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Concilio? FINALMENTE I PUNTI CHIARI di mons. Livi e altri testi da approfondire

Ultimo Aggiornamento: 07/11/2014 13:23
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[SM=g1740758] Vaticano II, ecco i 5 "punti fermi"
pubblicata da Ester Maria Ledda il giorno Mercoledì 5 dicembre 2012 alle ore 10.59 ·

Papa Benedetto XVI ha più volte proposto l'«ermeneutica della continuità» per la retta interpretazione del Concilio Vaticano II, contro letture ideologiche che in questi 50 anni si sono accavallate e hanno portato confusione nell'opinione pubblica cattolica.

 

di Mons. Antonio Livi, da "La Bussola Quotidiana" (05/12/2012) [SM=g1740721]

 

Le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II sono state associate dal papa Benedetto XVI al sinodo dei Vescovi sulla “nuova evangelizzazione”. Si può dire che tutta la Chiesa cattolica si sia mobilitata per promuovere riunioni di preghiera, seminari di studio e corsi di lezioni teologiche nella linea indicata dal Papa. «Ma? ha precisato opportunamente Benedetto XVI, affinché questa spinta interiore alla nuova evangelizzazione non rimanga soltanto ideale e non pecchi di confusione, occorre che essa si appoggi a una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del Concilio Vaticano II, nei quali essa ha trovato espressione. Per questo ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla “lettera” del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità» (Benedetto XVI, discorso dell’11 ottobre 2012).

 

Per comprendere bene il discorso che il Papa va facendo fin dall’inizio del suo pontificato sull’«ermeneutica del Concilio», occorre tener conto del fatto che, purtroppo, in questi cinquant’anni i testi conciliari sono stati spesso oggetto di un’informe avvicendarsi di interpretazioni arbitrarie e sostanzialmente ideologiche, tutte deprecate a suo tempo in numerosi discorsi pubblici dallo stesso Paolo VI, il papa che, dopo la morte di Giovanni XXIII, ha proseguito e concluso il Concilio Vaticano II. Ha levato la sua voce contro siffatte interpretazioni arbitrarie e sostanzialmente ideologiche anche il papa Giovanni Paolo II, la cui opera di chiarificazione dottrinale è stata continuata dall’attuale Pontefice. Ma gli stessi studiosi che hanno analizzato scientificamente i documenti del Concilio Vaticano II (gli schemi preparatori, le discussioni in commissione e in aula, i documenti finali votati dall’assemblea) hanno contribuito a diffondere nell’opinione pubblica cattolica una concezione confusa e conflittuale di quello che è stato e di quello che significa per la Chiesa l’evento pastorale e dottrinale del Concilio.

 

Vedrò di mettere a fuoco analiticamente i motivi di questa situazione, che sollecita la consapevolezza critica di chiunque avverta la propria diretta responsabilità nei confronti della vita di fede in mezzo al Popolo di Dio e abbia a cuore le sorti della “nuova evangelizzazione”.

 

La pubblicistica teologica degli ultimi anni ha visto il moltiplicarsi di opere di notevole valore scientifico sul concilio ecumenico Vaticano II. Sono opere di genere assai diverso molte sono di genere storiografico (di storia della Chiesa, di storia dei concili ecumenici, di storia del dogma e di storia della teologia), mentre altre sono di genere critico-dottrinale, ma tutte hanno un carattere spiccatamente polemico, nel senso che mirano alla rivendicazione di un determinato atteggiamento critico nei confronti del Concilio, atteggiamento che si basa su una ricostruzione delle vicende storiche che hanno portato alla celebrazione di un concilio ecumenico dopo la prima metà del Novecento e a novant’anni dalla forzata interruzione del Vaticano I; a partire da tale ricostruzione storica, variamente interpretata, questi testi orientano il lettore a formulare un determinato giudizio di valore sul ruolo dei teologi che accompagnavano e consigliavano i padri conciliari, e quindi un giudizio di valore circa le stesse disposizioni pastorali e disciplinari emanate dal Concilio con la “costituzione pastorale” Gaudium et spes, con le “dichiarazioni” e con i “decreti”; infine come logica conclusione di tutto ciò  un giudizio di valore persino sugli insegnamenti dottrinali contenuti nelle “costituzioni dogmatiche” Lumen gentium e Dei Verbum.

 

Tali giudizi di valore sono ovviamente di segno diverso, spesso gli uni in aperta opposizione agli altri, sicché questi ultimi cinquant’anni di vita della Chiesa cattolica  il tempo che è trascorso dall’apertura del Vaticano II nel 1962 appaiono come il tempo della discussione su tutto, il tempo delle divisioni dottrinali e degli opposti estremismi ideologici, il tempo insomma del “conflitto delle interpretazioni”. Si è così generata nell’opinione pubblica cattolica la sensazione che la Chiesa sia oggi lacerata da insanabili divisioni ideologiche, quelle che superficialmente vengono sempre ricondotte a due opposte categorie culturali, sul modello della “destra” e della “sinistra” politica, la categoria dei “conservatori” e quella dei “progressisti”: i “conservatori” sarebbero quelli che criticano il Vaticano II o in diversi modi si oppongono al rinnovamento della vita della Chiesa voluto dal Concilio, mentre i “progressisti” sarebbero quelli che esaltano il Vaticano II e si adoperano per la più pronta e completa attuazione delle riforme da esso decretate.

 

Questa diffusa sensazione che la pubblicistica teologica ha ingenerato nell’opinione pubblica cattolica circa l’esistenza di insanabili divisioni ideologiche nella Chiesa di oggi può essere giustificata dai rilevamenti di sociologia religiosa, i quali però non riguardano l’essenza soprannaturale della Chiesa e l’essenziale delle vicende che riguardano la sua vita. In effetti, l’essenza soprannaturale della Chiesa, come insegna lo stesso concilio ecumenico Vaticano II, va vista nel suo essere, per istituzione divina, «l’universale sacramento della salvezza che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo» (cfr Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 45). Ora, la salvezza degli uomini dipende dalla fede, ossia, in concreto, dall’accoglimento della verità rivelata che la Tradizione apostolica conserva e annuncia infallibilmente agli uomini di ogni generazione: «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo; chi non crederà sarà dannato» (Vangelo secondo Marco, 16,15-18 ). [SM=g1740722]

 

Ecco che, alla luce di questo dato teologico fondamentale, il pericolo di una divisione all’interno della Chiesa è un pericolo reale, e qualora siffatta divisione si verificasse di fatto essa dovrebbe essere considerata, non solo grave, ma addirittura esiziale: ma solo quando si tratta di attentati all’unità nella fede, ossia quando si verificano episodi di eresia e di scisma. Ora, la crisi attuale della Chiesa cattolica è davvero determinata dal diffondersi di posizioni ereticali? Possono essere qualificate come vere e proprie eresie le opposte teorie sulla dottrina del Concilio? È giusto dire che sia un’eresia la posizione dei “progressisti”, in contrasto con la posizione ortodossa rappresentata dai “conservatori”? Oppure, a contrario, si deve dire che è un’eresia la posizione dei “conservatori”, in polemica con la posizione ortodossa rappresentata dai “progressisti”? Non si tratterà piuttosto di interpretazioni della fede – diverse e talvolta anche contrapposte, ma sempre di per sé ammissibili? In quest’ultimo caso si dovrebbe parlare di legittime diversità di opinione, non di ortodossia e di eterodossia; in altri termini, si dovrebbe parlare di legittimo pluralismo all’interno della Chiesa, un pluralismo che di per sé non dovrebbe inficiare l’unità nella fede della Chiesa, la concordia pacifica nella «una fides».

 

L’unità di tutti nella fede della Chiesa viene a essere inficiata solo quando coloro che difendono una determinata interpretazione del dogma la assolutizzano, presentandola come l’unica possibile e giusta e giudicando di conseguenza le altre opinioni come vere e proprie eresie.

 

Per questo lavoro di chiarificazione occorre servirsi di considerazioni propriamente teologiche, che però siano fondate su una specifica competenza filosofica, quella logico-epistemologica, l’unica in grado di specificare quale sia il significato ? non equivoco né arbitrario bensì univoco e scientificamente giustificato ? dei termini essenziali del discorso che qui vien fatto, ossia:
1) “Chiesa cattolica”;
2) “magistero ecclesiastico”¸
3) “teologia”;
4) “concilio ecumenico”;
5) “ermeneutica”.

 

1) Per “Chiesa cattolica”, nel contesto teologico che qui ci interessa, occorre intendere la comunità dei credenti gerarchicamente ordinata, nella quale spetta al collegio episcopale, con alla testa il Romano Pontefice, la funzione di governo (munus regendi), la funzione di conferimento della grazia divina (munus sanctificandi) e soprattutto la funzione di insegnamento (munus regendi), funzione che riguarda il dogma e la morale rivelata (in rebus fidei et morum) ed è autorevole perché dotata da Cristo stesso del carisma dell’infallibilità, ossia della prerogativa di essere immune da errori nell’annuncio della fede in ogni tempo e in ogni luogo (infallibilitas in docendo).

 

2) Tale funzione costituisce propriamente il “magistero ecclesiastico”, esercitato in forma ordinaria o solenne, dal collegio episcopale riunito in concilio ecumenico o dal Papa da solo quando parla ex cathedra.

 

3) Per “teologia”, come ho accuratamente spiegato nel mio trattato su Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa” (Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma), deve intendersi lo studio scientifico della dottrina cristiana (nei suoi aspetti dogmatici e morali e nella dimensione storica e sociale, oltre che teoretica) il cui esito finale è una ipotesi di interpretazione del dogma. Ciò va rimarcato per distinguere la teologia dal magistero ecclesiastico, visto che quest’ultimo, oltre a enunciare in termini definitori il dogma, esercita necessariamente anche una funzione ermeneutica, e quindi formula delle interpretazioni del dogma, che però partecipano in vario modo e in grado diverso del carisma proprio del Magistero, che è l’infallibilità.
In altri termini, la dottrina del Magistero, quando interpreta il dogma, non si esprime con proposizioni che si presentano come interpretazioni meramente ipotetiche, come quelle della teologia, ma con proposizioni che, pur non essendo definizioni dogmatiche, sono a tutti gli effetti interpretazioni autorevoli, ancorché riformabili, ossia riformulabili su piano linguistico e suscettibili di ampliamenti o restringimenti sul piano dei contenuti dottrinali e delle loro applicazioni pratiche.

 

4) Per “Concilio ecumenico” non si può intendere genericamente un evento religioso-culturale, perché si tratta propriamente di un atto del “magistero” ecclesiastico nella sua forma collegiale e solenne, ragione per cui sono del tutto abusive e teologicamente infondate (anche se si ricorre al linguaggio teologico parlando retoricamente di “Vangelo vivo”, di “voce dello Spirito” e di “coscienza della Chiesa”) le pretese di presentare il Vaticano II come un evento i cui protagonisti sarebbero i “periti” e l’esito finale sarebbe il definitivo prevalere nella Chiesa di un’ideologia (quella dei teologi progressisti) nei confronti di un’altra (quella dei teologi tradizionalisti).
È in base a questa abusiva interpretazione teologica che il Concilio viene esaltato come la manifestazione della “creatività dogmatica” di una fantomatica “Chiesa dal basso” che, poi, paradossalmente, ha come propri esponenti dei veri e propri “principi della Chiesa” (come i cardinali Martini e Ravasi), gli autori della più astrusa e cervellotica teologia filo-hegeliana e filo-heideggeriana, i più potenti gruppi di potere teologico-politico all’interno della comunità ecclesiale (come la Scuola di Bologna e le Edizioni San Paolo, le Edizioni Dehoniane, la Cittadella Editrice), che elevano al rango di “profeti” personaggi ambigui come Giovanni Franzoni ed Enzo Bianchi. È anche in base a questa abusiva interpretazione teologica che il Concilio viene interpretato come un evento che ha provocato una “rottura”, una sostanziale “discontinuità” con la Tradizione dogmatica (si noti che “discontinuità” e “rottura” sono i termini precisi con i quali papa Benedetto XVI ha stigmatizzato questi errori teologici nel celebre discorso alla Curia romana il 22 dicembre 2005). [SM=g1740721] [SM=g1740722] [SM=g1740721] [SM=g1740722]

 

Infine, è ancora in base a questa abusiva interpretazione teologica che il Concilio Vaticano II viene presentato nella Chiesa come un insieme di norme (che vengono definite “pastorali” e “dottrinali” ma in realtà sono solo ideologiche) alle quali dovrebbero essere “fedeli”, non solo tutti i vescovi della Terra ma anche e soprattutto i pontefici romani, pena l’essere additati all’opinione pubblica ecclesiale ed extra-ecclesiale come esponenti del potere ecclesiastico che resiste alla rivoluzione conciliare per tema di perdere i propri privilegi, quando addirittura non vengono vituperati come “traditori della Chiesa”, “infedeli al Concilio”, “affossatori del rinnovamento ecclesiale” eccetera. [SM=g1740721]

Viene così a scomparire l’unico criterio autenticamente teologico riguardante l’interpretazione del Concilio, quello che parte dalla premessa dogmatica per cui un atto del magistero costituisce un insegnamento autorevole, rivolto a tutto il Popolo di Dio, con l’autorità e la forza soprannaturale del carisma proprio del munus docendi conferito da Cristo stesso agli Apostoli, ossia la “infallibilitas in docendo. Ogni atto del Magistero, essendo rivolto a tutti i cattolici in ordine alla conoscenza certa della fede che salva, contiene necessariamente un “nucleo” dottrinale e disciplinare accessibile a tutti e che pertanto non abbisogna di particolari ermeneutiche; se poi si rilevano storicamente anche elementi che possono aver bisogno di una ulteriore chiarificazione ermeneutica, nel quale caso la prima e fondamentale istanza è il Magistero stesso, nel senso che a esso spetta l’interpretazione autorevole del Concilio, ove occorra.

 

5) Il termine “ermeneutica”, usato anche dal papa Benedetto XVI per parlare della retta interpretazione della dottrina del Vaticano II, va inteso nel senso primario e tradizionale di “interpretazione” di un messaggio e/o di un testo scritto; non ha dunque alcuna giustificazione teologica l’uso (e l’abuso) di questo termine nel suo senso derivato e opinabile, che fa riferimento a una scuola filosofica ? quella di Hans-Georg Gadamer e di Gianni Vattimo ? i cui presupposti gnoseologici sono il soggettivismo e lo storicismo, e i cui esiti speculativi sono caratterizzati da un sostanziale relativismo.

 

A conclusione di questo discorso, e applicando alla pubblicistica sul Vaticano II le precisazioni concettuali che sono andato esponendo, si deve riconoscere che la crisi della Chiesa cattolica sta proprio nel fatto che talune posizioni ideologiche – che dovrebbero essere mantenute come mere ipotesi di interpretazione del dogma – sono invece presentate come l’unica maniera di intendere e di vivere la fede nelle circostanze storiche che la Chiesa oggi si trova ad affrontare. Così facendo, talune posizioni si configurano proprio come eresia, almeno materialmente, in quanto contengono affermazioni che sono oggettivamente contrarie alla fede della Chiesa, come quando si dice che il Vaticano II ha insegnato una dottrina dogmatica e morale difforme o addirittura contraria alla Tradizione, ossia in formale contraddizione con quanto insegnato dai precedenti concili ecumenici e dal magistero ordinario dei pontefici romani.

 

È la tesi che – pur da punti di vista opposti – sostengono sia gli estremisti dell’ala progressista come gli estremisti dell’ala conservatrice. I primi (i progressisti più radicali) articolano questa tesi presentando la dottrina del Concilio come una “nuova coscienza” sorta all’interno della Chiesa ad opera di teologi e “profeti” che sono stati capaci di farsi comprendere e rappresentare ufficialmente dai padri conciliari – il che contraddice la verità dogmatica sull’autorità dottrinale di un concilio ecumenico in quanto atto del magistero ecclesiastico che non può essere dettato o legittimato “dal basso”; i secondi (i conservatori o tradizionalisti più intransigenti) articolano questa medesima tesi sostenendo che alcune dottrine (a cominciare da quella riguardante la libertà religiosa) e alcuni orientamenti pastorali (l’ecumenismo e il dialogo con i non cristiani, soprattutto con gli ebrei) del Concilio costituiscono l’abbandono, da parte dei padri conciliari (incapaci di discernimento nei confronti delle teorie teologiche nuove che venivano loro proposte), della dottrina e della prassi che sempre prima di allora la Chiesa aveva mantenuto – il che contraddice la verità dogmatica sull’autorità dottrinale di un concilio ecumenico in quanto atto del magistero ecclesiastico che partecipa in qualche modo dell’infallibilità e quindi non può essere formalmente in errore in rebus fidei et morum, a meno che tale atto del magistero ecclesiastico non risultasse illegittimo, ossia che non sia stato convocato, presieduto e ratificato dal Romano Pontefice e non si sia svolto secondo le relative norme canoniche, cosa che per il Vaticano II non si può certamente asserire.

 

Altrettanto erronea è la tesi di chi va dicendo che il Vaticano II non ha insegnato alcuna dottrina dogmatica e morale, ma ha impostato la pastorale della Chiesa esclusivamente sulla base di esigenze di carità universale e di servizio all’uomo, il che comporta l’abbandono di ogni dogmatismo e di ogni condanna dottrinale da parte dell’autorità ecclesiastica. Questa interpretazione, che per certi teologi dovrebbe esprimere la vera natura (“pastorale”) e il vero “spirito” del Vaticano II, è illegittima, perché contraddice gli stessi testi conciliari; invano coloro che la difendono fanno ricorso (retoricamente, non certo scientificamente) all’autorità del papa Giovanni XXIII, visto che il suo discorso di indizione del Concilio, Gaudet mater Ecclesia, dice proprio il contrario e insiste sul compito che l’assise conciliare si attribuiva formalmente, che non era quello di mettere da parte l’insegnamento della dottrina cristiana tradizionale bensì quello di rendere più pastoralmente efficace questo insegnamento nelle circostanze storiche nelle quali la Chiesa si trovava ad operare.

 

E il suo immediato successore, il papa Paolo VI, ebbe a dire poco dopo la conclusione del Vaticano II: «L’apologia che gli autori eterodossi di moda fanno di Cristo si riduce ad ammettere in Lui “un uomo particolarmente buono”, “l’uomo per gli altri”, e così via, applicando a questa interpretazione di Cristo un criterio, diventato decisivo e dispotico, quello della capacità moderna a capirlo, ad avvicinarlo, a definirlo. Lo si misura col metro umano, con un dogmatismo soggettivo; e alla fine con uno scopo, seppur buono, ma utilitario, lo si accetta per quello che Cristo oggi può servire, uno scopo umanitario e sociologico» (Udienza Generale del 18 dicembre 1968).

 

Ecco dunque il giusto criterio di fede con il quale si deve orientare la coscienza dei fedeli quando si fa riferimento al Vaticano II: esso è un atto del Magistero che interessa la vita di fede dei cristiani per i suoi contenuti dottrinali e disciplinari, la cui retta interpretazione  valida per tutti e non opinabile  è fornita dal Magistero stesso, ogni qual volta la natura dei documenti stessi o le diverse circostanze storiche lo richiedano.
Questa ermeneutica autorevole e pastoralmente necessaria, in effetti, non è mai mancata in questi cinquant’anni (prima con Paolo VI, poi con Giovanni Paolo II e oggi con Benedetto XVI). Al di fuori di questi “punti fermi”, tutto ciò che si presenta come ulteriore interpretazione va preso non come materia di fede o di obbedienza ecclesiale, ma come opinione privata, liberamente condivisibile, a patto che resti compatibile con quanto la Chiesa ha già sufficientemente chiarito, e a patto anche che nessuna opinione si presenti come l’unica verità che i credenti debbano accogliere. [SM=g1740721]

Il conflitto delle interpretazioni (opinabili) non deve ingenerare confusione dottrinale né deve incrinare l’unità della fede e l’unione nella carità di tutti i cattolici. Unità e unione che richiedono che nella coscienza dei fedeli resti sempre chiaro che non c’è nella Chiesa se non una sola fede e un solo Buon pastore: il quale non solo ci ha messi in guardia contro i falsi profeti e i cattivi maestri, ma ci ha dato anche il criterio sicuro per il retto discernimento.

 

Rappresentazione delle due ermeneutiche del Vaticano II

[SM=g1740722]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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10/12/2012 17:58
 
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[SM=g1740758] Sulle recenti critiche di Benedetto XVI al Concilio Vaticano II


(di  Paolo  Pasqualucci

Nel numero speciale di 96 pagine de L’Osservatore Romano dell’11 ottobre 2012 dedicato al cinquantenario del Vaticano II, è riprodotta in apertura sotto il titolo “Benedetto XVI racconta” (pp. 5-9) la prefazione del Santo Padre (datata 2.8.2012) ad un volume di suoi scritti concernenti il Concilio,  or ora pubblicato a cura

dello Institut Papst Benedikt XVI. 

