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ANNUS FIDEI- NOVA ET VETERA testo prezioso di mons. Carli del 1969

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2012 22:28
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12/10/2012 15:07
 
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[SM=g1740733] La teologia del progressismo


Dall’humus filosofico cui abbiamo appena accennato era inevitabile che il progressismo facesse nascere frutti di tosco soprattutto in teologia. Ci ha dato, infatti, una teologia non già rinnovata, bensì talmente nuova da sovvertire la natura stessa della teologia e coinvolgere nella medesima rovina la Fede cattolica. Invece della “teologia dei veri e grandi maestri” ci ha dato “ideologie nuove e particolari che mirano ad eliminare dalla norma della Fede tutto quello che il pensiero moderno, molte volte mancante della luce razionale, non comprende e non accetta” (90).
Quella propugnata dal progressismo è esattamente l’opposto della teologia quale l’ha sempre concepita il Magistero della Chiesa, e quale l’ha recentemente riproposta Paolo VI in occasione del I Congresso internazionale di teologia. Proviamo a fare un confronto.


a) Rapporti fra teologia e Rivelazione.

Per teologia si intende la riflessione dell’intelletto umano, illuminato dalla Fede e guidato dal Magistero della Chiesa, sul contenuto della divina Rivelazione, nonché la esposizione sistematica, in forma scientifica, dei risultati di tale riflessione. Nel suo lavoro l’intelletto del teologo segue le leggi fondamentali del pensiero umano, ma, nonostante i sussidi della Fede e del Magistero, rimane sempre limitato, sempre incapace di esaurire la ricchezza di contenuto della Rivelazione e di proporla in maniera del tutto adeguata. Di qui una legittima pluralità di sistemi teologici, cioè di spiegazioni del come, nell’unicità del che cosa divinamente rivelato; di qui la necessità della continua verifica dei sistemi stessi, del loro perfezionamento, della loro purificazione. Un sistema teologico tanto più sarà accettabile quanto più e meglio soddisfa alle esigenze dell’intero dato rivelato.
“La sacra teologia — insegna il Concilio Vaticano II — si basa sulla parola di Dio scritta, insieme con la sacra Tradizione, come su un fondamento perenne, e su questo fermissimamente si irrobustisce e sempre ringiovanisce, scrutando al lume della Fede tutta la verità racchiusa nel mistero di Cristo” (91). Il teologo, quindi, può meritare in qualche modo il nome di profeta, però non già nel senso di chi predice cose nuove e future (ciò, infatti, è fuori del Deposito rivelato, e pertanto non forma oggetto di Fede cattolica e divina), ma nel senso di chi con l’acutezza dell’intelletto scruta, approfondisce e difende il contenuto di quella Fede “che una volta per tutte è stata trasmessa ai santi” (Giuda, 3).
Compito del vero teologo è quello di “conoscere e investigare più perfettamente le verità della divina Rivelazione; portare a conoscenza della comunità cristiana, e specialmente del Magistero, i frutti del suo lavoro, affinché, per mezzo della dottrina trasmessa dalla Gerarchia della Chiesa, diventi lume per tutto il popolo cristiano; finalmente, prestare la propria opera affinché la verità che il Magistero autoritativamente stabilisce sia diffusa, illustrata, dimostrata e difesa” (92).
Ma il progressismo fa tanto poco conto della sacra Tradizione che quasi quasi la considera come inesistente, o come non facente parte essenziale della Rivelazione divina. In pratica, accetta il principio protestantico della “Scriptura sola”. [SM=g1740733]
Come poi tratti, o maltratti, la Scrittura si dirà tra breve; e ciò inevitabilmente, se è vero che è la stessa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei Libri Sacri, fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre Lettere” (93). Inoltre, di ben tutt’altro avviso che Paolo VI è il teologo progressista a proposito dei compiti della teologia e dei suoi rapporti col Magistero ecclesiastico. Nonché confrontare umilmente i frutti della propria speculazione con la dottrina del Magistero, pronto ad accettarne il giudizio, egli fugge tale confronto, ne contesta addirittura la legittimità, non tiene in nessun conto gli inviti e le esortazioni a non gettare in pasto a fedeli sprovveduti le sue cosiddette “ipotesi di lavoro” come se fossero tesi già accertate; anzi gli sembra di non essere un teologo valido se non dice cose o non ancora dette o dette diversamente dal Magistero.


b) Rapporti fra teologia e Magistero.

