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ANNUS FIDEI- NOVA ET VETERA testo prezioso di mons. Carli del 1969

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2012 22:28
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11/10/2012 12:48
 
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Collegialità episcopale
(si legga il Documento Communionis Notio del 1992) [SM=g1740733]


La più cospicua delle “novità” del Vaticano II è la dottrina della collegialità episcopale. A dir vero, nessun documento del Concilio — anzi, per quanto ne so, nessun documento della S. Sede — adopera mai il nome astratto di “collegialità”.
Il Concilio però ha dichiarato solennemente, sebbene non definito come dogma di fede, che per volontà di Cristo il Romano Pontefice e i vescovi, successori degli Apostoli, formano un “collegio” o “corpo”, cioè un “ceto stabile” composto di quelle persone che abbiano ricevuto il sacramento dell’episcopato e si trovino in comunione gerarchica col Romano Pontefice e con gli altri vescovi.
Tale collegio “insieme col suo capo il Romano Pontefice e mai senza questo capo, è esso pure soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, potestà però che non può essere esercitata se non consenziente il Romano Pontefice”.

Anzi, “il Collegio, pur esistendo sempre, non per questo permanentemente agisce con azione strettamente collegiale [...] in altre parole, non è sempre in atto pieno, anzi, con atto strettamente collegiale non agisce se non ad intervalli e col consenso del Capo”. “Al giudizio del Sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, spetta, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei tempi, determinare il modo col quale questa cura dev’essere attuata, o in modo personale o in modo collegiale” (37).

Questa e non altra è la cosiddetta “collegialità” episcopale vera e propria: collegialità che costituisce un diritto di origine divina. Come naturale conseguenza, nasce tra i membri dell’episcopato il dovere dell’“unione collegiale” o “affetto collegiale” (38), in forza del quale i vescovi sono tenuti a coadiuvare il Romano Pontefice nel governo della Chiesa universale nei modi da lui stesso stabiliti (ultimo modo, in ordine di tempo, il Sinodo dei Vescovi), e ad essere uniti tra loro nella carità e nell’aiuto reciproco.

Non è questo il momento di segnalare il risorgere di certe aberranti interpretazioni della collegialità episcopale, che la famosa Nota esplicativa previa aveva proprio inteso amputare in radice. Mi preme invece qui segnalare l’inflazione che sta subendo l’idea stessa di collegialità. Mentre intatti, come abbiamo visto, il Concilio l’ha riservata esclusivamente all’episcopato, oggi la collegialità sembra diventata come il prezzemolo, buono per ogni tipo di pietanza! Tutto ciò che è appena “sociale” o “comunitario” diventa ipso facto espressione di collegialità.
Si parla di “collegialità della Chiesa”: in altre parole, la Chiesa da famiglia di Dio o Popolo di Dio diventerebbe un immenso collegio.
Si confonde l’idea di “comunione” con quella di “collegialità”.
Si sfocia, inevitabilmente, nell’egualitarismo democratico di tipo protestante, nell’individualismo, nell’anarchia; infine, nella negazione della Gerarchia, in modo particolare, del Papato. [SM=g1740721]

