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L'Ordine domenicano ha compiuto 796 anni, il 22.12.2012..... ci avviamo verso gli 800

Ultimo Aggiornamento: 07/01/2013 11:34
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07/01/2013 11:16
 
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Come asceta, egli domanda alla penitenza di purificarlo, di prepararlo alla carità, di proteggere e di far crescere in lui l’uomo interiore.

Come contemplativo, nel silenzio egli domanda allo studio delle scienze divine, alla lettura assidua dei libri santi, alla preghiera privata e liturgica di riempire l’anima sua di vita soprannaturale.

Solo allora egli diventa apostolo.
Quando l’anima sua è piena di vita interiore, riboccante di carità, si rivolge verso i suoi fratelli, per far loro parte delle sue ricchezze intime. E il suo apostolato protetto dalle pratiche claustrali contro i pericoli inerenti ad ogni azione esterna, attinge dalla contemplazione un’efficacia somma.
Le ore più importanti del Predicatore, le più cariche di frutti futuri, in cui egli raggiunge il punto culminante della sua vocazione, sono quelle che egli impiega nell’assimilarsi a Gesù Cristo nella contemplazione.
Ecco l’eccellenza e il punto più alto della sua vita.

Con tre parole S. Tommaso riassume la spiritualità domenicana e ne esprime l’originalità: contemplata aliis tradere (rendere partecipi e comunicare agli altri la propria contemplazione).
Anche altri Ordini antichi o più antichi di quello dei Predicatori sono votati alla contemplazione. Essi portano i loro religiosi all’unione con Dio attraverso l’ufficio divino della liturgia delle ore e le osservanze della regola. Essi si interessano della salvezza del prossimo soccorrendolo ordinariamente con la preghiera e con la penitenza. Ma non si dedicano, se non in modo secondario, alla opere esterne di carità fraterna.
All’opposto, la maggior parte degli istituti moderni che sono direttamente consacrati all’azione hanno abbandonato le antiche pratiche nelle quali i nostri padri trovavano inesauribili risorse.
L’Ordine di S. Domenico unisce in una sintesi superiore queste due concezioni della vita religiosa. Non é né unicamente attivo, né unicamente contemplativo. Esso combina questi vari elementi e li fonde in una sintesi del tutto nuova.
Nella spiritualità domenicana la contemplazione e l’azione, anziché opporsi, si uniscono e si fortificano reciprocamente.
La contemplazione prepara e produce l’azione, l’alimenta, la feconda.
L’azione, secondo il pensiero di Santa Caterina da Siena, non è altro che una pienezza interiore che trabocca e si espande.
Verrebbe meno alla sua spiritualità il Frate Predicatore che, confondendo la sua vocazione con quella dei figli di S. Bruno o di S. Bernardo, si rinchiudesse nella sola contemplazione e cercasse esclusivamente un’unione più intima con Dio dimenticando di essere destinato alla salvezza dei suoi fratelli.
Ma peggio ancora s’ingannerebbe il Predicatore che si lasciasse trascinare da un’azione febbrile verso il prossimo e lo portasse a trascurare quelle pratiche di vita conventuale che sono ordinate a dare alla sua azione una forza calma e continua, una sicurezza, un’ampiezza e un irradiamento soprannaturale, che sono condizioni indispensabili per un apostolato fruttuoso.
In una parola, il Frate Predicatore si prepara all’esercizio dell’apostolato abbracciando le esigenze più radicali del Vangelo (i consigli evangelici) e mediante la pratica della perfetta rinunzia evangelica e mediante la vita contemplativa.

