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ANNUS FIDEI- NOVA ET VETERA testo prezioso di mons. Carli del 1969

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2012 22:28
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12/10/2012 12:55
 
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[SM=g1740733]  Possibile e doveroso in teoria il progresso nella Chiesa, lo è di fatto anche oggi? Senza alcun’ombra di dubbio, la risposta è affermativa.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato celebrato proprio per questo. Tutti i suoi documenti hanno lo scopo di promuovere il progresso della Chiesa in tutti i campi: nella teologia, nella liturgia, nella disciplina canonica, e soprattutto nel costume cristiano. Perciò è un torto grave a carico dei cattolici cosiddetti tradizionalisti (nel senso peggiorativo della parola) quello di rifiutarsi al rinnovamento promosso dal Concilio, ostentando un morboso attaccamento a formule contingenti del passato estranee alla sostanza del Deposito della Fede.
La loro resistenza è contraria alla volontà di Dio. Essa infatti si risolve, in definitiva, nella misconoscenza dell’originalità e trascendenza della Parola rivelata, da una parte, e delle esigenze del servizio delle anime dall’altra. Si risolve pure in una pratica negazione dell’Autorità ecclesiastica, anche se ammessa a parole, perché la ostacola o la ritarda nella sua opera riformatrice. In definitiva, è un pessimo servizio quello che i tradizionalisti rendono alla causa stessa che pretendono difendere, giacché essi si dimostrano guidati più dall’amor proprio che non dall’amore dell’integrità della Fede. Direbbe di loro S. Agostino: “col ricorso all’antichità difendono la propria ostinazione” (60).
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Le riforme di cui qui si parla sono, ovviamente, soltanto quelle stabilite dalla legittima Autorità della Chiesa. Tutte le altre, anche se belle e buone in se stesse, anche se presentate come frutto di particolari carismi, non possono e non debbono pretendere accoglienza presso i cattolici. Soltanto l’Autorità conferisce alle riforme il crisma della legittimità e la garanzia dell’ortodossia.

Con ciò non si intende dire che l’Autorità ecclesiastica goda positivamente dell’infallibilità nel disporre riforme e aggiornamenti nel campo del mutabile, si che quelle e questi debbano ritenersi sempre i più idonei, i più perfetti, i più utili. Certi mutamenti, pur disposti dall’Autorità legittima e con le migliori intenzioni di questo mondo, possono risultare, all’atto pratico, poco felici e perfino dannosi. [SM=g1740733]

E allora, l’unico rimedio a disposizione dell’Autorità è quello di riformare le riforme stesse, cambiandole o sospendendole. Si deve però aggiungere una duplice precisazione: in primo luogo, le riforme disposte dalla Chiesa non possono positivamente coinvolgere alcun insegnamento contrario alla Fede o alla Morale; in secondo luogo, anche in materia di riforme la Chiesa merita che le si faccia il più ampio credito a motivo della sua prudenza ed esperienza, e soprattutto dell’ordinaria assistenza dello Spirito Santo. [SM=g1740722]

Si ha, dunque, la certezza morale che quelle riforme siano l’espressione della volontà di Dio, fino a che l’Autorità da lui stabilita le promuove o le attua. Perciò l’ubbidienza dei cattolici, fondata su motivi di fede, è moralmente doverosa. Una materia di per sé indifferente e opinabile diventa moralmente buona perché comandata, o moralmente cattiva perché proibita da chi ha la potestà di comandare e proibire. S. Teresa d’Avila, la quale diceva che avrebbe dato la vita per la più piccola delle rubriche liturgiche del suo tempo, non la penserebbe diversamente oggi per la più piccola delle rubriche aggiornate. Oggi come ieri uguale è il motivo fondamentale dell’ubbidienza, cioè la fede e l’amore alla volontà di Dio, quale si manifesta attraverso le pur mutevoli statuizioni della legittima Autorità della Chiesa.


