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Breve storia degli Ordini Mendicanti: Domenicani, Francescani....

Ultimo Aggiornamento: 10/03/2013 22:29
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7. Struttura dei sermone «moderno»: le «Artes praedicandi»

Tommaso Waleys († c.1349), personalità vivacissima della cultura avignonese dell'inizio del XIV secolo e conoscitore profondo dell'Italia (era stato lettore per alcuni anni nel convento domenicano di Bologna, predicando in questa città e anche ad Arezzo) sostiene nel prologo del De modo componendi sermones che in pratica si attuano molteplici forme di predicazione, difficilmente riconducibili a un'unica regola.

"Tradere vero omnes modos et formas praedicandi – dichiara nel Prologo – non solum superfluum sed etiam impossibile judicarem, cum vix inveniantur duo, sermones a seipsis compositos praedicantes, qui in forma praedicandi quoad omnia sint conformes."

"[Ritengo superfluo e anche impossibile decrivere tutti i modi e le forme della predicazione, dal momento che si stenterebbe a trovare due predicatori i quali, recitando sermoni da loro stessi composti, vadano completamente d'accordo nel modo di strutturare il loro discorso]."

Eppure una predica moderna si distingue nettamente dall'«antiquus modus praedicandi», praticato dai Padri della Chiesa, e ancora vivo soprattutto in Italia nella predicazione più popolare. Il buon modo antico, rimpianto da Waleys, consiste nel commentare versetto per versetto il Vangelo del giorno; il tipo moderno è basato invece sullo sviluppo attento del thema. Anche Giovanni di Galles, reggente della scuola francescana di Oxford (1260) e poi maestro a Parigi (c. 1270), nel suo trattato De arte praedicandi, pur professando grande venerazione per l'antica omelia, ne mette in rilievo l'aspetto meno accettabile per la mentalità contemporanea, improntata dalla dialettica scolastica: cioè la mancanza di una chiara articolazione del discorso rispetto al thema scritturale. Giacomo da Fusignano, priore del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva a Roma (1290), secondo Provinciale della Provincia del Regno di Napoli (istituita nel 1294) e cappellano di Carlo II d'Angiò, è molto più esplicito. Nel De arte praedicandi, un trattato che descrive il tipo più diffuso di sermone e rispecchia bene i gusti dei domenicani, egli afferma che il modo antico di predicare, che si limita a esporre il Vangelo, va bene solo per gli ignoranti:

"Est autem hoc satis populo rudi utilis. Ceteris literatis et intelligentibus auditoribus populariis exposicio non est necessaria."

"[Questo modo può andar bene per il popolo rozzo. Ma l'esposizione letterale del Vangelo non occorre alla gente colta e ai laici che abbiano un po' di cultura]."

L'elemento fondante del sermone moderno è il thema, scelto dalla liturgia del giorno o da altri passi della Scrittura (soprattutto se si predica per la festa di un santo o per commemorare un defunto o per altre occasioni non connesse alla liturgia). Il thema è la radice di tutta la predica, spesso paragonata dai teorici dell' ars praedicandi a un albero. Se il versetto tematico – spiega Giacomo da Fusignano – è la radice, l'introduzione è il tronco, le divisioni, ricavate dal thema con una sottile e complicata tecnica di estrazione, hanno la funzione dei rami principali e secondari. Thema, introductio e divisiosono le parti essenziali del sermone, la cui struttura può essere arricchita da altri elementi accessori; cioè il prothema e la subdivisio.

«Prothema magistralis pars est, subdivisio subtilis» [Il prothema è una parte riservata ai grandi maestri, la subdivisio implica una certa sottigliezza intellettuale] sentenzia nel Tractatulus de arte praedicandi Enrico di Langestein (1325-1397), cancelliere dell'Università di Parigi e poi Rettore dell'Università di Vienna. Il prothema è uno svolgimento più o meno breve dedotto dallo stesso thema oppure da un'altra citazione scritturale (o patristica) attinente ad esso; questa parte del sermone veniva conclusa da una preghiera. In questo preambolo magistralis, caratteristico dei sermoni tenuti dai magistri della Facoltà di teologia, si trattano di preferenza argomenti che riguardano il senso stesso della predicazione: l'inadeguatezza del predicatore, il contegno degli uditori, la parola di Dio (v. TESTO N. 14). Se ne può spigolare una messe di osservazioni e di notizie sulla tecnica della predicazione e sull'ambiente in cui si svolgeva.

Tuttavia il prothema era una rarità nella predicazione rivolta ai laici, che iniziava solitamente con l'introductio, destinata ad attirare l'attenzione degli ascoltatori e a orientarli sui criteri di interpretazione del versetto tematico. L'introduzione di una predica assomiglia spesso all'esordio di un qualsiasi testo medievale: si inizia con una auctoritas o con un proverbio o con una sentenza; talvolta, se si vuole solleticare la curiosità degli ascoltatori, con qualche rara e bizzarra similitudine naturale o morale, con qualche notazione di costume (v. TESTO N. 15).

