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Omaggio al Card. Francis Arinze

Ultimo Aggiornamento: 21/08/2012 22:07
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Amici....dopo aver letto la presentazione del Libro dedicato ai SACERDOTI:

CARI SACERDOTI Lettera del card. Arinze sull'OBBEDIENZA

attraverso il quale il card. Ainze si è praticamente congedato dalla guida della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti, per raggiunti limiti di età....ci sembra doveroso, ma anche un piacere, dedicargli uno spazio attraverso il quale non semplicemente o solamente ringraziarlo, ma poter fare di più, divulgare il Suo prezioso contributo a servizio della Chesa...
I Ringraziamenti per noi Cattolici vanno ben oltre la forma convenzionale della buona educazione....servono proprio per far conoscere la Persona e il CONTRIBUTO di Colui che è un dovere e un piacere portare a conoscenza di molti e, attraverso i suoi testi, aiutare gli altri ad una Comunione vera cn i Pastori della Chiesa...

Quanto segue è estratto dal Libro sopra citato....un Libro che, essendo a Natale, SUGGERIAMO DI ACQUISTARE e di regalare e farne dono ai propri Parroci, ai propri Sacerdoti... [SM=g1740721]

Martedì 16 vengono presentati presso la Sala Marconi della Radio Vaticana i volumi dei cardinali Angelo Sodano Verso le origini, una genealogia episcopale (pagine 70, euro 8 ) e Francis Arinze Riflessioni sul sacerdozio, lettera a un giovane sacerdote (pagine 138, euro 12), entrambi appena pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana.

Anticipiamo ampi stralci del capitolo intitolato Il sacerdote e lo stile evangelico di vita tratto dal libro del prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

di Francis Arinze



Per la biografia del card. Arinze, cliccate qui






Caro fratello sacerdote, è giusto tenere a mente che il presbitero ha come Maestro il Cristo. Non è certo possibile imitare l'agire di Cristo in ogni minimo dettaglio, ma ciò non ci esime dal seguirlo nel modo più vicino possibile. (...) Tra le tante cose che Gesù "fece e insegnò", scegliamo tre consigli evangelici a cui ogni sacerdote è chiamato a dare particolare attenzione:  l'obbedienza, la povertà e la castità nel seguire Cristo Maestro.
Il sacerdote sa che la costituzione gerarchica della Chiesa deriva dal suo divino Fondatore. Il carisma e il ministero del Papa e del vescovo sono di istituzione divina. Gesù ha inviato gli apostoli come egli stesso è stato inviato dal Padre (cfr. Giovanni, 20, 21):  "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me" (Luca, 10, 16).

 L'obbedienza che il presbitero dà al Santo Padre, al vescovo e ai loro rappresentanti, si basa sulla fede. Mediante questa obbedienza il sacerdote dà a Dio la possibilità di servirsi pienamente di lui nell'attuare la missione della Chiesa. L'obbedienza non ha lo scopo di sminuire il ruolo del prete, o di trattarlo come inferiore o di impedirgli la propria crescita personale.





Anche il sacerdote partecipa dell'esercizio dell'autorità nella Chiesa. Da quanti hanno autorità nella Chiesa ci si attende l'impegno di esercitare questo potere nel nome di Cristo. Un vescovo o un sacerdote deve fare il proprio dovere con tutta umiltà e coraggio. Non dimostra certo umiltà se abbandona la responsabilità pastorale:  questo danneggerebbe solo il gregge. (...) D'altra parte, il sacerdote non deve tentare di introdurre una specie di democrazia secolare che non si accorda con la natura divina dell'istituzione gerarchica della Chiesa. Una cosa è la virtù dell'umiltà, tutt'altra è cercare di clericalizzare il laicato o laicizzare il clero.
La Chiesa non ha nulla da guadagnare, ma tutto da perdere, da simili dissennate iniziative.

In tema di obbedienza del presbitero, è degno di speciale attenzione il suo atteggiamento verso i compiti affidatigli dal vescovo. Certamente da parte del vescovo ci si deve aspettare amore, attenta considerazione delle capacità di ciascun presbitero, apertura al dialogo, equità, giustizia e una chiara visione della missione della Chiesa nella diocesi. Se si trattasse di una lettera rivolta ai vescovi, potremmo scendere in maggiori dettagli sulle loro responsabilità. Ma qui stiamo esaminando il ruolo del sacerdote. Questi deve lasciare al vescovo e ai suoi collaboratori piena libertà nelle nomine riguardanti i preti.

