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San Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo

Ultimo Aggiornamento: 07/09/2012 18:54
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07/09/2012 17:50
 
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CAPITOLO 17

Ove si spiegano il fine e il modo in cui Dio comunica all’anima i beni spirituali tramite i sensi, e si risponde al dubbio esposto sopra.

1. Molto c’è da dire sul fine e sul modo in cui Dio concede queste visioni. Egli vuole elevare l’anima dalla sua bassezza fino all’unione divina, di cui parlano tutti i libri spirituali, compreso questo. Perciò, nel presente capitolo, dirò soltanto ciò che serve per rispondere al nostro dubbio che era: dal momento che in queste visioni soprannaturali si nascondono tanti pericoli e molti ostacoli per andare avanti, come ho detto, perché Dio, che è sapientissimo e propenso a liberare le anime da ostacoli e insidie, le offre e le comunica?

2. Prima di rispondere, occorre ricordare tre principi fondamentali. Il primo è tratto dalla lettera ai Romani di san Paolo, ove si dice: Quae autem sunt, a Deo ordinata sunt, cioè: Le cose che esistono sono state ordinate da Dio (Rm 13,1). Il secondo è tratto dal libro della Sapienza, ove lo Spirito dice: Disponit omnia suaviter (Sap 8,1), come a dire: la sapienza di Dio, benché si estenda da un confine all’altro, cioè da un estremo all’altro, governa con bontà eccellente ogni cosa. Il terzo, che viene offerto dai teologi, recita così: omnia movet secundum modum eorum, cioè: Dio muove tutte le cose secondo la loro natura.

3. Secondo questi principi fondamentali è, quindi, chiaro che Dio, per muovere ed elevare l’anima dal limite estremo della sua bassezza al vertice sublime della sua grandezza nell’unione con lui, lo fa con ordine, con soavità e secondo la natura di quest’anima. Ora, poiché l’ordine seguito dalle persone nella conoscenza passa attraverso le forme e le immagini delle cose create, e il modo di conoscere e di apprendere passa attraverso i sensi, Dio per elevare l’anima alla somma conoscenza deve, agendo con soavità, cominciare a muoverla dall’estrema bassezza dei sensi ed elevarla, secondo la sua natura, verso l’altro estremo, quello della sapienza spirituale, che non cade sotto i sensi. Per questo Dio la eleva pian piano, prima istruendola per mezzo di forme, immagini e cose sensibili, sia naturali che soprannaturali, conformi al suo modo di apprendere, e poi attraverso meditazioni discorsive, fino a portarla alla somma grandezza del suo spirito.

4. Questo è il motivo per cui Dio le comunica visioni, rappresentazioni, immagini e altre conoscenze sensibili e intelligibili spirituali. Questo non vuol dire che egli non voglia darle immediatamente, dal primo atto, la sapienza dello spirito. Lo farebbe se i due estremi, quello umano e quello divino, il senso e lo spirito, potessero per via ordinaria congiungersi e fondersi in un unico atto, senza l’intervento di altri atti preparatori che con ordine e soavità possono congiungersi tra loro, facendo gli uni da fondamento e preparazione per gli altri, come gli agenti naturali. E così le prime disposizioni servono alle seconde, le seconde alle terze e via di seguito. Allo stesso modo, Dio va perfezionando l’uomo secondo la sua stessa natura, cominciando dal più basso ed esteriore per arrivare al più alto e interiore. Egli lo perfeziona, dunque, prima nei sensi del corpo, spingendolo a far buon uso degli oggetti dell’ordine naturale, esterni ma eccellenti, come ascoltare prediche, partecipare alla messa, guardare cose sante, mortificare il gusto nel mangiare, mortificare il tatto attraverso il santo rigore della penitenza. Quando questi sensi sono sufficientemente disposti, suole perfezionarli ulteriormente. Accorda ad essi favori soprannaturali e doni per confermarli sempre più nel bene, offrendo loro comunicazioni soprannaturali, come, ad esempio, visioni di santi o di cose sante corporee, profumi e locuzioni soavissime o un grandissimo diletto nel tatto. Attraverso simili favori i sensi vengono confermati nella virtù e liberati dal desiderio degli oggetti cattivi. Oltre a questo, Dio perfeziona a poco a poco anche i sensi corporali interni, di cui sto parlando, cioè l’immaginazione e la fantasia; li abitua al bene con considerazioni, meditazioni e santi discorsi, istruendo così lo spirito. Quando la persona è ormai disposta grazie a questo esercizio naturale, Dio è solito illuminarla e spiritualizzarla ulteriormente con alcune visioni soprannaturali, che sono quelle che si chiamano immaginarie, nelle quali, come ho detto, lo spirito trova grande giovamento; nelle une e nelle altre, infatti, viene dirozzato e riformato a poco a poco. In questo modo Dio eleva gradualmente l’anima, conducendola verso ciò che è più interiore. Non che sia sempre necessario conservare rigidamente quest’ordine di priorità, come è presentato qui. A volte Dio si serve di alcuni mezzi e non di altri, passa dal più interiore al meno interiore, o accorda i suoi favori tutti in una volta. Egli agisce secondo ciò che è bene per l’anima e secondo come vuole concederle i favori. Ma la via ordinaria è quella che ho esposto.