Segue la parte più impegnativa della predica, cioè la divisione: ricorrendo alle tecniche più scaltrite della grammatica e soprattutto della dialettica e della fisica aristotelica, si smembra il versetto iniziale in varie parti (di solito tre o quattro, più raramente due o cinque) che costituiranno le articolazioni del discorso. La divisione è col thema l'elemento caratteristico della predica moderna: è essa che dovrebbe garantire che il sermone si attiene al testo ispirato scelto come base del discorso. In realtà è proprio mediante questa tecnica che il predicatore riesce più o meno abilmente e in buona fede a piegare il testo della Scrittura nella direzione che preferisce. La predica popolare spesso rinuncia alla divisio e si limita a fare alcune distinctiones basandosi (come si è visto al cap. 6) sui molteplici valori attribuibili a una delle dictiones (parole) del thema. In entrambi i casi era d'obbligo usare un colore retorico ben noto anche all' ars dictandi (che regolava la prosa epistolare), cioè il similiter cadens o similiter desinens: le varie parti della divisione (o della distinzione) venivano proposte con formule monotonamente concluse da omoioteleuton o omoioptoton (V. TESTO N. 15). Una volta stabilito lo schema della predica era agevole svolgere i vari membri ricorrendo alle disparate tecniche della dilatatio. Riccardo di Thetford, un monaco inglese del XIII secolo, e con lui gran parte dei trattatisti, distingue otto procedimenti di dilatazione.

Il più raffinato, riservato quasi esclusivamente alla predicazione universitaria, è la subdivisio, che consiste nel dividere una auctoritas, citata di solito a conferma dei singoli membri del sermone, secondo i criteri già esposti. Un metodo elegante è pure la catena di autorità, concordate verbaliter, cioè per il ricorrere di una stessa parola o di una medesima radice verbale, o realiter, cioè per l'analogia dei concetti, o per entrambi i motivi (v. TESTO N. 17). È questa la tecnica che allettò il Petrarca nella stesura del De ocio religioso. L'esegesi biblica, basata sulla quadruplice interpretazione del testo (letterale, morale, allegorica e anagogica) era un momento essenziale della dilatatio. Ovviamente, tranne poche eccezioni, è il senso morale che attrae il predicatore: anche quando l'esegesi (soprattutto con san Tommaso) diventa più esigente e attenta all'interpretazione letterale, filologica, del testo, la predicazione tende a perpetuare l'allegorismo spiritualistico di origine alessandrina, che aveva dominato pressoché incontrastato nei secoli precedenti.
Il predicatore poteva anche fare sfoggio di una scienza acquistata a poco prezzo «ponendo orationem pro nomine», come dice Riccardo, cioè infarcendo il discorso di definizioni filosofiche, di interpretazioni dei nomi propri e di fantasiose etimologie: materiale che si attingeva a piene mani nel De interpretatione hebraicorum nominum di san Gerolamo e nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia. L' argumentatio o ratiocinatio forniva il pretesto per una serie di divagazioni scolastiche. Più volte i trattati dovranno richiamare i predicatori all'opportunità di lasciare le tecniche del sillogismo e della quaestio ai maestri dell'Università, usando modi di argomentazione (come l' oppositum ) più comprensibili a un uditorio laico.

L'ora più opportuna della predicazione era il mattino, o anche dopo nona (che è il nostro mezzogiorno). Ma spesso il sermone mattutino proponeva una materia molto vasta ed estesa, ed era completato dalla collatio, una brevissima predica tenuta la sera sullo stesso thema proposto al mattino. La collatio, introdotta nell'uso universitario da Giordano di Sassonia, il primo Generale dei Domenicani, venne usata durante il Trecento anche dai predicatori popolari, come fra Giordano da Pisa, che sullo stesso versetto tematico predicava fino a quattro volte in un giorno. Il termine Collationes venne anche a indicare le allocuzioni occasionali, anche di contenuto politico, e soprattutto una serie organica di sermoni, quasi un trattato, come quelli celebri tenuti da san Bonaventura sul Genesi (Collationes in Hexaëmeron) la sera nel convento francescano di Parigi.


