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Messaggi del Papa AI GRUPPI, MOVIMENTI ASSOCIAZIONI DEI LAICI

Ultimo Aggiornamento: 24/08/2012 10:48
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18/08/2012 22:29
 
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Messaggio del Papa al Meeting di Rimini: L’uomo è una creatura di Dio. Oggi questa parola – creatura – sembra quasi passata di moda: si preferisce pensare all’uomo come ad un essere compiuto in se stesso e artefice assoluto del proprio destino. La considerazione dell’uomo come creatura appare «scomoda» poiché implica un riferimento essenziale a qualcosa d’altro o meglio, a Qualcun altro – non gestibile dall’uomo – che entra a definire in modo essenziale la sua identità; un’identità relazionale, il cui primo dato è la dipendenza originaria e ontologica da Colui che ci ha voluti e ci ha creati



Vedi anche:


Il Papa al Meeting di Rimini: ammettere di essere creati esalta la condizione umana. Purificarsi da falsi miti, vivere all'altezza degli ideali (Izzo)

Al via il meeting di Rimini. Il messaggio del Papa: l'uomo ha sede di infinito ma lo cerca in direzioni sbagliate

Meeting Rimini, il Papa: l'uomo ha sete di infinito

Il Papa: il desiderio di infinito senza Dio porta a "falsi infiniti", Dio invece è l'infinito incarnato (Angela Ambrogetti)

L'arcivescovo Giuseppe Lazzarotto nuovo nunzio in Israele (Izzo)

Il Papa al Meeting di Rimini: l'uomo è libero solo se riconosce di dipendere da Dio


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE AL MEETING DI RIMINI




Al Venerato Fratello
Monsignor FRANCESCO LAMBIASI
Vescovo di Rimini
 

Desidero rivolgere il mio cordiale saluto a Lei, agli organizzatori e a tutti i partecipanti al Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, giunto ormai alla XXXIII edizione.

 Il tema scelto quest’anno - «La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito» - risulta particolarmente significativo in vista dell’ormai imminente inizio dell’«Anno della fede», che ho voluto indire in occasione del Cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II.
 Parlare dell’uomo e del suo anelito all’infinito significa innanzitutto riconoscere il suo rapporto costitutivo con il Creatore.
 L’uomo è una creatura di Dio. Oggi questa parola – creatura – sembra quasi passata di moda: si preferisce pensare all’uomo come ad un essere compiuto in se stesso e artefice assoluto del proprio destino. La considerazione dell’uomo come creatura appare «scomoda» poiché implica un riferimento essenziale a qualcosa d’altro o meglio, a Qualcun altro – non gestibile dall’uomo – che entra a definire in modo essenziale la sua identità; un’identità relazionale, il cui primo dato è la dipendenza originaria e ontologica da Colui che ci ha voluti e ci ha creati.
 Eppure questa dipendenza, da cui l’uomo moderno e contemporaneo tenta di affrancarsi, non solo non nasconde o diminuisce, ma rivela in modo luminoso la grandezza e la dignità suprema dell’uomo, chiamato alla vita per entrare in rapporto con la Vita stessa, con Dio.

 Dire che «la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito» significa allora dire che ogni persona è stata creata perché possa entrare in dialogo con Dio, con l’Infinito. All’inizio della storia del mondo, Adamo ed Eva sono frutto di un atto di amore di Dio, fatti a sua immagine e somiglianza, e la loro vita e il loro rapporto con il Creatore coincidevano: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen, 1,27).

 E il peccato originale ha la sua radice ultima proprio nel sottrarsi dei nostri progenitori a questo rapporto costitutivo, nel voler mettersi al posto di Dio, nel credere di poter fare senza di Lui. Anche dopo il peccato, però, rimane nell’uomo il desiderio struggente di questo dialogo, quasi una firma impressa col fuoco nella sua anima e nella sua carne dal Creatore stesso. Il Salmo 63 [62] ci aiuta a entrare nel cuore di questo discorso: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua» (v. 2). Non solo la mia anima, ma ogni fibra della mia carne è fatta per trovare la sua pace, la sua realizzazione in Dio. E questa tensione è incancellabile nel cuore dell’uomo: anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare la sete di infinito che abita l’uomo. Inizia invece una ricerca affannosa e sterile, di «falsi infiniti» che possano soddisfare almeno per un momento. La sete dell’anima e l’anelito della carne di cui parla il Salmista non si possono eliminare, così l’uomo, senza saperlo, si protende alla ricerca dell’Infinito, ma in direzioni sbagliate: nella droga, in una sessualità vissuta in modo disordinato, nelle tecnologie totalizzanti, nel successo ad ogni costo, persino in forme ingannatrici di religiosità. Anche le cose buone, che Dio ha creato come strade che conducono a Lui, non di rado corrono il rischio di essere assolutizzate e divenire così idoli che si sostituiscono al Creatore.

 Riconoscere di essere fatti per l’infinito significa percorrere un cammino di purificazione da quelli che abbiamo chiamato «falsi infiniti», un cammino di conversione del cuore e della mente. Occorre sradicare tutte le false promesse di infinito che seducono l’uomo e lo rendono schiavo. Per ritrovare veramente se stesso e la propria identità, per vivere all’altezza del proprio essere, l’uomo deve tornare a riconoscersi creatura, dipendente da Dio.

 Al riconoscimento di questa dipendenza – che nel profondo è la gioiosa scoperta di essere figli di Dio – è legata la possibilità di una vita veramente libera e piena. È interessante notare come san Paolo, nella Lettera ai Romani, veda il contrario della schiavitù non tanto nella libertà, ma nella figliolanza, nell’aver ricevuto lo Spirito Santo che rende figli adottivi e che ci permette di gridare a Dio: «Abbà! Padre!» (cfr 8,15).
L’Apostolo delle genti parla di una schiavitù «cattiva»: quella del peccato, della legge, delle passioni della carne. A questa, però, non contrappone l’autonomia, ma la «schiavitù di Cristo» (cfr 6,16-22), anzi egli stesso si definisce: «Paolo, servo di Cristo Gesù» (1,1). Il punto fondamentale, quindi, non è eliminare la dipendenza, che è costitutiva dell’uomo, ma indirizzarla verso Colui che solo può rendere veramente liberi.