Capo I
La radicalità evangelica

1. L’essenza della vita religiosa
La Chiesa ha sempre pensato che la pratica dei consigli evangelici costituisca lo stato normale di chiunque desidera esercitare il ministero sacro.
I Dottori e i Santi furono sempre d’accordo nell’insegnare che questo tipo di vita praticato da Gesù e continuato dagli Apostoli sia il più conforme alla vocazione dei ministri di Dio e quello che li mette in grado di compiere più efficacemente la loro missione soprannaturale.
Secondo S. Tommaso, mediante questo stile di vita apostolica il battezzato si consacra totalmente al servizio di Dio e si offre a Lui in olocausto”7.
Gli Apostoli e i primi sette diaconi vissero in questo modo e “dal loro esempio sono derivate tutte le forme di vita consacrata”8.
Questa vita viene detta perfetta perchè conduce alla perfezione della carità.
Non si deve dimenticare che molti sono gli ostacoli che ci impediscono di raggiungere la completa unione con Dio, in cui consiste la perfezione dell’uomo.
Dagli autori spirituali vengono ricondotti ordinariamente a tre categorie: i beni esterni, i beni del corpo e i beni dello spirito. Essi distraggono lo spirito e dividono il cuore.
Ebbene, la vita religiosa li allontana. Essa ha il compito di separare l’uomo da tutto ciò che non è Dio o di Dio.
Col voto di povertà, il religioso rinunzia ai beni esterni. Abbandona non solo ogni proprietà personale, ma anche il libero uso d’ogni bene materiale.
Col voto di castità, sacrifica i beni del corpo, rinunzia ad avere una famiglia terrena e si astiene da qualunque piacere carnale, legittimo in altri stati.
Col voto di obbedienza va ancora più in fondo: raggiunge l’ultima radice del peccato sacrificando la sua libertà e sottomette la sua volontà, e per ciò stesso tutti gli atti della sua vita, ad un superiore rappresentante di Dio.
Egli fa questa triplice rinunzia, mediante un atto magnifico che lo innalza al punto culminante della grandezza morale, non per un giorno o per un tempo della sua vita, ma per sempre. Si obbliga alla perfezione usque ad mortem, come dice la formula della professione domenicana.
Così sfugge alle intemperie legate alla fragilità e ai ritorni della stanchezza umana.
Fissandosi nella carità perfetta, si lega indissolubilmente a Dio e, per quanto è possibile quaggiù, partecipa alla stessa immutabilità dei beati.
I tre voti di povertà, di castità e di obbedienza portano dunque il religioso alla santità, alla pienezza dell’amore. Essi gli permettono di rendere a Dio tutto quello che egli ha da lui ricevuto: i suoi averi, i suoi piaceri, il suo cuore, il suo intelletto, la sua volontà, insomma tutto se stesso.
Essi fanno del religioso “un’ostia vivente, santa e gradita a Dio” (Rom 12,1).
Per questo S. Tommaso dice che la professione religiosa è un olocausto.
I Padri della Chiesa la paragonano al martirio.
I martiri e i religiosi avranno la medesima ricompensa, assicura S. Bernardo: come il martirio, così la professione religiosa dà tutto per sempre.
Quando il religioso ha pronunziato queste due parole, così brevi e così grandi: promitto obedientiam, egli non appartiene più a se stesso, nulla più è suo, ma tutto è di Dio.
S. Tommaso insegna formalmente che la professione solenne è una consacrazione, così reale e così profonda che tutti gli atti del professo appartengono alla virtù della religione e “appartengono al culto divino come una specie di sacrificio”.
Ciascuno dei suoi atti, per umile che sia, è un atto sacro e talmente sopraelevato che, come dice il nostro Venerabile Taulero, “la minima opera che egli fa per ubbidienza è molto più gradita a Dio e vale incomparabilmente di più dell’azione più grande che possa compiere, in cui l’ubbidienza non ha parte”.
Tale è l’essenza della vita religiosa e tale è lo stato in cui la Chiesa vorrebbe impegnare tutti i suoi ministri, i quali, secondo quanto dice S. Pietro, devono essere “il modello del gregge”.
S. Domenico, fondando l’Ordine dei Predicatori, non poteva far altrimenti che basarlo su questa triplice rinunzia, poiché senza di essa non potrebbe esserci vita religiosa.
Ma dando ai suoi figli una missione speciale, indicò anche uno speciale modo di metterli in pratica.
Del resto è superfluo osservare che, pur restando essenzialmente la stessa, la pratica dei consigli evangelici riveste diverse sfumature secondo lo scopo che ci si prefigge. Ad esempio, chi si dedica all’insegnamento, non praticherà la povertà come il Trappista che coltiva la terra.
Essenzialmente apostolo, il Frate Predicatore pratica i tre voti secondo le necessità dell’apostolato. Egli è povero, casto e ubbidiente come tutti i religiosi ma lo è così come deve esserlo un apostolo consacrato alla salute delle anime attraverso la predicazione della dottrina.
Perciò, benché comune a tutti gli Ordini, la pratica dei voti nella vita domenicana ha una sua fisionomia particolare.