5. In questo modo, dunque, Dio va istruendo e rendendo spirituale l’anima. Comincia a comunicarle la vita spirituale partendo dalle cose esterne, palpabili e adeguate ai sensi, secondo la limitatezza e la poca capacità dell’anima. Attraverso la mediazione della corteccia di queste cose sensibili, di per sé buone, la spinge a emettere atti particolari e a ricevere ogni volta tante piccole comunicazioni spirituali. Così, a poco a poco, essa acquisterà l’abitudine di ciò che è spirituale e conseguirà la sostanza della vita spirituale, del tutto estranea ai sensi. Ma, come ho detto, l’anima potrà giungervi solo a poco a poco, a modo suo, attraverso i sensi, a cui è sempre legata. A mano a mano che si avvicina alla vita dello spirito nel suo rapporto con Dio, si spoglia e si libera dei mezzi sensibili, cioè della meditazione discorsiva e immaginaria. Perciò, quando giungerà a trattare con Dio in un modo perfettamente spirituale, essa sarà necessariamente spogliata di tutto ciò che riguardo a Dio può cadere sotto i sensi. Difatti, quanto più una cosa si avvicina a un estremo, tanto più si allontana e si estrania dall’altro estremo, e quanto più perfettamente aderisce all’uno, tanto più è distaccata dall’altro. Dice un adagio spirituale: Gustato spiritu, desipit omnis caro, che significa: Una volta gustate le dolcezze dello spirito, l’anima trova insipido tutto ciò che viene dalla carne: cioè tutte le vie della carne, che rappresentano ogni tipo di relazione dei sensi con lo spirito, non giovano e non procurano soddisfazione alcuna. Ciò è evidente, perché se è spirito non cade più sotto i sensi, e se può essere afferrato dai sensi allora non è puro spirito. Quanto più i sensi e le facoltà naturali possono sapere dello spirito, tanto meno questo è spirituale e soprannaturale, come si deduce da ciò che è stato detto finora.

6. Pertanto la persona spirituale che ha raggiunto la perfezione non tiene più conto dei sensi, né riceve cosa alcuna per loro tramite, né soprattutto si serve o ha bisogno di servirsi di essi per andare a Dio, come faceva prima quando non era avanzata nella vita spirituale. Questo vuol farci intendere quel passo di san Paolo nella lettera ai Corinzi: Cum essem parvulus, loquebar ut parvulus, sapiebam ut parvulus, cogitabam ut parvulus. Quando autem factus sum vir, evacuavi quae erant parvuli, che significa: Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato (1Cor 13,11). Ho già spiegato come le cose relative ai sensi e alla conoscenza che lo spirito può cogliere siano esercizi infantili. Perciò, se l’anima vorrà attaccarvisi per sempre senza mai distogliersene, non cesserà di essere come un bambino e parlerà di Dio sempre come un bambino, penserà a Dio come un bambino. E poiché essa si ferma alla scorza, ai sensi, il che è proprio dei bambini, non arriverà mai alla sostanza dello spirito, che è proprio dell’uomo perfetto. Per poter crescere, dunque, l’anima non dovrà ricercare le rivelazioni di cui parliamo, anche se offerte da Dio. È simile al bambino che deve lasciare il seno materno per abituare il suo palato a un cibo più forte e sostanzioso.

7. Ma ora mi si chiederà: non sarà forse necessario che l’anima, finché è piccola, riceva tali rivelazioni e le abbandoni solo quando sarà cresciuta, così come è necessario al bambino succhiare al seno materno per nutrirsi, fino a quando sarà cresciuto e potrà farne a meno? Rispondo che, se si tratta della meditazione e dell’esercizio del discorso naturale con cui l’anima comincia a cercare Dio, è vero che non deve abbandonare questo mezzo sensibile per potersi nutrire. Essa deve continuare così fino al momento in cui può farlo, cioè sino a quando Dio la introdurrà in un rapporto con sé più spirituale, ossia nella contemplazione, di cui ho già parlato nel capitolo 13 di questo libro. Ma quando si tratta di visioni immaginarie o di altre comunicazioni soprannaturali che possono cadere sotto i sensi, indipendentemente dalla volontà dell’uomo, affermo che in qualsiasi momento, sia nello stadio perfetto che in quello meno perfetto, anche se vengono da Dio, l’anima non deve volerle, per due motivi. Primo perché, come ho detto, tali visioni producono nell’anima il loro effetto senza che essa possa impedirlo, pur potendo impedire e impedisca di fatto la visione stessa, come accade spesso. Di conseguenza, l’effetto che tale visione doveva provocare nell’anima viene prodotto in essa in un modo più sostanziale, anche se per un’altra via. L’anima infatti, ripeto, non può allontanare i favori che Dio vuole comunicarle, a meno che non vi sia qualche imperfezione o spirito di possesso. Ora, se essa rinuncia a queste cose in umiltà, diffidando di sé, non c’è alcuna imperfezione o spirito di possesso. In secondo luogo, l’anima si libera dal pericolo e dalla fatica che c’è nel discernere le visioni buone da quelle false e nel riconoscere se sono prodotte dall’angelo della luce o da quello delle tenebre. Ciò non procura alcun giovamento, ma fa solo perdere tempo, crea ostacoli all’anima, la mette nell’occasione di molte imperfezioni, le impedisce di progredire, occupandola in cose che non sono del suo stato, liberandola cioè da queste minuzie di visioni e di conoscenze particolari, come ho detto a proposito delle visioni corporee e di quelle di cui parlerò più avanti.