 A questo punto però sorge una domanda. Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza della propria natura? E non è forse una condanna questo anelito verso l’infinito che egli avverte senza mai poterlo soddisfare totalmente? Questo interrogativo ci porta direttamente al cuore del cristianesimo. L’Infinito stesso, infatti, per farsi risposta che l’uomo possa sperimentare, ha assunto una forma finita. Dall’Incarnazione, dal momento in cui in Verbo si è fatto carne, è cancellata l’incolmabile distanza tra finito e infinito: il Dio eterno e infinito ha lasciato il suo Cielo ed è entrato nel tempo, si è immerso nella finitezza umana.
 Nulla allora è banale o insignificante nel cammino della vita e del mondo. L’uomo è fatto per un Dio infinito che è diventato carne, che ha assunto la nostra umanità per attirarla alle altezze del suo essere divino.
 Scopriamo così la dimensione più vera dell’esistenza umana, quella a cui il Servo di Dio Luigi Giussani continuamente richiamava: la vita come vocazione. Ogni cosa, ogni rapporto, ogni gioia, come anche ogni difficoltà, trova la sua ragione ultima nell’essere occasione di rapporto con l’Infinito, voce di Dio che continuamente ci chiama e ci invita ad alzare lo sguardo, a scoprire nell’adesione a Lui la realizzazione piena della nostra umanità.

 «Ci hai fatti per te – scriveva Agostino – e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confessioni I, 1,1). Non dobbiamo avere paura di quello che Dio ci chiede attraverso le circostanze della vita, fosse anche la dedizione di tutto noi stessi in una forma particolare di seguire e imitare Cristo nel sacerdozio o nella vita religiosa. Il Signore, chiamando alcuni a vivere totalmente di Lui, richiama tutti a riconoscere l’essenza della propria natura di essere umani: fatti per l’infinito. E Dio ha a cuore la nostra felicità, la nostra piena realizzazione umana. Chiediamo, allora, di entrare e rimanere nello sguardo della fede che ha caratterizzato i Santi, per poter scoprire i semi di bene che il Signore sparge lungo il cammino della nostra vita e aderire con gioia alla nostra vocazione.

 Nell’auspicare che questi brevi pensieri possano essere di aiuto per coloro che prendono parte al Meeting, assicuro la mia vicinanza nella preghiera ed auguro che la riflessione di questi giorni possa introdurre tutti nella certezza e nella gioia della fede.
 A Lei, Venerato Fratello, ai responsabili e agli organizzatori della manifestazione, come pure a tutti i presenti, ben volentieri imparto una particolare Benedizione Apostolica.
 
Da Castel Gandolfo, 10 agosto 2012
 
BENEDICTUS PP. XVI




[SM=g1740771]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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altri Messaggi del Papa ai Meeting degli anni precedenti.... ricordanto molto importante quello del 1992, da cardinale Prefetto per la CdF e che troverete integralmente CLICCANDO QUI: non di una Chiesa più umana, abbiamo bisogno, ma di una Chiesa DIVINA....

MESSAGGIO DEL CARD. SEGRETARIO DI STATO TARCISIO BERTONE,
A NOME DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI,
IN OCCASIONE DELLA 3 EDIZIONE DEL
MEETING PER L'AMICIZIA FRA I POPOLI

(Rimini, 21-27 agosto 2011)

 

  

10 agosto 2011

A Sua Eccellenza Reverendissima
Mons. Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini

Eccellenza Reverendissima,

anche quest’anno ho la gioia di trasmettere il cordiale saluto del Santo Padre a Vostra Eccellenza, agli organizzatori e a tutti i partecipanti al Meeting per l’Amicizia tra i Popoli, che si svolge in questi giorni a Rimini. Il tema scelto per l’edizione 2011 - “E l’esistenza diventa una immensa certezza” - suscita vari e profondi interrogativi: che cos’è l’esistenza? Che cos’è la certezza? E soprattutto: qual è il fondamento della certezza senza la quale l’uomo non può vivere?

Sarebbe interessante entrare nella ricchissima riflessione che la filosofia, fin dai suoi albori, ha sviluppato attorno all’esperienza dell’esistere, dell’esserci, giungendo a conclusioni importanti, ma spesso anche contraddittorie e parziali. Possiamo tuttavia essere condotti direttamente all’essenziale partendo dall’etimologia latina del termine esistenza: ex sistere. Heidegger, interpretandola come un “non permanere”, ha messo in evidenza il carattere dinamico della vita dell’uomo. Ma ex sistere evoca in noi almeno altri due significati, ancora più descrittivi dell’esperienza umana dell’esistere e che, in un certo senso, sono all’origine del dinamismo stesso analizzato da Heidegger. La particella ex ci fa pensare ad una provenienza e, nello stesso tempo, ad un distacco. L’esistenza sarebbe dunque uno “stare, essendo provenuti da” e, allo stesso tempo, un “portarsi oltre”, quasi un “trascendere” che definisce in modo permanente lo stesso “stare”.