Alla luce di queste considerazioni è facile dare risposta ad un rimprovero che taluni tradizionalisti hanno mosso alla S. Sede. Si sono lamentati che il “Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia” avrebbe, in certi punti della riforma, oltrepassato la lettera della Costituzione liturgica “Sacrosanctum Concilium”. Anch’io sono, personalmente, dello stesso avviso; anzi, penso che l’esito della votazione dei Padri conciliari su quei punti sarebbe risultata ben diversa se si fosse conosciuta in anticipo l’attuazione che ne avrebbe fatta il “Consilium”.
Però mi affretto ad aggiungere che il Sommo Pontefice, o in persona o tramite gli organismi da lui costituiti, ha la potestà, in forza del suo primato giurisdizionale, di oltrepassare i limiti di un documento conciliare, in materia non attinente alla Fede o alla Morale, tutte le volte che egli lo ritenga opportuno. Ma, ex adverso, bisogna riconoscere al Sommo Pontefice uguale potestà, nelle medesime materie di cui sopra, di restringere o annullare un documento conciliare. Ciò andava detto a certi avversari dei tradizionalisti i quali si permettono di teorizzare una pretesa irreversibilità delle riforme del Vaticano II, e puntano il cannocchiale della loro intransigenza di vestali del Concilio sull’operato del Santo Padre Paolo VI per scorgervi e denunziare — secondo loro — cedimenti, involuzioni, insabbiamenti, ritorni di fiamma dell’integrismo ecc.!


Si è ricordata la prudenza, che anche la Chiesa è tenuta ad usare nell’opera della sua riforma. Questa virtù domanda alla Chiesa di amministrare con saggezza, e perciò di non lasciar manomettere da incompetenti, quel patrimonio spirituale, liturgico, dottrinale, giuridico, artistico ecc. che, pur non appartenendo al Deposito rivelato, si è costituito attraverso i secoli nel seno stesso della Chiesa. È un tesoro che merita il più grande rispetto.
La Chiesa non può disfarsene a cuor leggero, con troppa facilità, soltanto per il gusto di cambiare. Ed ogni sostituzione va fatta quando si sia già trovato e collaudato il nuovo che ne dovrà tenere degnamente il posto: lasciare, infatti, dei vuoti sarebbe molto pericoloso, perché potrebbero venir riempiti male e abusivamente. I mutamenti che segnano il genuino progresso della Chiesa sono quelli ispirati al criterio non tanto del nuovo quanto del meglio, quelli che un autentico ed evidente maggior bene delle anime domanda.
Ogni cambiamento di legislazione — faceva notare già S. Tommaso (61) — comporta un certo danno, cioè l’attenuazione nei sudditi del senso della legge. Questo danno dev’essere compensato dall’utilità certa ed evidente che deriverà alla comunità dall’innovazione.
Una riforma sarà, dunque, prudente quando sarà stata preceduta dalla riflessione, dall’esame delle nuove situazioni, delle autentiche esigenze delle anime, del valore intrinseco delle cose nuove alle quali si vogliono sacrificare le vecchie. Per le sue riforme la Chiesa non può assumere come criterio valido le cosiddette “attese del mondo”, quando si sa che per l’uomo moderno troppo spesso è l’attesa che costituisce la bontà delle cose, e non viceversa, ed inoltre che tante reclamizzate “attese del mondo” altro non sono che le attese di élites in possesso di mezzi atti a influenzare l’opinione pubblica.


Il tradizionalismo, inteso come degenerazione dell’amore alla tradizione, va decisamente respinto. Ma per dovere di giustizia, occorre saper comprendere, anche se non giustificare, l’atteggiamento di moltissimi tradizionalisti. [SM=g1740733]
Essi spesso non si oppongono alle riforme in se stesse, quali vengono stabilite dalla legittima Autorità; si oppongono piuttosto ad un certo clima esteriore che le circonda, un clima che anziché aiutarli ad una leale accettazione, li esaspera e, in un certo senso, li costringe alla resistenza. Riferisco qualche esempio illustrativo della mia affermazione.