Questo testo riserva  due critiche e una sospensione di giudizio a tre documenti conciliari. 
  

1.  La critica di Benedetto XVI alla ‘Gaudium et spes’.   Cominciamo dalla prima critica, rivolta alla Gaudium et spes, la celebre Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (De Ecclesia in mundo huius temporis).  Descrivendo le attese per il Concilio da parte dei vari episcopati, il Papa ricorda:  “Tra i francesi si mise sempre più in primo piano il tema del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, ovvero il lavoro sul cosiddetto “Schema XIII”, dal quale poi è nata la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.  Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio.  La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata.  Le cose dovevano rimanere così?  La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi?  Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” [huius temporis] vi è la questione del rapporto con l’età moderna.  Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna.  Questo non è riuscito nello “Schema XIII”.  Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale” (op. cit., p. 6.  Le parole tra parentesi quadre sono sempre di Paolo Pasqualucci).

[SM=g1740733]  Dunque:  nel giudizio del Papa (come dottore privato) la Gaudium et spes (GS) non è riuscita a definire bene il proprio oggetto ossia a darci un concetto valido di “mondo contemporaneo”. 
Lo “Schema XIII” dal quale è nata, elaborato soprattutto dall’episcopato francese, era evidentemente carente e le sue manchevolezze si sono mantenute nella Costituzione.   Se ben mi ricordo, non fu l’allora cardinale Ratzinger a sottolineare, diversi anni fa, che la GS rappresentava una sorta di “Controsillabo”, dal momento che essa aveva voluto chiudere l’epoca dello scontro frontale con il “mondo” (per l’appunto esemplificata da ultimo nel Sillabo di Pio IX, 1865) per aprire quella della comprensione e del dialogo?  Ma se ora, nelle parole stesse di Papa Ratzinger la GS viene giudicata manchevole proprio perché “non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale” per ciò che riguarda il concetto stesso di “mondo”, della modernità, il supposto suo valore di “controsillabo” a cosa si riduce?  Non viene ad azzerarsi del tutto?

È vero che il Romano Pontefice attribuisce alla GS il merito di aver espresso “molte cose importanti per la comprensione del “mondo”” e di aver dato “rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana”.  Tuttavia, non dice quali siano state queste “cose importanti” e quali “i rilevanti contributi”.  In ogni caso tali lodi, rivolte ad aspetti importanti ma parziali del testo conciliare, nulla tolgono alla sua critica, che a me non sembra di poco momento. 
Il rilievo è assai pesante, se si guarda alla sostanza, al di là della forma pacata e distaccata tipica dello stile di Benedetto XVI. 
Questa critica ci dice, in parole povere:  “La GS non ha saputo chiarire il proprio oggetto, non ha saputo darci un concetto soddisfacente di mondo moderno”.  Come a dire:  è mancata al suo scopo.  Facendosi forti di questa critica, tutti coloro che vogliono oggi aprire un dibattito serio ed obiettivo sul Concilio, possono (io credo) ricavare la seguente direttiva:  siamo autorizzati a ricercare i motivi per i quali la GS è fallita nel suo obiettivo principale; la GS che doveva rispondere alla “vera aspettativa del Concilio” e chiarire in primo luogo ai fedeli che cosa dovessero intendere con “mondo contemporaneo”.  Siamo pertanto autorizzati a porci domande di questo tipo:  perché la GS è mancata al suo scopo?  Quali le sue carenze?  
Dopo questo giudizio critico (e diciamo pure coraggioso) del Papa in persona, il dibattito su una delle Costituzioni portanti del Vaticano II deve a mio modesto avviso ritenersi di fatto consentito da parte dell’Autorità legittima, con buona pace di coloro che si ostinano a ritenere il pastorale Vaticano II un Concilio superdogmatico, da accettare senza discussione in ogni suo minimo risvolto. 
 

2.  La sospensione di giudizio sulla Dichiarazione concernente la libertà religiosa. 
Dopo la bordata contro la GS, Benedetto XVI fornisce un’interpretazione che molto probabilmente spiazzerà ancor più tanti zelanti ed acritici assertori del Vaticano II. 
Scrive, infatti, che “inaspettatamente, l’incontro con i grandi temi dell’età moderna non avvenne nella grande Costituzione pastorale, bensì in due documenti minori, la cui importanza è emersa solo poco a poco con la ricezione del concilio” (op. cit, p. 6).  (La GS, nonostante i suoi 93 articoli aveva dunque mancato “i grandi temi dell’età moderna”!)
I due documenti sono:  la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa (DH) e la Dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane (NAet). 
I “grandi temi” della modernità sono qui appunto la libertà di culto come espressione della libertà di coscienza individuale e il dialogo interreligioso in prospettiva ecumenica, nell’ottica della c.d. “globalizzazione” del mondo ed “unificazione” del genere umano.


A proposito della prima, il Papa così ne giustifica la necessità.   “La dottrina della Tolleranza, così come era stata elaborata nei dettagli  da Pio XII, non appariva più sufficiente dinanzi all’evolversi del pensiero filosofico e del modo di concepirsi dello Stato moderno” (ivi).  Pio XII, lo ricordo, riconosceva come diritto dell’uomo quello di praticare la propria religione di appartenenza, fatta però salva la giusta preminenza sociale da riconoscersi alla religione cattolica, in quanto unica autenticamente rivelata da Dio. 
[SM=g1740733] Non riconosceva un diritto innato (o “umano”) della coscienza individuale a praticare qualsivoglia credo di sua scelta (o a non praticarne nessuno).  È l’orientamento individualistico, soggettivistico del pensiero moderno, succube in generale del principio d’immanenza e votato ad ogni forma di antropocentrismo, a propugnare, come sappiamo, questo tipo di “diritto”. 

Ora, DH ha evitato il pericolo di innovare rispetto all’insegnamento di Pio XII (che, ricordo, era del tutto in linea con quello costante della Chiesa), senza cadere nell’anticristiano “soggettivismo” del pensiero moderno in tema di libertà di religione? 
Del soggettivismo del pensiero moderno, padre di tutti i relativismi, Benedetto XVI è sempre stato ben consapevole.  “Si può affermare che il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione [di contro alle pretese dello Stato romano ancora pagano, che richiedeva da tutti il sacrificio all’imperatore in cambio della libertà di esercitare il proprio culto, purché non fosse immorale, come ad esempio quello dionisiaco].  Tuttavia, l’interpretazione di questo diritto alla libertà nel contesto del pensiero moderno era ancora difficile, poiché poteva sembrare che la versione moderna della libertà di religione presupponesse l’inaccessibilità della verità per l’uomo [della verità in sé, oggettiva, poiché il pensiero moderno non crede in una verità che si ponga indipendentemente dal soggetto] e che, pertanto, spostasse la religione dal suo fondamento [oggettivo, nella Rivelazione]  nella sfera del soggettivo”(op. cit., p. 7).


 Ma il Papa, a ben vedere, non afferma che la DH abbia effettivamente raggiunto il suo scopo, senza concessioni pericolose al soggettivismo del pensiero moderno.  Passa di colpo a tessere l’elogio di Giovanni Paolo II, attribuendogli  il merito di aver reso “nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà”. 
Mettendo a frutto la sua lunga esperienza di sacerdote costretto a confrontarsi con l’oppressione marxista, egli è stato infatti in grado di “render nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà, soprattutto la libertà di religione e di culto” (ivi).  L’elogio dell’opera di Giovanni Paolo II, con il quale si conclude il ragionamento sull’importanza della DH per la comprensione ed il dialogo della Chiesa con la modernità, non sembra secondo me fornire una risposta al problema che il documento conciliare doveva risolvere:  quello di elaborare una concezione di “libertà religiosa” nuova rispetto al passato ma che non scivolasse in alcun modo nel soggettivismo dei Moderni
Su questo punto capitale mi sembra che il Pontefice non prenda posizione, lasciando così il suo giudizio in sospeso.  Infatti, affermare che Giovanni Paolo II ha reso nuovamente visibile “l’intimo ordinamento della fede alla libertà” mi sembra significhi limitarsi a riconoscere che il tema della libertà della fede è stato tema centrale dell’insegnamento di quel Pontefice, senza chiarire se e fino a che punto il nesso di fede e libertà sia stato da lui mantenuto immune dal soggettivismo di cui sopra e senza chiarire se tale nesso sia stato mantenuto immune anche dalla DH.  E se il giudizio del Papa resta qui in sospeso, non siamo allora autorizzati a chiderci per qual motivo?  E a rivisitare criticamente la DH?


 3.  La Dichiarazione “Nostra aetate” ha trascurato le “forme malate e disturbate di religione”.  E vengo all’ultima notazione critica del Sommo Pontefice.  Dopo aver sottolineato l’importanza della Dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, ed affermato che si tratta di “un documento preciso e straordinariamente denso”, il Papa afferma tuttavia che “nel processo di ricezione attiva [del documento stesso] è via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario:  esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata” (op. cit, pp. 7-8). 
Come dobbiamo intendere questi rilievi? 
A mio avviso, in questo senso:  nell’applicazione dei princìpi propugnati dalla Dichiarazione, ci si è accorti che essa dava un quadro troppo roseo delle religioni non cristiane, vedendole “solo in modo positivo”.  L’esperienza degli ultimi decenni ha indubbiamente fatto emergere quelle che il Papa chiama giustamente “forme malate e disturbate di religione”, caratterizzate soprattutto (come è stato già osservato) dai cosiddetti “fondamentalismi”:  mussulmano, indù, buddista, tutti particolarmente aggressivi, come sappiamo, in particolare il primo. 

Anche nella Nostra Aetate si mostra dunque una lacuna, che la fa apparire inadeguata a sostenere la sfida che “le forme malate e disturbate di religione” stanno lanciando da anni al cattolicesimo.  Anche qui siamo dunque autorizzati, io credo, a porre una serie di questioni:  perché la NAet ha voluto dare un quadro “solo positivo” delle religioni non cristiane?  Quali sono, allora, gli elementi non positivi e quindi negativi presenti in esse, inaccettabili per noi cattolici?  Le “forme malate e disturbate di religione” sono poi solo quelle riconducibili ai fondamentalismi sopra menzionati?  Che dire, per esempio, dei cosiddetti movimenti carismatici che, nella migliore delle ipotesi, rimandano ai convulsionari giansenisti del XVIII secolo?

Il dibattito sul Concilio è solo all’inizio e il Papa stesso ne ha voluto offrire ampi e validissimi spunti.  Cosa della quale, credo di poter dire, gli siamo tutti molto riconoscenti.
(Paolo  Pasqualucci)




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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Come aprire la porta della corretta interpretazione conciliare?

 
 
 
 

Riflessioni su un sapiente studio di
Monsignor Brunero Gherardini
 
di Cristina Siccardi
 
 
Il Concilio Ecumenico Vaticano II è o non è un Concilio di continuità, è o non è un Concilio di rottura? La deduzione è shakesperiana: «Questo è il problema».
Si tratta di una questione che entra nei meandri non solo intellettivi della Chiesa, ma della sua stessa coscienza. Dopo cinquant’anni di amari frutti conciliari, in una società secolarizzata, “grazie” non solo ai nemici della Chiesa, ma anche delle corrotte e corrompenti ideologie filosofiche e teologiche che si sono in essa introdotte con mefistofelica astuzia, la scottante problematica è finalmente affrontata, come dimostra da alcuni anni il teologo Monsignor Brunero Gherardini. La rivista internazionale e quadrimestrale di ricerca e di critica teologica «Divinitas», con sede nella «Città del Vaticano», sul numero 3 del 2012, ha pubblicato un suo articolo dal titolo Continuità o rottura?

Partendo dalla celebre allocuzione del Santo Padre alla Curia del 22 dicembre del 2005, Gherardini sviluppa un pensiero teologico di perfetta logicità e coerenza. Benedetto XVI quel giorno si soffermò su un dramma, «mise a fuoco il problema dell’interpretazione dei testi conciliari, contrapponendo l’ermeneutica della continuità a quella della rottura, commentatori di varia estrazione e variamente autorevoli son tornati più volte in argomento. E non senza ragione, trattandosi di risponder al quesito se la Chiesa, oggi e domani, sarà quella di sempre o se, per sopravvivere, dovrà darsi un assetto diverso»[1]. Benedetto XVI, parlando di ermeneutiche, dunque di interpretazioni,  sottolinea Gherardini, ha messo in luce un principio basilare: «un Concilio non sarà mai di rottura, perché dipende dalla sua continuità con la dottrina di sempre»[2].

La quaestio non è una semplice e mera speculazione intellettuale, essa scava in profondità questo dramma per aprire, con il bisturi appropriato, il bubbone nel quale si sono annidati microbi infettivi.
Il Papa individuò due “litiganti”: i sostenitori dell’ermeneutica della rottura e quelli dell’ermeneutica della continuità, ovvero quelli della discontinuità e quelli della riforma, coloro che  propugnano il rinnovamento nella continuità del soggetto Chiesa. Due fronti ben distinti, dove ognuno dichiara di avere ragione e che sono in continua antitesi: ma i litigi sono destinati, prima o poi, a terminare, e uno dei due dovrà sottomettersi umilmente alla ragione dell’altro, perché, come la dottrina è portatrice della Verità, così la Chiesa è chiamata a trasmettere, nel modo corretto (onde non contaminare o corrompere quella Verità), l’unica e sola Rivelazione fatta da Cristo, quando s’incarnò nel tempo e nel mondo.

«Se si riesce ad impostare correttamente l’argomento, i lamentati “litigi” fra le due ermeneutiche non avran più motivo né occasione d’insorgere; anzi, non potran più esserci due ermeneutiche. Dal canto loro i pastori, teologi, studiosi e lettori del Vaticano II troveranno, in questo stesso valore, la chiave di volta per un’obiettiva e corretta interpretazione conciliare»[3]. La chiave è una (proprio come una è la Verità), si chiama Tradizione e l’Autore della Tradizione è Cristo.

Monsignor Gherardini sviluppa un discorso che segue una dialettica teologica ineccepibile. Primo scalino da affrontare risulta essere quello del significato etimologico di Tradizione. Tradizione deriva dal sostantivo traditio e dal verbo tradere, ossia «trasmettere, tramandare». L’autore spiega come tali termini siano passati dalla religione ebraica, dove veniva trasmessa, in ebraico/aramaico, la Tôrā, a quella cristiana, attraverso la lingua greca e poi quella latina. Il concetto era lo stesso ed è rimasto tale anche se immesso nelle lingue moderne: ricevere e ritrasmettere gli insegnamenti di un preciso e medesimo contenuto.

La Tradizione racchiude il passato, si innesta nel presente e si getta nel futuro, perennemente giovane, dai tratti che riconducono al “per sempre”, seppur inserita nella storia. «In tal senso, la Tradizione non è affatto una specie di predominio del passato sul presente e sul futuro, i quali, se un tale predominio si verificasse – come vorrebbe il tradizionalismo – ne verrebbero fagocitati e cesserebbe la storia; è tuttavia un valore […] determinante-vincolante-obbligante per il senso che conferisce al presente, preparando così il domani ed in esso proiettandosi»[4].
Benché molti cattolici e molti “falsi profeti” e falsi maestri, non si facciano il benché minimo scrupolo (pensiamo a nomi come quello di Enzo Bianchi, di Alex Zanotelli, di don Andrea Gallo, di don Luigi Ciotti), nella Chiesa la Tradizione è: determinante (dunque fondante), vincolante (quindi inderogabile), obbligatoria (assume un carattere di legge) e per tali ragioni ad essa si deve massimo rispetto e massima obbedienza. Se la Tradizione non viene soffocata e silenziata, non si annacqua, né si disperde nella storia, «ma è generatrice di essa. Da qui l’idea della sua vera ed autentica vitalità»[5] che fa da controcanto alla falsa «Tradizione vivente», espressione utilizzata da coloro che vogliono giustificare un’innovazione sostanziale nella Chiesa, incompatibile con la Tradizione «come una rosa o un giglio non fioriscono, di per sé, organicamente, da una quercia o da un ciliegio»[6].

Dal significato etimologico, l’autore passa poi al concetto teologico di Tradizione. Il pensiero si sofferma sull’azione di tale lemma: la Divina Rivelazione va custodita gelosamente e deve essere trasmessa con fedeltà ed ecco tre verbi che si richiamano l’uno dopo l’altro nel processo di trasmissione: tradere-recipere-docere e ciò riguarda sia il passaggio orale, sia la sua fissazione nella Scrittura.

L’organo che trasmette la Tradizione cristiana è stato individuato e creato dallo stesso Rivelatore, il Figlio di Dio: la Chiesa, fondata su san Pietro, una Chiesa formata da persone che hanno ricevuto una precisa ed autorevole investitura e che va sotto il nome di consacrazione nella successione apostolica. A questo punto la Tradizione porta con sé altri esercizi: predicare, insegnare, evangelizzare (la Chiesa è di natura missionaria e mai potrà rinunciare al mandato del Redentore di portare l’annuncio della Salvezza a tutte le genti, di qualsiasi religione esse siano) e per compiere tali mansioni si affida proprio ai successori degli Apostoli, responsabili della sana dottrina e garanti della Verità trasmessa.

In tal modo Tradizione e Successione sono due aspetti di una stessa realtà che racchiude alcuni elementi costitutivi:
«a. quanto all’origine, il risalire agli apostoli di successione in successione;
b. quanto al contenuto, la continuità dell’insegnamento apostolico;
c. quanto all’autorità, quella stessa degli apostoli, che perciò è normativa della Fede»[7].

Con onestà intellettuale si può affermare che nel Concilio Vaticano II si sono dette cose nuove, che mai erano state contemplate nella Tradizione della Chiesa; si sono pianificate proposte innovative, che mai si sono delineate nella Tradizione; si sono intraprese strade temerarie, come l’ecumenismo e la libertà religiosa, iniziative che hanno portato spesso ad una sventurata ed infelice sottomissione all’opinione pubblica e alle ideologie dettate dal momento storico in corso, si pensi, per esempio, al silenzio sul Comunismo da parte dell’Assise apertasi 50 anni fa, all’Ostpolitik che ne seguì e al corrispettivo martirio della Chiesa del silenzio nei Paesi dell’Est.

Lo stesso Sommo Pontefice, ultimamente, ha pubblicato un testo dove riserva  due critiche e una sospensione di giudizio a tre documenti conciliari: Gaudium et spes, Dignitatis humanae e Nostra aetate[8].

È chiaro che nei testi conciliari il linguaggio di stampo liberale si è imposto in maniera evidente, misconoscendo quello caratteristico della Tradizione; anche per questa ragione, là dove esiste un richiamo tradizionale, si riscontrano, senza neppure troppa fatica, contrasti, scordature e talvolta vere e proprie contraddizioni che confondono il fedele che ogni domenica pronuncia il Credo con seria e profonda convinzione, e non solo per abitudine.

La Tradizione è la vita della Chiesa, non può essere contraddetta ed è lei ad essere legittimata per giudicare le novità proposte e non vice versa. Nella «storia ecclesiastica dagl’inizi alla fine, mai nessun Papa e mai nessun vescovo avran diritto all’ascolto qualora insegnino a titolo personale o come privati dottori.
Solo in quanto successori degli apostoli, infatti, son Magistero autentico infallibile irriformabile, avendo esso:
a. il suo oggetto nella dottrina apostolica;
b. il suo compito, nel trasmetterla inalterata;
c. la sua autorità magisteriale, in quella delle dottrine apostoliche autorevolmente insegnate in nome e come “voce” della Chiesa»[9].

Da questo studio emerge plasticamente l’impossibilità da parte della Chiesa di prescindere dalla Tradizione, altrimenti non sarebbe più la Chiesa fondata dal Salvatore: in questo san Paolo è chiarissimo, l’antica Tôrā è stata sostituita da Cristo, l’Apostolo delle genti l’accoglie e la ritrasmette, invitando gli altri a fare altrettanto; se ciò non avvenisse significherebbe commettere un tradimento, perciò la «Chiesa vive di questo recepire Cristo e ritrasmetterlo nel tempo, fin al suo epilogo»[10]. Così parla Gherardini, così parla sant’Agostino: «“nonnisi apostolica auctoritate creditum”[11]: non credo per altro motivo che per l’autorità apostolica con cui la Chiesa mi dice di credere»[12]. Tutti coloro a cui è stato consegnato il deposito della Fede sono responsabili dell’integrità di ciò che hanno ricevuto integralmente: da duemila anni, questi chiamati-eletti hanno insegnato ciò che hanno appreso e hanno trasmesso ciò che hanno ricevuto, «questa e soltanto questa è Chiesa viva!»[13].