Il Vaticano II ha dichiarato che “l’ufficio di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o tramandata è stato affidato soltanto al Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il Magistero però non è superiore alla parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato tramandato, in quanto il Magistero, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta la parola, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da quest’unico deposito della fede attinge tutto ciò che esso propone a credere come rivelato da Dio” (94).
La teologia, invece, — ed è questa una differenza sostanziale — anche se ha compiti che possono somigliare a quelli del Magistero, non ha ricevuto alcun mandato da Gesù Cristo, non gode di alcuna autorità divina né di infallibile assistenza dello Spirito Santo. Se nella Chiesa i teologi sono “in certo qual modo maestri di verità” (Paolo VI), [SM=g1740733] lo sono perché ne hanno ricevuto incarico dal Magistero, e nella misura in cui rimangono fedeli al mandato ricevuto e, come tutti gli altri membri del Popolo di Dio, docili discepoli del Magistero.
Essi sono all’immediato servizio del Magistero. Come la loro scienza teologica gli è stata insegnata “alla luce della fede e sotto la guida del Magistero della Chiesa” (95), così “gli esegeti cattolici e gli altri cultori di sacra Teologia, collaborando insieme con zelo, debbono impegnarsi ad approfondire e proporre con gli opportuni sussidi le divine Lettere sotto la vigilanza del Sacro Magistero” (96). Non è certamente escluso, è anzi auspicabile, che lo Spirito Santo non sia avaro dei suoi lumi con quei teologi i quali gli offrano un animo docile ed umile.
Ma anche di tali carismi teologici rimane sempre vero che “il giudizio sulla loro genuinità e sul loro ordinato esercizio appartiene a coloro che nella Chiesa detengono l’autorità” (97). Norma prossima ed universale di verità rivelata rimane il Magistero.
La teologia, mentre è di utilissimo, ma non assolutamente necessario, ausilio al Magistero nel suo atteggiamento di fedele ascolto della parola di Dio, esercita una non meno utile opera di mediazione discendente tra il Magistero e il popolo cristiano. “Infatti, mediante l’insegnamento delle discipline teologiche, la dottrina della Chiesa assume una formulazione ben precisa e conforme alle esigenze di una scienza, così da poter rispondere alle questioni proposte da qualsiasi categoria di fedeli. Inoltre la teologia offre al Magistero argomenti per dimostrare che la Fede è consentanea alla ragione dell’uomo” (98).


Ma non così intendono i loro rapporti col Magistero i teologi progressisti. Anche quando ammettono, bontà loro, l’esistenza nella Chiesa di un Magistero autoritativo, essi, in nome di un proprio specifico carisma e specifico ministero, ritengono di costituire un magistero parallelo all’altro, se non proprio sovrapposto all’altro. Sono assolutamente convinti di avere missione e responsabilità dirette verso Dio e verso il Popolo di Dio. Coloro che nella Chiesa possiedono il “charisma veritatis certum” (S. Ireneo) pare che non abbiano altro ufficio che quello di accettare e avallare col peso della loro autorità tutte le elucubrazioni dei teologi. È cronaca di quasi tutti i giorni l’atteggiamento di teologi che si impancano a maestri della Gerarchia e ne contestano il magistero.