1) Anche i tradizionalisti hanno diritto, da parte dei loro Pastori e fratelli di fede, a quel minimo di carità — e quindi di pazienza, di benignità, di dolcezza, di sopportazione (cfr. 1 Cor. 13, 4 sgg), di dialogo — che non viene negato, specialmente nel clima ecumenico di oggi, nemmeno ai più accaniti avversari della Chiesa e della religione. Ma cosi non sempre né dappertutto avviene; si è invece parziali e anche ingiusti nei loro riguardi.
Mentre, infatti, si scusano facilmente le agitazioni scomposte e le idee ben poco ortodosse di taluni settori avversi al tradizionalismo, giustificandosi col dire che in fondo in fondo viene dimostrata la vitalità della Chiesa, o almeno l’interesse per le cose di Chiesa, non si vogliono affatto interpretare come attiva partecipazione alle cose di Chiesa le reazioni di quei tradizionalisti i quali, in buona fede, ritengono di difendere gli interesse della Chiesa, a parer loro, insidiati dagli altri!
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Nessuna meraviglia, quindi, che vedendosi relegati ai margini della comunità ecclesiale, e trattasi spietatamente come degli irrecuperabili, i tradizionalisti si irrigidiscano di più nel loro atteggiamento. Chi non sa che adattarsi al nuovo, per uomini di una certa età, è un po’ traumatico? Ci vuole del tempo per modificare la propria psicologia. La convinzione paziente opera assai meglio dell’imposizione drastica, specialmente quando, come nel caso in questione, non sembra verificarsi quello che i moralisti sogliono chiamare il “grave periculum in mora”. I riformisti impazienti non hanno il diritto di stabilire che tre o quattro anni di tempo siano financo troppi per attuare e fare accettare da tutti le vaste riforme promosse dal Vaticano II. Perfino a proposito del Card. Bea è stato scritto che gli costò fatica adattarsi al nuovo spirito ecumenico della Chiesa, di cui poi doveva diventare esimio campione!

2) La complessa opera riformatrice intrapresa dalla Chiesa su tutti i fronti (teologia, liturgia, disciplina, educazione, ecc. ecc.) è resa di più difficile accettazione, e quindi in definitiva danneggiata, dai numerosi e gravi arbitri disciplinari e dalle dottrine gravemente pericolose che, in nome della riforma conciliare, certi chierici e laici si permettono.
Una legge della scienza dell’economia stabilisce che la moneta cattiva scaccia quella buona. Nel campo nostro si potrebbe affermare che la riforma cattiva danneggia quella buona. L’Autorità suprema della Chiesa non si stanca, inascoltata purtroppo, di deprecare quegli abusi e quelle dottrine pericolose; ma certe autorità periferiche sembrano tollerarle, per non dire incoraggiarle, col loro atteggiamento. La disubbidienza non contrastata si consolida presto in oltracotanza che tutto ritiene lecito!

I due opposti estremismi si influenzano a vicenda; l’uno si sente confortato nel proprio atteggiamento dall’atteggiamento, vero o presunto non importa, dell’altro. Il P. De Lubac ammonisce i progressisti: “sarebbe grave errore lasciare il compito di correggere il falso progressismo a coloro che si oppongono a qualsiasi rinnovamento, perché le loro reazioni sono sempre sbagliate e offrono un’occasione all’aggravarsi del male”.
Ma anche ai tradizionalisti potrebbe rivolgersi analogo monito: “sarebbe grave errore lasciare il compito di correggere il falso tradizionalismo a coloro che non nutrono alcun rispetto per la tradizione, perché le loro reazioni sono sempre sbagliate e offrono un’occasione d’aggravarsi del male”.
Ai tradizionalisti bisognerebbe far capire che, proprio per difendere il Deposito rivelato, non giova arroccarsi nella difesa di ciò che ne è ben distinto, non giova sprecare armi e munizioni nell’ostacolare la riforma di elementi affatto essenziali.
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C’è ben altro da difendere oggi nella Chiesa, e che si trova in pericolo gravissimo: l’autentica Tradizione. Quando la casa brucia, non si perde tempo a proteggere i vasi di fiori sul davanzale della finestra! Oggi, la difesa di ciò che è essenziale per la Chiesa si chiama anche piena e leale accettazione del Concilio, secondo l’interpretazione autentica che ne dà l’Autorità legittima. Oggi, l’unica maniera valida di contrastare il passo al falso aggiornamento è quella di favorire il genuino aggiornamento, quale lo enunziano i documenti conciliari e lo espongono i molteplici discorsi del S. Padre. In una parola, il vero compito dei tradizionalisti oggi è quello di partecipare in pieno all’opera di riforma, per assicurarle la fedeltà al Deposito rivelato. Così si amputerà in radice il pretesto per contrabbandare, sotto l’etichetta dell’aggiornamento conciliare, ciò che per ogni cattolico genuino è inammissibile!