Tocchiamo qui il livello più originario della vita umana: la sua creaturalità, il suo essere strutturalmente dipendente da un’origine, il suo essere voluta da qualcuno verso cui, quasi inconsapevolmente, tende. Il compianto mons. Luigi Giussani, che con il suo fecondo carisma è all’origine della manifestazione riminese, ha più volte insistito su questa dimensione fondamentale dell’uomo. E giustamente, perché è proprio dalla coscienza di essa che deriva la certezza con cui l’uomo affronta l’esistenza. Il riconoscimento della propria origine e la “prossimità” di questa stessa origine a tutti i momenti dell’esistenza sono la condizione che permette all’uomo un’autentica maturazione della sua personalità, uno sguardo positivo verso il futuro e una feconda incidenza storica. È questo un dato antropologico verificabile già nell’esperienza quotidiana: un bambino è tanto più certo e sicuro quanto più sperimenta la vicinanza dei genitori.
Ma proprio rimanendo sull’esempio del bambino capiamo che, da solo, il riconoscimento della propria origine e, conseguentemente, della propria strutturale dipendenza non basta. Anzi potrebbe apparire - come la storia ha ampiamente dimostrato - un peso di cui liberarsi. Ciò che rende “forte” il bambino è la certezza dell’amore dei genitori. Occorre, dunque, entrare nell’amore di chi ci ha voluti per poter sperimentare la positività dell’esistenza. Se manca una delle due, la coscienza dell’origine e la certezza della meta di bene cui l’uomo è chiamato, diventa impossibile spiegare il dinamismo profondo dell’esistenza e comprendere l’uomo. Già nella storia del popolo di Israele, soprattutto nell’esperienza dell’esodo descritta nell’Antico Testamento, emerge come la forza della speranza derivi dalla presenza paterna di Dio che guida il suo popolo, dalla memoria viva delle sue azioni e dalla promessa luminosa sul futuro.

L’uomo non può vivere senza una certezza sul proprio destino. “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente” (Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, 2). Ma su quale certezza l’uomo può fondare ragionevolmente la propria esistenza? Qual è, in definitiva, la speranza che non delude? Con l’avvento di Cristo la promessa che alimentava la speranza del popolo di Israele raggiunge il suo compimento, assume un volto personale. In Cristo Gesù il destino dell’uomo è stato strappato definitivamente dalla nebulosità che lo circondava. Attraverso il Figlio, nella potenza dello Spirito Santo, il Padre ci ha svelato definitivamente il futuro positivo che ci attende. “Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future” (ibid., 7).
Cristo risorto, presente nella sua Chiesa, nei Sacramenti e con il suo Spirito, è il fondamento ultimo e definitivo dell’esistenza, la certezza della nostra speranza. Egli è l’eschaton già presente, colui che fa dell’esistenza stessa un avvenimento positivo, una storia di salvezza nella quale ogni circostanza rivela il suo vero significato in rapporto all’eterno. Se manca questa coscienza è facile cadere nei rischi dell’attualismo, nel sensazionalismo delle emozioni, in cui tutto si riduce a fenomeno, o della disperazione, nella quale ogni circostanza appare senza senso. Allora l’esistenza diventa una ricerca affannosa di avvenimenti, di novità passeggere, che, alla fine, risultano deludenti. Solo la certezza che nasce dalla fede permette all’uomo di vivere in modo intenso il presente e, nello stesso tempo, di trascenderlo, scorgendo in esso i riflessi dell’eterno cui il tempo è ordinato. Solo la presenza riconosciuta di Cristo, fonte della vita e destino dell’uomo, è capace di risvegliare in noi la nostalgia del Paradiso e così di proiettarci con fiducia nel futuro, senza paure e senza false illusioni.

I drammi del secolo scorso hanno ampiamente dimostrato che quando viene meno la speranza cristiana, quando cioè viene meno la certezza della fede e il desiderio delle “cose ultime”, l’uomo si smarrisce e diventa vittima del potere, inizia a chiedere la vita a chi la vita non può dare. Una fede senza speranza ha provocato l’insorgere di una speranza senza la fede, intramondana.

Oggi più che mai noi cristiani siamo chiamati a rendere ragione della speranza che è in noi, a testimoniare nel mondo quell’”oltre” senza il quale tutto rimane incomprensibile. Ma per questo occorre “rinascere” come disse Gesù a Nicodemo, lasciarsi rigenerare dai Sacramenti e dalla preghiera, riscoprire in essi l’alveo di ogni autentica certezza. La Chiesa, rendendo presente nel tempo il mistero dell’eternità di Dio, è il soggetto adeguato di questa certezza. Nella comunità ecclesiale la pro-esistenza del Figlio di Dio ci raggiunge; in essa la vita eterna, a cui tutta l’esistenza è destinata, diventa sperimentabile già da ora. “L’immortalità cristiana - affermava all’inizio del secolo scorso Padre Festugière - ha per carattere proprio di essere l’espansione di un’amicizia”. Cos’è infatti il Paradiso se non il compiersi definitivo dell’amicizia con Cristo e tra di noi? In questa prospettiva, prosegue il religioso francese, “poco importa in seguito dove ci si trovi. Il cielo è in verità là dove è il Cristo. Così il cuore che ama non desidera altra gioia se non quella di vivere sempre presso l’amato”. L’esistenza, dunque, non è un procedere cieco, ma è un andare incontro a colui che ci ama. Sappiamo quindi dove stiamo andando, verso chi siamo diretti e questo orienta tutta l’esistenza.

Eccellenza, auguro che questi brevi pensieri possano essere di aiuto per coloro che prendono parte al Meeting. Sua Santità Benedetto XVI desidera assicurare a tutti, con affetto, il Suo ricordo nella preghiera e, auspicando che la riflessione di questi giorni rafforzi la certezza che solo Cristo illumina pienamente la nostra esistenza umana, di cuore invia a Lei, ai responsabili e agli organizzatori della manifestazione, come pure a tutti i presenti, una particolare Benedizione Apostolica.

Unisco anch’io un cordiale saluto e mi valgo della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio

dell’Eccellenza Vostra Reverendissima
dev.mo nel Signore

+ Tarcisio Card. Bertone
Segretario di Stato di Sua Santità



[SM=g1740771]





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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18/08/2012 22:39
 
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MESSAGGIO DEL CARD. SEGRETARIO DI STATO TARCISIO BERTONE,
A NOME DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI,
IN OCCASIONE DELLA 31ª EDIZIONE DEL
MEETING PER L'AMICIZIA FRA I POPOLI

(Rimini, 22-28 agosto 2010)

 

 

A Sua Eccellenza Reverendissima
Mons. Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini

Eccellenza Reverendissima,

con gioia ho il piacere di trasmettere il cordiale saluto del Santo Padre a Vostra Eccellenza, agli organizzatori e a tutti i partecipanti al Meeting per l’Amicizia tra i Popoli, che si svolge a Rimini.