8. Dobbiamo convincerci che se il Signore non elevasse l’anima secondo la sua stessa natura, come dirò, non le comunicherebbe mai l’abbondanza del suo spirito mediante canali così stretti quali sono le forme, le figure e le conoscenze particolari, attraverso cui, appunto, le offre delle briciole per sostenerla. Per questo Davide dice: Mittit crystallum suam sicut buccellas: Getta come briciole la sua grandine (Sal 147,17), come a dire: invia la sua sapienza alle anime quasi a bocconi. È cosa veramente triste che l’anima, pur avendo una capacità infinita, venga nutrita con le briciole dei sensi, a causa del suo poco spirito e della sua scarsa sensibilità. Anche san Paolo si rammarica di questa poca disposizione e dell’inettitudine a ricevere i doni spirituali, quando scrive ai cristiani di Corinto: Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete: Tamquam parvulis in Christo lac potum vobis dedi, non escam (1Cor 3,1-2).

9. Occorre, dunque, ricordare che l’anima non deve porre attenzione alla scorza delle immagini e degli oggetti che le vengono presentati soprannaturalmente. Si terrà distaccata da tutto ciò che le verrà dai sensi esterni, come le locuzioni e le parole che colpiscono l’udito, le visioni di santi e gli splendori affascinanti che colpiscono gli occhi, i profumi che lusingano le narici, i gusti soavi del palato e altri piaceri del tatto, tutte sensazioni che in generale procedono dallo spirito e che ordinariamente accadono alle persone spirituali. Tanto meno dovrà soffermarsi su visioni dei sensi interiori, come le visioni immaginarie, ma respingerle tutte. Deve fissare lo sguardo solo sullo spirito buono che producono, cercando di conservarlo nelle opere e nella pratica ordinata di tutto ciò che riguarda il servizio di Dio, senza badare a quelle manifestazioni e senza cercare alcun gusto sensibile. In tal modo l’anima prenderà da tali comunicazioni solo ciò che Dio intende e vuole, cioè lo spirito di devozione, che è il fine principale per cui egli le concede. Lascerà quanto Dio non darebbe, se fosse possibile riceverle nello spirito senza quest’esercizio, cioè come ho detto, senza tali comunicazioni che passano attraverso i sensi.

 

CAPITOLO 18

Ove si parla del danno che certi direttori spirituali possono recare alle anime non guidandole con sano criterio per quanto riguarda le suddette visioni. Si mostra, inoltre, come tali visioni, pur venendo da Dio, possono indurre in errore.

1. Sull’argomento delle visioni non posso essere breve come vorrei, perché c’è molto da dire. Sebbene sia stato detto, in sostanza, quanto era necessario per far capire alla persona spirituale come deve comportarsi in queste visioni e al direttore cha la guida come deve trattarla in questi casi, non sarà superfluo approfondire ulteriormente questa dottrina. In questo modo si chiariranno meglio i danni che potranno venire sia alle persone spirituali che ai loro direttori, se presteranno troppa attenzione a quei fenomeni, anche quando venissero da Dio.

2. Il motivo che ora mi spinge a trattenermi ancora sull’argomento è la poca discrezione che ho avuto occasione di rilevare, a tale riguardo, in alcuni maestri spirituali. Costoro, ritenendosi sicuri su queste comunicazioni soprannaturali, convinti che siano buone e provenienti da Dio, sono caduti, insieme ai loro discepoli, in gravi errori e hanno dato prova di grande incapacità. Danno ragione alla seguente sentenza del Salvatore: Si caecus caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadunt: Quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadono in un fosso! (Mt 15,14). Non dice che cadranno, ma che cadono; in realtà non occorre cadere in errore perché ci sia caduta effettiva: il solo azzardarsi a condursi a vicenda è un errore, e già almeno in questo sbagliano. Difatti vi sono alcuni che con le anime favorite da queste visioni adottano un comportamento e un modo di fare tali da indurle nell’errore e nello scompiglio, oppure non le guidano lungo la via dell’umiltà, o le inducono in qualche modo a rivolgere l’attenzione ad esse. Di conseguenza, tali anime restano senza un vero spirito di fede e non vengono stabilite in esso, perché questi maestri fanno lunghi discorsi su tali fenomeni. Così fanno capire che ne hanno una grande stima e vi annettono molta importanza. Le anime fanno altrettanto: si attaccano ai quei fenomeni e non hanno per fondamento la fede, né si tengono sgombre, spoglie e distaccate da tutto ciò che impedisce loro di spiccare il volo verso le altezze della fede oscura. Tutto questo deriva dal comportamento e dal linguaggio che l’anima osserva nel suo direttore a tale riguardo. D’altronde non riesco a capire come essa giunga con grande facilità ad avere una stima incondizionata di tali visioni e a distogliere lo sguardo dall’abisso della fede.

