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Ignazio di Loyola e la riforma cattolica. Discernere la volontà di Dio e mettere ordine nella propria vita.

Ultimo Aggiornamento: 31/07/2013 18:24
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dal sito dell’Almo Collegio Capranica

Il cardinale Domenico Capranica (1400-1458), con atto del 5 gennaio 1457, fondava un Collegio, cui dava il nome della sua famiglia, con lo scopo di offrire la possibilità di una adeguata formazione al sacerdozio ai giovani meno abbienti della città di Roma
. Tale fondazione si inseriva nell’ambito di una serie di iniziative analoghe che, specie nella Roma del Quattrocento, venivano suscitate dalla crescente attenzione verso l’istruzione ecclesiastica. Le intenzioni del fondatore rispondevano pertanto all'esigenza di offrire alla società del tempo un clero più preparato sotto l'aspetto culturale e spirituale, da qui la specificità e l'unicità dell'identità capranicense.

Domenico Capranica, col quale iniziarono le fortune della famiglia che prendeva nome dalla originaria Capranica Prenestina, feudo dei Colonna fino al 1563, fu personaggio di spicco nella Roma della prima metà del Quattrocento. Nato col secolo, formatosi alle Università di Padova e di Bologna, iniziò la sua carriera ecclesiastica e politica col papa Colonna, Martino V: chierico della Camera Apostolica nel 1423, vescovo di Fermo l’anno seguente, governatore della Romagna nel ‘26, cardinale del titolo di Santa Maria in Via Lata nel ‘30. In seguito alla morte del papa, questo grado gli fu contestato e riconosciuto solo due anni dopo, mentre partecipava al concilio di Costanza, concilio al quale il Capranica continuò a prendere parte dal ‘38 al ‘43 - seguendolo nei trasferimenti a Ferrara prima e poi a Firenze - durante il papato di Eugenio IV.
Nel ‘43 veniva promosso vicario generale della marca di Ancona. Da Nicolò V Domenico riceveva, nel ‘49, la nomina a Penitenziere Maggiore, che l’avrebbe impegnato nell’imminente Giubileo e che richiedeva la sua stabile presenza a Roma; intorno a quella data egli avviò i lavori per la sua nuova residenza presso il Pantheon, nella piazza di Santa Maria in Aquiro. Nel ‘53 si rese benemerito del papa, denunciando la congiura di Stefano Porcari, e nell’ultimo periodo della non lunga vita svolse importanti incarichi diplomatici, in particolare presso il re di Napoli Alfonso V d'Aragona. Domenico Capranica fu un buon umanista (nel suo palazzo raccolse una preziosa biblioteca di codici, oggi alla Vaticana), ma soprattutto cultore degli studi teologici e filosofici ed autore di opuscoli di argomento morale, ecclesiastico e politico.

Due anni prima della morte fondò il “Collegio dei poveri scolari della Sapienza Firmana” (come suonava la denominazione originaria motivata dalla sua carica di vescovo di Fermo; ragione per la quale anche la piazza fu chiamata, per un certo periodo, “del Cardinale di Fermo”), destinato a giovani di umile condizione, romani di nascita, ma con l’eccezione per i fermani, che avevano deciso di intraprendere la carriera ecclesiastica, perché studiassero soprattutto teologia e diritto canonico. Veniva così anticipata di un secolo l’istituzione dei seminari, decisa dal Concilio di Trento nel 1563. Il Capranica predispose ogni cosa perché il progetto andasse in porto. Ne assicurò il mantenimento con le rendite immobiliari: una casa detta “delle due torri” presso Sant’Agostino ed un’altra in piazza di Pietra, nella parrocchia di Santo Stefano del Trullo; i due casali fuori porta Maggiore detti Boccamazzi e Monumento che formarono la tenuta della “Sapienza”: l’attuale borgata di Tor Sapienza. Fissò regole precise per ogni aspetto della vita collegiale, redigendone personalmente le “Constitutiones”: significativi, per quei tempi di non eccessivo rigore, gli obblighi per i futuri sacerdoti della messa quotidiana, del celibato, dell’obbedienza al Papa, dello studio costante della teologia e in particolare di San Tommaso. Gli alunni dovevano governarsi da soli, eleggendo tra di loro il rettore, i consiglieri e i bibliotecari, che dovevano essere confermati dai patroni e rimanevano in carica un anno.