3) Riforme in sé legittime e che in situazione di Fede serena e pacifica passerebbero incontrastate, è comprensibile che incontrino perplessità e diffidenze quando vengano reclamate e attuate in un clima, qual è il nostro, di sbandamenti dottrinali e disciplinari e di contestazione del principio stesso d’autorità.
Taluni cambiamenti liturgici, per esempio, innocentissimi in se stessi e nell’intenzione dell’Autorità che li promuove, di fatto destano apprensioni per i sottintesi aberranti che talune correnti teologiche, oggi molto in auge, vi potrebbero annettere. Chiamare “servizio divino” il S. Sacrificio della Messa, o “presidente dell’assemblea” il sacerdote celebrante è un linguaggio che potrebbe a taluni riuscire sgradito, a motivo della sua rassomiglianza con il linguaggio protestantico.
L’altare non più necessariamente dominato dal Crocifisso, e spesso ridotto ad una nuda tavola, potrebbe involontariamente confortare l’errore di coloro che vedono nella Messa un semplice banchetto sacro, e negano o tacciono il suo valore sacrificale.
Certe nuove collocazioni del Tabernacolo piacciono moltissimo ai negatori della Reale Presenza extra Missam.
La piccola rubrica che consente al celebrante di non tenere più uniti l’indice e il pollice delle mani dopo la consacrazione nella Messa — silente attestato di fede e di riverenza verso Gesù — potrebbe offrire a qualcuno una certa qual convalida (argumentum ex sacra Liturgia, si direbbe) dell’errore che nega la Reale Presenza nei frammenti dell’ostia consacrata, e del conseguente irriverente comportamento.

Certe forme di culto alla Parola di Dio scritta, che parrebbero quasi ipostatizzarla ed equipararla alla Ss. Eucaristia, non potrebbe in pratica risultare di detrimento al dogma che adora nella Ss. Eucaristia la reale presenza del Dio della Parola?
La Commissione Pontificia per l’interpretazione del Concilio ha già dovuto chiarire, in proposito, un equivoco sorto da un passo della Costituzione dogmatica conciliare “Dei Verbum” (n. 21), di cui inutilmente a suo tempo una minoranza di Padri, tra i quali anche chi scrive, aveva chiesto la chiarificazione. Il Servo di Dio Mons. Scalabrini diceva giustamente che “il Tabernacolo comanda al pulpito”; oggi si corre il pericolo che quell’affermazione venga capovolta.

Un altro esempio. Viviamo in un’epoca nella quale si teorizza la “desacralizzazione” di ogni cosa. La natura stessa del sacerdozio ministeriale cattolico viene contestata, nel senso che la si vorrebbe ridurre, come in campo protestante, ad una mera deputazione estrinseca e temporanea a compiere determinati riti. Stante questa situazione, era proprio il caso di rinunziare al termine “consecratio”, e limitarsi a dire “ordinatio” del diacono, del presbitero, del vescovo? È vero che può documentarsi l’antichità della parola “ordinatio”; ma è innegabile che la parola “consecratio” indica assai meglio la ontologica, e quindi permanente, partecipazione al sacerdozio di Cristo, mentre la parola “ordinatio” di per sé indica soltanto la collocazione del soggetto nella scala gerarchica.
Gli esempi di riforme che lasciano perplessi si potrebbero moltiplicare. Si domanda con tutto il rispetto, e solo in linea teorica: le esigeva realmente la legge del meglio? la legge del vero bene delle anime?

4) Una riforma operata simultaneamente su quasi tutti i fronti, anche su qualcuno ritenuto finora, a torto però, intangibile, è inevitabile che possa produrre in spiriti semplici e impreparati l’impressione che tutto stia cambiando nella Chiesa, anche quello che effettivamente non cambia né può cambiare.
Quell’ondata di relativismo che agita il mondo attuale, certi tradizionalisti sembrano vederla battere minacciosa anche alle porte del dogma, e per questo ne sono angosciati. Si tratta di un punto di vista certamente rettificabile, mediante l’istruzione e la fiducia nell’Autorità gerarchica della Chiesa. Ma intanto la carità postula che si tenga conto di tali stati d’animo, né si provochino più dello strettamente indispensabile. Una maldestra pubblicistica deve chiedersi se non sia essa stessa a fomentare il timore che oggi esista veramente, in seno alla Chiesa, qualcuno che intende sovvertirne le strutture essenziali attraverso le manipolazioni della liturgia e delle altre scienze sacre.