Dal presbitero bisogna attendersi un amorevole e leale atteggiamento di collaborazione e obbedienza. Se tuttavia un sacerdote reputa che una particolare nomina o incarico datogli dal vescovo possa danneggiare lui o altre persone, allora ha il diritto, e talvolta il dovere, di chiedere un dialogo con il vescovo per esporre ciò che pensa. Dopodiché, in tutta semplicità, il sacerdote accetti la decisione ultima del vescovo; anche nello scenario peggiore che il vescovo assegni un incarico che supera le capacità del presbitero o che possa farlo soffrire e danneggiarlo, Dio non mancherà certo di proteggere il sacerdote che obbedisce. Il giudizio di Dio nei riguardi del vescovo è altra cosa e Dio non ha bisogno di consigli dal sacerdote per questo!



(continua con altre foto ed altri stralci della Lettera ai Sacerdoti)
[Modificato da Caterina63 17/12/2008 23:38]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Comunque, il sacerdote che disobbedisce a una direttiva chiara e ponderata del proprio Vescovo, non deve aspettarsi la benedizione del Signore. Si trova in balia di se stesso e non deve illudersi di star facendo la volontà di Dio. (...) Ciò che voglio dire è che la mano invisibile di Dio guida gli eventi, anche quando i superiori possono essere carenti in qualche aspetto nell'esercizio dell'autorità.

Alla fine, Dio protegge il sacerdote che rispetta e obbedisce al proprio vescovo con fedeltà ferma e nobiltà di carattere. L'intervento di Dio può apparire posticipato di mesi o anche di anni, ma alla fine arriva. Ad alcuni santi è stata fatta giustizia solo dopo la morte.

Il sacerdote è un seguace di Cristo che, nella sua esistenza terrena, ha vissuto da povero. È nato in una stalla ed è stato deposto in una mangiatoia. La Santa Famiglia di Nazaret viveva in povertà di mezzi. Cristo ha ammonito le persone che si offrivano spontaneamente a seguirlo di ricordarsi che le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo (cfr. Matteo, 8, 20).

È vero che i sacerdoti membri di ordini e congregazioni religiose, in quanto religiosi, fanno il voto di povertà, mentre invece non lo fanno i sacerdoti diocesani. È però chiaro, dall'esempio e dall'insegnamento di Cristo, che ogni sacerdote deve coltivare la virtù della povertà. Un certo distacco dai beni terreni è richiesto al sacerdote diocesano. Questi, prima di tutto, deve essere onesto e trasparente nell'amministrazione dei beni della Chiesa. In situazioni riguardanti la parrocchia o la diocesi è tenuto a collaborare con il consiglio economico e ad osservare lealmente i regolamenti della diocesi in materia. La virtù della povertà riguarda anche l'uso personale dei propri soldi.






Evitando tutto ciò che può farlo apparire attaccato a beni terreni ed incline a spese eccessive, il sacerdote deve ricordarsi dei poveri, dei malati, degli anziani e di tutti i bisognosi in genere. I mezzi di trasporto, la casa, il mobilio, il vestito non devono collocarlo dalla parte dei ricchi e dei potenti. Per risparmiare al sacerdote un'eccessiva preoccupazione per i bisogni dovuti a malattia e a vecchiaia, la diocesi deve prevedere queste situazioni e predisporre adeguati programmi.

Un test sulla generosità del prete può consistere nel domandarsi quali motivi di carità sono inclusi nei suoi desideri e quanta gente povera, poveri seminaristi o candidati alla vita consacrata piangeranno la sua morte, riconoscendo che è scomparso il loro padre in Cristo e il loro benefattore.
Il presbitero non deve identificare la povertà con la mancanza di pulizia e di ordine nella propria casa, e neppure assimilarla con l'uso di paramenti o suppellettili d'altare consunti. Occorre offrire il meglio a Dio per la sua lode. Nella sua casa ogni cosa deve essere segno di buon gusto e ordine, pur nella semplicità e sobrietà.

Cristo ha vissuto una vita verginale, ha insegnato ai suoi discepoli la castità e ha proposto la verginità a coloro che sono disponibili e in grado di seguire una tale chiamata.

