa perché è un profeta.

Con la massoneria si afferma il relativismo, ovvero una visione del mondo che sostiene che non ci sono verità assolute. Che tutto è in evoluzione comprese le credenza più profonde. Nella seconda metà dell’ottocento i cattolici vedono crollare tutte le loro certezze. Per la prima volta dalla fine delle persecuzioni gli italiani vedono la propria fede irrisa, i gioielli della propria cultura rapinati, i preti, i vescovi e i religiosi calunniati e incarcerati, lo stato pontificio conquistato da uomini che si definiscono cattolici: di fronte a un simile sfacelo il rischio che la fede vacilli è concretissimo. Le ingiustizie sono tali e tante che si è tentati di pensare che, forse, ci si è sbagliati. Che non è vero che Dio ha garantito a Pietro l’infallibilità.

In questo momento drammatico della storia Pio IX capisce che la fede va sostenuta. Che i fedeli vanno confortati. E quale maggiore consolazione che proclamare con un dogma che Gesù si è solennemente impegnato con la sua chiesa donando a Pietro la capacità di agire sempre a favore della verità?

Pio IX è un papa dalla fede di un gigante ed è per questo che l’attacco nei suoi confronti continua ancora oggi: la decisione di proclamarlo beato ha fatto sollevare un coro di grida di scandalo contro Giovanni Paolo II, reo di aver osato portare agli onori degli altari un papa che la storiografia, anche cattolica, unanimemente condanna. Il punto è che la storia, ha ragione Leone XIII che lo scrive nel 1883, “sembra essere diventata una congiura degli uomini contro la verità”.



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19/01/2016 20:20
 
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[SM=g1740758] una LETTERA APERTA stupenda!!!!!
e pure commovente... l'altra faccia della medaglia, quella che se, conosciuta, spiegherebbe molte cose e persino come siamo arrivati a questo oggi....


www.youtube.com/watch?v=andAY8X4RCk







[SM=g1740771]

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