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Una supplica di Benedetto XV al Sultano.... l'eccidio degli Armeni

Ultimo Aggiornamento: 13/04/2015 13:20
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27/03/2014 14:19
 
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Articolo pubblicato su Il Corriere del Sud n. 6/2002 - Anno XI - 16 -31 marzo

 
Un milione e mezzo di armeni massacrati nel 1915-16 

di Piero Mainardi


"Chi parla ancora oggi del massacro degli armeni?" vaticinava Hitler nel 1939. La stessa domanda riformulata oggi (pur con altre intenzioni) non troverebbe una risposta diversa, cioè: ben pochi. E sarebbero ancora meno se la casa editrice Guerrini e Associati non proseguisse in quest’opera di preservazione della memoria rispetto a un evento che ha rappresentato il primo genocidio del XX secolo (oltre ad una parallela opera di riscoperta della storia della presenza armena in Europa) che il popolo armeno ha dovuto partire nel 1915-16 nel quale si calcola siano morti circa tre quarti della popolazione armena in territorio ottomano, ossia circa un milione e mezzo di persone. Nonostante ciò la Turchia continua a negare il carattere di genocidio a questi massacri. 

Dunque assume un rilievo particolare, perché mette alle corde le tesi negazioniste turche, la pubblicazione delle memorie, finora inedite, del padre domenicano Jacques Rhétoré raccolte nel volume Una finestra sul massacro corredato da un’ampia introduzione di Marco Impagliazzo, docente di storia contemporanea alla Pontificia Università Urbaniana. Lo scenario della tragedia è un impero ottomano in decomposizione, coinvolto nel primo conflitto mondiale a fianco degli Imperi centrali, sotto la guida del partito rivoluzionario dei Giovani turchi che nel 1908 si erano impadroniti del potere agitando ideali nazionalisti e "modernizzanti" che andavano a sostituire quell’ "universalismo" ottomano che, pur in un quadro confessionale musulmano, aveva garantito una certa convivenza religiosa ed etnica tra popoli notevolmente diversi. 

Gli stessi ideali avevano fatto breccia anche nelle popolazioni cristiane portando in taluni casi alla conquista dell’indipendenza ma in altri rovesciandosi in terribile boomerang: e questo fu il caso degli armeni. I turchi negano che vi sia stato un piano di sterminio (e non riconoscono autentici i documenti armeni) argomentando che si trattò di una deportazione a scopo difensivo in un momento bellico nel quale gli armeni avrebbero potuto costituire una sponda interna per il nemico e facendo notare che anche le stesse popolazioni musulmane ebbero da soffrire le conseguenze della guerra. Padre Rhétoré  fu un osservatore "privilegiato" di quegli eventi, in quanto deportato lui stesso e poi trattenuto a Mardin, una piccola città dell’Anatolia orientale dove viveva una consistente comunità cattolica. La sede del patriarcato di Mardin fu per padre Rhétoré "la finestra sul massacro". 

Qui transitavano gli interminabili convogli umani destinati al deserto mesopotamico: in realtà, per i più, e tra sofferenze inenarrabili, la morte fu la vera meta del viaggio. Il racconto del domenicano francese diventa a un certo punto una sorta di lugubre rosario animato dalla varietà dei modi con cui si ripetevano spoliazioni, violenze bestiali e gratuite (in collaborazione con curdi e circassi), torture, vendite di donne e di bambini come schiavi. Davanti a una simile ondata di violenza unica via di scampo poteva essere la conversione all’islam: ma i cristiani, nella stragrande maggioranza, seppero rifiutare scegliendo eroicamente il martirio. Una storia che fa ancora rabbrividire e che genera nel lettore impotente un senso di commozione ed indignazione per massacri oltretutto negati e rimossi dalla memoria. 

A Mardin erano presenti 17.000 cristiani, poco meno della metà degli abitanti, nessuno dei quali era armeno-gregoriano (la confessione maggioritaria degli armeni che rifiuta il Concilio di Calcedonia), ai quali i turchi imputavano velleità indipendentiste. Se tra gli armeni cattolici le suggestioni nazionaliste avevano avuto poca presa, queste furono addirittura ignorate dai Giacobiti (siriaci) che storicamente non conobbero mai un regime di cristianità (a suo tempo accolsero i musulmani come liberatori dai bizantini) e che si erano perfettamente integrati nel sistema sociale ottomano, disinteressandosi delle vicende politiche. 

Dunque i turchi non avrebbero avuto niente da temere da questa comunità eppure anch’essi, come i gregoriani, come i cattolici (e tra questi anche l’arcivescovo Maloyan recentemente proclamato santo) e come tutte le altre confessioni cristiane, furono trucidati, spazzati via. Perché accadde ciò? Perché il progetto di turchizzazione dello stato ottomano rendeva necessario (essendo l’unico elemento storicamente identitario) la caratterizzazione islamica come fattore di identificazione anche etnica. 