3. Questa facilità deriva certamente dal fatto che l’anima è tutta presa da queste visioni. Poiché si tratta di fenomeni che passano attraverso i sensi e verso i quali è incline per natura, e dato che vi prova gusto ed è disposta a queste conoscenze di cose distinte e sensibili, basta che si accorga che il suo confessore o qualche altra persona le stima o vi annette un certo valore, perché faccia altrettanto; inoltre, senza che essa se ne accorga, prende sempre più gusto e si nutre sempre più di queste visioni e si sente sempre più incline e attaccata ad esse. Da ciò derivano quanto meno molte imperfezioni. L’anima non è più tanto umile; pensa che queste visioni abbiano qualche pregio, che essa valga qualcosa, che Dio l’abbia in considerazione; è contenta e soddisfatta di sé. Ma tutto questo è contrario all’umiltà. Presto il demonio ne approfitta per accrescere segretamente questo suo sentimento, senza che essa se ne accorga, e comincia a istillarle sul conto degli altri un certo modo di giudicare: se abbiano o meno tali favori, se siano o no gli stessi che ha lei. Tutto questo è contrario alla santa semplicità e alla solitudine interiore.

4. Ma oltre a questi danni e al fatto che tali anime non crescono nella fede se non si liberano da tali pensieri, vi sono altri danni, in tale comportamento, più sottili e più odiosi agli occhi di Dio, sebbene non così palpabili ed evidenti come i primi, perché impediscono all’anima di conseguire il perfetto spogliamento di sé. Ma tralascio ora tale argomento, per riprenderlo quando parlerò del vizio della gola spirituale e degli altri sei. Ivi, con l’aiuto di Dio, verranno trattate molte di queste macchie sottili e delicate che sporcano lo spirito, perché non si è in grado di guidarlo allo spogliamento.

5. Per adesso mi limito a dire qualcosa sul comportamento che devono assumere certi confessori incapaci di dirigere bene le anime. Naturalmente vorrei sapermi spiegare. Riconosco che è difficile far capire come lo spirito del discepolo si vada formando in modo intimo e segreto sul modello del suo padre spirituale. Temo, altresì, di affrontare questo argomento così vasto, perché sembra che non si possa spiegare un punto senza far capire bene anche l’altro. Del resto, poiché si tratta di realtà spirituali, sono intimamente legate tra loro.

6. Per quanto riguarda il nostro argomento, secondo me, le cose stanno così: se il padre spirituale è incline alle rivelazioni, tanto da attribuire loro importanza e provarne gusto, non potrà non istillare nel discepolo, seppure inconsapevolmente, questo suo stesso atteggiamento, a meno che il discepolo non sia più avanti di lui nella via della perfezione. Ma anche in questo caso il discepolo potrà ricevere grande danno se rimane sotto la sua direzione. Dall’inclinazione del padre spirituale e dal piacere che questi prova per tali visioni, nascerà in lui una certa stima. Se non sta molto attento, non mancherà di dar segni di apprezzamento al discepolo. Se poi quest’ultimo ha la stessa disposizione di spirito, non mancherà, secondo me, di nutrire come il maestro una grande stima per queste manifestazioni.

7. Ma non scendo ora in troppi particolari. Parlo, invece, del confessore, incline o meno verso queste visioni, che non ha la prudenza necessaria per distogliere il discepolo da tali manifestazioni e condurlo al distacco. Anzi si mette a parlarne con lui e, come ho detto, ne fa oggetto di conversazioni spirituali, fornendogli indizi per discernere le buone dalle false visioni. Anche se è bene operare questo discernimento, tuttavia non c’è motivo di porre l’anima in questi imbarazzi, preoccupazioni e pericoli. Quando, al contrario, non si prendono in considerazione o si respingono queste visioni, si evitano i suddetti inconvenienti e si compie il nostro dovere. Ma non è tutto. Certi direttori, quando vedono che alcune anime hanno queste visioni da Dio, chiedono loro di supplicare il Signore affinché riveli cose che riguardano la loro o altrui persona. E queste anime sciocche obbediscono, pensando che sia lecito chiedere tali cose per questa via: poiché Dio, secondo come desidera e per lo scopo che si è prefisso, vuole rivelare o comunicare qualcosa in modo soprannaturale, esse credono che sia lecito desiderare e anche chiedergli di rivelare tale cosa.

8. Se talvolta accade che Dio esaudisca la loro richiesta, tali anime si sentono ancora più rassicurate, pensando che il Signore, per il fatto stesso che risponde, si compiaccia e lo voglia. Ma in realtà Dio non gradisce questo né lo vuole. Quanto a esse, molto spesso agiscono e credono secondo quanto è stato loro rivelato o risposto. Essendo affezionate a questo modo di trattare con Dio, vi si attaccano molto e vi si adattano volentieri. Naturalmente se ne compiacciono e vi si accomodano secondo il loro modo di vedere; così molto spesso sbagliano e, vedendo che le cose non vanno come avevano pensato, si meravigliano. Immediatamente sorge il dubbio se erano o non erano da Dio, perché non le vedono accadere come si aspettavano. In fondo erano persuase di due cose: anzitutto, che tali favori provenissero da Dio, dal momento che penetravano in loro con tanta forza, mentre, come ho detto, possono provenire dalla natura incline a simili comunicazioni; in secondo luogo, che venendo da Dio tali rivelazioni si sarebbero dovute verificare come le avevano immaginate o pensate.