Recentissimamente un gruppo di teologi, i quali... umilmente si autocollocano tra ““i dottori” della Chiesa (che) hanno il dovere di predicare la Parola “opportune et importune”, sia che ciò risulti conveniente o no” , si sono sentiti in diritto di scrivere una lettera aperta al Papa (99), in nome della libertà dei figli di Dio, per difendere da un asserito pericolo, derivante dalla Curia Romana, “la libertà dei teologi e della teologia al servizio della Chiesa, ricuperata dal Concilio Vaticano II”.
L’accusa, tanto grave quanto gratuita, muove, senza dirlo apertamente, dal seguente passo conciliare, di cui però si omette una parola-chiave.
Al n. 62, la costituzione pastorale Gaudium et spes, a proposito dell’accordo tra cultura umana e insegnamento cristiano, afferma: “È anzi desiderabile che parecchi laici acquistino una conveniente formazione nelle scienze sacre, e che non pochi di loro coltivino di proposito questi studi, li approfondiscano e li facciano progredire. Ma affinché siano in grado di esercitare questo loro compito, venga riconosciuta ai fedeli, ecclesiastici e laici, una giusta libertà di ricercare, di pensare, di manifestare con umiltà e coraggio la propria opinione nelle materie in cui sono competenti”. La parola-chiave, omessa dai teologi protestatari, è quella da noi sottolineata (100). Per un cattolico, la ricerca e l’opinione personale e la sua manifestazione sono giuste, cioè legittime, se si contengono entro i limiti che la Fede consente alla libertà umana.

Tra le cose, accettabili e inaccettabili, di quella lettera aperta c’è anche questa: “Noi affermiamo con convinzione l’esistenza di un magistero del Papa e dei vescovi, che sotto la Parola di Dio è il servizio della Chiesa e della sua predicazione. Ma sappiamo anche che questo magistero pastorale di predicazione non può né soppiantare né impedire la missione d’insegnamento scientifico”. Ma quei luminari del progressismo sembrano ignorare che nella Chiesa gli unici “dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo” (101) sono il Papa e i vescovi. Questi, e non i teologi, hanno il dovere di predicare la Parola “opportune et importune, sia che ciò risulti conveniente o no”. [SM=g1740721]
Se la teologia è una missione d’insegnamento lo è esclusivamente per mandato, e sotto la guida, del Magistero del Papa e dei vescovi.
Il Magistero non è soltanto “esistente”, come, bontà loro, riconoscono i teologi protestatari, ma anche e soprattutto autoritativo, cioè vincolante tutti i cattolici, teologi non esclusi: e non soltanto nei casi di definizione dogmatica, ma anche, sebbene con diversa intensità, nei casi di pronunziamenti semplicemente prudenziali.
Il Magistero del Papa e dei vescovi non è soltanto “magistero pastorale di predicazione” (espressione ambigua del vocabolario progressista!), ma anche magistero dottrinale e giurisdizionale. L’insegnamento scientifico della teologia è, esso pure, sottoposto alla guida e a servizio del Magistero della Gerarchia (102): la quale, pertanto, ha il diritto-dovere di “soppiantarlo e di impedirlo” quando esso, per deficienza umana, si risolvesse in danno della Fede o in scandalo dei fedeli. Si ha l’impressione che i firmatari della lettera aperta vogliano sottolineare il carattere “scientifico” della Teologia, in contrapposizione al carattere “pastorale” del Magistero, per dedurne una inammissibile superiorità e autonomia dal Magistero. L’equivoco di tale posizione sta nel negligere il carattere tutto particolare della scienza teologica, come dirò subito.


c) Rapporti fra teologia e scienze profane.