Qui non c’è fumo, ma concretezza, infatti l’autore offre delle prove con la sua analisi alla Costituzione apostolica Dei Verbum: alcuni punti sono in corrispondenza perfetta con il Concilio di Trento e con il Concilio Vaticano I a riguardo della tematica Tradizione; ma altri sono incongruenti fino ad avere due prospettive diverse nello stesso documento: in DV 9 si parla esplicitamente di unità, come una cosa sola, come somma dell’intera Rivelazione, fra la Scrittura Sacra e la Tradizione, le quali perseguono lo stesso scopo; ma in DV 10 il concetto muta e viene introdotta, invece, la distinzione fra Scrittura e Tradizione. A chi credere, dunque, al principio enunciato prima o a quello successivo?

Inoltre, sempre nella Costituzionedogmatica non è chiaro se Tradizione, Scrittura e Magistero (DV 10/e) sono connessi e congiunti, tanto da non poter essere divisi, oppure se i tre soggetti, pur lavorando nella comune finalità salvifica, hanno identità autonome  (DV 10/c): «la Scrittura diventerebbe solo il ricettacolo scritto, e come tale solennemente riconosciuto dal Magistero, della predicazione ecclesiastica e quindi della Tradizione. Il Magistero impersonerebbe l’una e l’altra, assumendone l’autorità e rendendo problematica la sua condizione di loro “servo”.

Va detto con tutta franchezza che il giudizio del Magistero è inappellabile e decisivo. Ma lo è solo se rimane nell’ambito del suo “servizio”, quello stabilito dalla Rivelazione stessa: custodire cioè ed esporre fedelmente le verità salvifiche, contenute nel deposito o come “dette”  o come “scritte”. Al di fuori di questi limiti, verrebbe meno a se stesso. Pertanto, neanche al Magistero, così come a nessun cristiano, è lecito esporre come contenute nel sacro deposito idee proprie o dottrine desunte dalla dialettica filosofico-scientifica d’un determinato momento storico; ancor meno è lecito vincolar ad esse la libertà della coscienza individuale ed ecclesiale. Non saremmo, in tal caso, di fronte al Magistero, ma al suo tradimento»[14].

Chiesa e Tradizione sono inscindibili e hanno lo stesso fine: la salvezza delle anime; non così accade fra Chiesa e mondo, con esso ci possono essere delle frequentazioni diplomatiche e di opportunità, ma mai di comunione di intenti, perché il mondo può portare alla perdizione delle anime. Ha scritto Benedetto XVI a proposito della Gaudium et Spes: «Tra i francesi si mise sempre più in primo piano il tema del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, ovvero il lavoro sul cosiddetto “Schema XIII”, dal quale poi è nata la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.  Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio.  La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata.  Le cose dovevano rimanere così?  La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi?  Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” vi è la questione del rapporto con l’età moderna. 
Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna.  Questo non è riuscito nello “Schema XIII”.  Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale»[15].

Occorre fare un distinguo: il Cristianesimo è Tradizione e non conservazione: «Conservazione è chiusura al nuovo; tradizione è passaggio da un’era ad un’altra»[16]; un grande inganno ed un’abissale infedeltà, poi, si verifica quando si muta la prospettiva teologica di Tradizione, non considerandola più scrigno dell’unica e sola divina Rivelazione, ma valutandola e misurandola alla luce della storia, quest’ultima intesa come immanente forza evolutiva, dando, in tal modo, ampio spazio alle soggettive “verità”, spesso in contrasto con quelle rivelate.
Quanti, appellandosi al Concilio Vaticano II, si sono permessi di proteggere innovazioni, rivoluzioni, posizioni erronee? Se ne potrebbe scrivere un’enciclopedia intera, ma, piuttosto che confezionare una simile opera, sarebbe molto più benefico e salutare, come auspica Monsignor Gherardini e tutti coloro che comprendono che la Tradizione è l’antidoto alle sostanze venefiche che sono state inoculate nella Chiesa, sottoporre a verifica i documenti conciliari, facendo emergere le novità moderne che sono in contrapposizione con gli insegnamenti di sempre e che hanno prodotto quelle stesse ermeneutiche in lite fra di loro.
 
 

[1] B. Gherardini, Critica teoligica-Continuità o rottura?, in «Divinitas», Rivista internazionale di ricerca e di critica teologica, Città del Vaticano, Anno LV, n. 3-2012, p. 321. (Il neretto è nel testo originale).
[2] Ivi, p. 351.
[3] Ivi, pp. 324-325.
[4] Ivi, p. 329.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 324.
[7] Ivi, p. 331.
[8] Per approfondire vedi di P. Pasqualucci, Sulle recenti critiche di Benedetto XVI al Concilio Vaticano II: www.conciliovaticanosecondo.it/2012/11/18/sulle-recenti-critiche-di-benedetto-xvi-al-concilio-vati...
[9] Ivi, p. 332.
[10] Ivi, p. 333.
[11] Agostino, De bapt. Cont. Donatum, 4,24 PL 43.174.
[12] B. Gherardini, Critica teoligica-Continuità o rottura?, in «Divinitas», art. cit., p. 334.
[13] Ibidem
[14] Ivi, pp. 344-345.
[15] Benedetto XVI racconta, in «L’Osservatore Romano», 11 ottobre 2012 (numero dedicato al cinquantenario del Concilio Vaticano II), p. 6.
[16] B. Gherardini, Critica teoligica-Continuità o rottura?, in «Divinitas», art. cit., p. 346.
 
Fonti:
 
riscossacristiana.it
 
conciliovaticanosecondo.it
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Nel cinquantesimo anniversario dell’indizione "Sull’adesione al concilio Vaticano II" (Fernando Ocáriz)

 
 
Nel cinquantesimo anniversario dell’indizione
 
Sull’adesione al concilio Vaticano II
 
di Fernando Ocáriz
 

Il cinquantesimo anniversario, ormai prossimo, della convocazione del concilio Vaticano II (25 dicembre 1961) è motivo di celebrazione ma anche di rinnovata riflessione sulla ricezione e applicazione dei documenti conciliari. Oltre agli aspetti più direttamente pratici di questa ricezione e applicazione, con le loro luci ed ombre, sembra opportuno ricordare anche la natura dell’adesione intellettuale dovuta agli insegnamenti del Concilio. Pur trattandosi di dottrina ben nota e sulla quale si dispone di abbondante bibliografia, non è superfluo ricordarla nei suoi tratti essenziali, tenuto conto della persistenza di perplessità manifestatesi, anche nell’opinione pubblica, riguardo alla continuità di alcuni insegnamenti conciliari rispetto ai precedenti insegnamenti del magistero della Chiesa.
 
Innanzitutto non sembra inutile ricordare che l’intenzione pastorale del Concilio non significa che esso non sia dottrinale. Le prospettive pastorali si basano infatti, e non potrebbe essere diversamente, sulla dottrina. Ma occorre, soprattutto, ribadire che la dottrina è indirizzata alla salvezza, il suo insegnamento è parte integrante della pastorale. Inoltre, nei documenti conciliari è ovvio che ci sono molti insegnamenti di natura prettamente dottrinale: sulla divina Rivelazione, sulla Chiesa, ecc. Come scrisse il beato Giovanni Paolo II, «con l’aiuto di Dio i Padri conciliari hanno potuto elaborare, in quattro anni di lavoro, un considerevole complesso di esposizioni dottrinali e di direttive pastorali offerte a tutta la Chiesa» (costituzione apostolica Fidei depositum, 11 ottobre 1992, introduzione).

L’adesione dovuta al magistero

Il concilio Vaticano II non definì alcun dogma, nel senso che non propose mediante atto definitivo alcuna dottrina. Tuttavia il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia esercitato mediante il carisma dell’infallibilità non significa che esso possa essere considerato «fallibile» nel senso che trasmetta una «dottrina provvisoria» oppure «autorevoli opinioni». Ogni espressione di magistero autentico va recepita come è veramente: un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il «carisma della verità» (Dei verbum, n. 8), «rivestiti dell’autorità di Cristo» (Lumen gentium, n. 25), «alla luce dello Spirito Santo» (Ibidem).
 
Questo carisma, questa autorità e questa luce furono certamente presenti nel concilio Vaticano II; negare ciò all’intero episcopato cum Petro e sub Petro, radunato per insegnare alla Chiesa universale, sarebbe negare qualcosa dell’essenza stessa della Chiesa (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, dichiarazione Mysterium Ecclesiae, 24 giugno 1973, nn. 2-5).
 
Naturalmente non tutte le affermazioni contenute nei documenti conciliari hanno lo stesso valore dottrinale e quindi non tutte richiedono lo stesso grado di adesione. I diversi gradi di adesione alle dottrine proposte dal magistero sono stati ricordati dal Vaticano II, nel n. 25 della costituzione Lumen gentium, e poi sintetizzati nei tre commi aggiunti al simbolo niceno-costantinopolitano nella formula della Professio fidei, pubblicata nel 1989 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con l’approvazione di Giovanni Paolo II.
 
Le affermazioni del concilio Vaticano II che ricordano verità di fede richiedono ovviamente l’adesione di fede teologale, non perché siano state insegnate da questo Concilio, ma perché già erano state insegnate infallibilmente come tali dalla Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale. Così come richiedono un pieno e definitivo assenso le altre dottrine ricordate dal Vaticano II che erano già state proposte con atto definitivo da precedenti interventi magisteriali.
 
Gli altri insegnamenti dottrinali del Concilio richiedono dai fedeli il grado di adesione denominato «ossequio religioso della volontà e dell’intelletto». Un assenso «religioso», quindi non fondato su motivazioni puramente razionali. Tale adesione non si configura come un atto di fede, quanto piuttosto di obbedienza, non semplicemente disciplinare, bensì radicata nella fiducia nell’assistenza divina al magistero, e perciò «nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede» (Congregazione per la Dottrina della Fede, istruzione Donum veritatis, 24 maggio 1990, n. 23). Questa obbedienza al magistero della Chiesa non costituisce un limite posto alla libertà, ma al contrario, è fonte di libertà. Le parole di Cristo «chi ascolta voi ascolta me» (Luca, 10, 16) sono indirizzate anche ai successori degli apostoli; e ascoltare Cristo significa ricevere in sé la verità che rende liberi (cfr. Giovanni, 8, 32).
 
Nei documenti magisteriali possono esserci — come di fatto si trovano nel concilio Vaticano II — anche elementi non propriamente dottrinali, di natura più o meno circostanziale (descrizioni dello stato delle società, suggerimenti, esortazioni, ecc.). Tali elementi vanno accolti con rispetto e gratitudine, ma non richiedono un’adesione intellettuale in senso proprio (cfr. istruzione Donum veritatis, nn. 24-31).

L’interpretazione degli insegnamenti

L’unità della Chiesa e l’unità nella fede sono inseparabili, e questo comporta anche l’unità del magistero della Chiesa in ogni tempo in quanto interprete autentico della Rivelazione divina trasmessa dalla sacra Scrittura e dalla tradizione. Ciò significa, tra l’altro, che una caratteristica essenziale del magistero è la sua continuità e omogeneità nel tempo. La continuità non significa assenza di sviluppo; la Chiesa lungo i secoli progredisce nella conoscenza, nell’approfondimento e nel conseguente insegnamento magisteriale della fede e della morale cattolica.
 
Nel concilio Vaticano II ci sono state diverse novità di ordine dottrinale: sulla sacramentalità dell’episcopato, sulla collegialità episcopale, sulla libertà religiosa, ecc. Sebbene di fronte alle novità in materie relative alla fede o alla morale non proposte con atto definitivo sia dovuto l’ossequio religioso della volontà e dell’intelletto, alcune di esse sono state e sono ancora oggetto di controversie circa la loro continuità con il magistero precedente, ovvero sulla loro compatibilità con la tradizione. Di fronte alle difficoltà che possono trovarsi per capire la continuità di alcuni insegnamenti conciliari con la tradizione, l’atteggiamento cattolico, tenuto conto dell’unità del magistero, è quello di cercare un’interpretazione unitaria, nella quale i testi del concilio Vaticano II e i documenti magisteriali precedenti s’illuminino a vicenda. Non soltanto il Vaticano II va interpretato alla luce di precedenti documenti magisteriali, ma anche alcuni di questi vengono meglio capiti alla luce del Vaticano II. Ciò non è niente di nuovo nella storia della Chiesa. Si ricordi, a esempio, che nozioni importanti nella formulazione della fede trinitaria e cristologica (hypóstasis, ousía) adoperate nel concilio i di Nicea furono molto precisate nel loro significato dai concili posteriori.

L’interpretazione delle novità insegnate dal Vaticano II deve perciò respingere, come disse Benedetto XVI, l’ermeneutica della discontinuità rispetto alla tradizione, mentre deve affermare l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità (discorso, 22 dicembre 2005). Si tratta di novità nel senso che esplicitano aspetti nuovi, fino a quel momento non ancora formulati dal magistero, ma che non contraddicono a livello dottrinale i documenti magisteriali precedenti, sebbene in alcuni casi — a esempio, sulla libertà religiosa — comportino anche conseguenze molto diverse al livello delle decisioni storiche sulle applicazioni giuridico-politiche, viste le mutate condizioni storiche e sociali. Un’interpretazione autentica dei testi conciliari può essere fatta soltanto dallo stesso magistero della Chiesa. Perciò nel lavoro teologico d’interpretazione dei passi che nei testi conciliari suscitino interrogativi o sembrino presentare difficoltà, è innanzitutto doveroso tener conto del senso in cui i successivi interventi magisteriali hanno inteso tali passi. Comunque, rimangono legittimi spazi di libertà teologica per spiegare in un modo o in un altro la non contraddizione con la tradizione di alcune formulazioni presenti nei testi conciliari e, perciò, di spiegare il significato stesso di alcune espressioni contenute in quei passi.
 
Al riguardo, non sembra infine superfluo tener presente che è passato quasi mezzo secolo dalla conclusione del concilio Vaticano II, e che in questi decenni si sono susseguiti quattro Romani Pontefici sulla cattedra di Pietro. Esaminando il magistero di questi Papi e la corrispondente adesione a esso dell’episcopato, un’eventuale situazione di difficoltà dovrebbe trasformarsi in serena e gioiosa adesione al magistero, interprete autentico della dottrina della fede. Questo dovrebbe essere possibile e auspicabile anche se rimanessero aspetti razionalmente non pienamente compresi, lasciando comunque aperti i legittimi spazi di libertà teologica per un sempre opportuno lavoro di approfondimento. Come ha scritto recentemente Benedetto XVI, «i contenuti essenziali che da secoli costituiscono il patrimonio di tutti i credenti hanno bisogno di essere confermati, compresi e approfonditi in maniera sempre nuova al fine di dare testimonianza coerente in condizioni storiche diverse dal passato» (motu proprio Porta fidei, n. 4).

  L'Osservatore Romano 2 dicembre 2011


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[SM=g1740758]un libro da meditare

Eccone una pagina...

"San Pio X non esitò, come un chirurgo deciso; ma si trattava di un cancro maligno (il modernismo n.d.r): enucleato da dove appariva più sviluppato, si moltiplicò per metastasi in tutto l'organismo, subdolamente durante il pontificato di Pio XII, per protendere poi arditamente i suoi tentacoli in occasione del Vaticano II.

Non mirò forse il modernismo a infamare la stessa agonia di Pio XII, che lo aveva tenuto a freno? E non si pretese da qualcuno di riformare le stesse strutture della Chiesa, nello spirito del Vaticano II – a sentir loro! – senza mai precisare che si dovesse intendere per strutture, perché si mirava solo a deformare e a distruggere? Che di sano si è lasciato?
In nome della Bibbia, per fedeltà al Cristo – a sentir loro!
La novella Pentecoste mirò in realtà a rifare da zero, e quindi innanzi tutto a ridurre a zero, quanto era stato edificato dalla prima e unica vera Pentecoste biblica.
Nella Chiesa, inondata dallo Spirito Santo della vera, ed unicamente vera, Pentecoste , non si trovò nulla di buono, di evangelico: duemila anni di vita della Chiesa, duemila anni di errori, di infedeltà a Nostro Signore ed al Vangelo; duemila anni di colpe delle quali chiedere perdono, se non a Dio almeno agli uomini"
(p. 343)


Un Libro da leggere
Walter Martin
Habemus Papam
Prefazione di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
Ed. Fede e Cultura, € 24,00
 
 
Un thriller che racconta di un Papa vecchio e umile che avrebbe dovuto morire presto senza lasciare il segno ma che diventa un leone della fede. I nemici interni che infangano la Chiesa con eresie e scandali. L’eterna guerra che il Nemico contro la Chiesa. fino a portarla sula soglia degli inferi senza riuscire a vincerla. Una sconvolgente profezia del dramma dell’apostasia nella Chiesa.


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09/02/2013 18:49
 
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[SM=g1740758] L'impossibile "road map" della pace con i lefebvriani

Un esponente di punta del campo tradizionalista detta le condizioni per sanare lo scisma. Ne elenca quattro, ma tre di esse appaiono irrealizzabili. Le critiche di don Divo Barsotti al Concilio Vaticano II

di Sandro Magister




ROMA, 9 febbraio 2013 – In un suo nuovo libro dato alle stampe in questi giorni il professor Enrico Maria Radaelli – filosofo, teologo e discepolo prediletto di colui che è stato uno dei più grandi pensatori cattolici tradizionalisti del Novecento, lo svizzero Romano Amerio (1905-1997) – cita tre brani tratti dai diari inediti di don Divo Barsotti (1914-2006).

In essi questo geniale e stimato mistico e maestro spirituale – che nel 1971 fu chiamato a predicare gli esercizi di Quaresima al papa e alla curia romana – esprimeva delle forti critiche al Concilio Vaticano II.

Scriveva don Barsotti:

"Io sono perplesso nei confronti del Concilio: la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza semplice di fede. Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi".

"Il Concilio e l'esercizio supremo del magistero è giustificato solo da una suprema necessità. La gravità paurosa della situazione presente della Chiesa non potrebbe derivare proprio dalla leggerezza di aver voluto provocare e tentare il Signore? Si è voluto forse costringere Dio a parlare quando non c'era questa suprema necessità? È forse così? Per giustificare un Concilio che ha preteso di rinnovare ogni cosa, bisognava affermare che tutto andava male, cosa che si fa continuamente, se non dall'episcopato, dai teologi".

"Nulla mi sembra più grave, contro la santità di Dio, della presunzione dei chierici che credono, con un orgoglio che è soltanto diabolico, di poter manipolare la verità, che pretendono di rinnovare la Chiesa e di salvare il mondo senza rinnovare se stessi. In tutta la storia della Chiesa nulla è paragonabile all'ultimo Concilio, nel quale l'episcopato cattolico ha creduto di poter rinnovare ogni cosa obbedendo soltanto al proprio orgoglio, senza impegno di santità, in una opposizione così aperta alla legge dell'evangelo che ci impone di credere come l'umanità di Cristo è stata strumento dell'onnipotenza dell'amore che salva, nella sua morte".

Ciò che impressiona di queste parole di don Barsotti sono due elementi.

Anzitutto tali critiche provengono da una persona di profonda visione teologale, con fama di santità, obbedientissima alla Chiesa.

E in secondo luogo le critiche non si rivolgono contro le deviazioni del dopoconcilio, ma contro il Concilio in sé.

Sono le stesse due impressioni che si ricavano dalla lettura del nuovo libro di Radaelli, che si intitola: "Il domani - terribile o radioso? - del dogma".

*

A giudizio di Radaelli, la crisi attuale della Chiesa non consegue da una errata applicazione del Concilio, ma da un peccato d'origine compiuto dal Concilio stesso.

Tale peccato d'origine sarebbe l'abbandono del linguaggio dogmatico – proprio di tutti i precedenti concili, con l'affermazione della verità e la condanna degli errori – e la sua sostituzione con un vago nuovo linguaggio "pastorale".

Va detto – e Radaelli lo fa notare – che anche tra gli studiosi di orientamento progressista si riconosce nel linguaggio pastorale una novità decisiva e qualificante dell'ultimo Concilio. È ciò che ha sostenuto di recente, ad esempio, il gesuita John O'Malley nel suo fortunato saggio "Che cosa è successo nel Vaticano II".

Ma mentre per O'Malley e i progressisti il nuovo linguaggio adottato dal Concilio è giudicato in una luce tutta positiva, per Radaelli, per Roberto de Mattei e per altri esponenti del pensiero tradizionalista – come già prima per Romano Amerio – il linguaggio pastorale è stigmatizzato come la radice di tutti i mali.

Secondo loro, infatti, il Concilio avrebbe preteso – abusivamente – che l'obbedienza dovuta all'insegnamento dogmatico della Chiesa valesse anche per il linguaggio pastorale, elevando così a indiscutibile "superdogma" affermazioni e argomentazioni prive di reale base dogmatica, sulle quali invece sarebbe legittimo e doveroso avanzare critiche e riserve.

Dai due linguaggi contrapposti, il dogmatico e il pastorale, Radaelli vede discendere e separarsi "quasi due Chiese".