5) La fretta che gli ambienti riformisti ad oltranza impongono alle autorità ecclesiastiche, con le loro insolenti sollecitazioni, con le loro accuse di insabbiamento del Concilio, non giova certamente né alla migliore riuscita delle riforme in se stesse, né a facilitarne l’accettazione da parte di tutti.
Occorre un tempo ragionevole per accertare la necessità della riforma in concreto, per vagliare le varie possibilità di soluzione, e scegliere finalmente quella che, per validità, stia almeno alla pari con la precedente che si intende sostituire. È ovvio che agli innovatori spetta l’onere di dimostrare che l’innovazione desiderata non contrasta col Deposito rivelato, che il bene delle anime veramente la esige, e che la soluzione concreta proposta ha un valore almeno uguale a quella che si sta abbandonando. All’Autorità bisogna lasciare tempo e calma per una saggia decisione.

Ma il clamore incomposto delle tante e tante richieste, critiche e contestazioni, nonché la fretta che viene imposta d’Autorità non sono forse all’origine di quelle imperfezioni e inadeguatezze che, per molti cattolici, costituiscono l’unico motivo di riluttanza nell’accettare le riforme?
Quei tradizionalisti i quali pretendono ad ogni costo il mantenimento integrale della lingua latina nella liturgia della Chiesa latina, non sono nel giusto quando si oppongono all’uso della lingua volgare nella misura approvata dalla legittima Autorità, in Concilio e dopo il Concilio, per una più attiva e fruttuosa partecipazione dei fedeli alla vita liturgica. Ma sono nel loro buon diritto quando domandano versioni integre, fedeli ai testi originali, dignitose.
Certe versioni approssimative, insulse, quasi puerili non possono non far rimpiangere la nobiltà e la ricchezza di contenuto del latino liturgico. Alle volte, non è soltanto questione di filologia o di stilistica. Troppi, infatti, sono i casi di omissioni, ambiguità, attenuazioni di significato, addirittura mutamenti di concetto, per non destare serie preoccupazioni.

Esiste tutto un vocabolario latino “cristiano”, maturato e collaudato da secoli attraverso il pensiero teologico, che rischia di venire impoverito o alterato, perfino desacralizzato, da certe traduzioni in volgare, sotto il pretesto dell’accostamento al linguaggio moderno. In certe traduzioni — questa è la verità — non è difficile sentire il respiro di una teologia nuova: quella, per intenderci, che affievolisce il soprannaturale, preferisce dire “amore” anziché “carità”, vede di malocchio le idee di miracolo, peccato, espiazione, sacrificio, misericordia, grazia ecc. ecc., e ricorre ad un frasario solidaristico, vagamente sociale o anche populista. Sotto questo aspetto, le esigenze, non dico dei tradizionalisti, ma di tutti i cattolici sono sacrosante, e quindi degne del massimo rispetto e della massima accoglienza.

6) La resistenza di certi tradizionalisti alle riforme deve in parte addebitarsi anche alla maniera maldestra con cui esse vengono presentate.
Sia ben chiaro che qui non si chiamano in causa i documenti ufficiali della Chiesa contenenti le riforme; anzi, questi meritano ogni encomio per la sobrietà e il tatto psicologico con cui sono redatti. Ma si chiama in causa quella pletora di commissioni, comitati, centri, convegni, conferenzieri, pubblicisti, i quali avrebbero il compito di promuovere una più sicura conoscenza ed una più facile accettazione delle riforme, ma che spesso assolvono il loro compito in maniera controproducente, perché non conforme alla verità e alla giustizia:


