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ANNUS FIDEI- NOVA ET VETERA testo prezioso di mons. Carli del 1969

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2012 22:28
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12/10/2012 13:07
 
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Capitolo quinto
I CATTOLICI PROGRESSISTI


Una cosa è il progresso, un’altra il progressismo.

Fenomeno utilissimo, anzi necessario, la Chiesa non teme il progresso. Lo desidera, lo promuove non solo nelle strutture o istituzioni di origine meramente ecclesiastica, ma anche nell’approfondimento del Deposito rivelato e nella formulazione del suo insegnamento.
Il progressismo invece è la degenerazione dell’amore al progresso. La Chiesa non può non temerlo e soffrirne.
Innegabilmente esiste oggi in campo cattolico — frutto, ancor questo, dello Spirito Santo — una diffusa salutare ansia di rinnovamento. Alla scuola del Vaticano II, in sintonia col Sommo Pontefice, una schiera innumerevole di vescovi, sacerdoti, religiosi, laici, teologi, missionari, biblisti, liturgisti, educatori pregano e lavorano, senza tanto chiasso, ciascuno secondo le proprie attitudini, per il genuino progresso della Chiesa. Riformano se stessi, anzitutto; poi riformano le cose riformabili secondo i dettami della legittima Autorità. Costoro posseggono davvero il “sensus Ecclesiae”.
Credono fermamente che sviluppo non è sinonimo di sostituzione; che non tutto il nuovo, sol perché nuovo, è accettabile. Sanno che il genuino progresso ecclesiale deve affondare le radici nell’humus della tradizione, e rimanervi saldamente aderente, perché sta scritto che “chiunque va più innanzi ma non sta saldo nella dottrina di Cristo, costui non possiede Dio” (2 Giov., 9).

Il progresso ne deve essere talmente il naturale e organico sviluppo da poter meritare, esso pure, il nome di tradizione. Codesti amatori del vero progresso rifiutano, come sprovvisto di qualsiasi garanzia di autenticità, tutto ciò che è o anche solo si autoproclama come “rottura col passato”. Infatti, una Chiesa che rompesse col suo passato rinnegherebbe la propria identità e, dunque, la propria saldatura con il fondatore Gesù Cristo. Sanno, infine, che il genuino aggiornamento non è che opera soprannaturale; opera che vuol maturare al caldo della preghiera, dell’amore alla Croce; opera che ambisce ammantarsi di riserbo, di fuga dall’esibizionismo. E quanto più il progresso comporta di difficoltà e di rischio, tanto più avvertono la necessità dell’umiltà, della prudenza e della docilità al Magistero.


Ma i progressisti (intesa, questa parola, nel senso deteriore) sono ben diversi dagli amatori ed artefici del vero progresso. Anche se non tutti si muovono sulla stessa linea, e non tutti giungono alle medesime conclusioni particolari, hanno tuttavia molti elementi in comune, e soprattutto la stessa mentalità.

Il progressismo è rottura radicale col passato; solo il presente e l’avvenire lo interessano. Tutt’orecchi all’“ascolto del mondo” moderno, è sordo alla voce della tradizione. L’opinione pubblica, con le sue attese più o meno artificiose, costituisce il metro dei giudizi del progressismo; l’autorità estrinseca di un Magistero gerarchico gli è insopportabile.

Non c’è colpa che i progressisti non abbiano da rimproverare alla Chiesa cattolica, di cui continuano a professarsi figli, nell’atto stesso che se ne fanno giudici spietati e unilaterali. Anche se spesso e volentieri si spacciano come “ribelli per amore” in realtà sono impietosi verso la loro madre. Il loro dialogare è un continuo “j’accuse” lanciato contro la Chiesa: e, stranamente, ripetendo l’equivoco che essi stessi addebitano ai loro avversari, per Chiesa essi intendono, in questo caso, una sola porzione della medesima, la Gerarchia!