La tutela e l’amministrazione il Capranica volle affidati all’autorità dei Conservatori dell’Urbe, dei Capi Rione e soprattutto dei Guardiani dell’Arciconfraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum (alla quale egli stesso era iscritto), i quali assicurarono la loro disponibilità in tal senso il 24 dicembre 1456. Il 5 gennaio 1457 - data ritenuta come quella di fondazione dell’istituto - avvenne la presa in consegna dei beni. Domenico Capranica morì il 14 agosto 1458, a pochi giorni di distanza da Callisto III, al quale era ormai dato per scontato dovesse succedere: a un passo, dunque, dal massimo riconoscimento di una straordinaria carriera. Fu sepolto nella cappella gentilizia che aveva ottenuto nel ’49 in Santa Maria sopra Minerva, chiesa dell’ordine domenicano da lui prediletto, nel monumento funebre scolpito dal Bregno che gli eresse il fratello Angelo, suo erede ed esecutore testamentario.

Il Collegio venne dotato dal suo fondatore di una solida base economica, così da garantirne l’autonomia finanziaria. Lo stesso cardinal Domenico ne redasse le costituzioni, riedite con qualche aggiunta fino al XX secolo. Nel 1459 il Collegio Capranica aprì le sue porte a una trentina di alunni, e venne affidato alle cure dell’Arciconfraternita romana del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, di cui il cardinal Capranica era membro fin dal 1452. Alcuni anni dopo, nel 1478, fu il cardinale Angelo Capranica (1423-1478), fratello di Domenico, ad ottenere da Sisto V licenza di costruire una sede specifica per il Collegio, a fianco dell’antico Palazzo Capranica presso la chiesa di Santa Maria in Aquiro. Il titolo di “almo” (che dà la vita), di cui il Collegio si fregia, ricorda con somma riconoscenza quei superiori e alunni che, durante il sacco di Roma del 1527, presso Porta Santo Spirito, sacrificarono la loro vita per la difesa del Pontefice.


1.3/ Il significato della riforma cattolica come di ogni vera riforma della Chiesa