9. Questo è un grande sbaglio, perché le rivelazioni o le locuzioni divine non sempre si verificano come gli uomini le immaginano o come sono in sé. Non devono quindi basarsi su di esse né credervi ciecamente, anche quando si tratta di rivelazioni, risposte o parole di Dio. Difatti, anche se possono essere sicure e vere in sé, non sempre lo sono nelle loro cause e nel nostro modo di comprenderle, come mostrerò nel capitolo seguente. Ivi dirò e proverò, altresì, come Dio, pur rispondendo talora, in modo soprannaturale, a ciò che gli viene chiesto, non gradisce questo comportamento e, pur rispondendo, prova sdegno.

 

CAPITOLO 19

Ove si afferma e si prova che, sebbene le visioni e le locuzioni che vengono da Dio siano vere, ci si può sbagliare a loro riguardo. Le prove sono tratte dalla sacra Scrittura.

1. Per due motivi ho affermato che, sebbene le visioni e le locuzioni di Dio siano vere e sempre certe in sé, tuttavia non sono sempre tali per noi: il primo dipende dal nostro modo difettoso d’intenderle; e l’altro è dovuto al fatto che le loro cause a volte possono cambiare. Lo proverò con alcune testimonianze della sacra Scrittura. Quanto al primo motivo, è chiaro che non sempre tali rivelazioni sono e accadono secondo il nostro modo di comprenderle. Dio, infatti, essendo immenso e profondo, nelle sue profezie, locuzioni e rivelazioni segue abitualmente altre vie, concetti e idee molto differenti da quelli che comunemente intendiamo noi. Questo risulta da ogni pagina della sacra Scrittura. Difatti vi leggiamo che molte profezie e locuzioni da Dio indirizzate a numerose persone dei tempi antichi non si realizzarono come esse si aspettavano, perché le intendevano a modo loro o le prendevano troppo alla lettera. Ciò è quanto vedremo chiaramente nei brani della sacra Scrittura che seguiranno.

2. Nel libro della Genesi Dio disse ad Abramo, dopo averlo condotto nella terra di Canaan: Tibi dabo terram hanc: Ti darò questa terra (Gn 15,7). Più volte gli rinnovò questa promessa, senza mantenerla. Quando, ormai vecchio, il patriarca si sentì ripetere quelle parole, si rivolse al Signore dicendo: Domine, unde scire possum quod possessurus sum eam?, cioè: Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso? (Gn 15,8). Allora Dio gli rivelò che non lui personalmente, ma i suoi figli dopo quattrocento anni l’avrebbero posseduta (Gn 15,13-16). Così Abramo riuscì a comprendere la promessa, verissima in sé, perché Dio, dando quella terra ai suoi figli per amor suo, era come se l’avesse data a lui personalmente. Abramo, quindi, si sbagliava nel suo modo d’interpretare tale promessa: se avesse agito secondo il senso che dava alla profezia, sarebbe caduto in un grave errore, perché essa non doveva realizzarsi nel suo tempo, così che coloro che l’avessero visto morire dopo averlo sentito parlare della promessa fattagli da Dio sarebbero rimasti disorientati e avrebbero potuto pensare che la profezia fosse falsa.

3. Un fatto simile capitò a suo nipote Giacobbe, al tempo in cui il figlio di costui, Giuseppe, lo fece scendere in Egitto a causa della fame che attanagliava i cananei. Gli apparve il Signore e gli disse: Iacob, Iacob, noli timere, descende in Aegyptum, quia in gentem magnam faciam te ibi. Ego descendam tecum illuc… Et inde adducam te revertentem: Giacobbe, Giacobbe, non temere di scendere in Egitto, perché laggiù io farò di te un grande popolo. Io scenderò con te in Egitto e certamente io ti farò tornare (Gn 46,2-4). Ora, questo evento non si realizzò secondo il nostro modo d’intendere. Sappiamo, infatti, che il santo vecchio Giacobbe morì in Egitto (Gn 49,32), da dove, quindi, non uscì vivo. La promessa era destinata a compiersi nei suoi figli, che Dio fece uscire dall’Egitto molti anni dopo, guidandoli personalmente lungo il cammino. È chiaro, quindi, che chiunque avesse saputo di questa promessa fatta da Dio a Giacobbe si sarebbe potuto convincere che Giacobbe, com’era entrato personalmente vivo in Egitto per ordine e con l’aiuto di Dio, così certamente ne sarebbe dovuto uscire vivo, in persona, perché Dio gli aveva promesso il ritorno e il suo aiuto per realizzarlo; ma si sarebbe sbagliato e stupito vedendo lui morire in Egitto e la promessa rimanere irrealizzata. Così, pur essendo la parola di Dio verissima in sé, molti si sarebbero potuti sbagliare a suo riguardo.