La natura, i metodi e i fini della scienza teologica sono essenzialmente diversi da quelli delle scienze profane.
L’oggetto su cui lavora la teologia è il dato rivelato, in quanto rivelato: un oggetto, quindi, soprannaturale e misterioso. La teologia ha il compito di approfondirne la conoscenza, ma lasciandone intatto il contenuto e il carattere. Si comporta forse così il progressismo? Affatto. Con la sua scusa di sostituire alle vecchie categorie aristoteliche le categorie moderne, svuota di contenuto il dogma anche se ne mantiene il nome. Non c’è articolo del Credo, dall’esistenza di Dio alla vita del mondo che verrà, che non venga “reinterpretato”, cioè purgato da ogni aspetto soprannaturale e misterioso. Nella teologia progressista non trovano posto, per esempio, i dogmi “più ostici alla mentalità contemporanea, o che non possono venire espressi se non in termini che non dicono nulla agli uomini di oggi”. Sappiamo quali e quanti siano tali dogmi.
Per il progressismo “ha importanza soltanto quella verità che dice qualcosa agli uomini. La dottrina delle due nature in Cristo, il dogma dell’Assunzione della Vergine Maria, articoli di fede simili un tempo avevano veramente un significato per la gente. Ma oggi? Sono calcinati, coagulati; noi possiamo metterli tranquillamente nel deposito dei mobili vecchi o fra i pezzi da museo. Non hanno più effetto”. Di fronte ad affermazioni del genere i fedeli hanno mille ragioni di inquietarsi, di protestare che gli si sta cambiando la fede.
È veramente un nuovo oggetto che viene sostituito a quello della fede tradizionale.

Lo strumento di cui si serve la scienza teologica non è “il mero intelletto raziocinante, ma l’intelletto credente, cioè la ragione illuminata e fortificata dalla fede. La conoscenza teologale è una partecipazione analogica della conoscenza divina” (103).
Invece, la teologia progressista vuol essere una scienza che adoperi unicamente gli stessi strumenti e metodi delle scienze profane: tra questi, il dubbio sistematico. Ecco perché la teologia progressista si autodefinisce una teologia “en recherche”. Intendiamoci bene: la ricerca è legittima, anzi, doverosa, per la sana teologia, però entro i limiti del suo stesso oggetto specifico. Ma quando invece dubita di tutto, rimette in questione tutto, non solo le formulazioni ma anche i contenuti già definiti come dogmi di fede; quando butta tutto in problematica, col pretesto che la problematica è segno di dinamismo e vitalità, mentre il possesso sicuro e certo della verità sarebbe segno di stasi e di morte, allora la teologia si autodistrugge; recide con le proprie mani il ramo su cui deve assidersi.

La ricerca in tanto è possibile e legittima in quanto parte da presupposti solidi e indiscutibili, pena affondare nelle sabbie mobili dell’agnosticismo. I presupposti da cui la teologia deve partire sono le certezze assolute della Fede. La sua ricerca verte sulla intelligenza razionale del dato rivelato, “credo ut intellegam”.
Ridurre il cristianesimo a problematica è svuotare la Fede della sua sostanza, la quale è essenzialmente certezza. La teologia progressista non è una “fides quaerens intellectum”, ma piuttosto un “intellectus quaerens evacuare fidem”! Di teologi progressisti i quali non hanno più la fede, ne esistono, purtroppo, parecchi: e tengono cattedra, e sono i maestri del futuro clero! Hanno cominciato con la pretesa di assoluta libertà di ricerca, e poi vanno a finire come i cosiddetti “cristiani sotterranei”, i quali si autodefiniscono “alla ricerca della Chiesa di Cristo”, lungo vie inesplorate, “altrove”, non sanno nemmeno loro dove, ma certo fuori della Chiesa cattolica che essi chiamano “la Chiesa del legno compensato”!

Si capisce, allora, perché il progressismo più che le certezze della fede ami le inquietudini delle ipotesi di lavoro, destinate non già a trasformarsi un giorno in certezze, ma a rimanere sempre nel limbo dell’opinabilità.
Si capisce pure perché il progressismo si adonti che la Chiesa cattolica parli in termini di sicuro possesso della verità, e quindi emetta giudizi certitudinali, che tagliano netto “si si, no no” (104). Reputa ciò mancanza di umiltà, gratuito trionfalismo, sopraffazione delle altre chiese e delle altre religioni. La Chiesa cattolica, a sentir loro, dovrebbe parlare il meno possibile; e quelle poche volte limitarsi ad esprimersi soltanto in termini di modesta opinione. Ecco, dunque, “la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità” (l Tim. 3, 15) ridotta al rango di una qualsiasi agenzia di informazioni!

