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ANNUS FIDEI- NOVA ET VETERA testo prezioso di mons. Carli del 1969

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2012 22:28
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11/10/2012 12:15
 
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Ecumenismo
Tanto per cominciare, parliamo dell’ecumenismo.


Per ecumenismo, secondo il Concilio, si intendono “le attività e le iniziative che, a seconda delle varie necessità della Chiesa e opportunità dei tempi, sono suscitate e ordinate a promuovere l’unità dei cristiani” (16).
A che cosa mira l’ecumenismo, per la Chiesa? Mira a che “per questa via, a poco a poco, superati gli ostacoli che si frappongono alla perfetta comunione ecclesiastica, tutti i cristiani si uniscano in quell’unità della sola ed unica Chiesa che Cristo fin dall’inizio donò alla sua Chiesa e che noi crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa Cattolica” (17).
Che cosa si deve evitare nell’esercizio dell’ecumenismo? “Bisogna assolutamente esporre con chiarezza tutt’intera la dottrina. Niente è più alieno dall’ecumenismo quanto quel falso irenismo dal quale viene a soffrire la purezza della dottrina cattolica e viene oscurato il suo significato genuino e certo” (18).

La mente del Concilio, dunque, è chiarissima in merito all’ecumenismo; e non sto a ricordare i molteplici richiami ad essa del S. Padre Paolo VI in questi quattro anni di postconcilio. Ma non così l’intendono e l’esercitano certi ecumenisti cattolici “impazziti” (nel senso di Chesterton!). Per loro, la vera unità da conseguire con l’ecumenismo non è l’unità della fede, ma “l’amore degli uomini gli uni verso gli altri, il dialogo, la comprensione, l’accomodamento tra i diversi punti di vista e le diverse idee”.
Il giovanneo “cercare più quel che unisce che non quel che divide” essi l’hanno accorciato nel più sbrigativo, e più comodo, “cercare solo quel che unisce”. E quel che divide (non si tratta, purtroppo, di quisquilie) o è minimizzato o furbescamente taciuto. Ma con tali sistemi di minimo comune denominatore dottrinale siamo in pieno relativismo dogmatico!


La distinzione fra errante ed errore, vecchia almeno quanto S. Agostino ma gabellata come novità dei tempi moderni, è diventata non soltanto carità verso i Fratelli separati — e questa non sarà davvero mai troppa! — ma addirittura benevolo “rispetto dei loro errori. È così invalsa la moda di citare, perfino in libri ascetici, autori protestanti e cattolici sullo stesso piede di parità, assieme ai Santi Padri della Chiesa. Si recensiscono le opere dei nostri fratelli separati col più grande compiacimento e senza le doverose riserve (una volta, almeno, si premetteva un asterisco al nome di un autore acattolico, non certo per infamarlo, ma solo per preavvertirne i lettori sprovveduti). E così quelle opere vengono reclamizzate, vendute, lette da chi assieme al buono, che non vi manca, ne assorbirà anche gli errori, che non difettano.

Non usa più pregare per la conversione al cattolicesimo dei fratelli nostri separati, dal momento che il dialogo ecumenico viene concepito anche per i cattolici come un “cercare la verità”, anziché un muoversi dei cattolici entro la verità pienamente e sicuramente posseduta per approfondirne la conoscenza e viverla meglio. Certi ecumenisti nostrani non vogliono che la Chiesa si senta e si professi in possesso della verità totale: sarebbe, secondo loro, una immodestia, una ipocrisia, un antipatico ed ingiusto monopolio esclusivistico! Un vescovo ha scritto: “Non vorremmo certo immaginare che noi siamo gli unici detentori della pienezza di Gesù Cristo”.

Ma allora, domando io, dov’è finita la verità salvifica, se non esiste, e tutt’intera, nella Chiesa cattolica “colonna e sostegno della verità” (1 Tim. 3, 15)? Ovvero, quante Chiese ha fondato Gesù Cristo, se esiste in più di una la sua medesima pienezza?