La Chiesa, da sempre, ha tenuto in grande considerazione il celibato dei sacerdoti. Nella vita sacerdotale, la continenza perpetua per il regno dei cieli esprime e stimola la carità pastorale. È una sorgente speciale di fecondità spirituale nel mondo (cfr. Presbyterorum ordinis, 16). La Chiesa di rito latino preferisce ammettere al sacerdozio solo candidati convinti di essere stati chiamati al celibato per il regno di Dio.




È una testimonianza che risplende davanti al mondo come via efficace per la sequela di Cristo. Nel mondo di oggi, immerso in una preoccupazione esagerata per il sesso e la sua desacralizzazione, un presbitero che vive con gioia, fedeltà e positivamente il proprio voto di castità è un testimone che non può essere ignorato. [SM=g1740720]

Per mezzo del celibato sacerdotale, il presbitero viene consacrato più strettamente a Cristo nell'esercizio della paternità spirituale. Con più prontezza egli si manifesta come ministro di Cristo, sposo della Chiesa, e può davvero presentarsi come segno vivo del mondo futuro, che è già presente per mezzo della fede e della carità.

Il sacerdote non deve dubitare del valore o della possibilità del celibato a causa della minaccia rappresentata dalla solitudine. Una certa dose di solitudine è presente in ogni stato di vita, anche nella vita matrimoniale. Farebbe uno sbaglio se cercasse di evitare la solitudine buttandosi sempre più nell'attività e organizzando sempre nuovi incontri, viaggi o visite. Ciò di cui ha bisogno è il silenzio, la quiete e il raccoglimento per stare alla presenza di Dio, dare maggior attenzione a Dio e incontrare Cristo nella preghiera personale davanti al tabernacolo. Solo allora sarà capace di vedere Cristo in ogni persona che incontra nel ministero. Perché i grandi santi, che dedicano molto tempo per stare soli con Dio, sono così bravi nell'incontrare la gente? Hanno una identità chiara, trovano Dio e così trovano se stessi e gli altri in Dio.

Non dobbiamo sottovalutare l'apporto positivo della fraternità tra sacerdoti per vivere il celibato. Come è bello quando i presbiteri vivono in unione e armonia (cfr. Salmi, 133, 1). L'ideale è che il vescovo faccia in modo che i sacerdoti vivano in due o tre per parrocchia, piuttosto che da soli. Abbiamo bisogno gli uni degli altri per far crescere al massimo le nostre potenzialità. L'auspicio è di costituire comunità di presbiteri che vivono insieme, che si raccolgono insieme in cappella, che preghino parte della Liturgia delle Ore insieme, discutano insieme i problemi pastorali, mangino e scherzino insieme - si formino tali comunità in gran numero in una diocesi, e avremo testimoni migliori di Cristo, anche in rapporto al celibato sacerdotale, come pure al ministero presbiterale in genere.

Quasi in ogni epoca si incontra chi presenta ragioni per persuadere la Chiesa latina a rendere il celibato "facoltativo", così dicono. E ogni volta la Chiesa ha detto di no, per buone ragioni. L'ultima parola della Chiesa su questa materia è di Papa Benedetto XVI, nella Esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis.
Voglio citare per esteso quanto ha detto: "In tale scelta del sacerdote, infatti, trovano peculiare espressione la dedizione che lo conforma a Cristo e l'offerta esclusiva di se stesso per il Regno di Dio. Il fatto che Cristo stesso, sacerdote in eterno, abbia vissuto la sua missione fino al sacrificio della croce nello stato di verginità costituisce il punto di riferimento sicuro per cogliere il senso della tradizione della Chiesa latina a questo proposito. Pertanto, non è sufficiente comprendere il celibato sacerdotale in termini meramente funzionali. In realtà, esso rappresenta una speciale conformazione allo stile di vita di Cristo stesso. Tale scelta è innanzitutto sponsale; è immedesimazione con il cuore di Cristo Sposo che dà la vita per la sua Sposa. In unità con la grande tradizione ecclesiale, con il concilio Vaticano ii e con i Sommi Pontefici miei predecessori, ribadisco la bellezza e l'importanza di una vita sacerdotale vissuta nel celibato come segno espressivo della dedizione totale ed esclusiva a Cristo, alla Chiesa e al Regno di Dio, e ne confermo quindi l'obbligatorietà per la tradizione latina. Il celibato sacerdotale vissuto con maturità, letizia e dedizione è una grandissima benedizione per la Chiesa e per la stessa società" (Sacramentum caritatis, 24).