Nella prima, quella dei tradizionalisti più coerenti, egli comprende anche i lefebvriani, pienamente "cattolici per dottrina e per rito" e "obbedienti al dogma", anche se disobbedienti al papa tanto da essere stati per 25 anni scomunicati. È la Chiesa che, proprio per la sua fedeltà al dogma, "rigetta il Vaticano II quale assise in totale rottura con la Tradizione".

Alla seconda Chiesa egli assegna tutti gli altri, cioè la quasi totalità dei vescovi, dei preti e dei fedeli, compreso l'attuale papa. È la Chiesa che ha rinunciato al linguaggio dogmatico e "si fa figlia in tutto del Vaticano II, proclamandolo – e ciò anche dal trono più alto, senza però mai portarne le prove – in totale continuità con la Chiesa preconciliare, se pur nell'ambito di una certa qual riforma".

Come vede Radaelli il risanamento di questa contrapposizione? A suo giudizio "non è il modello di Chiesa obbediente al dogma che deve tornare a sottomettersi al papa", ma "è piuttosto il modello obbediente al papa che deve tornare a sottomettersi al dogma".

In altre parole:

"Non è Ecône [cioè la comunità dei lefebvriani - ndr] che deve sottomettersi a Roma, ma Roma al Cielo: ogni difficoltà tra Ecône e Roma sarà risolta unicamente dopo il ritorno della Chiesa al linguaggio dogmatico suo proprio".

Perché questa meta sia raggiunta, Radaelli presuppone due cose:

- che Roma garantisca ai lefebvriani il diritto di celebrare la messa e i sacramenti unicamente nel rito di san Pio V;

- e che l'obbedienza richiesta al Vaticano II sia riportata nei limiti del suo linguaggio "falso-pastorale" e quindi passibile di critiche e riserve.

Ma prima dell'approdo – aggiunge Radaelli – dovranno essere esaudite anche altre due richieste:

- la prima, avanzata nel dicembre 2011 dal vescovo di Astana nel Kazakistan, Athanasius Schneider, è la pubblicazione da parte del papa di una sorta di nuovo "Sillabo", che colpisca con anatemi tutti "gli odierni errori";

- la seconda, già proposta dal teologo Brunero Gherardini al supremo magistero della Chiesa, è una "revisione dei documenti conciliari e magisteriali dell'ultimo mezzo secolo", da farsi "alla luce della Tradizione".

*

Poste così le cose, c'è quindi da pensare che la riconciliazione tra i lefebvriani e la Chiesa di Roma sia tutt'altro che facile e vicina. Come prova lo stallo dei negoziati tra le due parti, che dura ormai da molti mesi.

Ma anche con i tradizionalisti rimasti in comunione con la Chiesa – da Radaelli a de Mattei a Gherardini – il fossato si allarga. Non nascondono più la loro delusione per il pontificato di Benedetto XVI, sul quale inizialmente avevano riposto alcune speranze. A loro giudizio solo un deciso ritorno del magistero del papa e dei vescovi ai pronunciamenti dogmatici potrà riportare la Chiesa sulla retta via, con la conseguente correzione di tutti gli errori propagati dal linguaggio pastorale del Concilio.

Errori che Radaelli così elenca in una pagina del suo libro, definendoli "vere e proprie eresie":

"Ecclesiologia, collegialità, fonte unica della Rivelazione, ecumenismo, sincretismo, irenismo (specie verso protestantesimo, islamismo e giudaismo), modifica della 'dottrina della sostituzione' della Sinagoga con la Chiesa in 'dottrina delle due salvezze parallele', antropocentrismo, perdita dei novissimi (e del limbo e dell'inferno), della giusta teodicea (da cui molto ateismo come 'fuga da un Padre cattivo'), del senso del peccato e della grazia, dedogmatizzazione liturgica, aniconologia, sovvertimento della libertà religiosa, oltre all'ameriana 'dislocazione della divina Monotriade' con cui la libertà detronizza la verità".

Radaelli conclude il suo libro con un appello a "deporre le armi" rivolto sia ai "fratelli novatori" sia ai "fratelli tradizionisti" (come preferisce chiamarli, invece che "tradizionalisti").

Ma, stringi stringi, alla fine egli sembra identificare l'auspicata pacificazione con una vittoria a tutto campo dei lefebvriani e di quelli che come loro si ritengono gli ultimi e unici difensori del dogma.

__________


Il libro:

Enrico Maria Radaelli, "Il domani - terribile o radioso? - del dogma", Edizione Aurea Domus, 2013, pp. 278, euro 35,00.

Il libro si apre con una prefazione del filosofo inglese Roger Scruton e con tre commenti: di Mario Olivero, vescovo di Albenga-Imperia; del teologo Brunero Gherardini; e di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro.

Non è in vendita in tutte le librerie. Ma dovrà essere richiesto direttamente al sito web dell'autore:

>  Aurea Domus

Oppure a queste due librerie di Milano e di Roma:

> Hoepli

> Coletti

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Gli ultimi tre precedenti servizi di www.chiesa:

5.2.2013
> Tra Roma e Dakar, i machiavelli di Sant'Egidio
Le manovre elettorali di Andrea Riccardi in Italia. L'incidente diplomatico in Senegal, ai danni del Vaticano. I premi elargiti in curia a fini di carriera

1.2.2013
> Cristiani e musulmani in Libano. Un'inchiesta
Gli effetti della guerra civile nella confinante Siria. E le ragioni per cui il papa ha affidato a due giovani libanesi la scrittura della prossima Via Crucis al Colosseo

29.1.2013
> "Per molti" vince su "per tutti". Ma c'è chi non si arrende
La nuova traduzione delle parole della consacrazione voluta dal papa sta per arrivare anche in Italia. Ma già sono state annunciate proteste e disobbedienze

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Per altre notizie e commenti vedi il blog che Sandro Magister cura per i lettori di lingua italiana:

> SETTIMO CIELO


Ultimi tre titoli:

Rugby. In meta al di là delle sbarre

La diocesi di Terni ringrazia Sant'Egidio

Elezioni. La dichiarazione di voto del cardinale Bagnasco

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9.2.2013

[SM=g1740771]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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14/02/2013 19:19
 
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Il dibattito sul Vaticano II rivisto alla luce di quanto accadde in Germania dopo l'assise del 1869-1870

Conflitti postconciliari

Un concilio generale non può avere determinato una rottura della tradizione di fede
di Walter, cardinale, Brandmüller

Dopo il discorso pronunciato da Papa Benedetto XVI il 22 dicembre 2005, che ha suscitato tanto clamore, il dibattito sulla corretta interpretazione del concilio Vaticano II è entrato in una nuova fase. Il cinquantesimo anniversario dell'inizio del Concilio gli ha dato un nuovo impulso.

Quale punto di vista, quale modo di avvicinarsi ai testi del Concilio è quello giusto: un'ermeneutica di rottura con la tradizione, o quella della riforma in continuità con essa? Si tratta di due posizioni contrapposte che difficilmente possono essere conciliate. In questa situazione che, nell'interesse vitale della Chiesa, esige seri sforzi per trovare una soluzione, potrebbe essere utile fare riferimento alle esperienze della Chiesa al tempo del concilio Vaticano I.

Per questo, l'analisi può limitarsi agli eventi che hanno riguardato il concilio del 1869-1870 in Germania, dal momento che in nessun altro Paese vi sono stati confronti altrettanto accesi su di esso. Poiché attualmente il dibattito sul Vaticano II è comunque sulla bocca di tutti, non occorre illustrarlo nei dettagli. Esso non riguarda soltanto il carattere proprio del Vaticano II come "concilio pastorale".
L'imperativo del momento non erano definizioni dogmatiche o condanne magisteriali di eresie, bensì un annuncio del Vangelo adeguato alle esigenze e agli interrogativi della società secolare moderna. Al centro del dibattito, che prosegue ancora oggi, non finì solo il tema della "Chiesa nel mondo contemporaneo", ma anche il rapporto con l'ebraismo e l'islam. Pure il problema della libertà religiosa si rivelò - e tuttora si rivela - molto controverso.

In non minor misura, le discussioni del concilio furono inoltre dedicate agli sforzi per la riunificazione dei cristiani divisi. Il risultato di tale impegno furono le dichiarazioni Nostra aetate e Dignitatis humanae, nonché il decreto Unitatis redintegratio. Sono proprio questi documenti a essere da allora al centro di controversie. In tali confronti si sono create due posizioni, che parlano entrambe, dalla propria prospettiva, di una frattura con la dottrina della Chiesa fino ad allora vincolante, provocata dai suddetti documenti. Il dibattito, per giunta, viene condotto da entrambe le parti in modo sempre molto polemico.
L'unico elemento che le distingue è la valutazione di questa pretesa rottura. Se gli uni vedono in essa una contraddizione teologicamente ingiustificabile all'intoccabile depositum fidei della Chiesa, gli altri la considerano il necessario sfollamento di bastioni incrinati dallo sviluppo della società e della cultura moderne.



(©L'Osservatore Romano 15 febbraio 2013)



Ai preti di Roma il Papa parla della sua esperienza al Vaticano II
e assicura la sua continua spirituale presenza

Nella Chiesa, nascosto al mondo

All'omelia del mercoledì delle Ceneri il forte invito a ritornare a Dio
per superare ipocrisie, rivalità e divisioni

C'è un concilio "virtuale", veicolato dai media e costruito secondo categorie "politiche" estranee alla fede, che in questi cinquant'anni ha provocato non pochi problemi e difficoltà alla Chiesa. E che oggi sta lasciando il posto al vero concilio "dei padri", la cui forza spirituale costituisce il motore dell'autentico rinnovamento ecclesiale.

Quella che doveva essere una "piccola chiacchierata" sul Vaticano II si è trasformata in una illuminante testimonianza che i preti di Roma, riuniti nell'Aula Paolo VI la mattina di giovedì 14 febbraio, hanno ascoltato dalla voce del "perito conciliare" Joseph Ratzinger. Il quale ha colto l'occasione dell'annuale incontro quaresimale con il clero della diocesi per rievocare la sua esperienza personale durante i quattro periodi dell'assise ecumenica.

Una riflessione, quella del Papa, scandita dai temi principali che furono oggetto del dibattito dei padri: liturgia, ecclesiologia, Parola di Dio, ecumenismo e dialogo con le religioni, rapporto tra Chiesa e mondo. E conclusa dall'invito a vivere l'Anno della fede - proclamato proprio nel cinquantesimo dell'apertura dei lavori - come occasione per far ritornare alla luce il "concilio reale", quello "della fede", sul quale è possibile realizzare la vera riforma della Chiesa.

Molti gli spunti e le indicazioni suggerite da Benedetto XVI, che per oltre 45 minuti ha rievocato con semplicità e senza reticenze lo spirito di un avvenimento vissuto con entusiasmo e speranza, nella ferma convinzione che da esso sarebbe scaturita una nuova era nella vita della Chiesa. Per il Papa è stata soprattutto la voglia di partecipare e di essere soggetti attivi a motivare le scelte fondamentali dei padri: a cominciare da quella compiuta il primo giorno, quando l'assemblea decise di non votare subito i membri delle commissioni sulla base delle liste già preparate, chiedendo più tempo per favorire gli incontri e la conoscenza tra i diversi gruppi nazionali presenti.
Un segno evidente, secondo il Pontefice, della dimensione universale della Chiesa, chiamata a vivere e crescere al di là di ogni differenza di lingua, razza e cultura. In questo stesso spirito Benedetto XVI ha letto gli esiti del rinnovamento liturgico del Vaticano II, fondato sulla duplice esigenza dell'"intellegibilità" del linguaggio - che tuttavia non significa "banalità", ha avvertito - e della partecipazione attiva dei fedeli. Così come ha richiamato l'ecclesiologia conciliare racchiusa nell'espressione "Noi siamo Chiesa", ossia corpo vivo di Cristo e non mera organizzazione o struttura giuridica. Aggiungendo che la categoria della "collegialità" ha evidenziato il ruolo dei vescovi come successori degli apostoli ed elementi portanti nella "complementarietà" dei fattori che costituiscono il corpo della Chiesa.

Non meno significative le sottolineature del Papa sul tema del rapporto tra sacra scrittura e tradizione - la Chiesa obbedisce alla Parola di Dio ma ne rappresenta, allo stesso tempo, il soggetto vivo - e sul dialogo con le altre religioni. A proposito del quale il Pontefice non ha mancato di rievocare la vivacità del dibattito dal quale presero vita la Nostra aetate e la Dignitatis humanae, che insieme alla Gaudium et spes costituiscono una sorta di "trilogia" la cui importanza si va sempre più rivelando e confermando col passare degli anni.

Non è mancato da parte di Benedetto XVI un accenno alla decisione di rinunciare al papato annunciata lunedì scorso. Ringraziando i sacerdoti per la corale manifestazione di affetto, il Papa ha assicurato che anche nel ritiro della preghiera, nascosto al mondo, sarà sempre vicino alla sua diocesi e alla Chiesa.
Parole che hanno richiamato quelle con cui il Pontefice ha aperto l'omelia della messa del mercoledì delle Ceneri celebrata nella serata del 13 febbraio. "È un'occasione propizia per ringraziare tutti, mentre mi accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un particolare ricordo nella preghiera" ha detto ai fedeli che hanno gremito la basilica Vaticana per tributargli una commossa manifestazione di affetto. Una celebrazione, l'ultima presieduta pubblicamente da Benedetto XVI, durante la quale è risuonato il forte invito a "ritornare a Dio" attraverso un cammino interiore che agisca "sul proprio cuore, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta". Dal Papa è venuto, in particolare, un severo monito contro l'"ipocrisia religiosa", gli "individualismi", le "rivalità" e le "divisioni" che deturpano il volto della Chiesa.



(©L'Osservatore Romano 15 febbraio 2013)
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  L’autorità dottrinale del Concilio Vaticano II

 

 

di P. Giovanni Cavalcoli - dicembre . 18. 2013

Da cinquant’anni si sta discutendo sull’autorità dottrinale del Concilio. Abbiamo sentito un incrociarsi di opinioni e interpretazioni da sponde diverse dell’area cattolica. Come sempre accade in queste circostanze, si è avuto sia il massimalismo di chi ha accolto tutto senza discussioni, esaltando il Concilio quasi fosse la summa di tutta la dottrina cattolica, che il minimalismo di chi si è sentito autorizzato o anche in dovere di metter in discussione o addirittura di contestare certe prese di posizione del Concilio o in nome della Tradizione o al contrario perché il Concilio non avrebbe accolto le istanze più innovative della ricerca teologica e della vita ecclesiale di oggi. L’organismo ecclesiale direttivo che ha la funzione ufficiale di interpretare, far conoscere, commentare e far applicare le decisioni del Concilio è indubbiamente il Magistero della Chiesa.

Questo continuamente si rifà al Concilio lodandolo e celebrandolo sempre senza discussioni e senza condizioni. Spesso lamenta che il Concilio non sia applicato ed esorta insistentemente alla sua applicazione.Mai nel Magistero un accenno a che almeno qualche decisione del Concilio debba o possa essere mutata o corretta o abrogata, il che può indurre nei fedeli l’idea che l’autorità del Concilio sia in tutto e per tutto indiscutibile. Ma vedremo che non è così e che la Chiesa stessa ci dà il criterio per individuare nelle abbondantissime dottrine del Concilio diversi livelli di autorità non tutti dello stesso peso: un discernimento importante, che va fatto con attenzione, per non sopravvalutare il meno autorevole e non sottovalutare il principale.

Invece in certi ambienti della Gerarchia, fra i teologi, i filosofi, i moralisti, i pastoralisti, i liturgisti, i pubblicisti e nel semplice popolo fedele da decenni sono animate le discussioni, forte è il contrasto di interpretazioni e di opinioni, fino a giungere all’attuale profondo solco che si è scavato tra le due ali estreme dei lefebvriani, una piccola ma agguerrita minoranza, e i modernisti di varie tendenze, i quali, dopo una perseverante scalata durata decenni (dal 1968), sono giunti oggi ad avere un considerevole potere nella Chiesa, con gran disagio dei cattolici normali, purtroppo in minoranza, desiderosi di equilibrio, di concordia e di pace in una piena comunione con la Chiesa e col Vicario di Cristo.

Per alcuni il Concilio è troppo innovativo sino a uscire dalla retta dottrina; per altri lo è troppo poco, ed è rimasto legato ad un passato ormai finito. Ma con quali criteri giudicano gli uni e gli altri? Mi pare sempre attuale chiarire il più possibile tali criteri, sebbene il tentativo sia stato fatto più volte e molti non mettano in discussione un loro proprio criterio decisamente sbagliato, che porta ovviamente a giudizi sbagliati, condannati o condannabili dalla Chiesa.Il Santo Padre, supremo interprete del Concilio, purtroppo da una parte è aspramente e irriverentemente attaccato da alcuni, che lo accusano d’infedeltà alla Tradizione, mentre è ipocritamente esaltato da altri, che vorrebbero strumentalizzarlo approfittando di qualche sua mossa o espressione forse imprudente, ma che non offusca per nulla la sua intangibile autorevolezza dottrinale di Maestro della fede e sommo Pastore della Chiesa su questa terra, di “dolce Cristo in terra”.

La questione dell’autorità dottrinale del Concilio non è semplice, perché, com’è noto, l’ultimo Concilio si distingue dai precedenti perché le sue dottrine non sono esposte secondo il tradizionale metodo dei canoni, che si esprimono in formule brevi, perentorie, chiare, sintetiche, precise ed univoche, in maniera imperativa o comminatoria, con l’accompagnamento della relativa sanzione penale per i disobbedienti o i renitenti.
Viceversa l’ultimo Concilio ha uno stile semplicemente dichiarativo, dimesso, omiletico o esortativo, con testi prolissi, che non mette chiaramente in luce i punti principali; e d’altra parte non avrebbe senso pensare che ogni sua parola goda del grado massimo di autorità.

Dov’è dunque che esso si esprime con maggior forza? Cos’è veramente e supremamente vincolante?

Questo studio si propone di offrire il criterio di una valutazione basandosi sugli stessi insegnamenti della Chiesa.Osserviamo tuttavia che un aiuto importante per sapere quali sono le dottrine maggiormente vincolanti del Concilio è certamente il Catechismo della Chiesa Cattolica. Inoltre molti chiarimenti sono stati dati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con la condanna di diversi errori emersi dalla fine del Concilio ai nostri giorni. Tuttavia si desidererebbe che Roma chiarisse definitivamente quei passi, in fondo pochi, del Concilio, che tuttora si prestano a interpretazioni errate.C’è da dire, inoltre, che da più parti persiste la convinzione che gli insegnamenti del Concilio siano soltanto direttive o disposizioni pastorali e non vi siano nuove dottrine.

Tale convinzione è fondata sulle parole stesse di Giovanni XXIII e nel suo discorso inaugurale del Concilio Gaudet Mater Ecclesiae, laddove effettivamente il Pontefice assegna al Concilio il compito di esporre persuasivamente in modo adatto all’uomo d’oggi il perenne patrimonio della fede cattolica. Inoltre questa qualifica di “pastorale” è attribuita al Concilio nelle “notificazioni fatte dal Segretario Generale del Concilio il 16 novembre 1964 nella 123a Congregazione generale, in appendice alla Costituzione dogmatica Lumen Gentium”.
Sennonché c’è da rilevare che di fatto il Concilio, con l’avvento di Paolo VI, aggiunse ad una modalità pastorale un orientamento dogmatico, come è attestato dalle stesse “Costituzioni dogmatiche” del Concilio. In particolare, come spiegò il Papa, il Concilio si assunse anche il compito di approfondire ed esplicitare l’ecclesiologia e l’antropologia cattoliche. Al riguardo, però bisogna ricordare che la parola “pastorale” può aver due sensi: per “pastorale” si può intendere una direttiva pratica data ai pastori per l’esercizio del governo del loro gregge, oppure può trattarsi di una maniera del linguaggio, per cui anche una dottrina dogmatica può esser esposta in un linguaggio pastorale. E questa fu appunto la caratteristica delle dottrine del Concilio.
Da considerare inoltre che da questo ulteriore orientamento dottrinale voluto da Paolo VI nacque evidentemente la questione di quale autorità si dovesse assegnare alle nuove dottrine del Concilio. Infatti - come vedremo meglio - se da una parte le indicazioni pastorali del Magistero non godono del carisma dell’infallibilità, dall’altra, quando il Magistero, soprattutto in un modo solenne e straordinario, come può essere un Concilio ecumenico, propone dottrine nuove su temi di fede o connessi con la fede, tali dottrine, che non fanno altro che chiarire o spiegare o commentare o sviluppare o esplicitare o riformulare dati già noti della divina Rivelazione, non possono assolutamente contenere errori, come a dire che sono infallibili, anche se il Magistero non dichiara esplicitamente che lo sono o che si tratta di verità di fede. Questa è la tesi che svilupperò in questo saggio.