L’autorità di Dio rivelante e, subordinatamente, l’autorità del Magistero gerarchico istituito da Cristo restano la norma suprema della scienza teologica. Ma il progressismo trasferisce nel campo della conoscenza della Fede soprannaturale e nel campo della scienza teologica la mentalità e i metodi delle scienze profane, dove gli eruditi “confidando più del dovuto sulle proprie capacità, ritengono che si debba respingere qualsiasi autorità, e giudicano che ciascuno secondo il proprio arbitrio possa procedere all’acquisizione di qualsiasi tipo di conoscenza, e poi darsi un comportamento di vita conforme al grado della propria conoscenza” (105).
I frutti di tale indebito trasferimento di mentalità e di metodi sono, per la teologia, nefasti: “non si accetta nessuna norma esteriore o trascendente, come se l’intero ambito della verità sia contenuto entro i limiti della ragione umana, o sia da essa prodotto, o nulla di definitivo e di assoluto possa essere stabilito che non possa progredire ulteriormente e in maniera contrastante, o un sistema tanto maggiore validità possegga quanto più risponda agli istinti e affetti soggettivi. Da qui deriva che viene respinto il magistero autoritativo o, tutt’al più, viene ritenuto valido soltanto per evitare gli errori” (106).
In queste parole di Paolo VI abbiamo un’esatta pittura degli errori modernistici, che oggi il progressismo ripropone ed aggrava. C’è il razionalismo con la sua fobia del soprannaturale, del mistero, del miracolo. Che cosa rimane, per esempio, del concetto di creazione dal nulla, di peccato originale, di necessità della grazia, di redenzione espiatrice? Tabula rasa. C’è il relativismo evoluzionistico, con la sua fobia non solo delle verità immutabili (p. e. dogmi di fede, legge morale naturale, ecc.), ma anche degli stati di vita perpetuamente fissi (p. e. matrimonio indissolubile, celibato perpetuo, sacerdozio eterno, inferno eterno, ecc.). Viene insegnato invece che ogni epoca deve poter “reinterpretare” i dogmi in chiave esistenzialistica, dunque mutevole nel tempo e perfino contraddittoria; deve poter “giudicare delle verità di fede e interpretarle in funzione delle situazioni”.

Dall’etica della situazione si passa alla dogmatica della situazione! E a simile situazionismo non dovrebbero sfuggire nemmeno le più solenni definizioni dei Concili Ecumenici. Così, per citare un solo esempio, è stato auspicato in una notissima rivista teologica che “l’ostacolo maggiore (all’ecumenismo) — il primato pontificio avviluppato nel suo contesto storico così denso — troverà, demitizzato, una forma d’espressione più vicina a1 Vangelo... È mai pensabile che negli adattamenti futuri la Chiesa occidentale imponga alla sorella orientale la definizione del Vaticano I, decisa unilateralmente dopo uno sviluppo otto volte secolare di stile latino? Non sembra”. Ovviamente, però, si esclude a priori che possa venir mai... demitizzata la collegialità episcopale dichiarata, ma non definita come dogma di fede, dal Vaticano II cui fu parimente estranea la sorella orientale!

C’è il soggettivismo che porta a rifiutare tutto ciò che non è ritenuto “a misura d’uomo”, tutte quelle verità che “non dicono più niente all’uomo d’oggi”. Rientra in un simile alone di soggettivismo anche l’accentuazione eccessiva che si dà alla teologia “esistenziale” su quella “essenziale”; alla teologia positiva ovvero “delle categorie bibliche e patristiche” su quella speculativa o sistematica ovvero “delle categorie metafisiche”; alla storia del dogma sull’apologetica; all’atteggiamento di fede sull’oggetto della fede. In certi catechismi si calca troppo sui motivi secondari di credibilità (p. e. sulla conformità dei misteri cristiani con le verità della religione naturale, con le profonde aspirazioni dell’uomo, ecc. ecc.), mentre si attenua il motivo fondamentale che è l’autorità di Dio rivelatore: motivo sempre vero, sempre doverosamente accettabile perché valido, anche nell’ipotesi che il dato rivelato risultasse non gradito agli interessi e alle aspirazioni soggettive dell’uomo.
Si afferma che non interessa tanto ciò che Dio è in Sè (= il Dio dei filosofi!), ma ciò che Dio è per noi (= il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe!).