(©L'Osservatore Romano - 15-16 dicembre 2008)



Grazie di cuore eminenza![SM=g1740717]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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La prima volta di un Pontefice in Africa


L'intervento del cardinale Francis Arinze, già prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, all'incontro internazionale "Paolo VI e la Chiesa in Africa"


ROMA, martedì, 7 luglio 2012 (ZENIT.org) - «Paolo VI e la Chiesa in Africa» è stato il tema dell’incontro organizzato dall’Istituto Paolo VI di Brescia, il Centro internazionale di studi e documentazione sulla vita e il magistero del Pontefice, insieme alla University of Eastern Africa di Nairobi in Kenya che ha ospitato l’iniziativa svoltasi l’1 e il 2 agosto.

Paolo VI, recatosi in Uganda dal 31 luglio al 2 agosto 1969, è stato il primo Papa a visitare la Chiesa in Africa, impegnandosi per la sua crescita e invitando tutti i suoi componenti a partecipare a una nuova “inculturazione” della fede cristiana. Tra i presenti al convegno i cardinali Re, Turkson, Njue, Pengo, Pasinya.

Di seguito riportiamo alcuni estratti dell’intervento del cardinale prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, pubblicati da L'Osservatore Romano dell'8 agosto 2012.

***

Papa Paolo VI era molto attento all’episcopato africano. La sua stessa visita a Kampala, Uganda, nel 1969, può essere considerata una pietra miliare fondamentale nei suoi rapporti con l’episcopato africano. Il giorno stesso del suo arrivo a Kampala inaugurò il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) e fece il suo discorso memorabile ai vescovi dell’Africa, nel quale, tra le altre cose, dichiarò: «Voi Africani siete oramai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in questa terra benedetta».

Continuò col dire che, riguardo all’adattamento del Vangelo e della Chiesa alla cultura africana, una volta che la fede è genuinamente cattolica e immutata, «voi potete e dovete avere un cristianesimo africano». Io ho avuto la gioia di essere presente a quell’evento.

Si percepiva una potenza divina pentecostale ed elettrizzante nella cattedrale di Kampala quando il Papa fece la sua allocuzione. Il giorno seguente, il Santo Padre ordinò dodici vescovi per vari Paesi africani. Diede loro e a tutti i vescovi dell’Africa un grande incoraggiamento per andare avanti vigorosamente con la missione di evangelizzazione: «Andate avanti con metodo e coraggio nella consapevolezza del vostro grande compito: quello di costruire la Chiesa».

Durante la visita il Papa consacrò l’altare al Santuario dei ventidue martiri ugandesi, incontrò i vescovi anglicani ugandesi, indirizzò un discorso di grande forza al presidente del Paese, visitò presidenti e notabili, nonché i malati in ospedale, e parlò a sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Nel complesso, la visita papale in Uganda fu per i vescovi dell’Africa un messaggio, una pietra miliare e un segno di amore, che Paolo VI coltivò per l’Africa.

A parte alcune zone dell’Angola e dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, la maggior parte dei Paesi nell’Africa al sud del Sahara non avevano ancora celebrato cento anni di evangelizzazione nel 1963, quando il cardinale Giovanni Battista Montini divenne Papa Paolo VI.

Consapevole del ruolo chiave del ministero dei vescovi nella Chiesa, e del bisogno di vescovi autoctoni per la costruzione di chiese o diocesi particolari in Paesi di recente evangelizzazione, il Papa, attraverso la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, prestò speciale attenzione alla nomina dei vescovi nelle diocesi africane. Un buon numero di essi furono nominati durante il suo pontificato.

Papa Paolo VI dimostrò anche la sua fiducia nei vescovi africani nominando sette di loro cardinali e chiamando l’arcivescovo (più tardi cardinale) Bernardin Gantin a lavorare presso la Curia Romana. L’incontro inaugurale del Secam si tenne dal 28 al 31 luglio 1969, nell’Istituto Pastorale dell’Africa Orientale, a Gaba. Il Pontefice incoraggiò, lodò e sollecitò il Secam a fare sempre di più per l’evangelizzazione in Africa.

Il suo discorso storico, il giorno dell’inaugurazione, servì da tabella di marcia e da luce guida da quel giorno in poi. Paolo VI spiegò in modo chiaro e privo di ambiguità il ministero del vescovo in Africa.