a) Se, per esempio, le riforme vengono presentate come la vittoria di una determinata “scuola” o “tendenza”, come opera e merito di un determinato clan di persone, allora ci si trova di fronte ad una nuova specie di trionfalismo, indisponente e riflettente cattiva luce sulle riforme medesime. Ancora peggio, poi, se queste vengono presentate come “strappate alla Curia, nonostante le resistenze dei conservatori”: linguaggio di pretta marca marxista! È notorio che in certi paesi la parola d’ordine è questa: mettere “Roma” di fronte al maggior numero possibile di fatti compiuti (aberranti, ben inteso), affinché “Roma” finalmente ceda e legalizzi come riforme conciliari le loro eccentricità. E questo, purtroppo, non nel solo campo liturgico.
La S. Sede ha il diritto di servirsi di chi vuole nell’elaborare le sue riforme. Ma coloro che ricevono l’alto onore di prestare la loro opera, hanno tutti e sempre il buon senso e l’umiltà di nasconderla nel riserbo, direi quasi nell’anonimato? Accettare una nuova disposizione della Chiesa si risolve, in definitiva, in un autentico atto di fede. Perciò, quanto meno appare in quella disposizione la presenza delle persone particolari tanto meno difficile si rende ai sudditi il loro atto di fede; quanto meno è rilevabile l’influsso di Tizio o Caio o Sempronio, tanto meglio la si accetta come espressione della volontà della santa Madre Chiesa. Quando invece certe persone o certi clans si autoreclamizzano come ispiratori o autori concreti di questa o quella riforma; quando concedono pubbliche anticipazioni su quelle che saranno “certamente”, a loro dire, la decisione dell’Autorità ecclesiastica, allora non è da meravigliarsi che quelle riforme possano incontrare resistenze o perplessità, non tanto per l’Autorità che le ha emanate o per il loro contenuto intrinseco, quanto piuttosto per antipatia verso coloro che vi hanno avuto parte.
L’osservazione che precede dimostra anche la grande convenienza che ai lavori preparatori delle riforme vengano associati collaboratori di ogni tendenza avente diritto di cittadinanza nella Chiesa. Ciò servirebbe a garantire meglio l’equilibrio interno delle riforme stesse, nonché a facilitare la loro universale accettazione.

b) Talora, non è per se stessa che la riforma incontra resistenza, ma piuttosto per le motivazioni storiche o teologiche che se ne danno da parte di chi non ne ha alcuna autorità.
A proposito di liturgia, ha ragioni da vendere il Card. Heenan di Westmister, quando scrive: “C’è perciò un qualche pericolo che i liturgisti possano fornire la nuova voce del magistero. Timori del genere sono stati avanzati nel Sinodo. In quanto corpo di vescovi, l’assemblea era consapevole che il magistero sta passando da loro agli scrittori di teologia popolare” (62).
Mi spiegherò con un esempio concreto. Nella Chiesa latina il rito di ricevere la S. Comunione in ginocchio, e non in piedi, ha valore di legge, essendo un uso plurisecolare confermato da una esplicita rubrica del vigente Rituale Romanum. Senonché, a partire dal 7 marzo 1965, per un fenomeno di mimetismo televisivo, in molte parti d’Italia cominciò ad usarsi il rito della S. Comunione in piedi. Un vero abuso, perché nessun documento ufficiale della S. Sede, l’unica competente in materia, autorizzava il mutamento di quel rito (63). Ma sulle pubblicazioni liturgiche, nei convegni, nelle conferenze ecc. ecc. fu una colluvie di motivazioni storico-dogmatico-ascetico-mistiche (tutte discutibili, talune perfino ridicole) per dimostrare come qualmente quello abusivo fosse l’unico modo giusto di ricevere la S. Comunione, ed invece, l’uso legittimo di riceverla in ginocchio fosse un residuo di medioevo, indegno di un cristiano adulto, contrario al mistero pasquale, ecc. ecc.! [SM=g1740733] È comprensibile allora come per molti cattolici italiani un simile clima possa contribuire a rendere difficile l’accettazione di una eventuale scelta del rito della S. Comunione in piedi, in Italia non ancora fatta, che il n. 34 dell’Istruzione della S. Congregazione dei Riti “Eucharisticum mysterium”, del 25 maggio 1967, demanda alla decisione delle Conferenze Episcopali Nazionali.