     2. La povertà

       1. La povertà religiosa prima di S. Domenico


Nei primi secoli della Chiesa il clero viveva nella povertà evangelica. I chierici si sentivano obbligati a rinunciare ai beni della terra e ad astenersi dal matrimonio.
Infatti non è possibile la perfetta vita comune senza mettere in comune tutti i beni e senza vivere quella stretta dipendenza dall’obbedienza nel loro uso che è in fin dei conti la nota caratteristica della vita perfetta, il tratto più rilevante che manifesta con sicurezza l’appartenenza a Cristo.
Gesù, nato e morto povero, vuole discepoli poveri e mette la povertà come prima condizione della vita perfetta: “Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21).
Per molto tempo i chierici hanno praticato alla lettera questa perfetta rinuncia e tenevano tutto in comune. Era la comunità che possedeva e che distribuiva ai chierici le povere risorse necessarie al loro mantenimento, come si faceva ai primi poveri di Cristo.
Stando a quanto dice il teologo Tommasino le prime deroghe a questa disciplina primitiva sono del secolo VI. Fu il tempo in cui si cominciò a tagliare una parte dall’insieme dei beni della Chiesa, che fino ad allora erano indivisi, per meglio servire un’opera speciale o un chierico.
L’abuso inizialmente non era grave. Ma nei secoli IX e X esso si sviluppò e finì con invadere tutta la gerarchia. Ad imitazione dei possedimenti feudali, si vide allora apparire e poi moltiplicarsi quello che si chiamò “il beneficio”. Come i capi militari si dividevano i frutti delle loro conquiste, così i ministri dell’altare si dividevano i beni della Chiesa considerati fino allora come il patrimonio dei poveri. I chierici si fecero proprietari.
Quando S. Domenico fondò il suo Ordine l’abuso si era generalizzato e radicato già da un pezzo. La maggior parte dei Vescovi erano alti signori feudatari, spesso più occupati dei loro ricchi domini che degli interessi spirituali del loro gregge. Il gran numero dei beneficiari si addormentava nel godimento delle proprie rendite.
Divenne fatale che la sacra gerarchia cadesse nell’ignoranza e nel rilassamento dei costumi e che gli eretici, specialmente gli Albigesi, si ingegnassero a trarre profitto dalla sua decadenza e suscitassero l’ira delle moltitudini e la cupidigia dei principi contro i beni degli ecclesiastici.
Papa Innocenzo III, in una lettera ai suoi Legati in Linguadoca (31 maggio 1204), scrisse: “I Pastori sono divenuti dei mercenari. Pascono se stessi invece dei loro greggi. Cercano solo la lana e il latte delle pecore e poi lasciano fare al lupo”.
È vero che nella medesima epoca la povertà primitiva era ancor praticata negli Ordini monastici e in quella porzione del clero che aveva conservato le tradizioni apostoliche. E proprio per questo fu chiamato clero regolare, a differenza dell’altro, ormai secolarizzato. Questo clero fedele alla vita perfetta si espandeva in ferventi Congregazioni di canonici, di cui la più diffusa era quella dei Premostratensi.
Ma se canonici e monaci erano personalmente poveri, le loro Abbazie e priorati invece non lo erano. Le Comunità di Cluny, di Citeaux, di Prémontré e degli altri Ordini possedevano sovente vasti domini, secondo le costituzioni più o meno strette che le reggevano.