La stessa collegialità episcopale, strumentalizzata in un primo tempo come ridimensionamento del papato, viene poi buttata in un canto come ferrovecchio inservibile! In una rivista italiana, redatta da cattolici, recentemente si potevano leggere queste parole: “La collegialità sancita dal Concilio non si limita al rapporto fra Papa e Vescovi, ma s’estende ai Vescovi, ai preti e ai laici”. Si sono, cioè, già oltrepassati in campo cattolico gli auspici di un autore valdese, il quale durante il Concilio scriveva quanto segue: “... Ma come non ci sembra accettabile, dal punto di vista dell’Evangelo, la proposizione: Ubi Petrus, ibi Ecclesia, così non ci sembra evangelicamente legittima la proposizione: Ubi episcopus, ibi Ecclesia, che è il nocciolo della dottrina cattolica dell’episcopato [...]. Questo significa che la nozione cattolica di Chiesa, anche dopo la rivalutazione dell’episcopato e l’introduzione del principio della collegialità, necessita ancora, almeno secondo un’ottica evangelica, una revisione radicale [...].
Il principio della collegialità episcopale, che il Vaticano II dovrebbe sanzionare, contiene in sé un indubbio fermento evangelico: il pensiero secondo cui il governo della Chiesa non è individuale ma collegiale è un pensiero biblico.
Ma a parte ogni altro rilievo critico che andrebbe fatto sul modo con cui il cattolicesimo intende il principio neotestamentario del governo collegiale della Chiesa, non si può non osservare che la sua applicazione nel cattolicesimo, se condotta con il massimo rigore teologico, dovrebbe comportare la revisione e la ritrattazione di fatto del dogma del primato pontificio, nonché la rinuncia, da parte del papa, dei suoi poteri di giurisdizione immediata e diretta su tutta la Chiesa cattolica [...].
In una parola, l’affermazione della collegialità episcopale dovrebbe indurre il cattolicesimo a riconoscere che il papa è una sovrastruttura dogmatica e istituzionale, anzi che egli — a parte ogni considerazione di carattere personale — è un personaggio inammissibile nella Chiesa di Gesù Cristo” (39).

Orbene, c’è già chi — teologo cattolico di grande smercio — sta lavorando alla bisogna. Cioè ad insegnare indisturbato, che “nella Chiesa primitiva le doti di governo non conducevano ad una classe dirigente, un’aristocrazia di detentori dello Spirito si distinguevano e si elevavano su di essa per dominarla”!


Carismatismo e profezia


Mai, quanto in questi anni di postconcilio, si è parlato tanto di carismi in genere e di profezia in ispecie. [SM=g1740733] Che cosa sta succedendo? Sta succedendo l’inflazione e l’impazzimento di una sanissima idea cattolica, antica quanto la Chiesa, ma rimessa in più chiara luce dal Concilio.
Per carisma, in senso tecnico, si intende un dono soprannaturale concesso da Dio ad una persona, non tanto a vantaggio suo proprio quanto piuttosto per la diffusione del Vangelo e l’edificazione dei Corpo mistico di Cristo.
Alle origini del cristianesimo, in qualche chiesa locale, come ci rivela l’epistolario paolino, i carismi erano molto vari e frequenti (cfr. 1 Cor. 12, 7-11) e, grosso modo, si distinguevano in doni di governo, doni di insegnamento e di esortazione (tra questi: la profezia), doni di assistenza corporale. Alcuni erano veramente prodigiosi e facilmente constatabili all’esterno. Altri consistevano piuttosto in una più ricca attitudine a certi uffici (li diremmo: grazie di stato), e perciò risultavano di più difficile accertamento esterno. Altri ancora consistevano in un più rilevante grado di quei sette doni dello Spirito Santo che accompagnano sempre la grazia santificante.


Di per sé i carismi possono essere posseduti anche da persone sprovvedute di quel carisma migliore che è la carità (cfr. 1 Cor. 12, 31). Materialmente parlando, possono essere opera di Satana anziché dello Spirito Santo. Nella Chiesa, in misura e con destinatari a completo beneplacito dello Spirito Santo, non sono mai mancati e mai mancheranno autentici carismi.
Ne potranno beneficiare chierici e laici indifferentemente, eccezion fatta di quei carismi che sono attinenti a funzioni gerarchiche: ad esempio, quello che S. Ireneo definiva il “charisma veritatis certum” (40) e che è prerogativa del Collegio Episcopale e del suo Capo.


In proposito il Vaticano II afferma che lo Spirito Santo “munisce e dirige la Chiesa con differenti doni gerarchici e carismatici” (41). “Inoltre lo stesso Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica e guida e adorna di virtù il Popolo di Dio, ma “ripartendo a ciascuno in particolare nel modo che piace a lui” (1 Cor. 12, 11) distribuisce tra i fedeli di ogni ordine grazie anche speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi vari incarichi od uffici, giovevoli al rinnovamento e alla maggiore edificazione della Chiesa, secondo quanto sta scritto: “a ciascuno la manifestazione dello Spirito viene data perché sia di utilità” (1 Cor. 12, 7). Questi carismi, per quanto meravigliosi essi siano ovvero più semplici e più diffusi, siccome sono anzitutto adatti e utili alle necessità della Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione” (42).