4. Anche nel libro dei Giudici leggiamo che le tribù d’Israele si erano riunite per combattere la tribù di Beniamino e punirla d’una cattiva azione di cui si era macchiata. Poiché Dio aveva loro indicato un capo per fare questa guerra, gli israeliti erano così sicuri della vittoria che, quando furono sconfitti e perdettero ventiduemila uomini, rimasero molto sconcertati (Gdc 20,1-21). Trascorsero tutto il giorno in pianto dinanzi al Signore, non conoscendo il motivo della sconfitta: erano convinti che la vittoria sarebbe dovuta toccare a loro. Avendo, poi, chiesto a Dio se dovevano tornare a combattere oppure no, fu loro risposto di andare a combattere. Sicuri, questa volta, della vittoria, corsero all’attacco con grande coraggio; ma ancora una volta furono sconfitti e perdettero diciottomila uomini (Gdc 20,23-25). Caduti in una grande confusione, non sapevano cosa fare: nonostante Dio avesse loro comandato di combattere, venivano sempre sconfitti, cosa strana soprattutto per il fatto che superavano in numero e forza gli avversari. I soldati della tribù di Beniamino, infatti, non erano più di venticinquemilasettecento, mentre essi erano circa quattrocentomila (Gdc 20,17). In realtà essi s’ingannavano sul modo d’interpretare la parola di Dio, che non era menzognera. In effetti Dio non aveva detto che avrebbero vinto, ma solo di combattere; con quelle sconfitte voleva punirli per una certa negligenza e umiliarli per la loro presunzione. Quando, alla fine, Dio rispose loro che avrebbero vinto, conseguirono la vittoria (Gdc 20,28.34-35.43-46), anche se con l’astuzia e con grande fatica.

5. In questo e in molti altri modi le anime possono ingannarsi sulle locuzioni e le rivelazioni da parte di Dio, perché le interpretano alla lettera e in forma riduttiva. Ora, come risulta da quanto è stato detto, lo scopo principale di Dio in queste manifestazioni è quello di dire e comunicare lo spirito in esse racchiuso, difficile da intendere, perché è molto più ricco della lettera e molto più straordinario e trascendente rispetto ad essa. Così, chi si limita alla lettera, alla locuzione, alla forma, all’immagine sensibile della visione, sicuramente si sbaglierà in modo grossolano e poi si troverà turbato e confuso: si è lasciato guidare dai sensi, anziché fare spazio allo spirito distaccandosi, appunto, dai sensi. Littera enim occidit, spiritus autem vivificat, dice san Paolo: La lettera uccide, lo Spirito dà vita (2Cor 3,6). Occorre, quindi, rinunciare alla lettera, in questo caso ai sensi, e fermarsi nel buio della fede, cioè allo spirito, che i sensi non possono percepire.

6. Per questo motivo, molti figli d’Israele che interpretavano alla lettera le parole e le profezie dei profeti, che poi non si realizzavano come si attendevano, finivano per tenerle in poco conto e per non crederci. Sorse così tra loro un detto popolare, a mo’ di proverbio, che scherniva i profeti. Di esso si lamenta Isaia riportandolo in questi termini: Quem docebit Dominus scientiam? et quem intelligere faciet auditum? ablactos a lacte, avulsos ab uberibus. Quia manda, remanda, manda, remanda; exspecta, reexspecta, exspecta, reexspecta; modicum ibi, modicum ibi. In loquela enim labii et lingua altera loquetur ad populum istum: “A chi vuole insegnare la scienza? A chi vuole spiegare il discorso? Ai bambini divezzati, appena staccati dal seno. Sì – delle profezie dicono – precetto su precetto, precetto su precetto, norma su norma, norma su norma, un po’ qui, un po’ là”. Con labbra balbettanti e in lingua straniera parlerà a questo popolo (Is 28,9-11). Con tali parole Isaia fa comprendere chiaramente che i figli d’Israele si burlano delle profezie, dicendo per scherno il proverbio norma su norma, norma su norma. In effetti essi erano attaccati al senso letterale, che è il latte dei bambini, e ai loro propri sensi, che sono come il seno materno, i quali si contrappongono alla grandezza della scienza dello spirito. Per questo Isaia dice: a chi Dio insegnerà la sapienza delle sue profezie, a chi spiegherà la sua dottrina, se non a coloro che sono già divezzati dal latte della lettera e dal seno dei loro sensi? Proprio perché intendono tale sapienza secondo il latte della lettera e il seno dei loro sensi, essi dicono: precetto su precetto, precetto su precetto, norma su norma… Ma il Signore deve parlare loro secondo un senso e un linguaggio differenti dai loro sensi e dal loro linguaggio.