Inoltre, se il Concilio non contiene nuovi dogmi definiti, il suo intento e il suo carattere dichiaratamente innovativo è fuor di dubbio: c’è una riforma di leggi, usi e costumi e si dà un vero progresso o avanzamento dottrinale. Per questo, la corrente cosiddetta “progressista” dei Padri, che emerse già nel corso dei lavori del Concilio, apparve come la migliore interprete degli intenti dello stesso Concilio.Ma è stato tutto e solo progresso quello che è uscito dal Concilio o c’è stato qualche strappo con la Tradizione? Per questo, tutti i lavori del Concilio sono stati provvidenzialmente percorsi anche dai Padri che erano preoccupati di salvaguardare o conservare la Tradizione. Come giudicare i risultati di questo grandioso e dotto dibattito? Quale la loro autorità? Ecco, ancora, il tema di questo scritto[1].


Che cosa ci dice lo stesso Concilio

Su questo argomento dell’autorità del Concilio, il Concilio stesso ci dà già un’indicazione[2], la quale però si limita a considerare l’aspetto pastorale del Concilio e non entra nella questione della sua autorità dogmatica. La cosa può sorprendere, dato che questo pronunciamento si trova alla fine di una Costituzione dogmatica qual è la Lumen Gentium, ma ciò significa che non possiamo accontentarci di tale notificazione, ma occorre che andiamo a cercare altri aiuti presso il Magistero della Chiesa. Tuttavia qui il termine “pastorale” potrebbe alludere non a direttive pratiche, ma al linguaggio che il Concilio ha voluto adottare anche per gli insegnamenti dogmatici.

In ogni caso, la suddetta Notificazione risponde in questo modo: “Conformemente al costume dei Concili e alla finalità pastorale del presente Concilio, questo Sinodo definisce come vincolante la Chiesa solo ciò che, in materia di fede e di costumi, esso avrà esplicitamente dichiarato tale. Le altre cose che il Santo Sinodo propone, in quanto dottrina del Magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accoglierle e ritenerle, secondo la mente dello stesso Sacro Sinodo, la quale si manifesta sia dalla materia trattata, sia dal tenore dell’espressione verbale, conforme alle norme d’interpretazione teologica”. Ciò vuol dire che quanto il Concilio non definisce come vincolante non è vincolante? E se non fosse vincolante, ciò implicherebbe che qui la Chiesa può sbagliare? È quello che credono coloro che appunto ritengono che nel Concilio ci siano degli errori dottrinali. D’altra parte bisogna riconoscere che qui il Concilio fa riferimento al suo carattere pastorale.
Tuttavia si parla anche di “Magistero supremo della Chiesa”, il che può far pensare che alluda anche alle nuove dottrine del Concilio, oltre che alla dottrina di fede dogmatica definita esistente nel Concilio. È così che alcuni, in base al fatto che il Concilio non contiene nuove definizioni dogmatiche, ma solo nuove dottrine in materia di fede non definite come di fede, si credono autorizzati a pensare che il Concilio contenga o possa contenere errori dogmatici, ossia non sia infallibile. Per costoro è di fede solo ciò che la Chiesa propone o definisce esplicitamente come di fede. Solo questa dichiarazione solenne e straordinaria della Chiesa darebbe certezza che siamo davanti a una verità di fede ovvero a un dogma. Solo in questo caso la Chiesa sarebbe “infallibile”. Negli altri casi potrebbe sbagliare.

Essi amano rifarsi all’insegnamento del Concilio Vaticano I, dove si dice che “con fede divina e cattolica si devono credere tutte quelle cose che sono contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata e sono proposte a credere come divinamente rivelate dalla Chiesa, sia con solenne giudizio, sia nel magistero ordinario ed universale” (Denz 3011).

La questione del magistero infallibile

Osserviamo però che qui la Chiesa dà certo le note dell’infallibilità, ma non dice che è infallibile solo in questo caso e che non esistano casi nei quali essa sia infallibile ossia assolutamente verace senza dichiarare che la dottrina è infallibile o è rivelata o è di fede. Così per esempio io posso dire che l’uomo è un vivente che respira ossigeno, ma con ciò non dico che sia l’unico vivente che respira ossigeno. Ora, le nuove dottrine del Concilio certamente non sono “proposte come divinamente rivelate”. Ma allora le dottrine del Concilio non hanno nulla a che vedere con la fede? Possono essere divinamente rivelate anche se non dichiarate come tali? È possibile riconoscere nella nuova dottrina di un Concilio una verità di fede, anche se il Concilio non la definisce come tale? E se sì, con quali mezzi? In che modo? I sostenitori dell’infallibilità ovvero della verità di fede esistente solo nelle definizioni solenni citano anche il dogma dell’infallibilità pontificia, infallibilità che vale quando il Papa “parla ex cathedra, cioè quando… definisce una dottrina sulla fede e sui costumi” (Denz 3074). Solo in tal caso, essi dicono, il Magistero è “infallibile”.
Allora negli altri casi è fallibile? Ma allora “le altre cose” delle quali parla la Notificazione, come “dottrina del Magistero supremo della Chiesa”, hanno qualcosa a che fare con la fede? Si tratta di dottrine infallibili o fallibili? Vere o falsificabili? La “dottrina del Magistero supremo della Chiesa” può contenere errori? Una risposta la ricaviamo dalla Professione di Fede oggi prescritta dalle leggi della Chiesa a coloro che assumono uffici ecclesiastici, soprattutto ai docenti di teologia. Il primo comma enuncia: “Credo con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato”. 

Esiste tuttavia un secondo comma che fa riferimento a “verità circa la dottrina che riguarda la fede”, dove non si parla di verità definite come verità di fede o rivelate, e tuttavia proposte in modo definitivo. Dice: “Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo”[3]. Se sono proposte in modo definitivo, evidentemente saranno dottrine infallibili, tuttavia non dichiarate come tali o come verità di fede. Dunque la Chiesa può enunciare dottrine infallibili ovvero verità di fede anche senza dichiararle o definirle come verità di fede o rivelate. Il terzo comma dice: “Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto alle dottrine che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarle con atto definitivo”. Questi due livelli di autorità dottrinale o dogmatica li troviamo anche nel Diritto Canonico, al can.750 in due paragrafi corrispondenti rispettivamente al primo e secondo comma della Professio Fidei: “§ 1. Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell’unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria. § 2. Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente”. 

Per quanto riguarda il terzo comma, è da notare quanto dice la Congregazione per la Dottrina della Fede nella nota annessa alla Lettera Ad tuendam Fidem: “A questo comma appartengono tutti quegli insegnamenti - in materia di fede o morale - presentati come veri o almeno come sicuri, anche se non sono stati definiti con giudizio solenne né proposti come definitivi dal magistero ordinario e universale. Tali insegnamenti sono comunque espressione autentica del magistero ordinario del Romano Pontefice o del Collegio dei Vescovi e richiedono, pertanto, l’ossequio religioso della volontà e dell’intelletto. Sono proposti per raggiungere un’intelligenza più profonda della rivelazione, ovvero per richiamare la conformità di un insegnamento con le verità di fede, oppure infine per mettere in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità o contro opinioni pericolose che possono portare all’errore”. Anche in questi insegnamenti non può cadere il falso, dato che trattano anch’essi di materia di fede o di morale, per cui anche qui si può parlare di infallibilità, anche se manca la nota della definitività. Ma se la Chiesa qui non dichiara la definitività, non vuol dire che essa non ci sia, sempre per il fatto che tratta di fede e di morale e queste verità sono definitive.

Commento

Io sostengo allora che le nuove dottrine del Concilio godono dell’autorità non del primo livello, proprio soltanto dei nuovi dogmi solennemente definiti, ma del secondo e del terzo livello, dove la “definitività” è certamente sinonimo di “infallibilità”, il che vuol dire che si tratta di verità assolute, le quali quindi non possono “fallire”, ossia mutarsi nell’errore.
Il problema vero invece è quello di saper riconoscere in nuove dottrine i loro logici presupposti in dottrine già definite o nella Scrittura o nella Tradizione. In altre parole, si tratta di riconoscere la continuità della dottrina nuova con quella preconciliare. Siccome questa si suppone ovviamente come immutabilmente vera, trattandosi di dottrina di fede, la nuova dottrina sarà per conseguenza vera, in quanto è possibile rendersi conto del fatto che la dottrina nuova non è che una conseguenza o un’esplicitazione tratta da quella preconciliare, intesa come premessa di quanto da questa ha ricavato il Concilio. E si sa che in buona logica, quando si trae regolarmente una conclusione da una premessa vera, anche la conclusione è vera e conferma la premessa, esplicitando le virtualità conoscitive che essa conteneva.

In tal modo in teologia la nuova dottrina o il nuovo dogma è un cosiddetto virtualiter revelatum, ossia virtualmente rivelato, che viene esplicitato inizialmente dai teologi sotto forma di tesi teologica. Nel caso poi che la Chiesa riconosca in questa tesi un dato di fede, può elevarla al rango di dottrina di fede. Il fedele in questo caso non conosce una cosa nuova, ma conosce meglio o in modo nuovo quello che già sapeva. Conosce, come si dice, non nova sed nove, cioè non cose nuove ma un modo nuovo di insegnare le medesime cose.

Che infatti si deve mai aggiungere a quanto Cristo ha rivelato agli apostoli? Non si tratta di aggiungere ma di far capire meglio! Tanto meno si tratta di mutare quella Parola divina, per la quale Cristo ha detto: “cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. In questo caso quindi il nuovo non smentisce né muta l’antico. Qui non esiste un nuovo che sostituisce un vecchio, come sostituiamo le scarpe nuove a quelle vecchie, ma un nuovo che si aggiunge e fa meglio comprendere l’antico, come ad esempio una migliore conoscenza del sistema nervoso si aggiunge a quella che ne avevamo in precedenza e la migliora. 
Il progresso della conoscenza non muta l’oggetto o non suppone un mutamento dell’oggetto, ma ne migliora la conoscenza, a meno che gli oggetti non mutino; ma non è questo il caso della conoscenza di fede, il cui oggetto è immutabile. Per questo ogni Concilio, compreso l’ultimo, al di là di certe apparenze, delle quali approfittano disonestamente alcuni e si allarmano inopportunamente altri, non cambia mai oggetto della fede (sarebbe un tradire Cristo!), ma ce lo fa infallibilmente conoscere sempre meglio. Il vero “progressismo “ non è quello dei modernisti ma quello che lo stesso Concilio ci propone: progresso nella continuità e nella fedeltà.

Così la nuova Chiesa del Vaticano II non è una Chiesa che divora se stessa con la scusa del nuovo e del progresso e getta la precedente nei rifiuti della storia, una Chiesa in rotta con la precedente, ma è la stessa e identica Chiesa di sempre, fedele al dogma immutabile, fondata duemila anni fa da Gesù Cristo, semplicemente conosciuta e illustrata meglio dal Concilio Vaticano II. Il mutamento non riguarda il contenuto intellegibile del dogma sulla Chiesa in se stesso, che ovviamente sarà sempre quello (quoad se) fino alla fine dei secoli, ma riguarda il nostro modo (quoad nos) di conoscere l’immutabile verità, modo che progredisce e migliora continuamente nel corso della storia.

Il vero progresso

Il vero progresso nella conoscenza di valori perenni - e questo è il nostro caso - non avviene contraddicendo quello che si è detto sino ad allora, secondo la concezione storicistica hegeliana o marxista, ma confermandolo, spiegandolo o conoscendolo meglio e più distintamente, con l’aggiunta eventuale di nuovi argomenti di convenienza tratti dalle varie culture e in forme espressive più convenienti. 
In questo senso si può dire che la dottrina dogmatica è sempre identica a se stessa, mutando eventualmente solo la forma espressiva o le formule verbali per un’intelligenza migliore e più approfondita o adatta alle circostanze. 

Facciamo alcuni esempi. Primo, la nuova dottrina conciliare sulla divina Rivelazione contenuta nel cap. I della Dei Verbum, laddove si aggiunge alla definizione dogmatica contenuta nel Concilio Vaticano I la precisazione che la Rivelazione non avviene solo in modo verbale ma anche con eventi, in quanto essa non è da intendersi solo come insegnamento dottrinale o verbale di Gesù Maestro, ma come vera e propria concreta e storica manifestazione di Cristo all’uomo.

Per conseguenza la fede non sarà più soltanto apprendimento intellettuale, ma anche incontro esistenziale e affettivo con Cristo dell’intera persona del credente. Se vogliamo, si tratta di un elemento “esistenzialistico”, ma del tutto innocuo, perché non contraddice affatto ma si congiunge al contenuto essenziale del dogma insegnato dalla Rivelazione. 

È evidente pertanto che qui il concetto di Rivelazione non viene mutato, ma arricchito e meglio illustrato, utilizzando un valore del pensiero moderno e quindi senza alterare l’insegnamento del Vaticano I, ma con la possibilità di entrare ulteriormente nello spessore del Mistero ricevendo nuova luce che aumenta la precedente su di una verità divina immutata ed immutabile. 

Secondo esempio, la libertà religiosa. Ben consapevole della delicatezza dell’argomento, il Concilio si premura di ricordare, se ce ne fosse bisogno, che “il Concilio Vaticano esamina la sacra Tradizione e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi sempre in armonia con quelli antichi”[4]. E più esplicitamente il Concilio, poco dopo, quasi a metter le mani avanti, “dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce sia per mezzo della parola di Dio rivelata, sia mediante la stessa ragione” (n.2; cf n.9). Infatti qui entrano in gioco quattro concetti fondati non solo sull’umana ragione, ma anche sulla Rivelazione e la tradizionale dottrina della Chiesa: quello di persona, quello di coscienza, quello di libertà, quello di religione. Avendo questi concetti un legame con la fede, non è permesso di credere, come fanno alcuni, che qui il Concilio sia caduto nell’errore, quasi che il Concilio abbia approvato quella concezione liberale e soggettivistica della coscienza, che in passato era stata condannata dal Beato Pio IX.

Il Concilio insegna invece che il diritto alla libertà religiosa esige che “in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito entro debiti limiti di agire contro la sua coscienza” (n.2). Il medesimo documento però fa notare anche: 1o, il dovere di tutti di aderire alla “vera religione e all’unica Chiesa di Cristo” (n.1); 2o, l’“obbligo morale di cercare la verità e di aderire ad essa” (n.2); 3o, ricorda che “la norma suprema della vita umana è la legge divina, eterna, oggettiva ed universale” (n.3), e 4o, l’esistenza di un “ordine morale oggettivo” (n.7). 

È evidente allora quale concetto di coscienza risulti da queste premesse poste dal Concilio, del resto in continuità con la tradizione millenaria della Chiesa fondata sul Nuovo Testamento (Rm 2,15; 9,1; 13,5; II Cor 1,12; 10,25-30): la norma suprema non è la coscienza individuale, ma la legge divina, oggettiva ed universale.

A questo punto dobbiamo dire che la coscienza non è la regola prima e assoluta della verità morale, ma questa regola è la legge naturale e divina, percepita dalla ragione e dalla fede. La coscienza ha quindi l’obbligo di adeguarsi a quella regola e, quando è onesta, avverte il dovere o imperativo categorico di farlo (Kant) e sente il rimprovero della coscienza se non lo fa. La coscienza, a causa delle conseguenze del peccato originale, è fallibile, ma se sbaglia in buona fede (“ignoranza invincibile”), resta innocente. La coscienza è regola prossima e immediata dell’agire e il soggetto quindi deve ascoltarla, ma essa a sua volta, per essere retta, deve informarsi presso la regola remota e fondamentale che è la legge morale o il proprio dovere e aderire ad esso. Tutto ciò, se non appare esplicitamente nell’insegnamento del Concilio, è evidentemente sottinteso, dato che corrisponde alla dottrina costante o sempre insegnata o approvata dalla Chiesa[5].
La vera libertà di coscienza è la facoltà di obbedire volontariamente alla legge, in un legittimo spazio di scelte riservato all’individuo entro i limiti della legge; la libertà di coscienza è altresì, come dice il Concilio, possibilità di azione non coartata da violenza, ma spontaneamente emanante dal libero volere, anche se fondata sull’obbligo morale e l’imperativo categorico del dovere. In lege libertas, come dicevano gli antichi Romani. L’azione morale emana certo dal soggetto, ma è regolata dall’oggetto, né è diritto del soggetto, come avviene nel soggettivismo morale, stabilire la legge basilare dell’agire morale. Dunque, nessuna traccia di soggettivismo morale nel Concilio, come dicono calunniosamente alcuni critici sprovveduti per non dire malevoli.

Appellarsi alla coscienza per disobbedire alla legge o all’autorità, non è diritto di nessuno, ma colpa più o meno grave contro i valori che sono in gioco. Infatti, non si tratta più di buona fede ma d’ignoranza arrogante ed affettata. Ci sarebbe al riguardo da chiedersi per esempio se quando Lutero alla Dieta di Worms si appellò alla sua coscienza per disobbedire alla Chiesa e rifiutare le sagge e salutari ingiunzioni che gli venivano fatte, fruì veramente del diritto alla libertà religiosa o non piuttosto si ostinò in una sciagurata ribellione, che tante infelici anime avrebbe trascinato con sé. Con simile atteggiamento infatti qualunque religioso potrebbe rifiutare a capriccio obbedienza al suo superiore sotto pretesto di “libertà religiosa”. Il dovere di seguire la coscienza e il diritto di non essere impedito proclamati dal Concilio, non vanno quindi intesi come tracotante elevazione della coscienza soggettiva a principio dell’agire morale o dell’attività religiosa, ma vanno inquadrati nel contesto citato dell’oggettività dei valori morali e religiosi ed in particolare del primato della religione cristiana sulle altre religioni.

 Il Concilio non parla della coscienza erronea, né distingue l’errore colpevole da quello involontario; ma è chiaro che affermando il diritto-dovere di seguire la propria coscienza e che essa sia libera, implicitamente afferma la dipendenza della coscienza dalla verità oggettiva, senza la quale, come insegna Cristo, non c’è libertà. Se poi il soggetto involontariamente si sbaglia nella conoscenza del bene morale, anche in questo caso, salve le esigenze del bene comune o dell’ordine pubblico, il soggetto dev’essere lasciato libero di seguire la propria coscienza. 

Ora questa dottrina, come ho detto, certamente possiede agganci e premesse nella storia della morale cattolica, e se l’esaminiamo con attenzione, ci accorgeremo che essa è in continuità con quella tradizionale, costituendone un’esplicitazione. 

Un terzo esempio lo troviamo nella dichiarazione Nostra Aetate sul dialogo interreligioso. Il concetto stesso di dialogo, così importante nei documenti conciliari, applicato in molteplici occasioni, come il dialogo interecclesiale, il dialogo politico e culturale, il dialogo Chiesa-mondo, il dialogo ecumenico e quello con i non-credenti, è un concetto con indubbia radicazione biblica e quindi nella divina rivelazione, anche se il Concilio non dà una definizione dogmatica del dialogo. Infatti che cosa è la stessa Alleanza da Mosè a Cristo e la divina Rivelazione se non un dialogo tra l’uomo e Dio? Ebbene, nella Nostra Aetate sono contenute novità di grande rilievo nella storia del Magistero della Chiesa: per la prima volta la Chiesa in tutta la sua storia, trattando di altre religioni, e dello stesso ebraismo, non ne condanna gli errori (tale condanna naturalmente è presupposta), ma prende in considerazione gli aspetti positivi.
Ora, trattandosi di temi teologici, e attesa l’infallibilità della Chiesa in campo teologico, è evidente l’infallibilità del magistero conciliare in questo segnalarci i suddetti aspetti positivi. 

Un’ultima osservazione.

Il linguaggio del Concilio, più che esser quello tradizionale del Magistero, è in gran parte il linguaggio dell’uomo moderno. Inoltre il Concilio ha voluto avere un linguaggio pastorale non solo nei documenti pastorali, ma anche in quelli dogmatici. Ciò comporta vantaggi, perché così la Chiesa si fa meglio capire, ma anche svantaggi, perché il linguaggio moderno, soprattutto in campo filosofico e teologico, è spesso improprio ed equivoco e risente degli errori delle varie correnti di pensiero. 

Ciò ha fatto sì che nei documenti dottrinali vi siano alcune tesi che possono essere interpretate in senso modernista (antropocentrismo, illuminismo, soggettivismo, secolarismo), cosa che appunto è stata fatta dai modernisti, generando quell’esegesi “di rottura” a suo tempo condannata da Benedetto XVI. A tal riguardo il Magistero è intervenuto per chiarire, ma non pare lo abbia fatto finora in modo sufficiente, perché non si è premurato di condannare le false interpretazioni, come per esempio quella rahneriana, le quali invece circolano abbondantemente e liberamente dappertutto, persino nei centri educativi e di formazione della Chiesa, facendo credere a molti che Rahner sia il grande interprete e protagonista del Vaticano II - l’“icona del Concilio”, come qualcuno lo ha chiamato - mentre in realtà ne è il falsificatore, come ho dimostrato in un mio libro[6] insieme con altri studiosi. 