Si badi bene che né S. Paolo né il Concilio intendono dire che ogni e singolo cristiano possieda di fatto, o debba possedere di diritto, dei carismi. Certi cattolici moderni, viceversa, ne sono certissimi: tutti sono o debbono essere carismatici, todos caballeros, todos todos! Ogni eccentrico, ogni rivoluzione, ogni ribelle all’autorità si appella ad un suo carisma, pretende ad un suo filo diretto con lo Spirito Santo.
Ogni donna Prassede, di manzoniana memoria, etichetta come ispirazioni del cielo le fantasticherie del proprio cervello malato! Che se si ammette una qualche discriminazione, questa è: essi e i seguaci della loro corrente sono in possesso dei carismi (naturalmente, di quelli incontrollabili all’esterno!), ma i loro avversari no. Com’erano differenti i Santi!
Essi che i carismi li possedevano davvero, e spesso in grado eminente, non vi si appellavano mai; o non ci badavano, o addirittura non ci credevano, o ne dubitavano, timorosi di essere vittime di illusione diabolica (cfr. S. Teresa d’Avila)!


Tanto meno poi S. Paolo o il Concilio contrappongono — come si suole fare oggi — il carisma all’autorità, la profezia al Magistero gerarchico, la “Chiesa carismatica” alla “Chiesa giuridica”, la “Chiesa-profezia” alla “Chiesa-apparato”.
Il Vaticano II è perentorio su questo punto: “il giudizio sulla genuinità dei doni straordinari e sul loro ordinato esercizio appartiene all’Autorità ecclesiastica, alla quale spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito ma di esaminare ogni cosa e ritenere ciò che è buono” (43). “È ufficio eccelso dei sacri Pastori pascere i Fedeli e riconoscere i loro ministeri e carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, ciascuno secondo la propria modalità, all’opera comune” (44). E quando i carismatici odierni non riescono a trovare alcun testo conciliare a suffragio di una pretesa “teologica e perciò validissima contestazione dal basso”, allora ricorrono alla comoda scappatoia di una “convergenza impressionante dell’ispirazione globale e dei testi fondamentali (del Concilio) riguardanti un nuovo tipo di Chiesa ritrovato nelle categorie originarie di comunità carismatica posta in storicità”! Un mero sofisma: quello che in buona logica si chiama petizione di principio.


E che dire del profetismo dilagante oggi? Per S. Paolo il profeta è colui che, sotto l’influsso dello Spirito Santo, “parla agli uomini per edificare, esortare, incoraggiare [...] chi profetizza, edifica la Chiesa” (1 Cor. 14, 3-4); ma non necessariamente rivela eventi futuri. Non diversamente per il Concilio: “Il Popolo di Dio — dice il Vaticano II — partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di Lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e con l’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra acclamanti al nome di Lui. L’universalità dei Fedeli che tengono l’unzione dallo Spirito Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua peculiare proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici offre l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. Ed invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il Popolo di Dio sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente conformandosi accoglie la parola non degli uomini ma, qual è in realtà, di Dio, aderisce indefettibilmente alla fede una volta trasmessa ai santi, con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita” (45).

Ma il profetismo di certi moderni è tutt’altra cosa da quello conciliare. [SM=g1740733]
“Il profeta non è in primo luogo quello che espone la dottrina, ma colui che la crea”. Non si riallaccia al passato, ma prepara il futuro. È uno che “rimette in questione il sistema nel quale vive, e suggerisce forme nuove o idee nuove meglio adatte ai tempi nuovi che si annunziano”. Il suo motto non è quello tradizionale di “sentire cum Ecclesia (praesenti)”, bensì quello nuovo teilhardiano di “praesentire cum Ecclesia (futura)”. Il profeta di nuovo tipo non dice, come Gesù: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha inviato” (Giov. 7, 16). È piuttosto uno che dice: la mia dottrina è diversa da quella attuale della Chiesa, ma non tarderà molto che la Chiesa stessa la farà sua!