Non si può, per la verità, escludere che presso certi teologi del passato trovasse accoglienza una concezione di Dio troppo astratta, e quasi giuridica; o che non si desse il giusto peso alla fede soggettiva nei confronti di quella oggettiva. Ma oggi, se non mi inganno, si sta cadendo nell’eccesso opposto. Occorre il sano equilibrio, la giusta gerarchia tra i due aspetti, che sono inseparabili. Le cosiddette categorie bibliche e patristiche (espressione di cui sarebbe bene spiegare il significato) sono valide per chi possiede già la fede, ma non per chi vi deve ancora arrivare. Del resto, nemmeno le categorie bibliche e patristiche possono prescindere dalle categorie naturali del pensiero umano, dal momento che Dio, per parlare all’uomo, si è adattato al suo linguaggio.
Affermare che il Dio della rivelazione non deve venir contaminato dal Dio della metafisica significa misconoscere che Dio è l’unica fonte di ogni verità, tanto naturale quanto soprannaturale. Significa anche, in pratica, negare, contro la definizione del Vaticano I (107), la validità della ragione umana nella conoscenza di Dio. Significa infine non accogliere quell’unica istanza accettabile della cosiddetta “demitizzazione”: cioè, la sempre ricorrente necessità di purificare il nostro concetto di Dio, salvaguardandone la trascendenza, l’assolutezza, l’indipendenza dall’uomo, la libertà e gratuità degli interventi nella creazione, rivelazione e redenzione. In tale atteggiamento della teologia progressista potrebbe ravvisarsi una sottile forma di antropocentrismo, di “teologia dell’uomo”, preambolo obbligato alla “teologia della morte di Dio”.

A scapito poi del magistero autoritativo il progressismo esalta ed esagera il cosiddetto sensus fidelium. Lo si è visto, in pratica, a proposito dell’enciclica Humanae vitae quando il sensus fidelium, al cui ascolto si pretese che il Papa avesse dovuto subordinare il suo giudizio di pastore della Chiesa universale, fu abusivamente identificato con l’opinione di tutti gli increduli, di larghi strati di cristiani separati e di cattolici accecati dalla concupiscenza della carne e fuorviati da una campagna di stampa, unilaterale e spesso maligna, promossa proprio dal progressismo.
L’equivoco fondamentale di tale posizione sta, a mio avviso, nel concepire il Popolo di Dio esistente, in quanto tale, nonché infallibile nel credere, anche quando sia avulso, anzi in contrasto con quel Magistero che, viceversa, dev’essere la guida della sua fede (108).
Assegnare al Popolo di Dio la “tradizione profetica”, cioè il compito di manifestare attraverso la propria vita vissuta la volontà di Dio, per riservare al Magistero soltanto la “tradizione episcopale”, cioè il compito di giudicare, apprezzare ed autenticare la tradizione profetica del Popolo di Dio, mi sembra una dicotomia poco conforme ai dati della Rivelazione.

Gli unici profeti “autentici” che Gesù abbia istituiti sono gli Apostoli; ad essi, e ad essi soltanto, ha conferito il “charisma veritatis certum” (S. Ireneo) quando soltanto ad essi ha detto: “Chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me” (Lc. 10, 16). È attraverso il ministero apostolico che il Popolo di Dio attinge le certezze della fede, e non viceversa
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[SM=g1740721]

d) I fini della teologia rispetto al Popolo di Dio.