In conclusione, è importante distinguere i vari gradi di autorevolezza degli insegnamenti del Concilio, perché si va da pronunciamenti autenticamente dogmatici, anche se non definiti o definitori (“ex cathedra”), a giudizi e disposizioni pastorali e contingenti, che possono essere del tutto discutibili o addirittura sbagliati, così da richiedere una correzione o un mutamento o un’abrogazione o un ritorno all’antico[7].

Note

[1] Su questa ampia tematica mi permetto di indicare il mio libro Progresso nella continuità. La questione del Concilio Vaticano II e del post-concilio, Edizioni Fede & Cultura, Verona 2011.

[2] Si tratta delle Notificazioni fatte dal Segretario Generale del Concilio nella 123a Congregazione generale del 16 novembre 1964, in appendice alla Costituzione dogmatica Lumen Gentium.

[3] Questo secondo comma è stato di recente inserito nel Codice di Diritto Canonico per volontà a Giovanni Paolo II prendendo spunto dal secondo comma della Professio Fidei.

[4] Dichiarazione Dignitatis humanae, Proemio.

[5] Cf S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, qq.18-19.

[6] Giovanni Cavalcoli, Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede & Cultura, Verona 2009.

[7] Per esempio in campo liturgico forse non sarebbe male recuperare alcuni elementi della Messa vetus ordo. Pare che Benedetto XVI fosse orientato in questo senso.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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08/01/2014 16:18
 
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    .... e non si dica che fosse un tradizionalista, celebrava il nuovo rito, ma si rifiutava di dare la Comunione alla mano perchè, giustamente, il Concilio non lo chiese 

"Io ricordo questo nostro caro padre, insegnante di diritto canonico ci diceva sempre così: id quod voluit, legislator dixit, quod taquit , noluit, cioè quello che il legislatore ha voluto dire, lo ha veramente detto, quello che ha taciuto, non ha voluto dirlo. Va bene, carissimi, questa era l’interpretazione autentica e anche dei testi conciliari. Quindi praticamente è inutile che questi signori vengano a dire: va bene che la lettera del concilio è quella che i vangeli sono veramente storici, ma però lo spirito del concilio e via dicendo. Lo spirito del concilio semplicemente non esiste o per lo meno si potrebbe dire in tedesco che è un gaist, cioè un non spirito, uno spirito piuttosto maligno; allora bisogna essere estremamente attenti a non interpretare male il concilio, sia pure ci sono certi momenti in cui alcuni testi conciliari potrebbero prestarsi anche a questa sbagliata interpretazione...."

P. Thomas M. Tyn O.P. (conferenza su La Chiesa postconciliare)

qui il testo integrale della conferenza....
e nell'immagine il nostro pro-memoria   
http://cristianicattolici.freeforumzone.leonardo.it/d/8767018/Conferenza-sulla-situazione-nella-Chiesa-dopo-il-Concilio-da-meditare-/discussione.aspx















  Ci sono domenicani e domini-cani. Da inquisitori a inquisiti, storia e crepuscolo di un Ordine Religioso

Posted on 12/01/2014 

La crisi dell’ordine domenicano. A che punto è la notte?

È uno degli ordini più importanti della Cristianità. Ha dato fior di santi, San Domenico di Guzman e San Tommaso d’Aquino su tutti, come esempi luminosi per la Chiesa tutta. I suoi predicatori hanno percorso le strade del mondo per portare la Buona Novella e combattere le eresie, fedeli ai dettami del fondatore. Ma dalle sue fila sono venuti anche teologi che hanno contestato, sebbene non apertamente, il Magistero. Soprattutto nella modernità. Recando danni spirituali sia all’Ordine che alla Chiesa. E ora, ci chiediamo, a che punto è la crisi del glorioso ordine domenicano? E c’è una speranza di risalire la china?

di Dorotea Lancellotti dal sito papalepapale.com

L’ idea di Domenico di Guzman, fondare l’Ordine domenicano, è sintetizzata nella nota formula di S. Tommaso d’Aquino «contemplari et contemplata aliis tradere»: contemplare, ossia attingere la verità nell’ascolto e nella comunione con Dio e donare agli altri il frutto della propria contemplazione.

Il programma di Domenico è tutto qui ed è il medesimo che si proposero gli Apostoli: «Noi ci dedichiamo alla preghiera e al ministero della parola» (At. 6, 4).

Ritratto di domenicano

Il domenicano è per sua natura, prima di tutto, un contemplativo. Prima di essere maestro, è discepolo della verità; prima di essere padre e generatore della verità negli altri, è lui stesso generato dalla Verità. Egli «vive la verità nell’amore» – come si esprime l’apostolo Paolo – allo scopo di «far crescere l’umanità verso Cristo» (Ef. 4,15). Vivere in se stesso la verità evangelica è il presupposto per far crescere gli altri verso Cristo.

«Il frate predicatore – scrive il b. Umberto de Romans – attinge nella contemplazione ciò che poi dispensa nella predicazione [...] perciò quanto più uno è contemplativo, tanto più è adatto alla predicazione. »

E nel 2016 saranno 8oo candeline. Una sintesi doverosa

San Domenico di Guzman

E’ bene partire con una breve descrizione e indicazione circa il ramo femminile dell’Ordine domenicano, il quale non fu certo meno fecondo di frutti spirituali, nel campo della santità, di quello maschile.

San Domenico fondò il suo primo monastero di suore quando ancora sognava di poter raccogliere intorno a sé dei sacerdoti addetti alla predicazione. E non dimentichiamo che queste sorores erano delle autentiche monache di clausura, sebbene la clausura del Duecento differisse non poco da quella universalmente riformata poi dal Concilio di Trento.

Ed è un fatto degno di attenzione, non soltanto curioso, sapere dai documenti dell’epoca, che il monastero di Pruille veniva chiamato niente meno che la sacra praedicatio perché, per Domenico, non poteva esserci alcuna predicazione se questa non partiva prima dalla oratio, dalla preghiera, dalla contemplazione. È un dovere storico quanto spirituale, pertanto, riconoscere che le “predicatrici” furono prima dei predicatori. È questo solo un assaggio a quanto abbiamo già riportato nell’articolo dedicato alla Donna nella Chiesa.

A Roma papa Onorio III affidò a san Domenico la riforma dei monasteri urbani, in questo modo si favorì la fondazione stessa di San Sisto Vecchio, vera culla dell’Ordine in Italia. E da qui partiranno le domenicane incaricate di portare a compimento la prima fondazione bolognese, iniziata dalla beata Diana degli Andalò.

Non è cosa di poco conto che per tutto il XIII secolo, le Costituzioni delle suore di Pruille e di San Sisto Vecchio furono accolte con favore crescente anche da molti istituti non domenicani. Da considerare che tali Costituzioni erano quelle dei frati predicatori modificate, naturalmente, dalla femminilità dei soggetti.

Interi monasteri di altri ordini chiedevano di passare al nuovo istituto, implorando l’assistenza spirituale dei figli di San Domenico e, come in tutte le vicende umane, i frati dovettero ben presto difendersi da questa inflazione femminile del loro ordine; il rischio era infatti quello di una sopraffazione di una ondata di simpatia che costringeva non pochi frati ad accettare incarichi permanenti nei monasteri, con grave scapito dell’osservanza regolare e dell’austerità monastica, nonché di un impoverimento di quella vocazione specifica “dell’andare due a due” a predicare il Vangelo.

Alla fine l’ordine dovette abbandonare al clero secolare il governo e la direzione delle proprie suore.

La grave decisione non impoverì comunque l’ordine, al contrario, per nulla disarmate le figlie spirituali di san Domenico continuarono a fiorire e molti di questi monasteri ottennero il riconoscimento, quello del Secondo Ordine Domenicano. Il fascino, l’ideale, il carisma stesso domenicano non risparmiò neppure il laicato cattolico. Fin dai primi tempi molti buoni cristiani si raccolsero spontaneamente intorno ai Predicatori formando delle Confraternite, che poi sfociarono nel Terz’Ordine della penitenza di san Domenico, la cui stella più brillante la troviamo in santa Caterina da Siena, una “laica consacrata” – le mantellate – diventata Dottore della Chiesa.

Quanto al ramo maschile, ben conoscendole figure assai note come san Pio V, il b. Angelico, ed altri qui citati, dato il poco spazio vogliamo citare un papa domenicano beatificato.

Il beato papa Benedetto XI (1240-1304),tanto per descrivere alcuni fatti e il carattere ecclesiale dell’Ordine domenicano, si presenta a noi come l’antitesi perfetta del suo grande confratello Tommaso d’Aquino.

San Tommaso era nato nobile e della potente famiglia d’Aquino, ma detestò per tutta la vita le cariche onorifiche per la sua persona, riuscendo ad evitare per tutta la vita ogni incarico di governo nel suo stesso istituto. Niccolò Boccasino invece nacque da modesti genitori, il padre era notaio del comune e muore quando Niccolò era ancora bambino, lasciando la moglie e un altro figlio in forti ristrettezze economiche.

La sua fortuna, se di questa povertà dignitosa vogliamo parlare, somiglia molto a quella del suo grande conterraneo del secolo scorso, cioè a quella del pontefice San Pio X.

Il domenicano più famoso: s. Tommaso d’Aquino. (altorilievo in cartapesta leccese, fine ’800)

Nel 1254, mentre a Treviso il futuro papavestiva le bianche lane domenicane, san Tommaso d’Aquino aveva iniziato a Parigi la sua gloriosa carriera di insegnante e si preparava al magistero; e prima ancora, nel 1248, il futuro sant’Alberto, maestro di Tommaso – unico vescovo e domenicano a ricevere il titolo di Magno – riceveva una serie di prestigiosi incarichi. L’ordine di san Domenico era all’apogeo del suo splendore.

Sulla pia Bernarda, madre di Niccolò Boccasino, si racconta di un episodio che la tradizione ha voluto conservare nel tempo legato alla elezione del figlio a Sommo Pontefice, e che vogliamo raccontarvi.

Dalla nativa Treviso sarebbe giunta a Perugia – dove risiedeva allora il Papa – per riabbracciare almeno un ultima volta il figlio e vederlo in tanta gloria. Era giunta in città con poveri vesti di popolana. Ma prima di introdurla dal Pontefice, i cortigiani la convinsero, nonostante ne fosse contrariata, a vestirsi con abiti sfarzosi e principeschi che si addicevano, per loro, alla madre di un papa.

Benedetto XI appena la vide entrare imbarazzata sotto quelle vesti che non le si addicevano affatto, si mostrò dispiaciuto e tanto contrariato da non volerla ricevere.

La madre soffrì molto ma comprese di aver sbagliato, rivestì i suoi abiti di popolana e appena il figlio la vide, le andò incontro abbracciandola con infinita dolcezza davanti a tutta la corte.

 

Qualcuno sostiene l’ipotesi che se Benedetto XI avesse avuto la possibilità di governare la Chiesa invece di

morire così prematuramente, forse il protestantesimo non avrebbe avuto il successo che ebbe.

Ci siamo dilungati in questi episodi per sottolineare il carisma che ha sempre caratterizzato l’Ordine di san Domenico dai semplici frati, fino a quelli che ricoprirono alti incarichi come Bartolomé de Las Casas (Siviglia, 1484 – Madrid, 17 luglio 1566), il primo ecclesiastico a diventare vescovo del Nuovo Mondo e che, con profonda ortodossia, non risparmiò la sua difesa contro la tratta degli schiavi dall’Africa e in difesa degli indigeni nativi americani; san Giacinto Odrowaz O.P. in Polonia, il primo domenicano canonizzato dopo il Concilio di Trento e infine Giordano Bruno, la cui storia abbiamo raccontato qui.

Fino a quando, l’epoca dei “Lumi”, le battaglie risorgimentali ed altro, non hanno finito per far penetrare anche qui il sapore dell’apostasia che, seppur mai conclamata nell’Ordine, di certo non salutare.

Le epoche buie della Chiesa: quelle delle persecuzioni o… quelle delle apostasie?

Tra il 1700 e il 1800 i testimoni luminosi domenicani non mancarono. Ma l’Ordine visse una crisi.

Le cronache domenicane riportano un quadrodrammatico della Chiesa lungo l’arco di oltre un secolo tra il 1700 e la fine del 1800.

Siamo nel 1835 e Maestro Generale dell’Ordineè nominato Fr. Giacinto Cipolletti, 70° successore di san Domenico, il quale dovette assistere, impotente, alla quasi completa rovina dell’Ordine a partire dalla Spagna.

Sotto il regno di Ferdinando VII, infatti, l’Ordine si vide dimenticato delle glorie passate e nel 1820 dovette affrontare il decreto che sopprimeva i conventi con meno di ventiquattro religiosi. Nel 1821 pretendeva, ma senza riuscirvi, grazie al rifiuto dei vescovi, di sottomettere i religiosi ai vescovi stessi (ossia cancellare l’identità degli Ordini Religiosi e ridurre a clero i frati); e nel 1834 istituì una commissione per la riforma dei regolari, preludio inevitabile alla loro soppressione.

I mezzi usati furono a dir poco grotteschi, trovandoci nell’età dei lumi, ma molto funzionanti per un popolo superstizioso ed ignorante e non certo più cristiano bensì già avvelenato dalla propaganda laicista, illuminista ed anticlericale del 1700: scoppiò il colera e si sparse la voce che i “frati domenicani avvelenavano le fontane pubbliche”.

Queste dicerie provocarono una vera invasione nei conventi da parte della plebaglia, la quale fu responsabile di centinaia di massacri che, a quanto pare, una certa storia “laicista” sembra aver dimenticato.

Ma non bastava!

Nel 1835 vengono fatte una serie di leggi atte a liberare i religiosi dei vari Ordini dalle loro Regole e Costituzioni, tuttavia poiché i religiosi non volevano abbandonare i propri Ordini e mostravano una forte resistenza, nel 1837 ne fu decisa la soppressione.

 

Venne ingiunto il divieto di portare il proprio abito e la confisca di tutti i beni.

I domenicani dovettero scegliere tra l’esilio o la condizione di preti secolari. In Spagna l’Ordine si spaccò, molti divennero preti secolari, altri presero la via dell’esilio, l’aspetto era desolante ed infernale, l’Ordine completamente in rovina.

Non andava meglio nel resto d’Europa: nella Francia che avrebbe dovuto vantare il diritto-legalità e libertà, l’Ordine domenicano era del tutto scomparso in modo davvero violento; in Germania e in Belgio i frati erano costretti alla clandestinità, nelle nuove e moderne catacombe tirate su, paradossalmente, nell’età dei lumi.

Per non parlare dell’Olanda nella quale i frati svolgevano il proprio ministero travestiti da mercanti. Solo in Austria si registrava la tolleranza per alcuni conventi; in Ungheria, in Russia e in Lituania, i frati si contavano sulle dita di una mano e resistevano fra mille difficoltà. Negli Stati Uniti, addirittura, i domenicani si erano ridotti ad un lumicino.

 

Difficile pensare oggi queste situazioni, ma è storia ed è storia il fatto che la Vergine Santa mantenne la Sua promessa: l’Ordine resisterà ed esisterà fino alla fine del mondo.

Infatti, mentre la situazione appare drammatica un po’ ovunque, già nel 1838, in Italia, l’Ordine registra una forte ripresa, riesce a riaprire ben ottanta Conventi dei cinquecento preesistenti al momento della soppressione napoleonica.

Si sparge la voce e i frati esiliati, dispersi, cominciano a rientrare.

Ne è un esempio il Convento Patriarcale di Bologna nel quale al momento della soppressione vi erano 125 frati, e durante questa ripresa ne fecero ritorno dieci.

 

Intanto il nuovo Maestro Generale,Fr. Angelo Ancarani, 71° successore di san Domenico, chiese a papa Gregorio XVI di erigere a comunità di perfetta osservanza il Convento della Quercia, a Viterbo, dove già nel 1814 era stato fondato un noviziato internazionale.

La notizia è importante per le nostre “cronache” perché da questo convento posto sotto la giurisdizione del Maestro Generale, fu accolto il famoso padre Henri-Dominique Lacordaire con i suoi confratelli, di qui partirono le nuove forze, i futuri restauratori della vita domenicana.

La provvidenza scelse padre Lacordaire per la rinascita dell’Ordine, e non un’esagerazione se alcuni lo definiscono il “rifondatore” in Francia. Lo stesso Maestro Generale accolse il confratello condividendo insieme il suo progetto di reintrodurre il glorioso Ordine di san Domenico sul suolo francese.

Padre Lacordaire, l’uomo (controverso) della rinascita

Vale la pena di ricordare che al momento del primo trionfo padre Lacordaire non era ancora domenicano, ma era abate e teneva i quaresimali a Notre Dame. Così nel 1839, fatta la professione e vestite le bianche lane dopo il noviziato nel convento alla Quercia e a Boscomarengo (Alessandria), fece ritorno a Parigi presentandosi in pubblico con quell’abito domenicano che per troppi anni era stato bandito dalla Francia, e ritornò a predicare a Notre Dame da domenicano riscuotendo un grande successo attraverso nuove e molte conversioni.

In pochi anni riuscì a rifondare ben tre conventi, nei quali stabilì una perfetta osservanza delle Costituzioni.

Famosa la sua lettera sulla Santa Sede, dove riaffermava con forza le sue posizioni ultramontane, insistendo sul primato del Papa, pontefice romano, «depositario unico e permanente, [...] organo supremo della parola evangelica e fonte inviolabile della comunione universale » e sui vescovi. Questo testo guastò i suoi rapporti con monsignor de Quélen, gallicano convinto.

 

In Italia intanto si stavano verificando altri drammi per tutta la Chiesa: con i Moti del 1848 scoppiati in tutta Europa: Pio IX fu costretto a fuggire a Gaeta, anche il nuovo Maestro Generale, tale Vincenzo Ajello 72° successore di san Domenico, dovette fuggire presso amici per raggiungere Napoli. Gli succede Fr. Vincenzo Jandel entrato nell’Ordine grazie ad un incontro con padre Lacordaire, preferendolo alla Compagnia di Gesù nella quale aveva pensato di entrare in un primo momento.

A ragione padre Jandel è paragonato al beato Raimondo da Capua: come lui, con la sua Riforma diede inizio alla rinascita dell’Ordine, nei tempi burrascosi che contraddistinsero tutto il secolo XIX. Gli effetti benefici del suo lungo lavoro durarono per quasi cento anni, possiamo dirlo, fino al Concilio Vaticano II.

E ora. A che punto è la notte?

Un teologo domenicano di oggi: padre Giovanni Cavalcoli.

Forse potremmo dire che la “notte oscura” è passata, piuttosto dovremmo chiederci: quanti danni ha fatto? Fin dove si estendono le sue ombre? Quanti contagiati e quanti resi immuni dalle uscite poco ortodosse di Congar, per non dire di quelle eretiche di Schillebeeckx?

Da una parte ne siamo usciti proprio perchériconosciamo in certi pronunciamenti e atteggiamenti una certa apostasia dalla corretta dottrina, e il riconoscerli ci ha permesso di fare discernimento. Ma d’altra parte è chiaro che il veleno sparso miete ancora vittime, e chissà ancora per quanto tempo.

C’è un bellissimo articolo di padre Giovanni Cavalcoli O.P. sul confratello Schillebeeckx che suggerisco di leggere cliccando qui.

Mentre a cavallo e dopo del Concilio Vaticano II troviamo ancora brillanti domenicani come padre Tito Centi O.P. su don Milani, cliccate qui; così come padre Giacinto Scaltriti O.P. che in un suo volumetto intitolato “Teilhard de Chardin, tra il mito e l’eresia”, con imprimatur ecclesiastico nei primi anni ’60, nel quale il dotto sacerdote domenicano confutava alcune tesi del noto teologo gesuita, considerato uno dei maggiori esponenti della “nuova teologia”, dall’altra parte l’ormai famoso Yves Congar e il confratello Schillebeeckx gettavano le reti usando come esche la Nouvelle Théologie. I pesci che abboccarono non furono pochi!

Ratzinger (uno di questi “pesci” caduti nella rete, ma fortunatamente ne seppe uscire fuori) nel libro autobiografico “La mia vita” scrive: «Mi si rimproverò di aver abbandonato la nuova teologia, in verità e come spiegai a Küng, fu lui a dissociarsi dalla Teologia della Chiesa che ha nell’Aquinate la massima espressione».