Come fanciulli viziati, essi trovano tutto e sempre bello e buono ciò che esiste fuori di casa propria. Esaltano smaccatamente qualsiasi frammento di verità e di bontà si trovi fuori del cattolicesimo; sembrano non avvedersi che la loro Chiesa quegli stessi valori li possiede da sempre, e in misura piena e integrale. I progressisti riabilitano, con viscere di misericordia, tutti gli eretici e scismatici; ricercano meticolosamente tutte le attenuanti possibili e immaginabili per chi si è allontanato dalla fede di Roma. Ma, mentre sono tutto miele per gli estranei, sono tutto fiele per i propri fratelli di fede, specie per i membri della Gerarchia.
Dove vuole arrivare il progressismo?
Certo, le intenzioni degli uomini sfuggono al giudizio dell’uomo. Finché è possibile, si deve far credito alle affermazioni di rettitudine, di lealtà, di amore alla Chiesa, di esclusiva ricerca della purezza e vitalità della fede. Ma i fatti sono fatti, e gli scritti sono scritti: gli uni e gli altri cadono sotto il giudizio dell’uomo. Ebbene, i fatti e gli scritti stanno dicendo in maniera sempre più clamorosa che, sotto l’etichetta del progresso, delle riforme, dell’aggiornamento conciliare, si tenta di far entrare nella Chiesa della merce avariata. E non sono mica in contestazione soltanto gli ornamenti e le rifiniture dell’edificio ecclesiale, ma le sue stesse fondamenta! Contro il dogma e la morale rivelata si stanno dando picconate tremende!

E il tragico consiste nel fatto che i progressisti prendono a paravento della loro azione rivoluzionaria temi e parole del Vaticano II, ovviamente stravolgendone il senso, e, quando occorra, si appellano allo “spirito” del Concilio di cui si sono autonominati autentici interpreti e custodi. A questo proposito, rimando al florilegio di abusi ricordati nel terzo capitolo.

Più di qualcuno si domanda stupito come mai possa essersi scatenato nella Chiesa un simile turbine di idee sovvertitrici dopo un Concilio che avrebbe dovuto, viceversa, segnare l’inizio fermo e deciso di un rinnovamento salutare. Si deve rispondere che il progressismo non è nato né dal Concilio né dopo il Concilio. Esso non è che la esplosione più violenta, più vasta, più organizzata di un fenomeno dottrinale iniziato, più o meno in sordina, tra gli anni 1930-1940. [SM=g1740733]

È molto istruttivo in proposito un libro scritto nel 1960 da un domenicano olandese (64 = A. H. MALTHA, Die neuwe Theologie. Informatie en orientatie, Desclée de Brouwer, 1960; traduzione italiana: La nuova teologia. Panorama e orientamenti, ed. Paoline 1964): un panorama storico-dottrinale di quella che si autodefinì “la nuova teologia”, e che in effetti altro non era che una nuova edizione riveduta e peggiorata del modernismo.

Quel libro oggi avrebbe bisogno di un aggiornamento (che ne raddoppierebbe la mole!), a conferma della onestà della sua esposizione: la crisi attuale nella Chiesa gli dà pienamente ragione. Se l’avessero potuto leggere tutti i Vescovi prima di entrare in Concilio, si sarebbero resi conto in tempo utile di tante cose avvenute durante l’elaborazione dei documenti conciliari! [SM=g1740733]

Contro la cosiddetta “nuova teologia” il Magistero intervenne, specialmente ad opera di Pio XII. Le prime avvisaglie si ebbero nell’enciclica Mystici corporis del 1943, ma il documento fondamentale rimane l’enciclica Humani generis del 1950.
Questa enciclica riprende a fondo tutta la tematica della nuova teologia, rintracciandone le radici, denunziandone i vari errori e respingendo le indebite deduzioni che si stavano traendo dalla precedente enciclica Divino afflante Spiritu del 1943. Il progressismo che aveva accolto ed esaltato come “liberatrice” quest’ultima enciclica, non perdonerà mai a “papa Pacelli” la Humani generis: la disprezzerà o la coprirà col silenzio; in talune parti della Chiesa verrà considerata poco meno che una sciagura nazionale! Già fin da allora cominciava l’odiosa discriminazione tra papa e papa, anzi tra documento e documento del medesimo papa.
Storia di ieri, realtà di oggi. I medesimi progressisti esalteranno di Giovanni XXIII la Mater et magistra o la Pacem in terris, ma ignoreranno la Ad Petri cathedram, la Sacerdotii nostri primordia, la Aeterna Dei sapientia. Di Paolo VI esalteranno la Ecclesiam suam o la Populorum progressio, ma copriranno di scherno o di silenzio la Sacerdotalis coelibatus, la Humanae vitae, il Credo del Popolo di Dio!


La nuova teologia progressista, contenuta per anni sotto la cenere, trovò nella celebrazione del Concilio Ecumenico la grande occasione per emergere alla luce del sole, per diffondere la propria dottrina in tutte le sedi, per estenderne le applicazioni a tutti i settori delle scienze sacre. Ma solo agli immemori della Humani generis quella clamorosa sortita poté apparire come una novità.