Nel rivolgersi ai vescovi dell’Africa nel suo messaggio del 1967, Africae Terrarum, comincia citando il concilio Vaticano: «A voi è affidato il servizio della comunità, presiedendo in luogo di Dio al gregge, di cui siete pastori, quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa» (Lumen Gentium, 20).

«A voi, pertanto, spetta rendere vivo ed efficace l’incontro del Cristianesimo con l’antica tradizione africana» (Africae Terrarum, 23). «Bisogna sempre dare la priorità a iniziative volte a portare Cristo a chi ancora non lo conosce» (cfr. Africae Terrarum, 25).

In occasione dell’ordinazione di dodici vescovi a Kampala, il 1° agosto 1969, ricordò ai vescovi che essi erano apostoli, veicoli e strumenti dell’amore di Cristo per la gente. Il loro lavoro pastorale avrebbe dovuto promuovere le comunità caritatevoli che operano tra la gente e contribuire a costruire la società civile, rimanendo allo stesso tempo liberi da impegni politici e interessi temporali.

Ricevendo i membri del Secam il 26 settembre 1975, il Santo Padre ricordò il dovere del vescovo di evangelizzare. La fede è la priorità in tutto ciò che fa il vescovo. Gli attuali vescovi africani sono, in grande parte, la prima generazione di pastori a emergere dalle popolazioni dell’Africa.

I loro compiti sono di offrire alle popolazioni di Africa e Madagascar la Parola di Dio, l’insegnamento della Chiesa, le richieste della fede. Devono cercare di trovare nuove modalità, e un migliore adattamento, per integrare e perfezionare i valori culturali tradizionali delle persone, con prudenza e saggezza. Non devono avere paura.

Il fatto che la fede radicata nei rispettivi Paesi abbia in pochi decenni fatto sorgere vescovi locali, abbia nutrito molte vocazioni sacerdotali e religiose, comunità di fedeli ferventi e generosi, catechisti impegnati e perfino la testimonianza di martiri: non è tutto questo un segno di autentica cristianità?

Nella sua prima udienza generale del mercoledì, al suo ritorno in Vaticano da Kampala, il Papa, a Castel Gandolfo, il 6 agosto 1969, comunicò alla gente le sue impressioni sulla visita in Uganda e sottolineò tre punti: la Chiesa è missionaria, universale e un modello di umanità nella sua attenzione a tutta la persona umana e alla sua dignità. Per il ruolo di guida proprio di un vescovo, queste osservazioni sono preziose.

In molte occasioni, Paolo VI sottolineò ai vescovi dell’Africa l’importanza della gratitudine nei confronti dei missionari che portavano la fede ai loro popoli. I missionari vennero in Africa per «partecipare agli Africani il messaggio di pace e di redenzione affidato alla Chiesa dal suo Divino Fondatore. Per amore di Lui, essi lasciarono la patria e la famiglia e moltissimi sacrificarono la vita al bene dell’Africa” (Africae Terrarum, 24).

Il Papa incoraggiò l’unione e la comunione tra il vescovo e gli operatori apostolici nella sua diocesi, specialmente i sacerdoti, i religiosi e i capi dei fedeli laici. Parlando ai sacerdoti, ai religiosi e ai catechisti nella cattedrale di Kampala il 2 agosto 1969, esortò: «Il vescovo! Il vostro vescovo! Siategli sempre vicini, comprendete i suoi desideri e i suoi bisogni, date forma e azione alla nuova organizzazione della comunità ecclesiale, fate in modo che la sua obbedienza sia amorevole e semplice, e vedete nel vescovo il vostro pastore; anzi, vedete in lui Gesù Cristo stesso (Lumen Gentium, 21).

Il Santo Padre esortò anche alla collaborazione per la missione della Chiesa in Africa tra più diocesi più antiche in altre parti del mondo, sacerdoti fidei donum, istituti missionari e religiosi, e ausiliari laici, tutti operanti di comune accordo con il vescovo diocesano (cfr. Africae Terrarum, 26-28).

Nel suo storico discorso al Secam alla sua inaugurazione a Kampala il 31 luglio 1969, Paolo VI, nell’incoraggiare l’azione per un autentico cristianesimo africano, menzionò alcuni primi requisiti preparatori: «Occorrerà un’incubazione del “mistero” cristiano nel genio del vostro popolo, perché poi la sua voce nativa, più limpida e più franca, si innalzi armoniosa nel coro delle altre voci della Chiesa universale. Dobbiamo noi ricordarvi, a questo proposito, quanto utile sarà per la Chiesa africana avere centri di vita contemplativa e monastica, centri di studi religiosi, centri di addestramento pastorale?».