8. L'«exemplum»

L'argumentatio più adatta alla predicazione popolare è l'exemplum, definito da Aristotile (Rhetorica 1, 2) forma retorica dell'induzione (epagoghé rhetoriché). Si tratta in realtà di un genere narrativo, che conosce una fortuna secolare: esso occupa infatti un posto di rilievo già nell'insegnamento retorico greco-romano e nella letteratura cristiana; a partire dal XII secolo, col fiorire della letteratura cistercense, e quindi col diffondersi della predicazione dei Mendicanti e l'affluire in Occidente del materiale narrativo orientale, esso diventa l'ornamento più specifico della predica popolare, «la forma più pronta e idonea, di cui disponga il Medioevo, di rappresentazione del reale» (Battaglia). In senso stretto si deve intendere per exemplum un breve racconto che illustra e prova un principio morale, un concetto: una illustrative story, se vogliamo usare la formula del Crane, al quale si deve la prima edizione moderna degli esempi di Jacopo di Vitry, massimo responsabile della fortuna di questa narrativa in Occidente. In senso più ampio il termine sta invece a designare «tutto il materiale narrativo e descrittivo del passato e del presente» (Welter): non solo racconti dunque, ma anche similitudini, proverbi, episodi tratti dalla Scrittura e dalla letteratura profana, dall'agiografia e dalla favolistica.
Questo materiale narrativo, ricchissimo soprattutto nei sermoni rivolti al popolo, ma presente, sia pure in dose più ridotta, nel sermone universitario e perfino nella lectio universitaria, è di enorme interesse per lo studioso di letteratura, e in particolare delle origini della narrativa europea. L' exemplum è morfologicamente la prima manifestazione della narrativa medievale; storicamente l'àmbito della predicazione interferisce continuamente in quello della letteratura (novellistica e teatro) e viceversa, in un gioco di azione e reazione che è stato solo in parte svelato. Pulpito e letteratura sono strettamente connessi nella cultura europea medievale, talvolta anche a scapito della serietà della predica. È significativo che il Passavanti paragoni i più disinvolti predicatori del suo tempo a «giullari e romanzieri e buffoni»; e che Dante attacchi i mestieranti del pulpito pronti a intrattenere i fedeli «con motti e con iscede» (Paradiso XXIX, 103-117) anziché con la dottrina di Cristo. Federico Tubach ha recentemente descritto l' exemplum come una struttura narrativa caratterizzata. dal rapporto tra il nucleo dottrinale, o la tesi morale da dimostrare, e il motivo propriamente narrativo.

In base al variare di questo rapporto si possono determinare vari tipi di exemplum. Storicamente a un proto-exemplum, documentato dalle Vitae Patrum (una raccolta agiografica tradotta in latino a partire dal VI secolo) e dalle sillogi cistercensi (ad esempio il Dialogus Miraculorum di Cesario di Heisterbach [v. TESTO N. 11a]), dove prevale l'intento morale, succede quello che il Tubach denomina «esempio in declino», dove l'interesse per la pura narrazione ha la meglio sull'impegno didascalico. È questo l'esempio che viene diffuso per tutta l'Europa dalla predicazione in volgare dei Mendicanti, i quali raccolgono ad uso dei predicatori una serie imponente di prontuari.
I francescani sono particolarmente sensibili a questo tipo di letteratura, che si presta mirabilmente a captare l'attenzione di un pubblico illetterato: basti ricordare il Breviloquium de virtutibus di Giovanni di Galles, volgarizzato in toscano in ben quattro redazioni diverse (v. TESTO N. 11b); il Liber exemplorum composto in Inghilterra da un Minore alla fine del XIII secolo; la Summa de exemplis contra curiosos di Servasanto di Faenza. Anche i domenicani non trascurano di compilare ampie raccolte di esempi. Il De habundancia exemplorum (noto anche col titolo De dono timoris) di Umberto di Romans e gli aneddoti di Stefano di Borbone († c. 1262) hanno un successo enorme. Spetterà a due domenicani inglesi compilare in età chauceriana le summae più massicce, in un certo senso i capolavori di questo genere, destinate ad agire sulla letteratura profana ben al di là dei limiti solitamente fissati alla cultura medievale. Queste enciclopedie dell'exemplum sono la Scala coeli di Giovanni Gobi (1350) e la Summa Praedicantium di Giovanni Bromyard († 1390).

Queste raccolte, a torto ignorate nelle storie generali della letteratura italiana, sono il punto d'avvio dei più fortunati motivi della narrativa europea. Si pensi che gran parte delle novelle del Decameron nascono dall'abilissima rielaborazione e dalla contaminazione geniale di elementi narrativi da secoli tramandati nella tradizione omiletica. Così è motivo carissimo ai predicatori quello della «caccia infernale» (nov. 48a), che getta un brivido di terrore nel cuore della bella e crudele Traversari: probabilmente il Boccaccio lo trovò nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais, se pure, come supposero alcuni studiosi (tra cui il Monteverdi), non ripensò a una predica del Passavanti rifusa nella celebre pagina del «carbonaio di Niversa». Una variante dell' exemplum, particolarmente adatta alle prediche in onore dei santi, è la leggenda agiografica. Nei sermonari de sanctis spesso càpita di leggere alla fine della predica, proprio nella posizione dove di solito si trova l'esempio, questo avvertimento: «Dic legendam». Il predicatore sapeva bene dove mettere le mani: sul suo scrittoio non poteva mancare la Legenda Aurea, composta dal domenicano Jacopo da Varazze tra il 1260 e il 1267 (v. TESTO N. 12c) o il più antico Liber epilogorum in gesta sanctorum di un altro domenicano, Bartolomeo da Trento († 1251), il primo manuale agiografico ad uso dei predicatori. Molti aneddoti relativi ai santi si trovavano anche nelle già citate Vitae Patrum, e nel Dialogo di san Gregorio Magno (v. TESTO N. 12a e b), libri fondamentali della spiritualità medievale.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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