Particolari circostanze favorirono indirettamente il progressismo. Taluni suoi esponenti, già toccati o personalmente dall’ex S. Ufficio o impersonalmente dalla Humani generis, una volta chiamati a far parte del gruppo dei periti conciliari, o dei teologi di fiducia di interi episcopati, non si lasciarono sfuggire la felice occasione di far penetrare il loro pensiero nella tematica e negli stessi documenti del Vaticano II: di un Concilio, si noti bene, il quale, apertosi all’insegna della pastoralità, si trovò ben presto, per forza di cose, davanti a problemi dottrinali.
Era proprio quel che ci voleva per i novatori; ed è umano che quei periti e teologi, sentendosi quasi riabilitati e riconosciuti come vittime innocenti, abbiano lavorato sodo in un ben determinato senso, con l’accanimento, si direbbe, di chi interloquisce per fatto personale. E non solo mediante il cosiddetto “paraconcilio”, il quale influenzava ab extra i Padri con stampa, conferenze, ecc., ma in seno alle stesse Commissioni Conciliari di cui, bisogna riconoscerlo, furono pars magna.


Ai futuri storici del Concilio, specie quando ne saranno pubblicati tutti gli atti (65), non mancheranno le pezze d’appoggio per documentare che il progressismo tentò di penetrare perfino nei sacri testi definitivi del Vaticano II. Mi rendo conto che la mia affermazione è grave, al punto che essa riuscirà incredibile a chi fu estraneo ai lavori dell’Assemblea. Ma il mio convincimento di membro attivo della medesima trova conferma drammatica in un brano della lettera — quasi passata sotto silenzio dalla stampa, cattolica non esclusa — che il S. Padre, tramite la Segreteria di Stato, fece pervenire al Congresso Teologico di Toronto (20/25 agosto 1967). Vi si legge tra l’altro: “L’opera di aggiornamento ecclesiale, condotta a felice compimento, sotto l’aspetto programmatico, dalla più imponente assemblea ecumenica che la storia della Chiesa ricordi, non è stata né facile né breve; non sono anzi mancati, oltre alle laboriose discussioni, insidie e pericoli di pronunziamenti dottrinali e di riforme cultuali e disciplinari che avrebbero costituito innovazioni veramente preoccupanti.

Ma il nuovo Vicario di Gesù Cristo, Paolo VI, non meno desideroso del suo Predecessore di una “rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione” e di allontanare da essa “dottrine fallaci, opinioni e concetti da cui premunirsi e da dissipare” (Allocuzione di apertura, 11 ottobre 1962: AAS LIV, 1962, pp. 791-792), accennava già nella sua prima enciclica Ecclesiam suam al bisogno che la Chiesa ha di un sano rinnovamento per scongiurare la minaccia del “fenomeno modernistico, che tuttora affiora in vari tentativi di espressioni eterogenee all’autentica realtà della religione cattolica” e di “allontanare errori che serpeggiano anche nell’interno stesso della Chiesa e in cui cadono coloro che hanno una parziale conoscenza della sua natura e della sua missione, non tenendo essi conto sufficiente dei documenti della rivelazione divina e degli insegnamenti del magistero istituito da Cristo stesso” (6 agosto 1963, AAS LVI, 1964, p. 618)” (66).


E, a rincalzo, il Card. Heenan di Westmister: “Preti giornalisti hanno scritto sugli intrighi e sulle mene che hanno portato all’accettazione o al rigetto dei documenti conciliari. Ma le attività più significative in seno alle Commissioni non sono state ancora pienamente portate a conoscenza del pubblico. La redazione degli emendamenti destinati ad essere sottomessi al voto dei Padri costituiva la parte più delicata della Commissione. Un gruppo determinato poteva disarmare le opposizioni redigendo una formula suscettibile di interpretazione insieme ortodossa e moderna... I teologi di domani ne sapranno di più sul Concilio che quelli che vi hanno partecipato” (67)!

Dopo il Concilio il progressismo ha aumentato il proprio influsso, traendo enorme vantaggio da quel clima di discussione assolutamente libero che, se pertinente nell’Aula conciliare, fuori si è rilevato di estremo pericolo per la sicurezza della Fede. Tutte le tesi già bollate dalla Humani generis e tenute fuori dai testi conciliari, sono entrate in circolazione dentro la Chiesa, attraverso la porta di servizio delle riforme postconciliari, spinte fino al parossismo e aggravate dall’assimilazione di elementi propri della contestazione globale della “città terrestre”.
Si tratta, è vero, di una minoranza di persone; ma è una minoranza la quale ha molta presa specialmente sul clero giovane, e sembra mettere in soggezione anche parte della Gerarchia. Essa può contare su nomi di grande risonanza nel campo dottrinale. Alcune loro tesi, depurate e decantate, sono state recepite dal Concilio. Nessuna meraviglia, del resto. Anche la Humani generis riconobbe apertamente che nella nuova teologia si contenevano elementi veri e giusti, entro definiti limiti, e quindi accettabili. Ed anche oggi, sarebbe ingiustizia non riconoscere che negli scritti dei progressisti non si trovino cose belle e buone. Ma non sono queste che costituiscono il progressismo vero e proprio; costituiscono, invece, quel sano progresso che la Chiesa stessa accetta e poi sanziona con la sua autorità, da qualunque parte esso venga proposto. Però ciò non può mai significare l’avallo del progressismo in blocco.