dall’Editoriale de “La Civiltà Cattolica”, n. 3562, 21/11/1998
Nel Cinquecento la Chiesa ha visto il trionfo del paganesimo rinascimentale, il dilagare della corruzione, giunta con Alessandro VI fino al soglio pontificio, un’incredibile ignoranza del clero, l’abbandono delle sedi vescovili, le pratiche simoniache, la scissione della cristianità occidentale a causa delle riforme luterana e calvinista, il sacco di Roma, la minaccia dell’invasione turca. Sembrava che sotto tanti colpi la Chiesa dovesse crollare, tanto più che Carlo V, il difensore ufficiale del cattolicesimo, si alleava con i principi protestanti, i quali si impadronivano della maggior parte delle regioni settentrionali dell’Europa, e Francesco I, re di Francia, si alleava con Solimano, il nemico della cristianità.
Eppure, forse in nessun secolo della sua storia come nel Cinquecento la Chiesa diede segni più forti di vitalità. È straordinario il numero dei santi canonizzati vissuti nel Cinquecento. Eccone alcuni: Girolamo Emiliani, Antonio Maria Zaccaria, Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Gaetano da Thiene, Giuseppe Calasanzio, Filippo Neri, Francesco Saverio, Pietro Canisio, Francesco Borgia, Giovanni di Dio, Francesco Caracciolo, Giovanni Leonardi, Andrea Avellino, Pietro di Alcantara, Tommaso da Villanova, Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Pio V, Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga, Pasquale Baylon, Camillo de Lellis, Lorenzo da Brindisi, Turibio di Mongrovejo, Giovanni della Croce, Francesco Solano, Roberto Bellarmino, Angela Merici, Teresa di Gesù, Maria Maddalena de’ Pazzi, ecc. È un elenco impressionante, anche se incompleto: si tratta, nella maggior parte dei casi, di giganti della santità cristiana, della carità, della mistica e dell’apostolato cattolico.
Non è tutto. Nel Cinquecento fu celebrato il Concilio di Trento il quale, da una parte, mise in chiaro la dottrina cattolica e, dall’altro, pose le basi per la riforma della vita cristiana; furono fondati molti ordini religiosi (teatini, scolopi, barnabiti, cappuccini, gesuiti, fatebenefratelli, camilliani, carmelitani scalzi, ecc.), che costituirono una delle forze ecclesiali più vive e attive; vennero aperte al Vangelo l’Asia, l’Africa e l’America Latina; fu definitivamente respinta la minaccia turca con la vittoria di Lepanto; si riuscì a fermare la diffusione del protestantesimo nel sud dell’Europa e a riconquistare in parte il terreno perduto con la riforma luterana.
Lo storico che si pone di fronte a questi fatti non può non essere sorpreso dalla capacità della Chiesa di riprendersi da pesanti sconfitte e di rinnovarsi continuamente; ma la sua sorpresa crescerà, se rifletterà che non soltanto essa è stata ed è combattuta da forze esterne ad essa assai superiori, ma è debole interiormente. Certo, se la Chiesa fosse stata e fosse forte e vigorosa e potesse quindi combattere con i suoi avversari ad armi pari, la sua sopravvivenza potrebbe spiegarsi; ma sfortunatamente la Chiesa è debole e divisa; ci sono in essa mediocrità, debolezze, peccati; c’è spesso mancanza di intelligenza dei problemi, di strategie adeguate, di iniziativa e di coraggio.
In realtà, i colpi più duri si sono abbattuti sulla Chiesa non dal di fuori, ma dall’interno, per opera dei suoi stessi figli: per causa loro essa ha versato le lacrime più amare e ha corso i più gravi pericoli per la stessa esistenza. La storia è piena di debolezze e di tradimenti perpetrati dai suoi figli ai suoi danni. Eppure, sottoposta ad attacchi combinati esterni ed interni, la Chiesa non è finita, ma ogni volta si è ripresa vigorosamente, mentre i suoi avversari, tanto più forti di essa, sono scomparsi.

Dalla lettera di Romano Guardini a mons. G.B. Montini, del 29 marzo 1952

Il riconoscimento della Chiesa è stato la convinzione determinante della mia vita. Quando ero ancora studente di scienze politiche ho capito che la vera e propria scelta cristiana non ha luogo davanti al concetto di Dio e neppure di fronte alla figura di Cristo, ma davanti alla Chiesa. Ciò mi ha fatto capire che una vera efficacia è possibile solo nell'unità con essa.

Da Romano Guardini, Il senso della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 2007, pp.106-107
Il discorso si volge alla Chiesa reale, non alla sua idea, non a una Chiesa spirituale, bensì a quella storica, attuale. La Chiesa non è affatto un’idea che possa essere progettata a priori, e su cui ci si possa ritirare, quando la realtà fallisca. In fondo non vi è alcuna filosofia della Chiesa: essa si presenta piuttosto come una realtà unica. La sua condizione è analoga a quella d’un uomo: se qualcuno dicesse che il suo assenso, l’approvazione, non vale affatto per l’essere concreto dell’amico, bensì per la sua idea, gli farebbe ingiustizia. Sì, sarebbe sleale verso di lui; poiché è la personalità dell’amico che esige si consenta alla sua realtà esistenziale, ovvero la si rinneghi. Il sì o il no, la lotta o la fedeltà – non però nell’intendimento d’astrarre dalla realtà, per amore dell’idea: sarebbe metafisicamente falso, in quanto costituirebbe un disconoscimento dell’importanza decisiva della personalità, la quale impedisce di farne semplicemente un caso individuo dell’universale. E sarebbe eticamente illecito, poiché equivarrebbe a porre al posto di quell’atteggiamento, che si richiede dalla persona, quello ben diverso che è adatto di fronte ad una cosa. Appunto tale è l’assurdità di una distinzione tra realtà ed idea della Chiesa. Vi e è però a questo proposito tanto più stringente la necessità di un’altra distinzione. Ci si deve chiedere: riesce ad apparire la forma essenziale, la perfezione interiore della Chiesa nella sua manifestazione esteriore nel tempo? Sono operanti le energie essenziali della Chiesa attraverso le sue espressioni di vita visibile? L’interiorità del suo essere si inserisce percepibilmente negli uomini che formano la Chiesa? Qui nessuno si può sentire esentato dal dare risposta, perché essa lo riguarda personalmente.
Quando si sia riconosciuto che la Chiesa nella sua reale essenza è rivestita di valore e rimane ognora una via e una forza atta a farci pervenire al compimento del nostro destino, ciò ci riempirà innanzitutto di un profondo senso di gratitudine, non ci concederà tuttavia per nulla il diritto di collocarci in essa a nostro agio, bensì si muterà in una istanza: poiché la parabola dei talenti [cfr. Mt 26,15; Lc 19,13] vale anche per i nostri rapporti con la Chiesa. Noi siamo gravati di una responsabilità in rapporto ad essa, ciascuno a suo modo, il sacerdote in virtù dell’Ordine, il laico attraverso la Cresima. Dipende da ciascuno di noi con quanta larghezza e profondità contribuiamo a determinarla nel suo essere e nel suo manifestarsi, nel suo interno e nel suo esterno.