Quest’anno il titolo della vostra importante manifestazione - "Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore" - ci ricorda che al fondo della natura di ogni uomo si trova un’insopprimibile inquietudine che lo spinge alla ricerca di qualcosa che soddisfi questo suo anelito. Ogni uomo intuisce che proprio nella realizzazione dei desideri più profondi del suo cuore può trovare la possibilità di realizzarsi, di compiersi, di diventare veramente se stesso.

L’uomo sa che non può rispondere da solo ai propri bisogni. Per quanto si illuda di essere autosufficiente, egli sperimenta che non può bastare a se stesso. Ha bisogno di aprirsi ad altro, a qualcosa o a qualcuno, che possa donargli ciò che gli manca. Deve, per così dire, uscire da se stesso verso ciò che sia in grado di colmare l’ampiezza del suo desiderio.

Come il titolo del Meeting sottolinea, non qualsiasi cosa è la meta ultima del cuore dell’uomo, ma solo le "cose grandi". L’uomo è spesso tentato di fermarsi alle cose piccole, a quelle che danno una soddisfazione ed un piacere "a buon mercato", a quelle che appagano per un momento, cose tanto facili da ottenere, quanto ultimamente illusorie. Nel racconto evangelico delle tentazioni di Gesù (cfr Mt 4,1-4) il diavolo insinua che sia "il pane", cioè la soddisfazione materiale a poter appagare l’uomo. Questa è una menzogna pericolosa, perché contiene solo una parte di verità. L’uomo, infatti, vive anche di pane, ma non di solo pane. La risposta di Gesù svela la falsità ultima di questa posizione: "Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4).
Dio solo basta. Lui solo sazia la fame profonda dell’uomo. Chi ha trovato Dio, ha trovato tutto. Le cose finite possono dare barlumi di soddisfazione o di gioia, ma solo l’Infinito può riempire il cuore dell’uomo: "inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te – il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te" (S. Agostino, Le Confessioni, I, 1).

L’uomo, in fondo, ha bisogno di un’unica cosa che tutto contiene, ma prima deve imparare a riconoscere, anche attraverso i suoi desideri e i suoi aneliti superficiali, ciò di cui davvero necessita, ciò che veramente vuole, ciò che è in grado di soddisfare la capacità del proprio cuore.

Dio è venuto nel mondo per risvegliare in noi la sete delle "cose grandi". Lo si vede bene in quella pagina evangelica, di inesauribile ricchezza, che narra dell’incontro di Gesù con la donna samaritana (cfr Gv 4,5-42), di cui sant’Agostino ci ha lasciato un commento luminoso. La samaritana viveva l’insoddisfazione esistenziale di chi non ha ancora trovato ciò che cerca: aveva avuto "cinque mariti" ed in quel momento conviveva con un altro uomo. Quella donna, come faceva abitualmente, era andata ad attingere acqua al pozzo di Giacobbe e vi trovò Gesù, seduto, "stanco del viaggio", nella calura del mezzogiorno. Dopo averle chiesto da bere, è Gesù stesso che le offre dell’acqua, e non una qualsiasi, ma un’"acqua viva", capace di estinguere la sua sete. E così egli si faceva spazio "a poco a poco […] nel cuore di lei" (S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, XV,12), facendo emergere il desiderio di qualcosa di più profondo della semplice necessità di soddisfare la sete materiale. Sant’Agostino commenta: "Colui che domandava da bere, aveva sete della fede di quella donna" (Ibid.,XV,11). Dio ha sete della nostra sete di Lui. Lo Spirito Santo, simboleggiato dall’"acqua viva" di cui parlava Gesù, è proprio quel potere vitale che placa la sete più profonda dell’uomo e gli dona la vita totale, quella vita che egli cerca e attende senza conoscerla. La samaritana lasciò allora a terra la brocca "che ormai non le serviva più, anzi era diventata un peso: era avida ormai di dissetarsi solo di quell’acqua" (Ibid., XV,30).

Anche i discepoli di Emmaus vivono di fronte a Gesù la stessa esperienza. È ancora il Signore che fa "ardere il cuore" ai due mentre camminavano "col volto triste" (cfr Lc 24,13-35). Pur senza riconoscere Gesù risorto, durante il tragitto compiuto insieme a lui, essi si sentivano il cuore "ardere nel petto", riprendere vita, tanto che, arrivati a casa, "insistettero" affinché egli restasse con loro. "Resta con noi, Signore": è l’espressione del desiderio che palpita nel cuore di ogni essere umano. Questo desiderio di "cose grandi", deve trasformarsi in preghiera. I Padri sostenevano che pregare non è altro che cambiarsi in desiderio struggente del Signore.

In un bellissimo testo sant’Agostino definisce la preghiera come espressione del desiderio e afferma che Dio risponde allargando verso di Lui il nostro cuore: "Dio […] suscitando in noi il desiderio, estende il nostro animo; ed estendendo il nostro animo, lo rende capace di accoglierlo" (Commento alla Prima Lettera di Giovanni, IV, 6). Da parte nostra dobbiamo purificare i nostri desideri e le nostre speranze per poter accogliere la dolcezza di Dio. "Questa – continua sant’Agostino – è la nostra vita: esercitarci nel desiderio" (Ibid.). Pregare davanti a Dio è un cammino, una scala: è un processo di purificazione dei nostri pensieri, dei nostri desideri. A Dio possiamo chiedere tutto. Tutto ciò che è buono. La bontà e la potenza di Dio non conoscono un limite tra cose grandi e piccole, tra cose materiali e spirituali, tra cose terrene e celesti.
Nel dialogo con Lui, portando tutta la nostra vita davanti ai suoi occhi, impariamo a desiderare le cose buone, a desiderare, in fondo, Dio stesso. Si narra che, in uno dei suoi momenti di preghiera, San Tommaso d’Aquino sentì il Signore Crocifisso dirgli: "Hai scritto bene di me Tommaso; che cosa desideri?". "Nient’altro che Te", fu la risposta del Santo dottore. "Nient’altro che Te". Imparare a pregare è imparare a desiderare, e, così, imparare a vivere.