Ma intanto quei nomi, reclamizzati dalla stampa come i precursori e poi gli artefici del Concilio e quindi gli esegeti più qualificati dello spirito conciliare; quei nomi talvolta onorati di autorevolissime citazioni; quei nomi circondati dalla comoda aureola del martirio (profeti di Dio, è stato scritto, che furono lapidati dall’ufficialità!); quei nomi strombazzati come l’ala marciante della Chiesa (quella, per intenderci, che gode dei carismi dello Spirito Santo, e ha la missione profetica di trascinare in avanti... la zavorra, gerarchica e non!), servono da lasciapassare per tutto il resto che non è più progresso genuino, ma genuino progressismo (68).

Il progressismo conta aderenti in posti di responsabilità dell’apparato ecclesiastico, in università, seminari, istituti di educazione, centri catechistici e pastorali: uomini che trovano benevola comprensione, accoglienza, protezione, stima da parte di vescovi e di interi episcopati. Dispone di abbondantissimi mezzi di comunicazione sociale, di una efficiente struttura organizzativa, di centri di elaborazione e diffusione del suo pensiero in tutte le nazioni. Ciò significa una profonda incidenza nel formarsi e consolidarsi, su scala mondiale, di una opinione pubblica a senso unico.
Significa il radicalizzarsi in tesi di semplici “ipotesi di lavoro”; il concretarsi di azioni di pressione morale sulle Autorità, promovendo inchieste, sondaggi, convegni, esperienze nuove, “fatti compiuti” da opporre in gran numero alla Gerarchia.


Giova molto alla diffusione del progressismo il clima di contestazione del principio dell’autorità gerarchica, ed in specie del magistero del Romano Pontefice, che esso stesso ha molto contribuito a creare. Oltre all’aura di liberalismo, che tanto affascina il mondo moderno, è l’elemento “novità” che giuoca a favore del progressismo presso i giovani. Novità e progresso per i giovani si identificano a priori. Tutto ciò che ha sapore di nuovo essi lo accettano ad occhi chiusi, senza il minimo senso critico. Rassomigliano agli Ateniesi dell’epoca di S. Paolo, dei quali annota il Libro degli Atti: “Gli Ateniesi tutti, e quanti quivi abitavano, in nessuna cosa impiegavano più volentieri il tempo che a raccontare o ad ascoltare qualcosa di nuovo” (Atti 17, 21).
Certe riviste progressiste sono il loro “quinto vangelo”, supposto che si creda ancora nei primi quattro. Nessun documento pontificio, ai loro occhi, può valere quanto un articolo di “Concilium” (69).


L’audacia del progressismo è involontariamente favorita dal nuovo atteggiamento assunto dalla suprema Autorità della Chiesa in materia di difesa dalle dottrine erronee. Da non poco tempo e da non pochi si avvertiva la necessità di riformare il sistema giudiziario e penale della Chiesa, risalente al Codice di Diritto Canonico del 1915. Il progressismo si è inserito destramente in tale istanza, propagandandola come propria.
Esso ascrive a suo merito la riforma, già avvenuta ad opera del Sommo Pontefice Paolo VI, della S. Congregazione del S. Offizio; assume a suo programma lo slogan “è finito il tempo delle scomuniche”; nel nuovo clima di maggior larghezza trova l’opportunità ideale per diffondere indisturbato il proprio verbo.

Come al solito, ricorre al cosiddetto “spirito giovanneo” trovando la magna charta della nuova èra libertaria nelle parole che Giovanni XXIII pronunziò nel discorso di apertura del Concilio: “... a questi errori la Chiesa in ogni tempo si è opposta, spesso anche li ha condannati con fermissima severità. Al presente tuttavia la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che gli strumenti della severità. Essa ritiene che si debba provvedere ai bisogni attuali mostrando più abbondantemente la validità della sua dottrina, piuttosto che condannando” (70).