2. Il concetto domenicano della povertà

Ci voleva altro per rimediare efficacemente alla secolarizzazione del clero a motivo della ricchezza.
Dio ispirò il rimedio ai due grandi Patriarchi, che ben sovente la Chiesa si compiace di associare nei suoi elogi: S. Domenico e S. Francesco d’ Assisi.
Più o meno nel medesimo tempo e indipendentemente l’uno dall’altro, ebbero l’ispirazione di applicare più alla lettera la regola fondamentale della vita religiosa: vendi quello che possiedi (Mt 19,21). E vollero mettere in pratica in maniera più stretta la povertà evangelica rinunciando ad ogni proprietà non solo per i singoli, ma anche per gli Ordini che fondavano.
Fu un’ispirazione generosa, che l’esperienza rivelò magnificamente feconda. Nata nel medesimo tempo nel cuore dei due Santi, essi la misero in atto ciascuno per conto proprio, senza essersi concertati, mossi unicamente dal triste spettacolo dei medesimi abusi e dal medesimo sentimento circa i bisogni della Chiesa.
San Domenico allargò pertanto il concetto tradizionale della povertà: non contento di spogliare ciascun religioso, impose alla comunità la rinunzia ad ogni ricchezza. Il convento stesso divenne povero e incapace di possedere proprietà o rendite. Individui e comunità dovevano vivere di elemosine.
Per questo l’Ordine dei Predicatori fu chiamato Ordine mendicante.
Il santo Patriarca per primo fu un raro modello di perfetta rinuncia.
Sebbene non l’abbia espresso con parole, come fece il suo grande amico di Assisi, di fatto però anche lui, al dire di Santa Caterina, “elesse per sposa la Regina povertà”.
Era impossibile condurre una vita più povera e più distaccata. Aveva solo una tonaca, la più grossolana del convento. Quando bisognava lavarla, doveva prenderne in prestito un’altra. La sua cella era la più angusta e la più scomoda. Mangiava solo una portata, volendo anche nel cibo regolarsi come i più diseredati. In viaggio non usava mai cavallo o vettura, ma andava sempre a piedi, senza denaro, senza provviste, vivendo di elemosine, coricandosi sulla paglia o su una tavola, felice se era accolto male. Era, come dice il B. Giordano di Sassonia, “un vero amante della povertà”.

3. La povertà mezzo d’apostolato

Ora sappiamo perchè San Domenico amasse tanto la povertà.
Certamente trovava in questo spogliamento assoluto il mezzo di soddisfare il suo incomparabile amore per Gesù povero.
E sapeva pure che la stretta povertà sarebbe stata per i suoi figli un efficace mezzo di santificazione personale.
Ma la storia ci dice anche che nella pratica della rinuncia perfetta egli aveva delle preoccupazioni apostoliche.
Va detto che San Domenico considerò la povertà assoluta innanzitutto come un potente mezzo di apostolato.
All’inizio della sua predicazione in Linguadoca, nel 1206, si era rattristato nel vedere la grande influenza presso il popolo causata dalle apparenze di povertà dei predicatori eretici. E, d’accordo col Vescovo d’Osma, persuase i Legati pontifici ad abbandonare il loro apparato di opulenza. Spogliatosi egli stesso di ogni lusso, iniziò la predicazione con la santa povertà.
Appena ebbe riuniti alcuni compagni nell’apostolato, fece loro condividere il suo genere di vita e li votò alla mendicità.
E fece questo per dare alla parola santa una maggior efficacia.
Lo spogliamento assoluto del Frate Predicatore e la pratica integrale della dottrina avrebbero toccato i cuori e avrebbero compiuto quello che la parola aveva cominciato.
Gli uomini sono sempre scossi dal disinteresse. Essi sono così attaccati ai beni materiali che, quando vendono un uomo che rinuncia a ciò che essi cercano con un ardore mai soddisfatto, ne sono stupiti e ne rimangono convinti.
Giovanni Joergensen racconta che, dopo la sua conversione, quando andava a trovare un Benedettino dell’Abbazia di S. Bonifacio, “gli bastava entrare nella povera cella, di cui tutta la mobilia si componeva di un tavolo, di un letto, di due sedie e di un inginocchiatoio, perché questo gli facesse più effetto che interi volumi apologetici” (Vita vera).
La stretta povertà, modellando il Frate Predicatore su Gesù, sarà la sicura garanzia della sua sincerità e farà di lui un apostolo. “Infatti l’apostolo non è solo un uomo che sa e insegna per mezzo della parola. Ma la sua sola presenza è già un’apparizione di Gesù Cristo9.
Il B. Umberto de Romans espone con belle espressioni queste medesime idee e mostra in modo particolare come i beni temporali siano l’occasione di un’infinità di distrazioni e di sollecitudini. L’anima ne diventa schiava e non ha più quella libertà di procedere che le permette di consacrare all’opera di Dio tutte le sue energie vitali.
Dice: “Ne è testimonio quel santo predicatore che, spogliatosi di tutto, si era però riservato un asinello per il suo servizio. Egli s’accorse che quell’asinello richiedeva da lui molte cure: bisognava provvedere al suo nutrimento, non smarrirlo, assicurarsi che fosse in buone condizioni. In breve, l’asinello era per lui una continua preoccupazione, anche quando egli predicava.
Aver abbandonato ogni cosa per esser libero e trovarsi perpetuamente in pena per un asino parve a questo sant’uomo un’ironia intollerabile. Donò il suo asino e fece i suoi viaggi a piedi””10.