Si butta a mare, dopo averlo prospettato in falsa luce, l’antichissimo assioma cattolico “extra Ecclesiam nulla salus”, e si allarga la possibilità della salvezza, anche nelle religioni non cristiane, con tanto ottimismo e con tale ampiezza che vien fatto di domandarsi se lo Spirito Santo non sia, in definitiva, più attivo, e quindi non risulti più facile salvarsi fuori che dentro la Chiesa di Cristo!
C’è, infatti, chi sostiene che la condizione normale per la salvezza è l’appartenenza all’umanità (umanità, si soggiunge, che è tutta sotto il dominio della grazia di Cristo per il fatto dell’Incarnazione); il battesimo non sarebbe che una condizione straordinaria! Tra i punti programmatici offerti da un presule alla realizzazione da parte della sua diocesi, figurava anche il seguente: “riconoscimento delle altre chiese religioni e convinzioni come uguali davanti a Dio”! In un recentissimo convegno è stato auspicato “un coraggioso riconoscimento del ruolo delle religioni non cristiane nell’economia della salvezza, in uno spirito di dialogo che porti cristiani e non cristiani a riconoscere insieme ciò che il Dio della storia universale ha realizzato in seno a tutti i popoli, razze e religioni”! Che cosa ci manca, domando io, per giungere al sincretismo religioso universale? Qualcun altro ha salutato l’ecumenismo come “la rinuncia agli atteggiamenti di monopolio, cominciando da quello della salvezza, oggi finalmente dilatata ben oltre i confini della Chiesa”. Quell’oggi finalmente dimostra che si ignora o si vuol ignorare che nella Chiesa cattolica è sempre stato sentito il problema della salvezza degli infedeli, e sempre si è cercata una soluzione che armonizzasse i due testi biblici: “Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo: chi invece non crederà, sarà condannato” (Mc. 16, 16), e: “il Salvatore nostro Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla perfetta conoscenza della verità” (1 Tim. 2, 3).
Certi teologi odierni, non il Concilio, per dilatare il concetto di salvezza lo sganciano completamente dal concetto della Chiesa. La teologia preconciliare, invece, più saggiamente se non erro, conservando alla Chiesa la funzione di sacramento universale di salvezza, dilatava per così dire il concetto di Chiesa, e insegnava che l’anima della Chiesa, cioè lo Spirito Santo (19), può raggiungere chiunque con la sua azione salvifica. Così, quanti di fatto si salvano pur trovandosi fuori del corpo visibile della Chiesa non si salvano fuori della sua anima, perché, in ogni caso, la fede “senza la quale è impossibile piacere a Dio” (Ebr. 11, 6), fede ispirata loro dallo Spirito Santo, contiene il voto, cioè la disposizione almeno implicita di appartenere anche al corpo visibile della Chiesa.


L’affermazione conciliare, del resto sempre professata dalla Chiesa, che anche nelle religioni non cristiane possono esistere degli elementi di verità e di santità, dei modi di agire e di vivere, dei precetti e delle dottrine le quali, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non di rado riflettono un raggio di quella Verità che illumina ogni uomo” (20) viene inflazionata, e quindi distorta, quando si scrive: “Non è più possibile ai cristiani che vivono nel secolo attuale della storia della Chiesa condividere la concezione pessimistica che aveva S. Paolo, nella ottica del suo tempo, sulla salvezza dei non cristiani”. Attenti alle conseguenze!
Se il pluralismo religioso, come viene affermato da taluni, fa parte del piano divino; se, come dicono altri, ogni religione è “via ordinaria di salvezza”: cioè una specie di a cristianesimo anonimo” (21); se l’opera di conversione deve piuttosto cedere il posto all’opera di integrazione, cioè di promozione dei non credenti ad un umanesimo integrale; se insomma ci si deve limitare a fare dell’indù un migliore indù, del buddista un migliore buddista, del mussulmano un migliore mussulmano, a che cosa si riduce l’assoluta “novitas” del cristianesimo? Ad quid le Missioni cattoliche? Perché i missionari rischiano perfino la vita per la conversione degli infedeli? Ha ragione il P. Arrupe, preposito generale dei Gesuiti, di constatare che, a causa di certe tematiche in voga, “l’idea, il fondamento stesso della Missione ha subito nell’animo di molti una specie di degradazione”.