[SM=g1740733]  Ma, riflettendo bene, qui c’è un grosso equivoco su cui il progressismo specula, all’insegna di quella libertà cui nemmeno i cattolici possono essere insensibili.

Anzitutto, la Chiesa non può rinnegare o mettere in dubbio il proprio diritto di stabilire pene spirituali a carico dei violatori delle sue leggi, degli insidiatori dei suoi dogmi. Si tratta di un diritto il quale, essendo intimamente connesso al potere giudiziario conferitole da Cristo, è irrinunziabile da parte sua.
Secondariamente, se non vuole abbandonarsi ad un dannoso angelismo la Chiesa fa bene a non rinunziare del tutto all’esercizio concreto di quel diritto. Anche il cattolico, infatti, in determinate situazioni, può aver bisogno di sentirsi scoraggiato dal timore della pena dal compiere certe azioni delittuose a danno della comunità ecclesiale.
Come esercitare in concreto tale diritto, è una questione di prudenza; situazioni storiche diverse possono consigliare atteggiamenti diversi da parte dell’Autorità.
Anch’io, con molti altri, sono del parere che oggi la comminazione di pene spirituali, ancorché soltanto ferendae sententiae, debba essere molto parsimoniosa; ma, questo, per una ragione diversa dalla ragione generalmente addotta. Si sente dire: oggi l’umanità è adulta, i cattolici sono maturi, quindi bisogna contare sulla loro ormai sviluppata capacità di discernimento tra il vero e il falso, tra il lecito e l’illecito! Io non so quanto un simile discorso sia obiettivo. Dico solo che, se lo fosse, nonché diminuire accrescerebbe la necessità della comminazione di pene, perché, dove si delinque nonostante la asserita maggiore maturità di giudizio, là sarebbe illogico diminuire o abolire del tutto la punibilità.
Penso invece che, oggi, per la Chiesa sia bene mitigare l’esercizio del proprio diritto penale perché, stante la poca fede della comunità, essa si esporrebbe ad una inutile odiosità, senza conseguire lo scopo preventivo e medicinale della pena.


Ma, a parte l’esercizio della condanna giuridica (munita, cioè, di sanzioni penali), la Chiesa non può mai e poi mai, senza distruggere se stessa, rinunziare al dovere-diritto, conferitole da Cristo, di emettere giudizi autoritativi (ed è questa la condanna teologica, con le sue conseguenze di ordine morale) sulla conformità o meno di dottrine e prassi col Deposito rivelato, e di tenere lontano dal proprio ufficio magisteriale coloro che non hanno idee ortodosse.
Non può rinunziare, la Chiesa, a considerarsi e a comportarsi come infallibile, secondo la volontà del suo divin Fondatore. Oggi più che mai, in mezzo al turbine di errori che minano le fondamenta stesse del cristianesimo, la fede del Popolo di Dio ha bisogno di essere illuminata e cerzionata dai tempestivi, chiari, autorevoli giudizi del Magistero. La carità e la pazienza verso gli erranti non debbono consentire che l’atteggiamento dell’Autorità sia interpretato dai fedeli come incertezza di pensiero, come dubbio teorico.
Così, si seminerebbe l’inquietudine; il lodevole sforzo di evitare l’eventuale danno di poche persone potrebbe produrne sicuramente uno assai maggiore in seno alla comunità. Ogni servizio reso all’ortodossia della Fede e della Morale è un incomparabile servizio di carità reso a Dio e alle anime.

Ma non la intendono così i progressisti. Essi vogliono diffondere le proprie idee, indisturbati; e se mai vengono talvolta invitati dall’Autorità, con la massima riservatezza e carità, a compiacersi di dare spiegazioni su certi punti conturbanti della loro ideologia, apriti cielo! Interviste pubbliche dei novelli “martiri”, rifiuti categorici e anche villani, valanghe di telegrammi di protesta contro... il persecutore. E quando, dopo anni di trattative, le loro opere saranno diventate dei best-seller più per l’opposizione d’Autorità di Roma che non per valore intrinseco, il popolo cristiano dovrà accontentarsi di vedere le rettifiche, penosamente accettate, collocate in appendice al testo che non si è voluto modificare! Alla dottrina quanto meno equivoca l’onore della centralità; alla chiarezza della verità la tolleranza dell’appendice!

Prima di esaminare, in un altro capitolo, l’azione del progressismo in alcuni settori delle scienze sacre, sarà opportuno individuare qualcuno dei motivi di fondo che sono comuni alle svariate sfumature ideologiche del progressismo stesso.



[SM=g1740758]  continua............

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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