L’anno scorso, durante un convegno culturale cattolico, l’Italia è stata accusata di essere “povera di spirito profetico”. Chissà perché! Forse perché non s’erano ancora verificate occupazioni di cattedrali, ribellioni di parrocchie al proprio vescovo, pubblicazioni di catechismi filomarxisti, contestazioni clamorose del celibato sacerdotale.
In gran parte a simili sedicenti profeti, i quali spesso e volentieri si atteggiano a vittime di incomprensione o di persecuzione, si deve la crisi di cui soffre la Chiesa e su cui geme il Romano Pontefice.



Riformulazione della dottrina cattolica


Un ultimo esempio di come si possa abusare del Concilio è quello concernente il problema di una aggiornata formulazione della dottrina cattolica.

Giovanni XXIII, nel già citato discorso d’apertura del Concilio, ne fece per così dire la nota caratteristica del Vaticano II e del suo programma rinnovatore. Disse, fra l’altro rivolgendosi ai Padri conciliari: “L’opera nostra non ha come scopo primario quello di discutere intorno a certi punti fondamentali della dottrina della Chiesa, o meglio di ripetere più diffusamente l’insegnamento dei Padri e dei teologi antichi e recenti, che stimiamo a voi ben noto e familiare al vostro spirito. Non c’era infatti bisogno di indire un Concilio Ecumenico per tenere soltanto dispute simili [...]; è necessario che, come si augurano tutti gli spiriti genuinamente cristiani, cattolici e apostolici, la conoscenza della medesima dottrina venga approfondita e sviluppata, e le coscienze ne siano più pienamente imbevute e formate; è necessario che questa dottrina certa e immutabile, alla quale è dovuto l’ossequio della fede, sia esplorata ed esposta nei modi che il tempo nostro domanda. Una cosa, infatti, è il deposito della Fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina; altra cosa è la maniera di formularle, identico tuttavia rimanendo il loro significato e senso profondo. Ed è a questa formulazione che si dovrà moltissimo badare e, se necessario, lavorare con pazienza; in altre parole si dovranno adoperare quei modi di esporre, i quali siano più confacenti ad un magistero che vuol essere di carattere prevalentemente pastorale” (46).
Com’è chiaro ad una semplice lettura, Giovanni XXIII si riferiva esclusivamente allo stile da adoperare nel magistero pastorale del Concilio Vaticano II, che proprio lui aveva la fortuna di inaugurare, ma non stabiliva una norma generale da osservarsi in seguito sempre e dovunque. Di fatto, però, i documenti del Vaticano II non solo rappresentano un primo tentativo del nuovo modo di formulare la dottrina della Chiesa, ma, ciò che più importa, stabiliscono anche la norma generale da osservarsi in seguito, come frutto rinnovatore del Concilio. Mi limito a citare alcuni dei testi conciliari più significativi.

“La fede cattolica dev’essere spiegata con più profondità ed esattezza, con quel modo di esposizione e di linguaggio che possa essere veramente compreso anche dai fratelli separati” (47). Dei vescovi si afferma che “essi devono esporre la dottrina cristiana in maniera adatta alle necessità dei tempi, tale cioè che risponda alle difficoltà e ai problemi dai quali sono assillati e angustiati gli uomini d’oggi” (18). La Chiesa “in un modo adatto a ciascuna generazione deve poter rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura, e sul loro reciproco rapporto” (49). “È dovere di tutto il Popolo di Dio, specialmente dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare, capire ed interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, affinché la Verità rivelata possa essere capita sempre più a fondo, meglio compresa, e presentata in forma più adatta” (50).
“La Chiesa, vivendo nel corso dei secoli in situazioni diverse, si è servita dei ritrovati delle diverse culture per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo e approfondirlo, per meglio esprimerlo nella celebrazione liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli” (51).