Il compito della teologia si inserisce, in subordine, nella grande missione della Chiesa, che è la salvezza delle anime. Perciò, “l’eminente importanza dei teologi non consiste tanto nel proporre opinioni o dottrine nuove, quanto piuttosto nella costante e zelante preoccupazione di dire le parole della vita eterna [...]. I teologi si impiegheranno soprattutto nell’approfondimento di quelle materie e di quelle questioni che riguardano più da vicino la salvezza delle anime, e parteciperanno alla sollecitudine del Magistero della Chiesa di comunicare ai fedeli non una verità da essi inventata, ma soltanto la verità tramandata da Gesù Cristo, quella cioè che nella santa Chiesa da tutti e in ogni luogo è tenuta per fede sotto la guida del suo sacro Magistero” (109).
La pastoralità, accentuata dal Concilio Vaticano II, non diminuisce per nulla l’importanza dei compiti della speculazione teologica: “Anzi, se mai in altri tempi, specialmente oggi la caratteristica stessa dell’ufficio pastorale esige che la vita spirituale dei fedeli sia sostenuta dal solido presidio della verità, e ad essi sia indicata la via giusta e sicura per evitare i pericoli degli errori odierni, la cui virulenza è tanta che cerca di scalzare perfino le naturali fondamenta della fede” (110).

Esattamente il contrario di quanto sta facendo la teologia progressista! Sono proprio i suoi adepti quelli che non ritengono degni del nome di teologi se non gli inventori di dottrine nuove e inedite. Sono proprio essi che scalzano dalle fondamenta l’edificio della santa Chiesa, mettendo in discussione tutti i dogmi, sottoponendo a verifica tutto il Credo.
E così, invece di aiutare i fedeli nell’illuminazione, approfondimento e purificazione delle certezze della propria fede, e nella fuga degli errori, sono proprio essi a creare i pericoli, a mettere in tentazione la fede dei credenti, e infine a fargliela perdere! Lupi in veste di agnelli; traditori della missione ricevuta dalla Chiesa! Certi teologi protestatari, preoccupatissimi della salvaguardia dei loro, veri o presunti, diritti ignorano e calpestano i certissimi e sacrosanti diritti del Popolo di Dio circa il rispetto della loro fede.


Non così si comportarono i veri e grandi maestri della teologia cattolica, ai quali la Chiesa deve tanto e dei quali essa ha, soprattutto oggi, ancora un immenso bisogno. Qualcuno ha scritto che questa è l’epoca in cui alla Chiesa occorrerebbero teologi che sappiano fare con la cultura moderna quello che la Patristica e poi la Scolastica seppero fare con le culture ellenistica e latina. Altri, invece, negano in partenza tale possibilità, osservando che la Patristica e la Scolastica poterono battezzare la filosofia antica perché questa conteneva un’anima religiosa: cosa che è impossibile fare con le filosofie moderne, intrinsecamente atee, irreligiose, negate ad ogni idea del sacro. Ma anche ammessa la possibilità teorica di tale difficilissima operazione, ritengo che la meno indicata a farla sia la teologia progressista. Le mancano, infatti, tre requisiti, assolutamente indispensabili per un genuino successo: l’umiltà, il rispetto della Tradizione, l’ubbidienza al Magistero.