4. La povertà rimane pur sempre un mezzo

In ultima analisi, anche in questo distacco dai beni terreni, il Frate Predicatore vede “la santa predicazione universale”, a cui è votato per volontà della Chiesa.
Collocato di fronte ai beni materiali, egli si domanda in che cosa possano aiutarlo nella salvezza delle anime. Prende quelli che possono esser per lui un aiuto, non già per se stessi e per goderne, ma per servirsene come mezzi per compiere la sua missione.
Egli li usa secondo l’ordine eterno che destina le creature inferiori a condurre l’uomo a Dio.
Gli altri beni, quelli che sono un ostacolo al suo apostolato, li respinge.
Talvolta rifiuta perfino di far uso di quelli che sono indifferenti, affinché la sua azione, più sciolta, sia più forte. Il lottatore si libera da tutto ciò che può legare le sue energie.
Questo concetto di povertà fa comprendere perchè verso la metà del sec. XV la Chiesa volle che l’Ordine potesse possedere collettivamente le rendite necessarie alla sua sussistenza.
Diminuita la fede nella gente, la loro generosità era venuta meno. E la mendicità, invece di aiutare l’apostolato, ne era divenuta un ostacolo.
Si pensò che si rimanesse ancora fedeli al pensiero del santo Fondatore permettendo al convento la proprietà collettiva. Essa dava ai religiosi, meno numerosi in una società meno credente, la libertà di attendere allo studio e alla predicazione,
Del resto San Domenico stesso aveva per qualche tempo accettato alcune modeste rendite per il convento di Tolosa, dal momento che le elemosine in un paese eretico non erano sufficienti per mantenere i frati.
In ogni caso, secondo l’insegnamento preciso di S. Tommaso, per noi domenicani la povertà non è che un mezzo.
Ma se il Frate Predicatore non mendica più, nondimeno deve ricordarsi che egli è personalmente tenuto alla stretta povertà per il voto che ha fatto e per la fedeltà al pensiero di S. Domenico.
La comunità oggi può accettare rendite, che le assicurano una sussistenza conveniente. Ma queste non possono essere accresciute indefinitamente senza andar contro il pensiero del Fondatore. Per decreto di Sisto IV il convento domenicano non è divenuto un’abbazia, ma resta convento di un Ordine mendicante.
I Predicatori non possono dimenticare che quando la necessità obbligò San Domenico ad accettare alcune rendite nella regione di Tolosa, devastata dalla guerra albigese, fu stipulato che i Frati ne usassero solo secondo la stretta necessità e distribuissero il resto ai poveri.
Non vi è forse un punto delle Costituzioni sul quale il nostro santo Fondatore abbia insistito maggiormente quanto questo. In molte circostanze egli ha energicamente manifestato l’orrore che provava quando vedeva un religioso attaccato alle ricchezze.
Il suo ultimo pensiero fu per questa santa povertà, che egli tanto aveva amato, e che voleva lasciare all’Ordine, come il suo onore e il pegno della sua fecondità. Disse ai suoi figli in pianto attorno al suo letto di morte: “Miei amati fratelli, ecco l’eredità che vi lascio come a miei figli: abbiate la carità, conservate l’umiltà, possedete la povertà volontaria”.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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