C’è da segnalare un altro aspetto dell’abuso del tema dell’ecumenismo: la sua secolarizzazione o desacralizzazione. [SM=g1740733]
Ciò si verifica quando lo si riduce non già alla ricerca della piena comunione di fede, di culto e di governo ecclesiale, bensì alla ricerca di una comunione di iniziative sociali, a servizio dei bisogni terrestri dell’uomo (pace, lavoro, liberazione dalla fame, ecc. ecc.). Qualcuno ha affermato che sarà la macro-etica circa i problemi del mondo a favorire la riconciliazione ecumenica; ed allora le varie Chiese non avranno più né tempo né voglia di confrontarsi sulle loro differenze dottrinali!



Sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale


Il Vaticano II ha effettivamente rimesso in luce il sacerdozio comune dei fedeli. L’impazzimento di questa splendida idea comincia quando si eccede nella sua rivalutazione, o lo si fa a spese del sacerdozio ministeriale.
Assistiamo allo strano duplice fenomeno, simultaneo e collegato, di una sorta di clericalizzazione del laico e di una sorta di laicizzazione del chierico! Un ex-perito conciliare, che ha gettato la tonaca alle ortiche, afferma perentorio: “La comunità unita in Cristo possiede un carattere assolutamente sacerdotale e conduce direttamente a Dio. Un no preciso a qualsiasi sacerdote umano!”. Siamo in pieno protestantesimo. [SM=g1740733]

Viceversa, il Concilio ha dichiarato che “il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano per l’essenza e non soltanto per il grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ciascuno in un modo suo particolare, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo” (22). Dal che è doveroso dedurre che, se si esalta il sacerdozio comune, almeno di altrettanto rimane esaltato il sacerdozio ministeriale, a motivo della sua superiorità di essenza, e non di grado soltanto, rispetto al primo. Si vedrà, invece, in un prossimo capitolo a che cosa venga ridotto oggi da taluni il sacerdozio ministeriale.

Per affinità di temi, uguale sorte è toccata al matrimonio e alla verginità. Abusando della Costituzione pastorale Gaudium et spes, nn. 47-52, si esaltano iperbolicamente la sessualità, l’amore coniugale, il matrimonio e la famiglia come se fossero i supremi valori dell’uomo. La verginità consacrata a Dio, povera cenerentola, ne risulta mortificata come se fosse espressione di una personalità minorata. Eppure il Concilio, sia pur brevemente, riconferma rispetto al matrimonio la superiorità della verginità consacrata a Dio (23). E quanto all’obbligo del celibato sacerdotale, di nuovo approva e conferma tale legislazione per quanto riguarda coloro che sono destinati al Presbiterato, avendo piena fiducia nello Spirito che il dono del celibato, tanto confacente al Sacerdozio della Nuova Legge, venga concesso con liberalità dal Padre, a condizione che tutti coloro che partecipano del Sacerdozio di Cristo mediante il sacramento dell’Ordine, anzi la Chiesa intera, lo implorino con umiltà e insistenza” (24).
Eppure, sappiamo quale scempio stiano facendo del celibato certe vestali dello “spirito” del Concilio!