A cinque anni dalla scomparsa di mons. Luigi Giussani, il Sommo Pontefice si unisce spiritualmente agli aderenti al Movimento di Comunione e Liberazione. Come ebbe modo di ricordare durante l’Udienza in Piazza San Pietro il 24 marzo 2007, "don Giussani s’impegnò […] a ridestare nei giovani l’amore verso Cristo, "Via, Verità e Vita", ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei desideri più profondi del cuore dell’uomo".

Nell’affidare ai partecipanti al Meeting queste riflessioni, auspicando che siano di aiuto per conoscere, incontrare ed amare sempre di più il Signore e testimoniare nel nostro tempo che le "grandi cose" a cui anela il cuore umano si trovano in Dio, Sua Santità Benedetto XVI assicura la Sua preghiera e ben volentieri invia a Vostra Eccellenza, ai responsabili ed organizzatori e a tutti i presenti la Benedizione Apostolica.

Unisco cordialmente anche il mio augurio e mi valgo della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio

dell’Eccellenza Vostra Reverendissimadev.mo nel Signore
Tarcisio Card. Bertone
Segretario di Stato

Dal Vaticano, 10 agosto 2010




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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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MESSAGGIO DEL CARD. SEGRETARIO DI STATO TARCISIO BERTONE,
A NOME DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI,
IN OCCASIONE DELLA 30ª EDIZIONE DEL
MEETING PER L'AMICIZIA FRA I POPOLI

(Rimini, 23-29 agosto 2009)

 

 

A Sua Eccellenza Rev.ma
Mons. Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini

17 agosto 2009

Eccellenza Reverendissima,

in occasione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, che quest’anno celebra il suo trentennale, mi è particolarmente gradito trasmettere il saluto del Santo Padre a Lei, ed a quanti hanno promosso ed organizzato tale manifestazione culturale, che in tre decenni ha già visto la partecipazione di migliaia e migliaia di uomini e donne, soprattutto giovani, e l’intervento di centinaia di relatori sulle tribune allestite nelle aule della fiera di Rimini.
Aiutati da studiosi di ogni disciplina, da artisti, da autorità religiose, da esponenti del mondo della politica, dell’economia, dello sport, ci si é potuto confrontare sulle questioni e sulle istanze fondamentali dell’umana esistenza, ed approfondire le ragioni dell’essere cristiani in questa nostra epoca. Sua Santità augura che il Meeting continui a raccogliere le sfide e gli interrogativi che i tempi di oggi pongono alla fede, e rispondere ad essi facendo tesoro dell’insegnamento del compianto Mons. Luigi Giussani, fondatore del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione.

La tematica del Meeting 2009 verte sulla conoscenza che è sempre un avvenimento. “Avvenimento” è una parola con cui don Giussani ha tentato di riesprimere la natura stessa del cristianesimo, che per lui è un “incontro”, e cioè un dato esperienziale di conoscenza e di comunione. Proprio dall’accostamento tra le parole “avvenimento” e “incontro” è possibile percepire meglio il messaggio del Meeting. La riflessione gnoseologica ed epistemologica contemporanea ha portato alla luce il ruolo determinante del soggetto della conoscenza nell’atto stesso del conoscere. Contrariamente ai presupposti del “dogma” positivista della pura obiettività, il principio di indeterminazione di Heisenberg ha reso evidente come ciò sia vero perfino per le scienze naturali: anche in queste discipline, il cui “oggetto” sembra essere regolato da invariabili leggi di natura, la prospettiva dell’osservatore è un fattore che condiziona e determina il risultato dell’esperimento scientifico, e quindi della conoscenza scientifica come tale. La pura obiettività risulta perciò pura astrazione, espressione di una gnoseologia inadeguata e irrealistica.

Ma se ciò è vero per le scienze naturali, lo è tanto più per quegli “oggetti” di conoscenza che a loro volta sono strutturalmente legati alla libertà degli uomini, alle loro scelte e alle loro diversità. Pensiamo alle scienze storiche, che si basano su testimonianze nelle quali convergono, come fattori influenzanti del loro modo di comunicare la realtà che trasmettono, le visioni del mondo di chi le ha composte e le loro convinzioni, a loro volta legate a quelle del loro tempo, le loro situazioni personali, le scelte con cui essi si sono posti in rapporto alla realtà che descrivono, la loro levatura morale, le loro capacità e il loro ingegno, la loro cultura. Lo studioso che accosta il suo oggetto dovrà dunque sceverare tutto ciò, per comprendere e valutare il significato e la portata del messaggio veicolato in un contesto d’insieme, agendo come se si trovasse di fronte ad una persona che non conosce ancora bene, ma che gli sta raccontando qualcosa che ritiene comunque importante conoscere. La conseguenza più rilevante di tale situazione è che la conoscenza non può essere descritta come la registrazione di uno spettatore distaccato.
Anzi, il coinvolgimento con l’oggetto conosciuto da parte del soggetto conoscente è conditio sine qua non della conoscenza stessa. E pertanto, non il distacco e l’assenza di coinvolgimento sono l’ideale da rincorrere, peraltro invano, nella ricerca di una conoscenza «obiettiva», bensì un coinvolgimento adeguato con l’oggetto, un coinvolgimento atto a far giungere a chi interroga la conoscenza il suo specifico messaggio.