Un ultimo testo, importante perché si richiama esplicitamente al citato discorso di Giovanni XXIII: “ I teologi sono invitati, nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a ricercare il modo sempre più adatto di comunicare la dottrina cristiana agli uomini del loro tempo, perché una cosa è il deposito della Fede, cioè le verità (contenute nella nostra veneranda dottrina, aggiungeva Giovanni XXIII), altra cosa è la maniera di formularle, identico tuttavia rimanendo il loro significato e senso profondo” (52).


È fuori dubbio, dunque, che secondo il Concilio sia necessità permanente della Chiesa quella di tenere aggiornata la maniera di formulare la dottrina cattolica, all’unico scopo di favorire la migliore comprensione e, sperabilmente, la più ampia accettazione del messaggio di Cristo. Lo sforzo di una nuova formulazione potrà forse indurre la Chiesa a spostare la propria riflessione su aspetti che prima erano poco in vista, o viceversa. Potrà forse indurla a purificare da scorie, cioè da elementi non necessariamente postulati dal Deposito divelato, ma provenienti piuttosto da situazioni contingenti, certe nostre rappresentazioni di Dio, dell’uomo, delle realtà soprannaturali ed escatologiche.
Una simile operazione di ripulitura che potremmo, in un certo senso, chiamare di “demitizzazione”, è senza dubbio un servizio reso alla Rivelazione, apprezzabilissimo, anzi doveroso, ma anche — inutile dissimularlo — tanto difficile e rischioso! Il linguaggio, infatti, è il rivestimento di un pensiero: nel caso nostro, il pensiero è addirittura quello di Dio, relativo a Se stesso e alla nostra salvezza eterna. Il rischio è che, nel ritoccare o mutare il rivestimento del linguaggio, abbia a soffrirne in qualche modo il contenuto di quel divino pensiero. E il rischio aumenta quando il nuovo linguaggio non sia stato ancora collaudato, o si trovi in fase di continuo cambiamento, o venga mutuato da un ambiente saturo di filosofie aberranti o, quanto meno, discutibili.


Comunque, il Concilio spinge a trovare la nuova formulazione e, in un certo senso, invita a correre il rischio, purché sia un rischio calcolato e moderato dalla prudenza. Norme concrete e criteri precisi per fare ciò non sono stati indicati né da Giovanni XXIII né dal Vaticano II. Una lettera, inviata a nome del S. Padre dalla Segreteria di Stato il 30 dicembre 1968 ai partecipanti al III Congresso nazionale dell’Associazione Teologica Italiana, contiene saggi consigli onde attuare “la inderogabile norma della sana e perenne teologia, quella cioè di conservare la sostanza trascendente ed immutabile delle verità rivelate, ed insieme di trasmetterla con sempre nuovi concetti e forme di espressione, che non contraddicano quelli precedenti, ma ne siano il necessario completamento, considerata l’insormontabile insufficienza del pensiero e della parola dell’uomo viatore a comprendere e formulare in modo adeguato le profonde ricchezze della sapienza e della scienza di Dio”.
Occorre, nell’opera di aggiornamento della formulazione, avere anzitutto fiducia nella capacità dell’umana ragione a raggiungere la verità assoluta, non soltanto nell’ordine naturale, ma anche in quello soprannaturale, quando la ragione sia illuminata dalla fede e faccia uso delle proprie energie con un’indagine assidua, pia, discreta. Occorre inoltre umiltà e magnanimità di fede nella trascendenza della Parola divina, e fiducia nel linguaggio umano, capace di esprimere, sebbene in maniera analogica e quindi molto imperfetta, i misteri della vita intima di Dio e le verità che riguardano la salvezza dell’uomo. Occorre infine fedeltà e ubbidienza alla dottrina della Chiesa, evitando di acconsentire al desiderio di una facile accoglienza e di popolarità, a scapito della sicurezza della dottrina insegnata dal Magistero, che nella Chiesa rappresenta la persona di Gesù Cristo Maestro (53).