 

Yves Congar, entrato nell’Ordine nella Provincia di Francia nel 1925, fu ordinato presbitero nel 1930; nel 1932 iniziò ad insegnare; gli anni dal 1946 al 1956 furono carichi di avvenimenti e di tensioni e costituirono l’oggetto di un diario – Journal d’un théologien 1946-1956 – per ora solo in francese. Successivamente Congar scrisse un diario della sua presenza al Vaticano II – Diario del Concilio – disponibile in italiano in due volumi. Congar si distingue dal confratello Schillebeeckx perché di fatto non fu mai dichiaratamente eretico, mentre il confratello olandese seminò delle vere eresie dottrinali, di carattere dogmatico, anche se Congar non scherzava quando diceva di non credere nell’Inferno eterno!

Scrive padre Cavalcoli: “Schillebeeckx è uno di quei teologi che hanno frainteso l’aggiornamento conciliare. Giovanni XXIII aveva voluto un mutamento nel linguaggio della Chiesa perché il messaggio evangelico fosse più comprensibile agli uomini del nostro tempo, ma non certo un mutamento nei contenuti della fede. Schillebeeckx, invece, col pretesto dell’aggiornamento del linguaggio, ha cambiato anche i contenuti e ciò per una falsa teoria del concetto, il quale, secondo lui, non può essere una fedele rappresentazione del reale, ma è una specie di “modello interpretativo” contingente, mutevole e relativo di una precedente “esperienza atematica” della realtà in se stessa ineffabile, secondo quanto ho già detto sopra”.


   continua..............


[Modificato da Caterina63 12/01/2014 18:04]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Parleremo ora di Congar perché ci ha lasciato nei suoi diari non solo un quadro della situazione, ma anche la stesura di fatti e pensieri dopo aver letto i quali non si potrà più dire: “ma io non lo sapevo”.

Entrambi furono una spina dolente nel fianco non solo dell’Ordine di san Domenico, ma soprattutto della Chiesa di quegli anni, a partire – per Congar – proprio da una interpretazione del Concilio lastricata da profonde affermazioni poco ortodosse.

Dice giustamente padre Cavalcoli a riguardo di Schillebeeckx: “Certamente Roma non prese provvedimenti disciplinari nei suoi confronti, ma resta sempre il giudizio negativo. In tal senso è vero che Schillebeeckx “non è stato condannato”. Ma il fatto che Roma non prende provvedimenti disciplinari contro un teologo ribelle, non vuol dire che il giudizio negativo che dà su quel teologo circa le sue dottrine non sia vincolante per la coscienza del credente. Altrimenti che cosa ci stanno a fare le sentenze della Congregazione per la Dottrina della Fede?”

Eppure il 20 luglio 1960 viene nominato consultore della Commissione teologica preparatoria insieme a Henri de Lubac. Ma non è contento, è convinto di essere con Lubac solo un “oggetto da vetrina”, ma che in fondo la Chiesa non prenderà mai sul serio quel che dicono, e scrive nel suo diario: «È Roma che fa le nomine, e si salva la coscienza e la reputazione ampliando il ventaglio dei nomi, ma solo perché ha già preso le sue precauzioni, e le ha prese in modo efficace, per evitare ogni pericolo. Lubac e io siamo stati nominati per essere messi in mostra. Nella Chiesa c’è sempre una vetrina – attraente – e una bottega. La vetrina mostra Lubac, ma in bottega lavora Gagnebet. Mi sento proprio avvilito» (I,75).

Anche Schillebeeckx è chiamato come perito al Concilio e scrive padre Cavalcoli: “Ad un attento esame non è troppo difficile elencare tutti i punti dove il pensiero dello Schillebeeckx si trova in contrasto con la dottrina della Chiesa e lo stesso dogma cattolico: nel concetto di teologia, di dogma e di rivelazione, nella sacramentaria, in cristologia, nella liturgia, in ecclesiologia, in escatologia, nella stessa concezione del cristianesimo. Nessuno negherà i meriti teologici dello Schillebeeckx, evidenti soprattutto nel periodo giovanile: e questo è certamente stato uno dei motivi che gli hanno meritato la chiamata ad essere perito del Concilio. Lo Schillebeeckx eterodosso si è rivelato successivamente”.


Congar: dalle sue riflessioni non si salva nemmeno un Papa dei suoi tempi.

Confesso che da laica sono un po’ confusa davanti a questo atteggiamento, uno non diventa eterodosso dal giorno alla notte, e se uno non ha dei pronunciamenti chiari e dottrinali, non lo si invita ad un Concilio in qualità di perito, al limite come osservatore. Invece questi domenicani non sono stati semplici spettatori e le loro ombre tutt’altro che diradate, si sono addensate semmai dopo il Concilio, proprio durante il periodo più delicato della sua applicazione, con l’apostasia chiaramente denunciata da tutti i papi da allora e fino ad oggi.

Congar sembra persino infastidito, osiamo dire allergico, dall’antico e, caro alla tradizione, culto mariano. Scende a Roma e si trova nel pieno dell’Anno Mariano indetto da Pio XII (1953-54) e annota sul suo diario: «I muri delle chiese di Roma sono coperti di manifesti di feste, saluti sermoni su Maria Santissima, Immacolata, non si parla che del suo cuore immacolato. Tutti a questa chiesa per la Madre del Divino Amore, per la Madonna del popolo romano [...]. Si direbbe che è quella la religione. E allora è un’altra da quella di S. Paolo e di tutta la rivelazione biblica. Io non voglio entrare là dentro» (F 295).

 

Di nuovo, la Curia generalizia è così solidale con questa romanità mariana, agli occhi di Congar, tanto meschina e che di nuovo provoca un giudizio pesante: «La sera a S. Sabina ufficio bizzarro per la chiusura dell’anno mariano: saluto con preghiera composta dal papa. Ufficio della notte all’una: mattutino, Lodi cantate davanti al SS. Sacramento esposto, un saluto alla Madonna per finire. E domani ancora un saluto per terminare la recitazione del rosario davanti al SS. Sacramento. Si potrà così fare un bel rapporto al Card. Vicario che ha imposto queste veglie [...]. Verità di tutto questo? Nessuna! Valore di risposta ai problemi e ai bisogni degli uomini? Niente! È il “ronron” della macchina che gira dolcemente sotto il segno della doppia e unica devozione al papa e alla Madonna» (F 294).

Più tardi parlerà di “mariolatria”, e cioè che al cristianesimo si sostituisce «un mariano-cristianesimo [...] ho pensato che la questione mariologica fosse lo spartiacque tra due tipi di uomini. In effetti, i mariolatri sono da un lato e i cristiani dall’altro» (I,43).

Un documento importante per la mariologia: Marialis cultus di Paolo VI.

A sconfessare questo atteggiamento tipicamenteprotestante di Congar, saranno tutti i papi da allora ad oggi: Paolo VI con la Marialis cultus (e la proclamazione di Maria Mater Ecclesiae); Giovanni Paolo II con l’Anno Mariano, l’Anno del Rosario e il potenziamento dei misteri con l’aggiunta dei misteri della luce e la stessa Lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae. Benedetto XVI col suo potenziamento verso i Santuari mariani ai quali ha donato sempre una rosa d’oro, la devozione popolare, la visita e il rosario a Pompei, e così papa Francesco del quale ben conosciamo la devozione mariana e che in soli sei mesi ha radunato il popolo cristiano in ben tre rosari pubblici.

La Curia dell’Ordine effettivamente cerca di correggere le sue derive, non tutti i domenicani stavano o stanno dalla sua parte, anzi, possiamo dire che Congar ha contagiato molto più i fedeli al di fuori dell’Ordine che non i confratelli. Trovandosi a Santa Sabina nel 1954 e avendo ricevuto osservazioni allarmate per certe parole usate in un articolo, Congar ricorda ai curiali che la verità o la falsità non sono nelle parole ma nei giudizi. Sennonché, dopo tanto nobile e logico ragionamento, continua con una constatazione tra il comico e il penoso: «Questo spiega il livello della Curia O.P. Una delle cose che mi hanno letteralmente fatto ammalare. Brava gente, molto pii, buoni e degni. Ma, nella vita civile, sarebbero come impiegati o contabili in una piccola casa di confezioni di abiti. Non alla testa dell’Ordine dei Predicatori Pugiles fidei!!! Che cosa sanno del combattimento della fede? In che cosa sono impegnati?» (F 342-343).

Congar era avvilito dal pontificato di Pio XII verso il quale non nascose mai la sua contrarietà, e scriveva così nel suo diario: «Da quindici secoli Roma lavora per impadronirsi – sì, per impadronirsi, per accaparrarsi – di tutti gli aspetti di direzione e di controllo. C’è riuscita. Si può dire che dopo il 1950 il lavoro era compiuto. Ma ora arriva un papa che minaccia di togliere loro alcuni posizioni. La Chiesa sta per avere la parola» (I,68).

Continuità e rottura. Due visioni della Chiesa al Concilio

Queste parole, scritte già nei preparativi del Vaticano II, sono coerenti con quanto Congar scrisse alla madre in una famosa lettera del 10.9.1956: «Conosco la storia [...]. Mi è evidente che Roma non ha mai cercato e non cerca che una cosa: l’affermazione della propria autorità. Il resto non l’interessa che come materia sulla quale esercitare questa autorità [...]. Ad esempio, se Roma si interessa al movimento liturgico con 90 anni di ritardo su tale movimento, è perché questo non esista senza di Roma e perché non sfugga al suo controllo» (F 426).

Congar fa emergere che un papa va bene quando sostiene le sue teorie o idee, una reazione che continuerà anche durante e dopo il Concilio. Ad esempio, quando era in previsione il documento Sacram liturgiam di Paolo VI che rivendicava alla Santa Sede l’approvazione delle traduzioni liturgiche, scrive «Si parla del motu proprio del Papa sulla liturgia. Questo documento toglie praticamente al Concilio ciò che il Concilio aveva deciso» (II,8). Ma questo è falso! Chi aveva deciso e che cosa? A nome di chi parla Congar?

L’altra riserva di fondo, più esistenziale, è sul barocco, sul rinascimentale, sul “monarchico” nella Chiesa. Nella tarda estate del 1932, all’inizio dell’insegnamento annota: «Io e Chenu parlammo a cuore aperto e con freschezza delle mie prime scoperte e percezioni. Ci trovammo profondamente d’accordo. E su questa missione, sulla necessità di “liquidare” la “teologia barocca”» (F 24).

Non solo la teologia, anche l’udienza di Giovanni XXIII lo infastidisce e scrive: «È l’espressione sfarzosa di un

Giovanni XXIII. Congar ha da ridire pure su lui.

potere monarchico» (I,85). Neppure l’inaugurazione del Vaticano II l’11 ottobre 1962 sfugge a tale insofferenza sino a impedire a Congar di restarvi sino alla conclusione.

Ecco alcune riflessioni scritte nel pomeriggiodel fatidico giorno:«Gusto decorativo un po’ teatrale, barocco» (I,146) «[...] questo avvenimento della vita della Chiesa, che io amo, ma che vorrei meno “Rinascimento”, meno costantiniana» (I,146) «Dopo l’epistola lascio la tribuna. Non ne posso più. E, poi, sono oppresso da questo apparato feudale e rinascimentale [...]. Cerco di uscire dalla basilica» (I,147).

Solitamente, atteggiamenti del generedenotano piuttosto una allergia al sacro. Liturgie che, santi come l’eletta Dottore della Chiesa Teresina di Lisieux, lo stesso san Pio X, assorbivano con semplice candore, la dice lunga sulle lamentele di Congar.

Al Concilio con un atteggiamento da schizofrenico

Congar: un mito per molti teologi.

Congar ha pensieri contrastanti non soltanto sulla dottrina, ma anche sulle sue stesse idee e vive il tempo del Concilio in modi e termini assai frustranti per lui.

Laddove scrive: «Ho adottato come norma pratica di fare solo quanto mi è richiesto dai vescovi. Il Concilio sono loro» (I,199). A Concilio concluso riconoscerà che l’opposizione della minoranza «ha dato un contributo che nel complesso si è rivelato felice e positivo. Anche se a volte è stata irritante, ha obbligato a scavare in profondità, a sfumare o a precisare meglio, ad accettare altri aspetti» (II,50).

Per scrivere poi contraddicendosi: «Mi sono impegnato a smuovere l’opinione pubblica perché si aspetti e chieda molto. Ho ripetuto di continuo, dappertutto: forse otterremo il 5% di quanto chiediamo. Una ragione di più per chiedere molto» (I,66).

E non le risparmia neppure ai papi.

Additando come pessimo esempio san Pio V, scrive: «Non riesco ad amarlo e il suo ufficio è troppo ampolloso. Il Rinascimento ha segnato Roma e la Curia! E le istituzioni conservano il segno della loro origine! Il papato moderno è davvero tridentino e post tridentino» (II,309).

Bernardo Guy (che al contrario della leggenda anticlericale fu un onesto, mite e scrupoloso inquisitore) oggi sarebbe costretto a inquisire i suoi stessi confratelli. Alcuni almeno, i più potenti

Ancora peggio per il beato Pio IX,del quale Congar scrive «Che del procedere della storia non aveva compreso nulla [...] sventurato, che non sapeva cosa fosse né l’Ecclesia né la Tradizione, e che ha spinto la Chiesa a essere sempre del mondo e non ancora per il mondo» (I,148).

All’inizio Pio XII sembra salvarsi.Negli appunti serali dopo l’udienza del 26.5.1946, Congar riconosce che «Davanti a lui non ci si sente bloccati da nulla di artificiale» (F 122), l’udienza non è stata banale e «il Santo Padre dà l’impressione di una grande semplicità. Non dice “Noi”, ma “io”. Si ha l’impressione che in lui l’uomo spirituale o semplicemente l’uomo è superiore alla funzione e la domina. Appare desideroso di piegarsi verso gli uomini che sono davanti a lui, di essere aperto con loro, di mettersi al loro servizio» (F 124).

Ma, una volta morto, la memoria su Pacelli precipita: «Il regime soffocante di Pio XII» (I,66), l’«insopportabile satrapismo di Pio XII» (I,67), la necessità odierna di convertirsi «a non pretendere di dettar legge su tutto: una volontà che sotto Pio XII ha assunto dimensioni mai raggiunte prima e ha condotto a un paternalismo e a una imbecillità senza limiti» (I,27-28).

Pio XII: il suo, secondo Congar, fu un regime soffocante.

Pacelli patisce, in verità, il confronto con il beato Giovanni XXIII (un po’ quello che accadde dopo Giovanni Paolo II ed oggi fra Benedetto e Francesco) che ha un necrologio più che positivo, con lui, scrive Congar: «la Chiesa, ma anche il mondo, ha fatto un’esperienza straordinaria [...] ci si è accorti che aveva trasformato la visione religiosa e anche umana del mondo: restando semplicemente quello che era [...] non si tratta di pretendere e di rivendicare con arroganza di essere il vicario di Cristo, ma di esserlo veramente» (I,361-362).

Ma eccolo, subito dopo, affondare il fioretto: peccato che in vita «le sue decisioni e la sua azione di governo smentivano in gran parte tutto quello che aveva suscitato speranze» (I,67), un suo discorso «mi pare molto banale» (I,84) e, peggio, per la festa di san Tommaso all’Angelicum il 7.3.1963: «lungo discorso del pontefice, che sostiene di non aver preparato niente [...] il papa, molto stanco, non mostra alcun slancio oratorio» (I,329).

E naturalmente ce n’è anche per Paolo VI: «È uomo di intelligenza superiore e ben informato. Suscita una profonda impressione di santità». Continuerà Giovanni XXIII ma «sarà molto più romano, più tipo Pio XII: vorrà, come Pio XII, stabilire le cose partendo dalle idee, e non semplicemente lasciandole crescere da sole partendo da qualche apertura prodotta da un moto del cuore. Amerà anche lui il mondo, ma su una linea di sollecitudine» (I,362).

Poi però con il tempo giunge la critica: «Il Papa fa grandi gesti simbolici, ma dietro di essi non vi sono né la teologia né il senso concreto delle cose che quei gesti esigerebbero» (II,233).

Dalla penna di Congar non si salva neppure Bologna. Prima del Vaticano II nel 1950 «alle 16,20 arrivo a Bologna

 

[...]. Alla sera a ricreazione i Padri parlano dell’enciclica Humani generis e mi dicono che prima ancora che apparisse alcuni giornali italiani hanno annunciato che questo documento atteso avrebbe condannato la teologia di P. de Lubac e l’ecumenismo di P. Congar. Bisogna lasciare che i cani facciano la pipì al portone» (F 169).

Durante il Concilio Congar tornerà a Bologna ma per incontrare Alberigo e Lercaro e non i frati, né si degnerà di

alloggiare in convento. Però una visita all’Arca di san Domenico è d’obbligo: «Vado sino al sepolcro di san Domenico. Crollo su un banco, privo di forze, ma prego tuttavia come se avessi molta forza. Alle 18 si celebra una messa. Vi assisto in raccoglimento. Passano molti Padri o confratelli. Andatura da monaci che escono dalla loro quiete separata e protetta, per fare un giro fra gli uomini che frequentano il loro santuario. Antropologicamente, un’impressione mediocre» (I,343).

Il domenicano P. Mario Luigi Ciappi O.P. († 1996), Maestro del Sacro Palazzo e poi Cardinale, è deprezzato da Congar perché cita lo Zigliara (Tommaso Zigliara † 1893, domenicano e cardinale) (I,98). e scrive: è «ultraprudente, ultracuriale, ultrapapista» (I,341).

Congar alla fine cede alle eresie protestanti

Haring, moralista controverso. Sostenuto da Congar.

Nel dopo contestazione e con la svolta di Giovanni Paolo II, Congar tornò flebilmente su posizioni simili ma non identiche a quelle dei Diari.

Così, in un’intervista del 1989 «Accennando alle posizioni del moralista Häring, fortemente osteggiate dalla Santa Sede, disse: “Penso che a Roma si trattino allo stesso modo problemi che non hanno la stessa importanza. È evidente che l’aborto è un crimine, ma la masturbazione…”.

Se la prese con il “giuramento di fedeltà”, dal 1° marzo dell’89 esteso a più categorie di persone: “Non bisogna abusare dei giuramenti. L’ha detto Gesù nel Vangelo”».

Sull’inferno commentò: «È molto difficile parlarne. Lei, ci crede veramente, dico veramente, all’inferno, al purgatorio? A quale inferno lei crede? Sta qui il problema. C’è un inferno al quale io non credo affatto. L’inferno del castigo eterno non è possibile, perché Dio si è rivelato come amore. Dunque, se c’è un inferno, di che inferno si tratta?» (*)

Vengono alla mente le parole di Benedetto XVI: «[La memoria del Concilio] suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile [...]. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ermeneutica della discontinuità e della rottura; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna» (Benedetto XVI, alla Curia il 22.12.2005).

Così come fu chiaro sempre Benedetto XVI, quasi a voler rispondere all’amico Congar, nell’omelia alla parrocchia romana nel 2007: «Per questo è venuto sulla terra, per questo morirà in croce ed il Padre lo risusciterà il terzo giorno. E’ venuto Gesù per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l’inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore».

E giunti a questo punto, come concludere?

Domenicani oggi.

Ai seguaci di Congar, Schillebeeckx, ed altri, a quanti preferiscono la “loro teologia” perché piace, perché è più spendibile o quant’altro, che facciano pure.

Ma se si afferma che questa è “la teologia domenicana”, o la teologia della Chiesa, allora l’affermazione è scorretta e grave da più punti di vista.

La verità contenuta nell’insegnamento della Chiesa non nasce all’improvviso imponendosi, ma è frutto del dibattito di varie tendenze, dove gli oppositori hanno un senso e perché proprio grazie al dibattito la verità stessa può farsi strada ed emergere. La verità nasce, si sviluppa e la si porta con l’insegnamento autorevole, al di là delle opinioni e quali che siano le tendenze storiche del momento. Congar ed altri come lui hanno senza dubbio contribuito al dibattito ma se il Vaticano II fosse stato fatto solo da lui o da Schillebeeckx, che cosa ne sarebbe risultato?

Padre Lagrange. Altro domenicano illustre… e luminoso, a differenza di altri.