Ecco perché la conoscenza può essere un “avvenimento”. Essa «avviene» come un vero e proprio «incontro» tra un soggetto e un oggetto. Che tale incontro sia necessario perché si possa parlare di conoscenza ci fa allora guardare a soggetto e a oggetto non come a due grandezze che si possano reciprocamente mantenere ad asettica distanza al fine di preservarne la purezza; essi sono al contrario due realtà vive che si influenzano reciprocamente proprio quando vengono in contatto. L’onestà intellettuale di colui che conosce sta tutta in quella somma arte di “ospitare l’oggetto” in modo che esso possa rivelare se stesso quale veramente è, anche se non in modo integrale ed esaustivo. E l’accoglienza dell’oggetto, la disponibilità all’ascolto che caratterizza il soggetto conoscente come vero amante della verità, si può descrivere come una sorta di «simpatia» per l’oggetto. C’è qui, come molto del pensiero medievale ci ha trasmesso, una particolare forza conoscitiva propria dell’amore. “Amare” significa “voler conoscere” e il desiderio e la ricerca della conoscenza sono una spinta interna dell’amore come tale. A ben vedere, dunque, ciò stabilisce un rapporto ineliminabile tra amore e verità. La conoscenza presuppone per sua natura una certa “conformazione” di soggetto e oggetto: un’intuizione fondamentale, già condensata nell’antico assioma empedocleo, secondo il quale “il simile conosce il simile”. L’evangelista Giovanni lo richiama implicitamente, laddove scrive che quando Dio “si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché Lo vedremo così come Egli è” (1Gv 3,1).

Ci si potrebbe domandare se esista conoscenza più necessaria all’uomo di quella del suo Creatore; se ci sia conoscenza più adeguatamente descritta dalla parola “incontro”, se non il fondamentale rapporto che esiste appunto tra lo spirito dell’uomo e lo Spirito di Dio. Si comprende allora perché i Padri della Chiesa abbiano insistito sul bisogno di purificare l’occhio dell’anima per giungere a vedere Dio, rifacendosi alla beatitudine evangelica: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). La razionalità dell’uomo può essere esercitata, e dunque raggiungere il suo fine proprio, che è la conoscenza della verità e di Dio, solo grazie a un cuore purificato e sinceramente amante del vero che ricerca. Purificato in tal modo, lo spirito umano può aprirsi alla rivelazione della verità. C’è dunque un misterioso nesso tra la beatitudine evangelica e le parole rivolte da Gesù a Nicodemo, riportate da san Giovanni: “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito… dovete rinascere dall’alto” (3,6-7).

Il Santo Padre Benedetto XVI auspica che queste parole di Cristo risuonino nel cuore dei partecipanti alla 30a edizione del Meeting di Rimini, come richiamo a volgersi con fiducia verso di Lui, ad accoglierne la misteriosa presenza, che è per l’uomo e la società sorgente di verità e di amore. Con tali sentimenti, mentre formula voti di pieno successo a codesta manifestazione, imparte a Vostra Eccellenza, ai responsabili e a tutti coloro che sono presenti una speciale Benedizione Apostolica.

Unisco volentieri i miei auguri, e mi valgo della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio

dell’Eccellenza Vostra Reverendissima
dev.mo nel Signore

Card. Tarcisio Bertone
Segretario di Stato






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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI,
A FIRMA DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
IN OCCASIONE DEL 29° MEETING PER L’AMICIZIA FRA I POPOLI
(RIMINI, 24-30 AGOSTO 2008)

 

A Sua Eccellenza Rev.ma
Mons. Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini

Eccellenza Reverendissima,

in occasione della XXIX edizione del Meeting per l’Amicizia tra i Popoli, in programma a Rimini dal 24 al 30 agosto p.v., mi è gradito far pervenire a Lei, ai promotori e a quanti prendono parte a codesta significativa manifestazione il saluto cordiale di Sua Santità Benedetto XVI.

Il provocatorio titolo dell’incontro: "O protagonisti o nessuno" colpisce immediatamente l’attenzione. In verità, è questo il preciso intento degli organizzatori: far «riflettere sul concetto di persona». Che cosa significa infatti essere protagonisti della propria esistenza e di quella del mondo? La domanda si fa oggi urgente, perché l’alternativa al protagonismo sembra essere spesso una vita senza senso, il grigio anonimato dei tanti «nessuno» che si confondono tra le pieghe di una massa informe, incapaci purtroppo di emergere con un proprio volto degno di nota. L’ interrogativo allora va meglio focalizzato e potrebbe essere così riformulato: che cosa dà un volto all’uomo, che cosa lo rende inconfondibile, assicurando piena dignità alla sua esistenza?

La società e la cultura, in cui siamo immersi e di cui i mezzi di comunicazione costituiscono una potente cassa di risonanza, sono largamente dominate dalla convinzione che la notorietà costituisca una componente essenziale della propria realizzazione personale. Emergere dall’anonimato, riuscire ad imporsi all’attenzione pubblica con ogni mezzo e pretesto, questo è lo scopo perseguito da molti. Il potere politico o economico, il prestigio raggiunto nella propria professione, la ricchezza messa in bella mostra, la notorietà delle proprie realizzazioni, l’ostentazione fin anche dei propri eccessi… tutto questo è considerato pacificamente come «successo», come «riuscita» della propria vita. Ecco perché sempre più spesso le nuove generazioni ambiscono a professioni e carriere idealizzate proprio perché offrono una ribalta che consente loro di «apparire», di sentirsi "qualcuno". L’ideale a cui mirano è rappresentato dagli attori del cinema, dai personaggi e miti della televisione e dello spettacolo, dagli atleti, dai giocatori di calcio, ecc..

Ma che ne è di chi non accede a un tale livello di visibilità sociale? Che ne è di chi è dimenticato, se non addirittura schiacciato dalle dinamiche della riuscita mondana su cui è impostata la società in cui vive? Che ne è di chi è povero, inerme, malato, anziano o disabile, di chi non ha talenti per farsi strada tra gli altri o è senza mezzi per coltivarli, di chi non ha voce per far sentire le proprie idee e convinzioni? Come considerare chi conduce una vita oscura, senza apparente rilevanza per giornali e televisioni? L’uomo di oggi, come quello di tutti i tempi, tende alla propria felicità e la insegue dovunque crede di poterla trovare. Ecco quindi il vero interrogativo che si nasconde sotto la parola «protagonismo», che il Meeting propone quest’anno alla nostra riflessione: in che cosa consiste la felicità? Che cosa può veramente condurre l’uomo a conseguirla?