c) È tutt’altro che raro il caso che libri, riviste, conferenze, prediche ecc. presentino le riforme, stabilite dalla legittima Autorità, grosso modo così: Cari fedeli, prima del Concilio non si capiva niente, si sbagliava tutto; ma ora, col Concilio, tutto è stato finalmente chiarito e rimesso a posto! Una simile presentazione è ingiusta e controproducente. Mai e poi mai l’adoperano i documenti del Vaticano II e della S. Sede; ma sentirla o leggerla da persone che vanno per la maggiore, crea spiegabili reazioni non solo da parte dei tradizionalisti, ma anche da parte di molti altri cattolici di buon senso. [SM=g1740721]
È, anzitutto, ingiusta quella martellata contrapposizione tra “Chiesa del Vaticano II” e “Chiesa preconciliare”, tra “Chiesa di ieri” e “Chiesa di oggi”, come se si trattasse di due Chiese diverse. “Non si può demolire la Chiesa di ieri per costruirne una nuova oggi” (Paolo VI).
È un’atroce offesa alla verità e alla giustizia presentare il Vaticano II come la rottura col passato, come il capovolgimento dell’immagine tradizionale della Chiesa di Cristo. Ci si descrive la Chiesa di ieri come quella che avrebbe tradito il messaggio del Vangelo. Lutero non diceva di peggio! Ma se così fosse nella realtà, vorrebbe dire che oggi la Chiesa di Cristo non esiste più in nessuna parte del mondo, la sua opera si è spenta; e nessun ecumenismo sarebbe capace di ridare la vita ad un morto!
Questo dare ad intendere, talora con sadico compiacimento, che si sia dovuto attendere il Vaticano II per capire, finalmente, dove stia il vero bene delle anime, equivale a negare il proprio amore alla santa Madre Chiesa, e farne disamorare gli altri.
Domando io: assisteva, sì o no, la Chiesa cattolica lo Spirito Santo anche prima di papa Giovanni? Possibile che i papi, i vescovi, i Santi, i teologi, i sacerdoti, i religiosi, gli educatori, i fedeli di “prima” fossero tutti stupidi, tutti ignoranti, tutti in malafede? No. La verità vera è che anche “prima” la Chiesa cercava e procurava il bene delle anime.
Anche “prima” nutriva degli autentici Santi; e faccia Iddio che dopo il Vaticano II se ne abbiano almeno tanti quanti se ne ebbero dopo il Tridentino e il Vaticano I! Santi, intendo dire, che siano frutti della nuova epoca, testimoni della sua genuinità, e non soltanto Santi suscitati dalla misericordia di Dio proprio per contrastare i mali della nuova epoca! Anche “prima” la Chiesa venerava e studiava la Parola di Dio, coltivava la teologia e la liturgia, formava degli ottimi preti nei Seminari, educava cristianamente le anime e le indirizzava al cielo. In una parola: anche “prima” la Chiesa si adeguava alle situazioni, coglieva i segni dei tempi (di quei tempi, naturalmente!): eppure la rimproverano di ciò proprio coloro che baldanzosamente le intimano di fare oggi altrettanto!

Anche le leggi liturgiche e disciplinari della “Chiesa preconciliare” avevano le loro buone e brave giustificazioni storiche, teologiche e pastorali; ed intelletti di prim’ordine le apprezzavano e le accettavano. Esse esprimevano e sottolineavano degli aspetti genuini del mistero di Cristo, tutelavano degli autentici beni; in definitiva, preparavano la base per il progresso di oggi. Anche se dopo il Concilio vengono perfezionate o sostituite da altre leggi migliori, quelle di ieri meritano il rispetto di tutti. La Chiesa non ha affatto da vergognarsene.
Lo Spirito Santo, tramite il Vaticano II, ha ispirato la Chiesa a sottolineare, oggi più di ieri, certi altri aspetti del mistero di Cristo, a valorizzare di più certi altri beni contenuti nel Deposito della Fede? Benissimo. Ma sarebbe stoltezza rinnegare e sperperare i veri e i beni di ieri anziché custodirli arricchendoli con quelli di oggi. Sarebbe pazzia gridare la croce addosso alla “vecchia” Chiesa, quasi che in lei tutto fosse errato e dannoso; fargliene una colpa se l’approfondimento dottrinale, opera soprattutto dello Spirito Santo, ha conosciuto le proprie differenti stagioni. Il vero progresso non condanna mai i suoi precedenti stadi; da un bene passa ad un meglio, ma senza chiamare male il bene di prima. Quando fu inventata la luce elettrica, nessuna persona saggia si permise di negare la bontà e l’utilità della precedente illuminazione ad olio o a cera, né di mettere sotto accusa gli antenati per non aver scoperto essi la luce elettrica.
La Chiesa nella sua opera di riforma deve respingere due pericoli che provengono dalla manichea contrapposizione tra l’ieri e l’oggi.