Fornì altri dettagli nel suo discorso ai rappresentanti del Secam quando li ricevette in udienza nella Città del Vaticano il 26 settembre 1975. Per progredire è necessario che la ricerca rispetti la fede autentica e tradizionale della Chiesa.

Una volta che ciò sia garantito, è necessario promuovere gli studi sulle tradizioni culturali dei vari popoli africani e le relative impalcature filosofiche, per poter discernere elementi non in contraddizione con la religione cristiana e tutto ciò che possa arricchire la riflessione teologica. La ricerca teologica deve sempre essere fatta all’interno della comunione ecclesiale.

L’11 febbraio 1976, il Santo Padre scrisse all’arcivescovo (poi cardinale) Bernard Yago, arcivescovo di Abidjan, un messaggio di buona volontà e incoraggiamento in occasione della costituzione dell’Institut de Sciences Religieuses d’Abidjan. Era l’inizio di quella che sarebbe diventata un’università.

Durante il Sinodo dei vescovi, il 28 ottobre 1977, meno di un anno prima che lasciasse questo mondo, il Papa ricevette in udienza cinque cardinali e trentaquattro vescovi, tutti membri africani del Sinodo, che vennero a ringraziarlo nel decimo anniversario del messaggio papale, Africae Terrarum.

Nel suo discorso, il Santo Padre ripercorse l’incoraggiante crescita della Chiesa in Africa e ritornò sull’importanza dell’acculturazione: «Che cosa è in gioco in questo compito immenso? Come abbiamo scritto dieci anni fa nel nostro Messaggio all’Africa: è, dunque, vostra preoccupazione rendere vivo ed efficace l’incontro tra il cristianesimo e l’antica tradizione dell’Africa. In questo modo possiamo parlare del vero radicamento della Chiesa: è una questione di fondare o di rendere più profonda una nuova civiltà, una civiltà che sia al contempo africana e cristiana.

E affermiamo qui a voi che questo programma può essere realizzato, attraverso la grazia di Dio: che il cristianesimo può e deve essere del tutto “a casa” nelle culture africane, e che l’anima africana è destinata e preparata a ricevere la salvezza di Cristo» (Insegnamenti di Paolo VI, XV, 1977, p. 977). Perché tutto questo possa funzionare bene, il Papa ha dettato quattro condizioni: la fede deve vivificare da dentro le tradizioni e la civiltà che queste tradizioni comportano; la formazione di sacerdoti e religiosi è molto importante; la fede dovrebbe trasformare le relazioni umane, comprese quelle tra razze diverse; e i fedeli laici devono partecipare attivamente alla missione della Chiesa.

Ecco un esempio di come Paolo VI diede agli africani un buon esempio di come la Chiesa condivida «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi» (Gaudium et Spes, 1). La Federazione nigeriana condusse una guerra feroce contro la sua parte orientale che si autoproclamò Repubblica del Biafra.

La guerra ha imperversato dal luglio 1967 al gennaio 1970 e ha portato alla morte di almeno un milione di persone in Biafra a causa della fame e di migliaia di persone sui fronti di guerra. Il Santo Padre fece molti appelli. La Chiesa cattolica, sotto la guida della Caritas Internationalis, organizzò un’imponente azione di sostegno. Così fecero altri cristiani. Ma ciò che merita una menzione speciale qui è l’iniziativa di Papa Paolo VI che coinvolse direttamente i vescovi di Nigeria.

Nel 1969 il Santo Padre invitò i tre arcivescovi del Paese, di Kaduna, Lagos e Onitsha, e un altro vescovo di ognuna delle loro province ecclesiastiche, a venire in Vaticano. Ciò che vi era di notevole in questo evento è che sotto la guida del Vicario di Cristo, vescovi di due fazioni in guerra si incontrarono, meditarono insieme, pregarono insieme e, senza prendere una posizione politica, fecero appello a entrambi gli schieramenti del conflitto perché deponessero le armi, si prendessero cura del popolo sofferente e si impegnassero in una riconciliazione. È stato un privilegio e una scuola di evangelizzazione per me essere stato uno di quei sei vescovi ed essere vicino al grande Pontefice che fu Papa Paolo VI.



Fraternamente CaterinaLD

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