Qualcuno pensava di poter affermare che la teologia domenicana è quella di san Tommaso d’Aquino e di Marie-Joseph Lagrange (+1938), che nel 1878 in pellegrinaggio ad Ars, sulla tomba del santo Curato gli affida la sua vocazione domenicana. Nel 1880 incontra la spiritualità di santa Teresa d’Avila, di cui divenne per sempre un fedele devoto. Poi il 15 novembre 1890 fondò l’Ecole Biblique, la famosa Scuola Biblica che tuttavia non era vista di buon occhio dalle Congregazioni romane e anche dai papi Pio X e Pio XI, nonché dai Gesuiti i quali ne criticavano il metodo della critica storica; perfino “Il Vangelo di Gesù Cristo” da lui scritto venne sconsigliato per lo studio dei seminaristi, “i quali hanno più bisogno di pietà che di scienza e, per l’appunto l’opera di padre Lagrange, non è tale da favorire la devozione!”(chi lo dice?) e del quale è stata fatta richiesta, nonostante tutto, della causa di beatificazione. Da non confondersi con padre Reginaldo Garrigou Lagrange (+1964) considerato uno dei più grandi teologi neotomisti cattolici del XX secolo, unisce la preghiera e l’attenzione ai poveri alla ricerca scientifica e all’insegnamento, nonché alla cura d’anime, non sottraendosi al servizio della direzione spirituale. non solo per il loro apporto innovativo nella speculazione e nelle scienze bibliche, ma anche perché entrambi, san Tommaso e Joseph Lagrange, erano stati in un primo momento condannati! (Questa ultima frase non ha senso)

 

Senza dubbio Congar non è assolutamente l’aquinate, e sia lui quanto Schillebeeckx presero le distanze da questi maestri, ma tutti e due sono senza dubbio domenicani, e la loro teologia proviene dal dibattito, dallo studio e dalla ricerca ed è solo questione di tempo, ma i loro errori saranno condannati, perché l’infallibilità appartiene solo all’insegnamento integrale della Chiesa, così come ha ricordato papa Francesco nell’enciclica Lumen Fidei: “La teologia, poiché vive della fede, non consideri il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, costitutivi, in quanto il Magistero assicura il contatto con la fonte originaria, e offre dunque la certezza di attingere alla Parola di Cristo nella sua integrità.”

Morte di s.Domenico. E i suoi frati quanto gli sopravvivranno ancora?

L’Ordine di san Domenico è nella maggioranza ancorato saldamente alla roccia petrina, ben saldo nella barca di Pietro e la storia mostrerà, ancora una volta, che anche queste icone contrarie attuali hanno delle crepe ed anche voragini e non avranno altro futuro se non per ricordare i loro errori.

Note

Tutte le fonti domenicane qui riportate, provengono da:

Ludovico Ferretti e Tito Centi,Vocazioni Domenicane, Edizioni O.V.D.,Firenze 1956

Daniele Penone, I Domenicani nei secoli – Edizioni ESD 1998

alcuni articoli sul diario di Congar di padre R. Barile O.P. che trovate qui  e qui

Diario di Congar: le citazione dei Diari avvengono con una sigla che indica il volume e il numero della pagina:

F = Yves Congar, Journal d’un théologien 1946-1956. Ed du Cerf, Parigi 2001, pp. 464.

I = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 – I. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 540.

II = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 – II. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 526.

(*) – Francesco Stazzari, Yves Congar. «Non sono disorientato» in Il Regno 14/1995, p. 433.

 










Fraternamente CaterinaLD

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  CONSERVATORISMO E PROGRESSISMO:
DUE CATEGORIE GIORNALISTICHE, NON DEL MAGISTERO DELLA CHIESA

 

Il timoniere della barca sta dormendo. Non occorre svegliarlo, per non sentirci rimproverare di aver poca fede. Sa Lui quando e come intervenire. Sta a Lui semmai svegliarci. Quanto a noi, continuiamo a remare, per quanto la nostra azione ci sembri inefficace. Se la barca correrà veramente il pericolo di affondare, penserà Lui a calmare le acque.

 

Autore Giovanni Cavalcoli OP
Autore
Giovanni Cavalcoli OP

 

progressisti conservatori
Progressisti e conservatori, due categorie mai fatte proprie dal linguaggio ecclesiale

Cosa valgono queste due categorie giornalistiche,che tengono banco da cinquant’anni nei grossi mass-media, mai fatte proprie dal linguaggio del Magistero della Chiesa? Esse riflettono una visione superficiale ed estremamente approssimativa delle questioni morali e dottrinali, confondendo il dibattito e la problematica ecclesiali con le controversie e le contrastanti quanto effimere correnti ed opinioni del mondo politico. Come cercherò di dimostrare in questo articolo, esse sono assolutamente inadeguate e fuorvianti rispetto al problema dottrinale che oggi nella Chiesa si è fatto gravissimo. Sono una specie di ipocrita cortina fumogena o, come si suol dire, di “specchietto per le allodole”, che da cinquant’anni i modernisti e i nemici della Chiesa, aperti o nascosti, sono riusciti ad imporre all’opinione pubblica con una potentissima propaganda, connivente la debolezza o l’improntitudine dell’autorità ecclesiastica, per diffondere impunemente i loro errori e vizi morali nella Chiesa.

togliere maschera
è giunta l’ora di togliere la maschera …

Per questo è giunta l’ora di dire basta e di smascherare una volta per tutte gli impostori recuperando la saggezza, l’onestà, la serietà, la precisione e la chiarezza del linguaggio della Chiesa, attestato nella storia di duemila anni di cristianesimo e basato sullo stesso senso comune, che avverte la necessità fondamentale di distinguere, nelle questioni vitali, non tanto il conservare dal progredire, cose certamente rispettabili ma non decisive, quanto piuttosto il vero dal falso, il bene dal male, la giustizia dal peccato. È ammissibile nel linguaggio, quando l’argomento o l’opportunità lo impone, un certo stile indeterminato, diplomatico o sfumato; non si può sempre procedere a colpi di accetta, col rischio anche di essere offensivi (1), questo è vero, ma anche il costume oggi diffusissimo dell’ambiguità sistematica, della slealtà abituale, di quel dire e non dire che ironicamente vien chiamato il polically correct, è cosa ripugnante e sorgente di infiniti mali.

Cardinale martini
ll defunto cardinale Carlo Maria Martini, si prestò come punto di riferimento critico verso Benedetto XVI e leader di una teologia liberal-progressista.

E’ vero che queste categorie fuorvianti, benchè in se stesse non illecite, sono favorite da quell’ala oggi assai potente del mondo e della teologia cattolica, che si pavoneggia narcisisticamente del titolo di “progressista” emarginando con degnazione, altezzoso compatimento e malcelata insofferenza tutti coloro che nella Chiesa non condividono il suo modernismo, dai lefevriani e dai sedevacantisti sino ai cattolici più puri, integerrimi e fedeli e perfino ai progressisti alla Maritain o alla Congar. Ma questo progressismo per loro non è ancora sufficiente, dato che costoro sono talmente avanzati verso la Chiesa del futuro, che considerano lo stesso Concilio Vaticano II e il successivo pontificato come superato ed ancora legato agli avanzi del passato. Il Cardinale Carlo Maria Martini, pochi mesi prima della morte, ebbe a dichiarare sul Corriere della Sera che la Chiesa di Ratzinger è rimasta indietro di due secoli [vedere qui].

 

 

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Il Santo Padre Francesco

Papa Francesco nel suo recente discorso al sinodo ha condannato i “progressisti”, [vedere qui] ma è evidente che si riferiva ai modernisti, i quali da cinquant’anni sono riusciti finora a sopravvivere da parassiti della Chiesa, figurando come i primi della classe, ed a mietere successo nascondendosi sotto l’onorevole titolo di “progressisti”. Infatti è indubbio che il Concilio ha avuto un carattere progressista, in quanto ha promosso il progresso della pietà cristiana, dell’ecclesiologia, della teologia, della morale, del dialogo col mondo e della vita spirituale. D’altra parte, possiamo capire perchè i Papi finora non hanno parlato se non in rarissime occasioni di “modernismo”; perchè tutti abbiamo ancora il ricordo drammatico del modernismo dei tempi di San Pio X, il quale definì il fenomeno come la “somma di tutte le eresie”. Eppure, da cinquant’anni, studiosi di primo piano ed autorevolissimi pastori della Chiesa, come furono Jacques Maritain (2), Dietrich von Hildebrand (3), Cornelio Fabro (4), il Cardinale Giuseppe Siri (5), il Cardinale Pietro Parente (6) ed il Cardinale Alfredo Ottaviani, segnalarono profeticamente il ritorno di un modernismo che si verificò sin dall’immediato postconcilio. È vero che ci fu anche Monsignor Marcel Lefèbvre, il quale però, disgraziatamente, cadendo in un gravissimo equivoco accusò di modernismo lo stesso Concilio. Per questo senza dubbio la parola “modernismo” spaventa. Eppure, ad un’analisi attenta della situazione della Chiesa e della teologia di oggi, le cose stanno proprio così. Naturalmente non si deve dire che questa malattia dello spirito colpisce tutti i pazienti al grado massimo; tuttavia sappiamo bene che per parlare di neoplasia maligna non è necessario che l’organismo si trovi in metastasi, ma è sufficiente una presenza iniziale che, grazie ad un pronto intervento, può essere anche eliminata. Così è lecito usare l’appellativo di “modernista” anche per soggetti nei quali si trovano solo tracce di questa grave malattia dello spirito.

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Opera pittorica di Ruben

L’importante è non confondere il progressismo col modernismo. Il progressismo, come ho detto, è un aspetto del tutto normale e direi obbligatorio della sana vita cristiana. “La carità, dice Sant’Agostino, se non progredisce, non è carità”. E San Paolo esorta tutti a tendere con tutte le forze e ad avanzare continuamente verso la perfezione. La Chiesa, dal canto suo, assistita dallo Spirito Santo, avanza continuamente nella storia verso la pienezza della verità. Il modernismo invece è un falso progressismo; è un tentativo ingannevole e sbagliato che, pretendendo dolosamente di rifarsi al Concilio, vuole ammodernare la vita cristiana mediante un’assunzione acritica della modernità, la quale, invece di essere giudicata dal Vangelo, pretende essa stessa di giudicarlo. Il progressismo legittimo, pertanto, può essere espressione di una sana propensione per il nuovo, effetto di una libera scelta o preferenza del tutto normale di certi fedeli all’interno della Chiesa, maggiormente interessati di altri all’elemento dinamico, evolutivo e propulsivo. Niente di male, anzi è un gran bene. Un prezioso servizio, certo non privo di rischi, che vale la pena di correre al fine di suggerire vie nuove, progetti di ricerca e di realizzazione, onde favorire l’avanzamento della Chiesa nella storia verso la pienezza escatologica.

tradizionalisti
Lo splendore dell’antica liturgia è un patrimonio di fede che non può essere disperso né andare perduto

Indispensabile e vitale, nella Chiesa come nella teologia, è inoltre un certo elemento o ufficio di conservazione o di tradizione, in quanto si tratta di approfondire, chiarire, esplicitare, sviluppare, migliorare, far crescere e progredire un patrimonio, potremmo dire un tesoro divino, incorruttibile, immarcescibile ed immutabile di valori teoretici e morali, “non negoziabili”, universali ed assoluti, rivelati, comandati e fondati da Cristo e da Lui affidati agli apostoli. In questa luce San Paolo comanda a Timoteo: «Custodisci il deposito» [I Tm 6,20]. Evidentemente non si tratta di restare attaccati a usi, istituzioni, cose, dottrine del passato che, avendo esaurita la loro funzione, o mostratesi dannose, non servono più, non hanno più nulla da dare ed anzi diventano pericolose: ecco il “tradizionalismo” condannato dal Papa nel citato discorso. Questo “tradizionalismo” non sarebbe fedeltà, ma arretratezza e impedimento al progresso, come si suol dire, “una palla al piede” o addirittura un veleno, come sarebbe per esempio il consumare un cibo scaduto o il “mettere la museruola al bue che trebbia” [I Cor 9,9].

Nokter Wolf
Dom Notker Wolf, abate primate della confederazione benedettina, durante un concerto rock

Progressismo e sano conservatorismo si richiamano a vicenda, così come un organismo ha bisogno ad un tempo di crescere mantenendo la propria identità. Un fissismo rigido e chiuso, senza movimento e adattamento, o per converso il movimento disordinato proprio della dissoluzione di un corpo privato della propria identità non sono i fenomeni della vita, ma della morte. Il conservatore, come il lefevriano, che si oppone al progressista o il progressista modernista, che rifiuti il conservatore sono entrambi degli estremisti che rovinano la Chiesa e la conducono fuori della verità. È urgente pertanto apportare alcune modifiche a un certo modo di esprimersi su queste questioni. Per esempio, nel grande dibattito recentemente avvenuto attorno alla vicenda e alle conclusioni del sinodo dei vescovi sulla famiglia, bisogna fare alcune puntualizzazioni. La grande stampa modernista e massonica si è compiaciuta di presentare la corrente del Cardinale Walter Kasper come “progressista” e vicina al Papa, mentre la corrente degli ormai famosi cinque cardinali includente il Cardinale Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede è stata calunniosamente o quanto meno impropriamente spacciata come “conservatrice” e contraria al Papa “progressista”. Questo significa, come si usa dire, cambiare le carte in tavola in modo perfido e sleale. Mettiamo quindi le cose a posto. I cinque cardinali, che non hanno fatto altro che ricordare i valori essenziali e dogmatici del matrimonio e della famiglia non sono affatto “conservatori”, ma perfetti cattolici. il Cardinale Kasper ed amici, per converso, con i loro presupposti malcelatamente relativistici e storicistici, non vanno chiamati “progressisti”, ma semmai modernisti.

Paolo VI
Il Beato Pontefice Paolo VI

Al Papa poi, ovviamente super partes grazie al carisma di Pietro e come maestro della fede, se vogliamo proprio dare una qualifica, potremmo assegnargli al massimo quella di progressista, ma non alla Rahner o alla Kasper o alla Küng, bensì alla Paolo VI, alla Maritain o alla Congar, non certo, quindi, un modernista, con buona pace dei modernisti che se lo vorrebbero accaparrare. Anche un Pontefice è libero di preferire una data corrente teologica o di esprimere una sua linea culturale personale, che nulla ha a che vedere con il suo ufficio di infallibile dottore universale della Chiesa, al di là di tutte le opinioni o possibili tendenze teologiche. Se quindi c’è uno contro il Papa, maestro della fede, al di là delle sue sbandierate e inattendibili dichiarazioni di rappresentare il Papa, questi è proprio Kasper; e se c’è uno col Papa maestro della fede, questi sarà proprio il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Non si venga quindi a raccontarci delle fandonie. I giornalisti improvvisati teologi, prima di scrivere delle corbellerie, si facciano istruire da chi di teologia se ne intende un po’ più di loro.

Un’ultima considerazione su questo argomento, ed è questa. Il problema del modernismo è in se stesso molto più serio di quello del conservatorismo o del lefevrismo. Senonchè il primo è molto più difficile da risolvere che non il secondo, perchè mentre i lefevriani e affini costituiscono una piccolissima minoranza, quindi di assai scarso potere, i modernisti, dopo un indefesso lavoro di scalata ai vertici, che dura da cinquant’anni, sono ormai riusciti a conquistare nella Chiesa e nella stessa gerarchia un enorme potere. Si capisce allora come, mentre è facile intervenire nei confronti dei lefevriani, dei conservatori e dei tradizionalisti, è assai più difficile eliminare il modernismo, dato che ne sono impelagate proprio quelle autorità che dovrebbero intervenire. È, come ha detto umoristicamente un bravo giornalista, come mettere i topi a custodire il formaggio. In tal modo è evidente l’ingiustizia che oggi si sta attuando. Sono i cosiddetti “due pesi e due misure”. Esempi eclatanti e paradigmatici sono da una parte la persecuzione in atto nei confronti dei Francescani dell’Immacolata e dall’altra l’impunità e il permanere del successo enorme del quale tuttora gode il rahnerismo, tuttora perdurante dopo cinquant’anni, nonostante le opposizioni e denunce di illustri teologi. C’è infatti da considerare che, se da una parte i lefevriani hanno almeno rispetto per l’immutabilità del dogma mentre respingono il progresso dogmatico, i modernisti sono molto peggio, a causa del loro relativismo ed evoluzionismo dogmatico, che li porta a distruggere tutti i dogmi e scalzano le basi della fede (7) conducendo le anime all’apostasia ed all’immoralità, al di là di tutto il loro finto cattolicesimo.

Burke de Mattei
Il cardinale Raymond Leonard Burke alla Marcia per la Vita, alla sua sinistra il prof. Roberto de Mattei che da anni ne è il principale organizzatore

Il rimedio o per lo meno un importante rimedio a questo clima di falsità e di ingiustizia, per il quale, secondo un’efficace espressione del Cardinale Raymond Leonard Burke, sentiamo il “mal di mare” nella barca della Chiesa che pare senza timoniere in mezzo alla tempesta, sembra essere da parte del Magistero una decisa, saggia e coraggiosa ripresa dell’autentico e genuino linguaggio dottrinale e pastorale, che sempre ha distinto le grandi guide della Chiesa, i grandi riformatori e i santi pastori e maestri, quella sapienza pedagogica, catechetica, terapeutica, risanatrice ed evangelizzatrice della Chiesa, ispirata alla Parola di Dio, guidata dallo Spirito, sapienza educatrice che eccelle su ogni altra scuola di teologia, di spiritualità, e di perfezione morale e di virtù dell’umanità. In particolare bisogna che la Chiesa torni a parlare della distinzione dell’eresia dal dogma, dell’ortodossia dall’eterodossia, ossia in sostanza del vero dal falso nel campo della fede, così come è normale per il medico parlare di malattia e di salute. Qual è quel medico che non si azzarda di dire al malato che è malato? C’è troppo scrupolo nelle autorità e fra i pastori di parlare francamente di errore, quasi che ciò possa offendere l’errante. Certo occorre saperne parlare, ma il saperne parlare è in realtà a tutto vantaggio dell’errante e di coloro che da lui sono ingannati. Oggi ci sono centinaia di migliaia, per non dire milioni di cattolici o comunque di persone ingannati dagli eretici.

correzione
Il Santo Padre Benedetto XVI

Non serve a nulla far finta di non vedere o limitarsi a condanne o denunce vaghe e generiche, che non disturbano nessuno, se non peggiorano la situazione degli erranti e finiscono col dare mano libera agli impostori. Sembra che il Magistero da tempo sia preso da un eccessivo riguardo per gli erranti, che poi si capovolge a loro stesso danno. Non dovrebbe temere di toccare teologi o pastori famosi o di grido, anche se vicini alla stessa Santa Sede o appartenenti alla stessa Curia Romana od a Facoltà pontificie. La franchezza con la quale i cardinali fedeli hanno criticato, a difesa del Magistero della Chiesa, i confratelli che sbagliano, è esemplare e confortante. Era ora che i buoni cardinali uscissero allo scoperto. Naturalmente i modernisti si lamentano che Roma è troppo severa. Ma questo si capisce benissimo e non dobbiamo tenerne alcun conto. La denuncia dell’errore serve proprio a correggere l’errante, mentre un eccessivo riguardo, un linguaggio impreciso e generico, troppo morbido e indulgente non è misericordia, ma alla fine è connivenza con l’errore, col danno evidente dell’errante.

timone
timone

Un linguaggio timido, balbettante e tergiversante mostra mancanza di convinzioni, desideri di plauso e non genera alcun rispetto, non serve a moderare gli arroganti ed anzi suscita solo riso o la compassione. Le cose devono essere chiamate col loro nome. Occorre essere cauti prima di qualificare una proposizione come eretica; ma se ci accorgiamo con certezza che è eretica, si deve dire che è eretica. Occorre certo a volte, anzi di solito, essere miti e delicati negli interventi, aver pazienza e saper attendere. Ma per scuotere una coscienza addormentata o spavalda, occorre energia e severità. Le espressioni allusive ed eufemistiche, le circonlocuzioni, le parafrasi o le perifrasi, se elevate a sistema, sono assolutamente inefficaci a mostrare i mali e a correggere i costumi e le idee sbagliate, come dimostra ad abundantiam l’esperienza di chi si dedica all’educazione, alla formazione del prossimo o alla guida delle anime.

Il timoniere della barca sta dormendo. Non occorre svegliarlo, per non sentirci rimproverare di aver poca fede. Sa Lui quando e come intervenire. Sta a Lui semmai svegliarci. Quanto a noi, continuiamo a remare, per quanto la nostra azione ci sembri inefficace. Se la barca correrà veramente il pericolo di affondare, penserà Lui a calmare le acque.

 

 

Fontanellato, 3 novembre 2014

 

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NOTE

(1) Cf Le paysan de la Garonne. Un vieux laïc s’interroge à propos du temps prèsent, Desclée de Brouwer, Paris 1966.
(2) Cf Le paysan de la Garonne. Un vieux laïc s’interroge à propos du temps prèsent, Desclée de Brouwer, Paris 1966.
(3) Cf Il cavallo di Troia nella città di Dio, Edizioni Giovanni Volpe, Roma 1969.
(4) Cf L’avventura della teologia progressista, Rusconi Editore, Milano 1974.
(5) Cf Getsemani. Riflessioni sul movimento teologico contemporaneo, Edizioni della Fraternità della SS.Vergine Maria, Roma 1980.
(6) Cf La crisi della verità e il Concilio Vaticano II, Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1983.
(7) Una “fede”, per esempio, come quella predicata dal card.Martini, nella quale è intrinseco l’ateismo o come quella preconizzata dal card.Ravasi, che porterebbe in se stessa il dubbio, o la fede “atematica” di Rahner o la fede non come dottrina ma come “incontro” o “esperienza” che fede è?





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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