Libertà e autorità


Sotto l’etichetta conciliare della libertà d’opinione, della libertà dei figli di Dio, ecc. ecc., si è scatenato nella Chiesa un turbine di idee e di comportamenti evasivi di ogni disciplina e di ogni legge. Libertà e autorità sono vedute in antitesi insanabile; a farne le spese, ovviamente, è l’autorità. La teoria e la prassi della cosiddetta “disubbidienza costruttiva” sono cronaca di tutti i giorni; non occorre fare nomi. [SM=g1740733]
Del Concilio, cui i contestatori si appellano selezionando testi e violentandone il senso, si è naturalmente dimenticato questo ammonimento davvero profetico: “Nella nostra epoca esseri umani soffrono pressioni di vario genere e corrono il pericolo di venir privati della facoltà di prendere liberamente le proprie decisioni. D’altra parte però non pochi sembrano propensi a prendere a pretesto la libertà per respingere ogni dipendenza e far poco conto della dovuta ubbidienza. Perciò questo Concilio Vaticano esorta tutti, ma specialmente coloro che hanno compiti educativi, ad adoprarsi per formare persone le quali, nel pieno rispetto dell’ordine morale, sappiano ubbidire alla legittima autorità e siano amanti della genuina libertà; persone cioè che siano capaci di emettere giudizi propri nella luce della verità, di svolgere le proprie attività con senso di responsabilità, e che si sforzino di perseguire tutto ciò che è vero e giusto, generosamente collaborando con gli altri” (25).

Ecco magistralmente operata la sintesi tra libertà e autorità. Ciò vale per qualsiasi uomo, ma per il cattolico v’è qualche cosa di più. Egli non può dimenticare che la genuina libertà dei figli adottivi di Dio è quella che maggiormente rende simili al Figlio Unigenito di Dio, fattosi per noi “ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil. 2, 8). Il cattolico non può ignorare la particolare origine e strutturazione dell’autorità della Gerarchia: viene dall’alto, non dalla base! Sarà lecito rispettosamente contestare certe forme difettose di esercizio dell’autorità, perfino certe scorie abusivamente adagiatesi sul concetto di autorità; ma non sarà lecito contestare il principio stesso dell’autorità di magistero e di governo senza alterare sostanzialmente la natura stessa della Chiesa di Cristo. Il cattolico infine non può pretendere, senza cessare di essere cattolico, la libertà di pensiero e di espressione circa il contenuto essenziale del Deposito rivelato che il Magistero della Chiesa gli propone a credere.

Non esiste la libertà morale di dire eresie, di chiamare lecito ciò che è intrinsecamente illecito. Oggi invece certi cattolici, in nome della libertà di coscienza, ritengono doveroso — per dire un solo esempio — lasciare via indisturbata all’introduzione del divorzio nella legislazione civile, anzi l’auspicano come funzione pedagogica della libertà! Negano alla Chiesa il potere di censurare i libri o di provvedimenti disciplinari contro i propri sudditi delinquenti.
In omaggio poi al Papa dal motto “Oboedientia et pax”, a sostegno delle loro teorie si appellano al seguente brano dell’enciclica Pacem in terris: “L’uomo, in virtù della legge naturale, ha il diritto al rispetto della sua persona e della sua buona reputazione, alla libertà nella ricerca della verità e, salvi l’ordine morale e il bene comune, nella esposizione e diffusione del proprio pensiero” (26). Ma la citazione non è a proposito per un cattolico.
Egli, infatti, la verità religiosa l’ha già sostanzialmente trovata nella sua Chiesa, alla quale aderisce in tutta libertà; non ha quindi bisogno di ricercarla altrove. Inoltre, l’ordine morale e il bene della comunità ecclesiale gli vietano non solo di esporre e divulgare opinioni contrastanti con la divina Rivelazione — della quale il Magistero gerarchico è custode ed interprete autentico — ma perfino di coltivarle nel segreto della propria mente!