Il Papa Benedetto XVI ha indetto quest’anno uno speciale anno giubilare dedicato a un «campione» della cristianità di tutti i tempi, il fariseo di Tarso di nome Saulo, che dopo aver perseguitato con furore la Chiesa delle origini, si convertì all’irrompere della chiamata del Signore. Da quel momento egli servì la causa del Vangelo con dedizione totale, percorrendo instancabilmente il mondo allora conosciuto e contribuendo a porre le basi di quella che sarebbe diventata la cultura europea, informata dal Cristianesimo.

Rari sono gli spiriti che hanno mostrato una vastità di conoscenze e un acume pari ai suoi. Le sue Lettere manifestano la forza esplosiva della sua personalità appassionata ed hanno attratto milioni di lettori, esercitando un’influenza unica su generazioni e generazioni di uomini, su interi popoli e nazioni. Attraverso i suoi scritti, Paolo non cessa di presentare Cristo come autentica fonte di rispetto tra gli uomini, di pace tra le nazioni, di giustizia nella convivenza. Noi tutti, a duemila anni di distanza, possiamo ancora considerarci «figli» della sua predicazione e la nostra civiltà sa di essere debitrice a quest’uomo proprio per i valori che stanno alle sue fondamenta.

Eppure l’esistenza di san Paolo è ben lontana dalle luci della ribalta e dai pubblici riconoscimenti. Quando egli morì, la Chiesa che aveva contribuito a diffondere era ancora un piccolo seme, un gruppo che le somme autorità dell’Impero Romano si potevano permettere di trascurare o di provare a schiacciare nel sangue. L’esistenza di Paolo, esaminata nella sua quotidianità, appare inoltre tribolata, afflitta da ostilità e pericoli, piena di difficoltà da affrontare più ancora che di consolazioni e gioie di cui godere. È lui stesso a darne testimonianza viva in moltissimi passi dei suoi scritti.

Ecco cosa dice, per esempio, nella Seconda Lettera ai Corinti: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (11, 24-19).
Questa corsa a ostacoli – così la potremmo definire –, compiuta con la forza e nel nome del suo Redentore, Paolo la concluse a Roma, dove condannato a morte venne decapitato. Assieme a lui, nell’infuriare della persecuzione dell’Imperatore Nerone, morirono molti altri cristiani e tra questi Pietro, il pescatore di Galilea e capo della Chiesa.

La vita di Paolo può essere considerata veramente «riuscita»? Siamo qui dinanzi al paradosso della vita cristiana come tale. Che cosa significa infatti per il cristiano «riuscire»? Che cosa ci dicono le vite di tanti santi che hanno trascorso la loro esistenza ritirati nei conventi? Che cosa ci dicono le vite e le morti di innumerevoli martiri cristiani, i cui nomi sono sconosciuti ai più, i quali hanno concluso l’esistenza non tra le acclamazioni, ma circondati dal disprezzo, dall’odio e dall’indifferenza? Dove sta dunque la «grandezza» della loro vita, la luminosità della loro testimonianza, il loro «successo»?

Anche di recente il Santo Padre Benedetto XVI ha ricordato che l’uomo è fatto per il compimento eterno della sua esistenza. Ciò va ben oltre la semplice riuscita mondana e non è in contraddizione con l’umiltà delle condizioni in cui si svolge il suo pellegrinaggio sulla terra. Il compimento dell’umano è la conoscenza di Dio, da cui ogni persona è stata creata e a cui tende con ogni fibra del proprio essere. Per conseguire questo, non serve né fama né successo presso le folle. Ecco dunque il protagonismo che il titolo della presente edizione del Meeting di Rimini punta a riproporre. Protagonista della sua esistenza è chi dona la sua vita a Dio, che lo chiama a cooperare all’universale progetto della salvezza.

Il Meeting vuole ribadire che solo Cristo può svelare all’uomo la sua vera dignità e comunicargli l’autentico senso della sua esistenza. Quando il credente lo segue docilmente è in grado di lasciare una traccia duratura nella storia. È la traccia dell’Amore di cui diviene testimone proprio perché afferrato dall’Amore. Ed allora ciò che fu possibile per san Paolo lo diventa anche per ciascuno di noi. Non importa se il disegno di Dio prevede per noi un ridotto raggio d’azione; non importa se viviamo tra le pareti di un monastero di clausura o se siamo immersi in molteplici e diverse attività del mondo; non importa se siamo padri e madri di famiglia o consacrati o sacerdoti. Dio si serve di noi secondo il suo piano d’amore, secondo modalità che Lui stabilisce e ci chiede di assecondare l’azione del suo Spirito; ci vuole suoi collaboratori per la realizzazione del suo Regno. A ciascuno dice: «Vieni e seguimi» (Lc 18, 22), e soltanto seguendolo l’uomo conosce la vera esaltazione del suo io.

Questo ci insegna l’esperienza dei santi, uomini e donne, che molto spesso hanno vissuto la loro fedeltà a Dio in maniera discreta e ordinaria. E tra di loro troviamo molti veri protagonisti della storia, persone pienamente realizzate, esempi viventi di speranza e testimoni di un amore che nulla teme, nemmeno la morte.

Il Santo Padre auspica che queste riflessioni aiutino i partecipanti al Meeting a incontrare Cristo, per meglio comprendere il valore della vita cristiana e realizzarne il senso nell’umile protagonismo del servizio alla missione della Chiesa, in Italia e nel mondo. A tale scopo Egli assicura la sua preghiera per la buona riuscita del Meeting ed invia a Lei, agli organizzatori e a tutti i presenti una speciale Benedizione.