Il carattere religioso della persecuzione, seppur strumentale, è sottolineato anche dalla proclamazione della jihad voluta da un governo sostanzialmente composto da atei che sapeva che solo con una guerra religiosa avrebbe potuto scagliare le popolazioni musulmane contro quei cristiani, con i quali si erano ormai abituati a convivere pacificamente. E accanto alla guerra religiosa, come rivela padre Rhétoré, si usò anche l’arma dell’invidia sociale: gli armeni e i cristiani in generale pur in condizione di inferiorità giuridica, furono capaci di ritagliarsi condizioni di vita superiori alle popolazioni musulmane incapaci persino, sottolinea il padre domenicano, di sfruttare quel che avevano sottratto con la forza ai cristiani. 

Anche allora, non diversamente dai giorni nostri, la combinazione Islam-modernità generò orribili tragedie. Ma padre Rhétorè rivela un ulteriore particolare della vicenda che fa riflettere: i turchi erano stretti alleati dei tedeschi, molti ufficiali dei quali comandavano reparti turchi; ebbene il sospetto quanto meno di complicità nei massacri è davvero forte. Se davvero fossero confermati certi atteggiamenti nei confronti degli armeni da parte di taluni ufficiali tedeschi sarebbe allora molto facile comprendere su quale terreno il nazismo abbia potuto affermarsi così facilmente. 

Sullo stesso argomento:

L’olocausto delle donne che insanguinò l’alba del ‘900

METZ YEGHERN Il Grande Male

Il massacro degli armeni

Voci dal genocidio dimenticato




Articolo pubblicato su Avvenire del 18 ottobre 2000

di Jacques Rhetore


I convogli dei deportati attraversarono il vilayet di Diyartxzkir passando, quasi tutti, per la città di Mardin da dove sono stati osservati da vicino. È di questi convogli che vorrei adesso trattare. Mi dispiace di non poter dare, sul loro numero e sul numero dei deportati in genere, altro che cifre vaghe, quelle che circolavano pubblicamente. Nonostante ciò, attraverso le cifre e i fatti che le accompagnano, il lettore potrà, aggiungendovi quello che di suo conosce dei massacri di A’Jardin e Diyarbakir, farsi un‘idea dell’immensità del disastro che la politica disumana dei Giovani Turchi fece subire alla popolazione cristiana negli anni fatali 1915-1916. In generale, come ho già accennato, questi convogli composti da donne, bambini e anziani provenienti dai paesi di Erzurum, Vlouch, Bitlis, Van, Kharput, Sivas, Angora, Brusse, Konia, Urfa, Cesarea ed erano destinati a Ras-el-Ain, Deror e Mossul dove arrivavano solo in pochi.
Questi sfortunati porta vano con loro, quasi sempre, soltanto gli abiti custoditi dentro borse in cui nascondevano anche il denaro necessario. I pacchi, le valigie venivano regolarmente rubati dai soldati o dai curdi durante il tragitto. Alcuni prigionieri di Brusse hanno raccontato che il governo gli aveva detto: «Avete cinque giorni per vendere le vostre abitazioni e i vostri beni alfine di ritirare il denaro per soddisfare i vostri bisogni nel paese in cui abiterete» Tutti raccolsero, in questo modo, somme di denaro che portarono con loro, poi a qualche giornata di cammino da Brusse i soldati, dopo essersi informati di quelli che erano più ricchi li massacrarono impossessandosi dei loro beni. Lo stesso raccontavano anche quelli che facevano parte del convoglio di Angora. La libertà lasciata ai conduttori del convoglio sulle persone loro affidate aveva fatto nascere in loro una sete insaziabile d’oro e un’abominevole crudeltà da soddisfare.

Tuttavia, al di là degli omicidi, suscitati a volte dalla sete d’oro, i prigionieri testimoniavano in generale di non essere stati troppo maltrattati lungo il percorso, dal loro paese alla frontiera di Diyarbakir: li si proteggeva anche contro la rapacità dei curdi e quelli che non riuscivano a seguire il convoglio venivano semplicemente abbandonati per la strada ma non uccisi.

Per loro tutto cambiava alla frontiera del vilayerdi Diyarbakir. Hanno raccontato che era come se si aprisse l’inferno con i suoi demoni. Era come l’inferno: i soldati li maltrattavano in tutti modi e li uccidevano soltanto per rubare o per alleggerire il convoglio. Era come l’inferno: un caldo insopportabile per il clima torrido e una sete impossibile da placare. Così molti tra loro, soprattutto i bambini, morivano lungo il cammino. Alle volte i soldati imponevano al convoglio una marcia precipitosa che gente debole o indebolita in tutti i modi non poteva sopportare; allora su di loro piovevano colpi, mentre i ritardatari venivano raggruppati sulla strada per formare nuovi convogli. La strada era disseminata di cadaveri annegati nelle riviere mentre il resto era stato rapito dai curdi, autorizzati a far tutto contro i deportati Alcuni soldati cristiani provenienti da Erzurum, nel novembre 1915, raccontarono di aver attraversato, al di sopra di Diyarlikir, due valli piene di cadaveri di donne armene, sdraiate le une accanto alle altre come fossero montoni a riposo, I soldati stimarono il numero di quelle donne intorno alle 50.000. Anche se la cifra sembra esagerata indica comunque un numero molto elevato. In seguito questi cadaveri, che infettavano l’aria, vennero bruciati. 


   



[Modificato da Caterina63 27/03/2014 14:22]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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