da J. Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, Conferenza a conclusione dell’XI edizione del Meeting per l’amicizia dei popoli, Rimini, 25- agosto-1 settembre 1990, pubblicata in J. Ratzinger, La bellezza. La chiesa, LEV-ITACA, Roma-Castel Bolognese, 2005, pp. 30-33

Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L’opinione sostituisce la fede. Ed effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé che io conosco, il significato dell’espressione “credo” non va mai al di là del significato “noi pensiamo”. La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore del “se stessi”, che agli altri “se stessi” non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell’ambito dell’empirico, e così si è dissolta anche come ideale sognato.
L’attivista, colui che vuole costruire tutto da sé, è il contrario di colui che ammira (l’“ammiratore”). Egli restringe l’ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l’ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e inventare; bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che “è più grande del nostro cuore”.
La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la “nostra” Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall’alto e che è nello stesso tempo l’irruzione della pura libertà.

Lasciatemi dire con un’immagine ciò che io intendo, un’immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo da parte sua antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiane. Con lo sguardo dell’artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l’immagine-guida che nascostamente attendeva di venir liberata e messa in luce. Il compito dell’artista – secondo lui – era solo quello di toglier via ciò che ancora ricopriva l’immagine. Michelangelo concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà, non come un fare. [...]

Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo tutto ciò che è fatto dall’uomo, all’interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale.

La libertà, che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa, non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà dell’Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà.
Nella Chiesa l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il Sacramento non è una spartizione di potere, ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devo parlare ed agire. Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore auto espropriazione, lì nessuno è schiavo dell’altro; lì domina il Signore e perciò vale il principio che: «Il Signore è lo Spirito. Dove però c’è lo Spirito del Signore ivi c’è la libertà» (2Cor 3,17).
Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà. Io penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé un’ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova.


da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 27
(lettera dei professori dell’università di Barcellona a Ignazio del 1555)

«Reverendo Padre, quando consideriamo le tue opere e le confrontiamo con quelle dell' antichità, tu ci appari davvero beatissimo, perché Cristo ti ha eletto (... ) per sostenere con vigore i vecchi edifici ecclesiastici che minacciano di rovinare per vecchiezza e per incuria dei loro architetti, e per costruirne di nuovi. È quanto han fatto in altri tempi Antonio e Basilio, Benedetto, Bernardo, Francesco e Domenico e molti altri illustri personaggi che veneriamo come santi. E nominiamo con onore. Verrà un tempo - lo speriamo e lo desideriamo - nel quale tu sarai invocato nello stesso modo per le tue grandi opere, e la tua memoria sarà sacrosanta in tutto il mondo».

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 38
«Lodare più che criticare. Costruire più che demolire»: questo era il suo [di Ignazio] motto, rivelatore della sua particolare sensibilità ecclesiale.



[SM=g1740771]  continua....

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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