Unisco ben volentieri i miei fervidi voti augurali per un proficuo successo della manifestazione, e profitto volentieri della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio

benedetto xvi e cardinale bertone

 

dev.mo nel Signore
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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24/08/2012 10:48
 
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Il Papa all'Azione Cattolica: E’ importante, pertanto, che si consolidi un laicato maturo ed impegnato, capace di dare il proprio specifico contributo alla missione ecclesiale, nel rispetto dei ministeri e dei compiti che ciascuno ha nella vita della Chiesa e sempre in cordiale comunione con i Vescovi




MESSAGGIO DEL SANTO PADRE ALLA VI ASSEMBLEA ORDINARIA DEL FORUM INTERNAZIONALE DI AZIONE CATTOLICA (IAŞI, ROMANIA, 22-26 AGOSTO 2012), 23.08.2012


Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato a S.E. Mons. Domenico Sigalini, in occasione della VI Assemblea Ordinaria del Forum Internazionale di Azione Cattolica (FIAC), in corso a Iaşi, in Romania:


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

Al Venerato Fratello
Mons. Domenico Sigalini
Assistente Generale del Forum Internazionale di Azione Cattolica

in occasione della VI Assemblea Ordinaria di codesto Forum Internazionale di Azione Cattolica, desidero rivolgere un cordiale saluto a Lei e a quanti partecipano al significativo incontro, in particolare al Coordinatore del Segretariato, Emilio Inzaurraga, ai Presidenti Nazionali e agli Assistenti Spirituali. Un pensiero speciale rivolgo al Vescovo di Iaşi, Mons. Petru Gherghel, e alla sua diocesi, che ospitano questo  evento ecclesiale durante il quale siete chiamati a riflettere sulla «corresponsabilità ecclesiale e sociale». Si tratta di un tema di grande rilevanza per il laicato, che bene si colloca nell’imminenza dell’Anno della Fede e dell’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione.

La corresponsabilità esige un cambiamento di mentalità riguardante, in particolare, il ruolo dei laici nella Chiesa, che vanno considerati non come «collaboratori» del clero, ma come persone realmente «corresponsabili» dell’essere e dell’agire della Chiesa. E’ importante, pertanto, che si consolidi un laicato maturo ed impegnato, capace di dare il proprio specifico contributo alla missione ecclesiale, nel rispetto dei ministeri e dei compiti che ciascuno ha nella vita della Chiesa e sempre in cordiale comunione con i Vescovi.

A tale proposito, la Costituzione dogmatica Lumen Gentium qualifica lo stile dei rapporti tra laici e Pastori con l’aggettivo «familiare»: «Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori, si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio, e le loro forze più facilmente vengono associate all’opera dei pastori. E questi, aiutati dall’esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo» (n. 37).

Cari amici, è importante approfondire e vivere questo spirito di comunione profonda nella Chiesa, caratteristica degli inizi della Comunità cristiana, come attesta il libro degli Atti degli Apostoli: «la moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola» (4,32). Sentite come vostro l’impegno ad operare per la missione della Chiesa: con la preghiera, con lo studio, con la partecipazione attiva alla vita ecclesiale, con uno sguardo attento e positivo verso il mondo, nella continua ricerca dei segni dei tempi.  Non stancatevi di affinare sempre più, con un serio e quotidiano impegno formativo, gli aspetti della vostra peculiare vocazione di fedeli laici, chiamati ad essere testimoni coraggiosi e credibili in tutti gli ambiti della società, affinché il Vangelo sia luce che porta speranza nelle situazioni problematiche, di difficoltà, di buio, che gli uomini d’oggi trovano spesso nel cammino della vita.

Guidare all’incontro con Cristo, annunciando il suo Messaggio di salvezza con linguaggi e modi comprensibili al nostro tempo, caratterizzato da processi sociali e culturali in rapida trasformazione, è la grande sfida della nuova evangelizzazione. Vi incoraggio a proseguire con generosità nel vostro servizio alla Chiesa, vivendo pienamente il vostro carisma, che ha come tratto fondamentale quello di assumere il fine apostolico della Chiesa nella sua globalità, in equilibrio fecondo tra Chiesa universale e Chiesa locale e in spirito di intima unione con il Successore di Pietro e di operosa corresponsabilità con i propri Pastori (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 20). In questa fase della storia, alla luce del Magistero sociale della Chiesa, lavorate anche per essere sempre più un laboratorio di «globalizzazione della solidarietà e della carità», per crescere, con tutta la Chiesa, nella corresponsabilità di offrire un futuro di speranza all’umanità, avendo il coraggio anche di formulare proposte esigenti.

Le vostre Associazioni di Azione Cattolica vantano una lunga e feconda storia, scritta da coraggiosi testimoni di Cristo e del Vangelo, alcuni dei quali sono stati riconosciuti dalla Chiesa come beati e santi. In questa scia siete chiamati oggi a rinnovare l’impegno di camminare sulla via della santità, mantenendo un’intensa vita di preghiera, favorendo e rispettando percorsi personali di fede e valorizzando le ricchezze di ciascuno, con l’accompagnamento dei sacerdoti assistenti e di responsabili capaci di educare alla corresponsabilità ecclesiale e sociale. La vostra vita sia «trasparente», guidata dal vangelo e illuminata dall’incontro con Cristo, amato e seguito senza timore. Assumete e condividete le scelte pastorali delle diocesi e delle parrocchie, favorendo occasioni di incontro e di sincera collaborazione con le altre componenti della comunità ecclesiale, creando rapporti di stima e di comunione con i sacerdoti, per una comunità viva, ministeriale e missionaria. Coltivate relazioni personali autentiche con tutti, a iniziare dalla famiglia, e offrite la vostra disponibilità alla partecipazione, a tutti i livelli della vita sociale, culturale e politica avendo sempre di mira il bene comune.

Con questi brevi pensieri, mentre assicuro il mio affettuoso ricordo nella preghiera per voi, per le vostre famiglie e per le vostre associazioni, di cuore invio a tutti i partecipanti all’Assemblea la Benedizione Apostolica, che volentieri estendo a quanti incontrerete nel vostro apostolato quotidiano.

Da Castel Gandolfo, 10 agosto 2012

 

BENEDICTUS PP. XVI




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