Si sussume: non è forse “diakonia”, cioè “servizio” l’autorità? Il Concilio non l’ha forse cantato in tutti i toni? Serva, dunque, l’autorità i propri sudditi, rispettando la loro libertà! Ma l’equivoco di un simile ragionare sta tutto nel falso concetto di “servizio”, quasi che esso fosse sinonimo di servilismo, di lasciar fare, anzi sanzionare tutte le voglie dei sudditi. [SM=g1740721]

Nella Chiesa l’autorità è indirizzata, anzitutto, al servizio di Dio (cfr. 2 Cor. 6, 3; 1 Tim. 3, 2) e del suo Cristo (cfr. 2 Cor. 11, 23; 1 Tim. 4, 6; Col. 1, 7), e soltanto dopo, in esecuzione della volontà di Dio, al servizio dei servi di Dio. La finalità di servizio non può cambiare la natura dell’autorità, che è essenzialmente potestà. Anche Gesù (cfr. Mt. 9, 6; Mt. 28, 18; Giov. 10, 18; Giov. 17, 2) e gli Apostoli (cfr. 1 Cor. 9, 4 sg.; 2 Cor. 13, 10) si sono esplicitamente attribuiti una potestà, benché si ritenessero servi. D’altra parte, è proprio la finalità di servizio che spesso impone all’autorità, in nome della fedeltà a Dio e a1 vero bene dei suoi figli adottivi, il penoso dovere di domandare ai sudditi il sacrificio della propria libertà nell’ubbidienza. Se usata bene, la potestà si traduce nella più alta significazione di amore al Maestro: “se mi ami, pasci le mie pecore” (Giov. 21, 15).

Si insiste ancora: eppure il Concilio vuole che l’ubbidienza dei sacerdoti, dei religiosi e dei fedeli sia un’ubbidienza “responsabile” (27). In presenza di un comando dal di fuori, come può dirsi “responsabile”? Bisogna certo riconoscere che l’innocente paroletta “responsabile” — paroletta che avrebbe forse meritato una qualche dilucidazione negli stessi documenti conciliari — viene oggi stravolta a significare l’opposto di quanto intendeva il Concilio, a significare cioè che l’uomo, il cristiano, il cattolico dovrebbe rispondere dei propri comportamenti soltanto alla sua coscienza e, quindi, nemmeno l’autorità della Chiesa potrebbe chiedergli cosa di cui egli non sia intimamente convinto! Ma codesta è la superbia di sempre: l’uomo costituitosi unica legge a se stesso!
La medesima paroletta innocente, a proposito della paternità e maternità “responsabile” (28), è stata assunta come etichetta conciliare onde legittimare l’uso dei contraccettivi nel matrimonio. Sappiamo che il Papa Paolo VI, nel dichiarare intrinsecamente illecito quell’uso, ha dovuto ristabilire il genuino significato della espressione adoperata dal Concilio (29).


Corresponsabilità nella Chiesa


Non meno della precedente, è stata stravolta e fatta impazzire l’idea conciliare della corresponsabilità.
Il Concilio l’ha sancita a tutti i livelli: di Gerarchia e laicato, di Chiesa universale e diocesi, di parrocchia e famiglia, di comunità religiosa e libera associazione. L’ha intesa non soltanto come esclusione della passività nei membri della Chiesa, ma soprattutto come positivo diritto-dovere “per tutti di cooperare in unità di intenti, ciascuno secondo la sua propria modalità, all’opera comune” (30), che è l’edificazione e l’incremento del Corpo mistico di Cristo.