7. Non si deve, dunque, badare al nostro senso e al nostro linguaggio, sapendo che la parola di Dio ha un significato spirituale molto diverso dal nostro e più difficile da interpretare. Tant’è vero che lo stesso Geremia, pur essendo profeta del Signore, vedendo che il significato delle parole di Dio era così diverso da quello comunemente attribuito loro dagli uomini, sembra anche lui essersi lasciato ingannare. Prende allora la difesa del popolo, dicendo: Heu, heu, heu, Domine, Deus, ergone decepisti populum istumet Ierusalem, dicens: Pax erit vobis, et ecce pervenit gladius usque ad animam?: Ah, Signore Dio, hai dunque del tutto ingannato questo popolo e Gerusalemme, quando dicevi: “Voi avrete pace”, mentre una spada giunge fino alla gola? (Ger 4,10). Ora, la pace che Dio prometteva loro era quella che doveva stabilirsi tra lui e l’umanità mediante il Messia che avrebbe inviato, mentre essi pensavano a una pace temporale. Così, quando essi si trovavano in difficoltà e in guerra, pensavano che Dio li avesse ingannati, perché accadeva il contrario di ciò che si aspettavano. E dicevano quindi con Geremia: Expectavimus pacem, et non est bonum: Aspettavamo la pace, ma non c’è alcun bene (Ger 8,15). Era quindi impossibile che essi non s’ingannassero, perché si fermavano solo al senso letterale. In realtà, chi non si sarebbe ingannato e confuso interpretando alla lettera la profezia che Davide fa di Cristo in tutto il Salmo 71, soprattutto quando dice: Et dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum: E dominerà da mare a mare, dal fiume sino ai confini della terra (v.8)? Nello stesso salmo aggiunge: Liberabit pauperem a potenti, et pauperem cui non erat adiutor, che significa: Egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto (v.12). Chi non si sarebbe ingannato vedendolo poi nascere in umili condizioni, vivere in povertà, morire in miseria e non solo non impossessarsi della terra mentre era in vita, ma sottomettersi a gente ignobile, fino a morire sotto Ponzio Pilato? Come non cadere nell’inganno, pensando che il Signore non solo non liberò i suoi poveri discepoli dalle mani dei potenti di questo mondo, ma li lasciò uccidere e perseguitare per il suo nome?

8. Queste profezie su Cristo dovevano essere interpretate nel loro senso spirituale, e questo senso è molto vero. Cristo, infatti, è il Signore non solo della terra ma anche del cielo, perché è Dio. Quanto ai poveri che l’avrebbero seguito, non solo li avrebbe redenti e liberati dal potere del demonio, il potente contro il quale non avevano nessuno che li aiutasse, ma li avrebbe fatti anche eredi del regno dei cieli. Dio, dunque, parlava della cosa più importante riguardo a Cristo e ai suoi seguaci, cioè del regno eterno e della libertà eterna; al contrario, i giudei interpretavano a modo loro le profezie, fermandosi all’elemento meno importante di queste cose, cioè il dominio temporale e la libertà terrena di cui Dio fa poco conto; ai suoi occhi non sono niente né l’uno né l’altra. Per questo, accecati dall’apparenza vistosa della lettera e non comprendendo né lo spirito né la verità in essa contenuti, uccisero il loro Dio e Signore, come afferma san Paolo: Qui enim habitabant Ierusalem, et principies eius, hunc ignorantes, et voces prophetarum, quae per omne sabbatum leguntur, iudicantes impleverunt: Gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi non l’hanno riconosciuto e condannandolo hanno adempiuto le parole dei profeti che si leggono ogni sabato (At 13,27).

9. Questa difficoltà a comprendere le parole del Signore in modo adeguato era tale da far cadere in errore anche i suoi stessi discepoli, vissuti con lui. Ne abbiamo un esempio nei due discepoli che, dopo la sua morte, andavano a Emmaus, tristi, sfiduciati e dicevano: Nos autem sperabamus quod ipse esset redempturus Israel: Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele (Lc 24,21). Anch’essi pensavano a una redenzione e a un dominio temporale. Gesù, apparendo ad essi, rimproverò la loro stoltezza e durezza di cuore nel credere agli eventi predetti dai profeti (v. 25). Anche mentre saliva al cielo alcuni discepoli, ancora in preda a quella durezza, gli chiesero: Domine, si in tempore hoc restitues regnum Israel?: Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele? (At 1,6). Lo Spirito Santo rivela, dunque, molte cose che hanno un significato diverso da quello inteso dagli uomini, come si evince anche dalle parole di Caifa riguardo a Cristo: È meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera (Gv 11,50). Ora Caifa non disse da sé quelle parole; ma egli vi aveva dato un senso molto diverso da quello inteso dallo Spirito Santo.

10. Risulta chiaro, quindi, che, sebbene le parole e le rivelazioni vengano da Dio, non possiamo essere certi del loro significato, perché possiamo ingannarci facilmente nel nostro modo d’interpretarle. Tutte, infatti, sono un abisso della profondità dello spirito. Volerle circoscrivere a ciò che ne capiamo noi e che i nostri sensi possono percepire, è come voler afferrare con la mano l’aria e il pulviscolo in essa contenuto: l’aria ci sfugge di mano e non ci resta nulla.