Il teologo protestante O. Cullmann ha mosso questa obiezione: “il problema del limite fra la sostanza immutabile e la sua formulazione è molto difficile e complesso. Questo problema non è stato trattato né da Giovanni XXIII, né dal Concilio. A mio parere, il male radicale del Concilio sta nel fatto che esso ha considerato la questione del limite tra il nucleo immutabile e la forma che si deve continuamente aggiornare, come se fosse già risolta [...]. È inutile dire che bisogna distinguere tra nucleo e formulazione, se poi non si indica che cosa è nucleo e che cosa è formulazione” (54). Certo, per un protestante tale questione è insolubile, al pari di quella chi ci assicuri che la Bibbia è veramente la Parola di Dio. Ma per Giovanni XXIII e per il Concilio la risposta è già scontata: per distinguere tra nucleo e formulazione esistono criteri oggettivi, elaborati dalla tradizione viva della Chiesa; ed in ultima istanza esiste un Magistero autentico, infallibile anche nel definire quella questione, tanto pertinente al Deposito rivelato!

Ma Giovanni XXIII e Vaticano II vengono traditi quando, sotto lo specioso pretesto di una nuova formulazione che sia più accetta al mondo attuale, si cerca una nuova “reinterpretazione” del dogma, cioè una concezione che si allinei ad una nuova prospettiva storica; in definitiva, un significato diverso e spesso anche opposto a quello “che ha creduto e crede la santa Madre Chiesa, alla quale spetta giudicare del vero senso e dell’interpretazione delle sacre Scritture” (55). È il contenuto del dogma che, bene spesso, oggi si vuole commisurare alla capienza, cioè ai gusti del mondo, smussando, edulcorando, togliendo tutto quanto gli riesce ostico. Per citare solo un esempio, quando alla formula della “transustanziazione” eucaristica si vuole sostituire (non dico: aggiungere, il che sarebbe lecito, né sarebbe una novità tale, quale certuni oggi strombazzano) la formula della “transignificazione “o “transfinalizzazione”, bisogna avere l’onestà di riconoscere che il dogma della Ss. Eucaristia è svuotato della sua sostanza, cioè della Reale Presenza, dalla quale dipende tutto il resto, transignificazione o transfinalizzazione compresa!


Il Concilio, non meno di Papa Giovanni, viene tradito quando la nuova formulazione diventa una dicotomia tra “dogmi centrali” e “dogmi periferici”, nel senso che questi ultimi (vengono citati come esempi: i dogmi mariologici, l’infallibilità pontificia, gli Angeli, il purgatorio, i pronunziamenti in materia morale, ecc. ecc.) avrebbero un contenuto, oltre che una formulazione, stabilito soltanto storicamente, e perciò sempre soggetto a revisioni. Io non nego che la vicinanza all’immutabile possa avere talora favorito, presso certi settori di teologi, non già presso il Magistero infallibile, l’indebita estensione del carattere di immutabilità a verità che non ne avevano il diritto, o non l’avevano con certezza. Ma affermo che oggi esiste il pericolo opposto, assai più grave del primo, cioè quello di estendere il carattere di opinabilità dal quomodo teologico al quid contenutistico della Rivelazione.

Il Concilio, non meno di Papa Giovanni, viene tradito quando la nuova formulazione del messaggio evangelico comporta “il pericolo di ambiguità, di reticenza, o di alterazione dell’integrità di tale messaggio”; o addirittura il cedimento alla “tentazione di scegliere nel tesoro delle verità rivelate quelle che piacciono, tralasciando le altre [...] di modellare queste verità secondo concezioni arbitrarie e particolari, non più conformi al senso genuino di quelle verità” (Paolo VI); la tentazione, insomma, del libero esame. Saremmo in pieno protestantesimo, in pieno modernismo.

Il problema della moderna formulazione del messaggio evangelico è tra i più delicati e pericolosi. In esso i teologi potranno dare prova della loro valentia, della loro prudenza, della loro docilità al Magistero, della loro umile prontezza a far macchina indietro nel caso di passi falsi. Mi sembra però che debbano evitarsi alcune, più o meno consce, illusioni le quali rischiano di spostare il vero centro del problema concernente l’atteggiamento del mondo odierno di fronte al Vangelo, quasi che il suo rifiuto dipendesse unicamente dal modo di presentarlo.