Orbene, questa corresponsabilità, invece di fermarsi ad essere — come l’ha voluta il Concilio e come, del resto, il suo stesso nome significa — assunzione da parte di ciascuno della responsabilità che gli è propria, secondo il posto che occupa nella Chiesa, in unione e in armonia con quella degli altri, viene interpretata e pretesa come livellamento di responsabilità, e cumulatività di competenze. Il che annullerebbe ipso facto le differenze gerarchiche stabilite da Cristo stesso, secondo le quali esistono nella Chiesa non solo gradi ma anche tipi diversi di responsabilità.
A proposito dei laici, il Concilio ha tracciato le grandi linee del significato della loro presenza e missione nella Chiesa, delle loro responsabilità, delle parti che loro competono nella vita ecclesiale (31). Però, a guisa di una carta costituzionale la quale traccia l’ideale programmatico ma ne lascia la concretizzazione alle leggi di attuazione, così anche il Concilio non è sceso a precisare troppo quali siano in concreto le mansioni che spettano al laico per diritto divino, e quali invece possano venirgli utilmente affidate dal diritto ecclesiastico. Una tale indeterminatezza, forse, è all’origine di certe contestazioni e rivendicazioni laicali alle volte radicalmente inaccettabili, altre volte discutibili quanto alla forma o quanto alle motivazioni addotte.
Perfino ad alto livello si è reclamato dai laici un diritto di condecisione assieme al Papa nel governo della Chiesa universale. Ma questa è una richiesta dogmaticamente insostenibile!
Si è chiesto di avere una qualche parte, assieme al clero, nella designazione dei parroci e dei vescovi diocesani. Cosa possibilissima, la quale non sarebbe nemmeno una novità. La storia ecclesiastica, infatti, documenta abbondantemente l’antichissima esistenza di tale prassi, come pure i suoi pregi e i suoi svantaggi. Nulla vieta che in Occidente tale prassi possa venir ripresa oggi, depurandola dai difetti e dai pericoli documentati dall’esperienza, a patto però che rimanga istituto di diritto ecclesiastico, mai pretenda di essere l’esercizio di un inesistente diritto divino!


A proposito della nomina dei vescovi diocesani posso ricordare, per la parte che ho avuto nell’elaborazione del documento, che il Concilio ha bensì stabilito che per l’avvenire “alle autorità civili non siano più concessi diritti o privilegi di eleggere, nominare, presentare o designare candidati all’ufficio episcopale” (32), ma con una dicitura così formulata ha volutamente lasciata aperta la porta al ripristino eventuale della prassi antica secondo cui clero e popolo (che non sono “autorità civili”) avevano ricevuto dalla Chiesa una qualche parte nella scelta del proprio vescovo. Ma sarebbe una puerile illusione il credere di aver trovato, con ciò solo, il sistema sempre e dovunque infallibile per dare alla Chiesa i pastori più degni e più competenti, senza che vi possano entrare l’interesse, la faziosità, la divisione degli animi! La stessa esperienza del suffragio universale in campo civile ci avverte della possibilità del contrario. E l’uomo è sempre uomo, con tutte le sue debolezze, anche quando opera come cittadino della “città di Dio”!

Il Concilio ha istituito il Consiglio Presbiterale e il Consiglio Pastorale (al quale partecipano anche i laici) perché siano di aiuto al vescovo coi loro consigli. Parimenti, ha preso atto solenne dell’istituzione fatta da Paolo VI del Sinodo dei Vescovi, perché sia di aiuto al Papa coi propri consigli nel governo della Chiesa universale. Ma ci si metterebbe fuori strada se si volesse vedere — come sta già accadendo in qualche luogo — in tali organismi di diritto ecclesiastico una specie di ridimensionamento, di contrappeso dal basso dell’autorità dei vescovi e del Papa, discendente dall’alto. In questa errata concezione della corresponsabilità giuoca inconsciamente l’influsso di moduli che sono propri delle società civili, ma non trasferibili tali e quali alla Chiesa: il parlamentarismo democratico, il costituzionalismo, la rappresentatività.