Il primo pericolo è quello di ricadere nel difetto dell’unilateralità (quello appunto che si rimprovera alla Chiesa di ieri), fermandosi sui nuovi aspetti del mistero di Cristo in maniera talmente esclusiva da relegare nel dimenticatoio i vecchi. Secondo pericolo: nel riformare leggi e costumi anteriori che erano comuni all’Occidente cattolico e d’Oriente ortodosso, si esamini con ponderazione se non si stiano eventualmente creando nuovi e gratuiti motivi di ostacolo alla tanto bramata unione! La artificiosa e ingiusta contrapposizione tra “Chiesa preconciliare” e “Chiesa del Vaticano II” è anche controproducente. Infatti non può non alienare le simpatie di vasti strati di fedeli dalle pur legittime riforme. Ai giovani riesce naturalmente facile rifiutare in blocco il passato, perché punto o male lo conoscono, e accettare le novità quali che esse siano, perché manca loro il termine di confronto su cui valutarle. Ma i cattolici di una certa età i quali nella “Chiesa preconciliare” hanno trovato eccellenti modelli e strumenti di santificazione, ottimi pastori ed educatori, la soda formazione della loro personalità religiosa, non possono non sentirsi offesi del modo come viene trattata la “loro” Chiesa. Sentirla accusata come se fosse stata una matrigna anziché una madre, rappresenta per loro un trauma psicologico troppo forte perché non gli appaiano in luce sfavorevole quelle riforme che, secondo gli incauti propagandisti, dovrebbero essere la prova dell’accusa. Ma v’ha di più. Per non pochi degli attuali accusatori della “Chiesa preconciliare” (quella che l’accusano di costantinisino, di trionfalismo, di sete di dominio, di ignoranza della psicologia, di inesperienza educativa, ecc. ecc.) la loro accusa si risolve in un boomerang. Non fu forse “quella” la Chiesa che li fece cristiani, preti, teologi, educatori, vescovi, cardinali? E allora, dalla bocca cosi severa di accusatori si sarebbe autorizzati a giudicarli ben sfavorevolmente, avendo detto Gesù che “un albero cattivo non può produrre frutti buoni” (Mt. 7, 18).


Screditando la Chiesa di ieri si toglie ogni credibilità alla Chiesa di oggi.

Se, come dicono, la Chiesa preconciliare non ha capito niente e ha sbagliato tutto, fino a quando il Vaticano II non è venuto a rimettere in sesto ogni cosa, chi mi garantisce che tra non molto non si possa dire altrettanto della Chiesa del Vaticano II? Se è lecito criticare e processare la Chiesa di ieri, perché non dovrebbe essere lecito fare altrettanto della Chiesa di oggi? Stiamo attenti! Della Chiesa o ci si fida sempre o non ci si fida mai. Ecco perché certa maniera di presentare le riforme conciliari scalza dalle fondamenta l’unico vero motivo per accettarle!


Per finire, aggiungerò che quella maniera di presentare le riforme conciliari serve a creare l’illusione che i veri malanni della comunità ecclesiale derivino esclusivamente dalla disciplina preconconciliare, e che il cambiarla purchessia costituisca la sicura panacea per guarirli. Questa ingannevole prospettiva è fatta apposta per distogliere le sollecitudini del clero e dei laici dalla fondamentale, insostituibile riforma, quella spirituale, e anche per distogliere la loro attenzione dal gravissimo pericolo che costituisce per la Chiesa la marcia galoppante del progressismo. Ma di questo, nel prossimo capitolo.



[SM=g1740758]  continua...........
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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