Non va dimenticato che, anche quando mutano le situazioni storiche, l’uomo rimane sostanzialmente il medesimo nelle sue realtà profonde, nei fondamentali problemi relativi alla sua origine e alla sua destinazione ultima. Il modo di formulargli la risposta cristiana ha, certo, il suo peso; ma non bisogna dargliene uno eccessivo. Il messaggio evangelico possiede una sua forza intrinseca che non possiedono i messaggi umani; in certa misura, è capace di superare anche lo scoglio di una imperfetta formulazione. Soprattutto, va ricordato che, anche nell’ipotesi della più limpida delle formulazioni, sono indispensabili e una grazia soprannaturale e una disposizione psicologica personale (nella quale giuocano gli elementi più imprevedibili) perché si effettui quell’accettazione del messaggio cristiano che si chiama la Fede.

“La dottrina non si impone per se stessa quasi che annunciata, anche nella più chiara e affascinante delle formule, basti per farsi accettare ex seipsa: c’è il mistero della Grazia e della volontà dell’uomo” (Paolo VI).

In secondo luogo, si deve dare atto che la Chiesa cattolica, anche se ha dovuto fissare la sua dottrina in documenti solenni mediante formule dogmatiche sintetiche, precise, inequivocabili, nella predicazione quotidiana però ha sempre adoperato un linguaggio commisurato alle capacità dei vari uditori, adattandosi al genio dei tempi e delle stirpi. Chi credesse che ad uomini digiuni di cristianesimo i sacerdoti annunzino il Vangelo con le formule didattiche apprese dai manuali teologici, costui darebbe prova di non aver mai ascoltato una predica o una conferenza su temi religiosi. Perciò non è una novità in senso assoluto la raccomandazione del Concilio di adattare ai tempi il modo di presentare il messaggio di Cristo. Di un certo nuovo catechismo per adulti, mitizzato ormai più per il suo insufficiente allineamento alla dottrina cattolica che per la novità della formulazione, è stato scritto: “Invece di formule da mandare a memoria, il testo tenta di spiegarle all’uomo del XX secolo”.

Ma, a cominciare dal “Catechismus ad Parochos” del Concilio Tridentino, da parecchio tempo non si contano più in Italia e all’estero i testi di teologia per laici redatti in linguaggio moderno e senza formule da mandare a memoria! Non ci si illuda, però, di poter trovare formulazioni tali che non abbiano poi bisogno di venire ulteriormente spiegate, almeno quando si tratta di certe verità e di certe categorie di persone. Dire che il mondo moderno non accetta il cristianesimo per via del linguaggio incomprensibile della Chiesa, potrebb’essere uno sbrigativo luogo comune, fors’anche un comodo alibi. Confessiamo, piuttosto, che il mondo moderno troppo spesso non si ferma nemmeno a raccoglierlo, questo messaggio cristiano, gli nega la benché minima attenzione, per tutt’altri motivi che quello della sua formulazione!


Una terza osservazione. In ogni epoca, nel duemila come ai tempi di Cristo, il Vangelo sarà sempre una novità che fa choc, che urta, che indispone per se stesso. È, per lo meno, ingenuo il credere che la poca udienza che gli si concede dipenda unicamente da una asserita vecchiezza della formulazione. Siamo sinceri! Troppe volte è in causa il contenuto, non la formulazione. È il verbum crucis, il mistero, il soprannaturale che riesce repellente al palato moderno. Il nostro mondo è refrattario non solo al linguaggio del cristianesimo (e se ne dà la colpa ad un suo preteso rivestimento “ellenistico”!) ma al linguaggio religioso in genere; al punto che il protestante Bonhoffer ha proposto, in tutta serietà, di “trovare un’interpretazione non religiosa dei concetti biblici” perché possano venire accettati dalla città secolare!