Pluralismo nella Chiesa


Il Concilio ha sancito il principio che nell’ambito della comunione ecclesiale “esistono legittimamente le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della Cattedra di Pietro, la quale presiede alla assemblea universale di carità, tutela le varietà legittime, e insieme vigila affinché ciò che è particolare non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva” (33). Nemmeno in materia liturgica, una delle più delicate, “la Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene di tutta la comunità, non intende imporre una rigida uniformità, anzi rispetta le qualità e le doti d’animo delle varie stirpi e dei vari popoli” (34).
Questi principi il Concilio ha inteso affermarli soprattutto a garanzia dell’incolumità dei vari Riti, specialmente orientali, esistenti da secoli nella Chiesa cattolica. Di tali Riti sempre il Concilio afferma: “Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi fondate dagli Apostoli e dai loro successori nel corso dei secoli, si siano unite in più raggruppamenti, congiunti in forma organica, i quali, salva restando l’unità della fede e l’unica divina costituzione della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra esse, specialmente le antiche Chiese Patriarcali, quasi matrici della fede ne hanno generato altre a guisa di figlie, con le quali restano fino ai nostri giorni legate da un più stretto vincolo di carità nella vita sacramentale e nell’osservanza di mutui diritti e doveri. Questa varietà di Chiese locali, che cospira ad un medesimo fine, dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa” (35).

L’esclusione poi della rigida uniformità nel campo liturgico in Occidente presuppone, sempre secondo il Concilio, che rimanga “salva la sostanziale unità del rito romano” (36).

Orbene, sotto la comoda etichetta del pluralismo, che è cosa diversa dalla “pluralità”, si sta perpetrando da taluni nella Chiesa latina ciò che, in nome dell’ecumenismo e di altri giusti titoli, mai e poi mai si tollererebbe venisse perpetrato nell’ambito di uno qualsiasi dei venerandi Riti orientali. Ho letto di un’alta personalità ecclesiastica della Chiesa latina queste parole: “A ogni chiesa locale è affidata la responsabilità di vedere in quale maniera concreta essa debba realizzare l’unico mistero della Chiesa: è una responsabilità che le compete per sua propria natura”.
Qui, e nei fatti che hanno accompagnato tale affermazione, io vedo la previa giustificazione di ogni arbitrio che conduce inevitabilmente a frantumare l’unità sostanziale del rito latino in un caleidoscopio di differenze locali.
L’attuale legittima pluralità, specialmente orientale, di cui abbiamo sentito l’approvazione da parte del Concilio, non è nata artificiosamente, ma si è venuta formando quasi per processo spontaneo attraverso lunghi secoli, in irripetibili condizioni storico-geografico-sociologiche.

Ma noi in Occidente, entro l’ambito del medesimo Rito latino, corriamo il pericolo che, ad opera di minoranze spregiudicate e con l’avallo di autorità periferiche, non solo ogni nazione ma ogni diocesi, anzi ogni parrocchia, si crei artificiosamente, e ad ogni mutar di vescovo o di parroco, la sua teologia, il suo catechismo, la sua liturgia, la sua spiritualità, la sua disciplina: in altre parole, “una sua maniera concreta di realizzare l’unico mistero della Chiesa”!

Giova tutto questo all’unità della Chiesa? edifica veramente le anime? Il S. Padre ne è, a buon diritto, preoccupato. Sono recentissime queste sue parole ai delegati della Commissioni liturgiche diocesane d’Italia: “La Liturgia è maestra di universalità, essa non divide, ma unisce, non stabilisce barriere, ma fonde i cuori nella preghiera e nell’amore. Ci riferiamo alle istanze, più o meno sotterranee, che spezzettando la celebrazione liturgica nelle varie categorie di fedeli perfino nelle case o in associazioni private, corrono il rischio di far perdere lo spirito della cattolicità, l’unione nell’unica fede che cementa la Chiesa. Lex orandi lex credendi, come ben si sa da tutti, ma purtroppo il particolarismo nella preghiera può diventare impoverimento del sensus Ecclesiae, del vissuto e sofferto patrimonium fidei”.
Certi particolarismi che si vengono creando artificiosamente nella Chiesa latina, con innegabili accenti di spirito antiromano, non lasciano tranquilli.




[SM=g1740758] continua..................

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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