Le manca, in primo luogo, l’umiltà: e, con l’umiltà, le inseparabili prudenza e carità. Gli autentici riformatori, in campo teologico come in campo ascetico e morale, sono sempre stati persone di grande umiltà. “I lumi di Dio — scriveva S. Paolo della Croce — vengono sempre accompagnati da profondissima umiltà”.
Si leggano, sotto questo profilo, gli scritti, per esempio, di un S. Tommaso d’Aquino. Ma i riformatori progressisti mostrano di non possedere la virtù dell’umiltà, e quindi offrono fondato motivo perché si dubiti dell’autenticità dei carismi che essi sono convinti di possedere. L’altissimo concetto che ostentano di sé e delle proprie dottrine, accompagnato dal disprezzo per chi la pensa diversamente da loro (specialmente quella che essi chiamano la “teologia romana”), è semplicemente sbalorditivo. Essi, ed essi soltanto, sono i nuovi Copernico della teologia; gli altri, presenti e passati, delle nullità. Solo loro si sentono sicuri di capire la vera pastoralità, il vero bene delle anime secondo la volontà di Dio: gli altri non sarebbero che degli aridi legulei, dei giuridisti farisaici, dei soffocatori della libertà dei figli di Dio.
Essi si autodefiniscono “la parte più viva della Chiesa”, e tanta stampa cattolica tiene bordone a così smaccata autoincensazione; gli altri, zavorra nella Chiesa, da sopportare e, appena possibile, da buttare a mare. Chi critica o perfino insulta il Papa, per i progressisti ha diritto che si rispetti la libertà di quella coscienza perché potrebb’essere bocca di Spirito Santo. Malcapitato, invece, chi si azzardasse a criticare il tal teologo progressista, il tal vescovo “aperto”, il tal catechismo moderno: sarebbe, per i progressisti, un ignobile cacciatore di streghe, un estintore dello Spirito Santo!


Possono mai essere di tale stoffa i veri riformatori della Chiesa, gli auspicati battezzatori della moderna cultura? Perfino un laicista di gran buon senso dice di no, e giustissimamente: “Nella mia opinione, non si fondano o riformano religioni senza un afflato mistico trascendente ogni umano interesse, e questo afflato mi sembra appunto mancare nei moderni contestatori” (On. Paolo Rossi).

In secondo luogo, manca alla teologia progressista il rispetto, meglio dovrei dire la venerazione, per il passato della Chiesa. Spiccatissima invece l’avevano i cultori della “vecchia” teologia: per non citare che pochi nomi di antichi, un S. Alberto Magno, un S. Tommaso d’Aquino, un S. Bonaventura, un Duns Scoto, un Suarez, ecc. Ma i creatori della “nuova” teologia menano vanto di buttare a mare il passato: un passato che essi, sprezzantemente, designano come ellenismo, medio evo, feudalesimo e che, viceversa, è la catena di congiunzione con le origini della Chiesa stessa. La loro vuole essere una teologia “dell’anno uno” : creata ex novo. Al tradizionale “sentire cum Ecclesia”, la Chiesa cioè dei venti secoli di cristianesimo, essi sostituiscono il teilhardiano “praesentire cum Ecclesia”, il che, per loro, significa preparare quella che dovrà essere la dottrina ufficiale della Chiesa del domani.


Infine, alla teologia progressista manca la disponibilità all’ubbidienza al Magistero gerarchico. Tale disponibilità comporta diverse cose: prudenza, anzitutto, nel discutere ed elaborare le proprie opinioni nelle sedi idonee; carità nel non darle in pasto al pubblico sprovveduto; umiltà nel non trasformare in tesi le semplici ipotesi di lavoro, e in dottrina della Chiesa le proprie personali opinioni; docilità nel sottoporre i propri elaborati alla verifica e alle eventuali rettifiche chieste dal Magistero. Ma alla “nuova” teologia lo spirito di docilità e ubbidienza mancò fin dal suo nascere: manca clamorosamente oggi, in clima di postconcilio.
Esempi lagrimevoli sono all’ordine del giorno; è superfluo fare espliciti riferimenti. Potranno mai essere costoro i salvatori della Chiesa? Viene spontaneo il riferimento biblico: “Costoro non erano della stirpe di quei prodi, per il cui mezzo si compi la salvezza di Israele” (1 Macc. 5, 62). Ad essi il Blondel darebbe questo saggio avvertimento: “I grandi santi contestatori che hanno aiutato la Chiesa a superare le crisi e le ingiurie dei tempi, sono sempre stati miracoli di ubbidienza e di umiltà. Il sacrificio della Croce nel quale hanno trovato significato l’Incarnazione e la Redenzione è il sacrificio dell’ubbidienza”.





[SM=g1740758]  continua..........
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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