Ecco dove sta il grosso pericolo: che il preteso linguaggio nuovo, accettabile al mondo moderno, si risolva in un cercare non già la via più chiara, bensì “la via più facile al cristianesimo; un cristianesimo svigorito dell’esperienza e dello sviluppo della sua tradizione; un cristianesimo conformista allo spirito delle altrui opinioni e ai costumi del mondo; un cristianesimo non impegnativo, non dogmatico, non “clericale”, come dicono” (Paolo VI). Ma non sarebbe più il cristianesimo di Nostro Signore Gesù Cristo!


Forse che Gesù non seppe trovare la formulazione adatta per l’uditorio del suo tempo e del suo paese? Eppure, anche a Lui fu risposto secco secco: “Questo modo di parlare è duro; chi può ascoltarlo?” (Giov. 6, 60), quando propose il Pane celeste a gente che non aveva gusto che per il pane terrestre. E per trattenere alla sua sequela i molti che gli voltavano le spalle sarebbe bastato a Gesù tirar fuori la comoda formula della transignificazione o transfinalizzazione, ma non lo fece!

Forse che il “verbum crucis”, l’“abneget semetipsum” erano categorie mentali più accessibili al mondo di Atene o di Corinto del tempo di S. Paolo, che non al mondo d’oggi? Eppure S. Paolo non seppe trovarne di migliori! O meglio, ci provò nell’Areopago quando usò il linguaggio della saggezza umana. Ma ad aprirgli gli occhi e a farlo ritornare allo scandalo della Croce fu la risposta che ne ebbe da quegli Ateniesi: “Che cosa mai può voler dire codesto parolaio? [...] Sentendo poi parlare della risurrezione dei morti, gli uni lo schernivano, gli altri dissero: Su questo ti sentiremo un’altra volta” (Att. 17, 18.32). Analoga risposta a Cesarea, da parte del preside romano Felice e della moglie Drusilla: “ragionando Paolo di giustizia e continenza e di giudizio futuro, Felice spaventatosi disse: Per adesso puoi andare; quando avrò tempo, ti farò chiamare ancora” (Att. 24, 25).

A proposito del Simbolo Apostolico qualcuno ha scritto: “Un Credo vecchio di tanti secoli non è più adatto all’uomo moderno; bisogna dargli una nuova redazione”. Ha provato a dargliela il 30 giugno 1968 il Santo Padre Paolo VI, di cui tutti ammirano la modernità dello stile e la versatilità dell’informazione. Non l’avesse mai fatto! “Ciò che è stato predicato per diversi secoli è semplicemente ripetuto con le stesse parole, come se il mondo e l’uomo non fossero, nel frattempo, cambiati ... Ancor peggio, come se non ci fosse stato il secondo Concilio Vaticano. È forse la principale obiezione contro questo sermone ... Questo Credo (di Paolo VI) non risolve niente ... non aiuta nessuno; esso rende soltanto il conflitto più acuto”.

Questione di forma o di contenuto? Di contenuto, senz’altro. Per essere moderno, per risolvere ogni difficoltà, per aiutare il mondo, per non rendere più acuto il conflitto, ecc. ecc. il Credo di Paolo VI — cioè il nostro Credo di cattolici apostolici romani — avrebbe dovuto sconfessare la transustanziazione e accettare la transignificazione o transfinalizzazione; avrebbe dovuto tacere dell’Immacolata Concezione e Assunzione di Maria Santissima, e almeno dubitare della sua fisica perpetua verginità; avrebbe dovuto dimenticarsi del carattere sacrificale della Messa e della continuata Reale Presenza di Gesù nel tabernacolo; avrebbe dovuto ignorare l’esistenza degli Angeli, dell’Inferno, del Purgatorio, dell’immortalità dell’anima umana! Ecco che cosa oggi, in campo cattolico, si osa chiamare la “riformulazione” o addirittura la “rifondazione” del messaggio di Cristo! La s. m. di papa Giovanni, il fedelissimo custode e maestro della Tradizione, ne sarebbe morto di crepacuore!



[SM=g1740758]  continua.........
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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