11. Perciò il maestro spirituale deve fare in modo che lo spirito del discepolo non si inaridisca correndo dietro a tutte le comunicazioni soprannaturali. Queste sono soltanto pulviscolo per lo spirito, ragion per cui il discepolo resterebbe con le mani piene di polvere, mentre non riceverebbe nulla di spirituale. Il maestro deve, invece, allontanarlo da tutte le visioni e locuzioni e deve imporgli di rimanere nella libertà e nelle tenebre della fede, in cui si riceve l’abbondanza dello spirito soprannaturale, quindi la sapienza e l’intelligenza propria delle parole di Dio. Difatti è impossibile all’uomo, se non è spirituale, giudicare e intendere secondo ragione le cose di Dio. Quando le giudica secondo i sensi, non è spirituale. Così, anche se queste vengono a lui comunicate attraverso i sensi, non le comprende. Lo afferma san Paolo quando dice: Animalis autem homo non percipit ea quae sunt spiritus Dei; stultitia enim est illi, et non potest intelligere, quia de spiritualibus examinatur. Spiritualis autem iudicat omnia: L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale, invece, giudica ogni cosa (1Cor 2,14-15). Per uomo naturale s’intende qui colui che adopera solo i sensi; l’uomo spirituale è, invece, colui che non si lega e non si lascia guidare dai sensi. È quindi temerario osar trattare con Dio attraverso le comunicazioni soprannaturali e permettere ai sensi la libertà di farlo.

12. Per meglio comprendere questa verità, faccio alcuni esempi. Prendiamo il caso di un santo molto afflitto, perché perseguitato dai suoi nemici, al quale Dio dica: “Ti libererò da tutti i tuoi nemici”. Questa profezia può essere verissima e, malgrado ciò, i nemici del santo possono prevalere su di lui e infliggergli la morte. Resterebbe, così, deluso chi avesse interpretato questa profezia in senso temporale, perché Dio può riferirsi alla vera e più importante vittoria, cioè alla salvezza, in cui l’anima è libera e vittoriosa su tutti i suoi nemici, in un modo molto più reale ed elevato che se fosse stata liberata dai nemici quaggiù. Tale profezia era, dunque, molto più reale e significativa di quanto l’uomo potesse capire rapportandola a questa vita. Dio nelle sue parole mira sempre al senso più importante e vantaggioso; l’uomo, invece, può comprendere, a modo suo e secondo una sua idea, il significato meno importante e così restare ingannato. Ciò è quanto si osserva in quella profezia che Davide fa a riguardo di Cristo nel salmo 2: Reges eos in virga ferrea, et tamquam vas figuli confringes eos: Li spezzerai con scettro di ferro, come vasi di argilla li frantumerai (Sal 2,9). Dio qui si riferisce alla sovranità più importante e perfetta, che è quella eterna, in effetti già realizzata, e non a quella regalità meno importante o temporale, che Cristo non esercitò durante la sua vita terrena.

13. Faccio un altro esempio. C’è un’anima che desidera ardentemente il martirio. Può accadere che Dio le dica: “Sarai martire” e le faccia sentire una grande consolazione interiore e la fiducia che questo si avvererà. Ma può accadere che essa non muoia martire e che tuttavia la promessa sia vera. Ma allora perché non si è realizzata questa profezia? Perché si compirà e potrà realizzarsi secondo il senso più importante ed essenziale in essa contenuto: Dio le dà un grande amore e la gloria essenziale del martirio; così conferisce veramente all’anima ciò che essa formalmente desiderava e che le era stato promesso. Il desiderio formale dell’anima, infatti, non era un determinato genere di morte, ma glorificare Dio attraverso il martirio e testimoniargli il suo amore come martire. Quel genere di morte non ha alcun valore senza quest’amore; ma tale amore, l’esercizio e la corona del martirio le vengono concessi compiutamente per altra via; quindi, pur non morendo martire, l’anima è molto soddisfatta per aver ricevuto ciò che desiderava. Questi e altri simili desideri, quando nascono da un amore vivo, anche se non si realizzano secondo i modi che l’anima pensava e intendeva, si compiono tuttavia in maniera diversa, molto superiore e a maggior gloria di Dio di quanto essa potesse chiedere. Per questo Davide dice: Desiderium pauperum exaudivit Dominus: Il Signore accoglie il desiderio dei miseri (Sal 10,17). Nel libro dei Proverbi la Sapienza divina afferma: Desiderium suum iustis dabitur: Il desiderio dei giusti è soddisfatto (Pro 10,24). A volte noi vediamo che molti santi desiderarono ardentemente molte cose per Dio, ma il loro desiderio non si realizzò in questa vita. Ora dobbiamo credere che, essendo il loro desiderio vero e giusto, si è perfettamente realizzato nell’altra vita. Stando così le cose, sarebbe stato vero anche se Dio in questa vita avesse promesso loro: Il vostro desiderio sarà esaudito. Ma non necessariamente sarebbe stato esaudito nel modo da loro pensato.

14. In questo e in altri modi le parole e le visioni di Dio possono essere vere e certe, e tuttavia noi possiamo sbagliarci a loro riguardo, perché non ne comprendiamo il significato profondo e principale che Dio pone in esse. Per questo è meglio e più sicuro fare in modo che le anime rifuggano prudentemente da queste manifestazioni soprannaturali, abituandosi, come ho detto, alla purezza di spirito nella fede oscura, mezzo indispensabile per unirsi a Dio.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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