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Catechesi Magisteriali di Papa Francesco per i Sacerdoti e Seminaristi

Ultimo Aggiornamento: 08/12/2017 23:53
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21/04/2013 11:37
 
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[SM=g1740733] Dopo aver seguito l'insegnamento di Benedetto XVI che trovate postato qui..... apriamo questo spazio nuovo con l'insegnamento di Papa Francesco sempre per i Sacerdoti e Seminaristi...
Buona meditazione....


Il Papa ordina 10 nuovi sacerdoti: siate pastori, non funzionari e ricordate che la Parola di Dio non è vostra ma di Dio






Papa Francesco sta presiedendo nella Basilica di San Pietro la Messa con le ordinazioni di 10 sacerdoti. Per la prima volta dunque il nuovo vescovo di Roma ordina i presbiteri della sua diocesi. Il rito si svolge nella 50.ma Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni sul tema: “Le vocazioni segno della speranza fondata sulla fede”. Prima della celebrazione di questa mattina il Santo Padre si è recato in sacrestia per pregare insieme agli ordinandi raccomandandoli alla Madonna. Così usava fare in passato, a Buenos Aires, in occasione delle ordinazioni.

"Questi nostri fratelli e figli - ha detto il Papa nell'omelia - sono stati chiamati all’ordine del presbiterato. Riflettiamo attentamente a quale ministero saranno elevati nella Chiesa". Come voi ben sapete, ha aggiunto, il Signore Gesù è "il solo Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento, ma in Lui anche tutto il popolo santo di Dio è stato costituito popolo sacerdotale".

Il Signore, ha affermato, vuole sceglierne alcuni in particolare perché, "esercitando pubblicamente nella Chiesa in suo nome l’officio sacerdotale a favore di tutti gli uomini", continuino "la sua personale missione di maestro, sacerdote e pastore". Come, infatti, per questo "Egli era stato inviato dal Padre, così Egli inviò a sua volta nel mondo prima gli apostoli e poi i vescovi e i loro successori, ai quali - infine - furono dati come collaboratori i presbiteri, che - ad essi uniti nel ministero sacerdotale - sono chiamati al servizio del popolo di Dio".
I nuovi sacerdoti, ha affermato, saranno configurati a Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, "ossia saranno consacrati come veri sacerdoti del Nuovo Testamento e a questo titolo che li unisce nel sacerdozio al loro vescovo, saranno predicatori del Vangelo, pastori del Popolo di Dio e presiederanno le azioni di culto, specialmente nella celebrazioni del sacrificio del Signore".


"Dispensate a tutti - ha proseguito - quella Parola di Dio che voi stessi avete ricevuto con gioia. Ricordate le vostre mamme, le vostre nonne, i vostri catechisti, che vi hanno dato la Parola di Dio, la fede…. Quel dono della fede". Vi hanno trasmesso, ha affermato, "questo dono della fede. Leggete e meditate assiduamente la Parola del Signore, per credere ciò che avete letto, per insegnare ciò che avete appreso nella fede, vivere ciò che avete insegnato".

E ricordate anche, è stata la sua esortazione, "che la Parola di Dio non è proprietà vostra: è Parola di Dio. E la Chiesa è la custode della Parola di Dio".

Sia, dunque, ha detto ancora, "nutrimento al Popolo di Dio la vostra dottrina; gioia e sostegno ai fedeli di Cristo il profumo della vostra vita, perché con la parola e l’esempio edificate la casa di Dio, che è la Chiesa". Così, ha detto ancora, "voi continuerete l’opera santificatrice di Cristo", mediante il vostro ministero. "Il sacrificio spirituale dei fedeli - ha poi aggiunto - viene reso perfetto, perché congiunto al sacrificio di Cristo, che per le vostre mani, in nome di tutta la Chiesa, viene offerto in modo incruento sull’altare della celebrazione dai Santi Misteri".

Poi rivolgendosi agli ordinandi, ha ricordato che esercitando il ministero della Sacra Dottrina saranno partecipi della missione di Cristo, unico Maestro. "Riconoscete, dunque, ciò che fate - ha aggiunto - imitate ciò che celebrate, perché partecipando al ministero della morte e Resurrezione del Signore, portiate la morte di Cristo nelle vostre membra e camminiate con Lui in novità di vita". Con il Battesimo, è stata la sua riflessione, "aggregherete nuovi fedeli al Popolo di Dio. Con il Sacramento della Penitenza rimetterete i peccati nel nome di Cristo e della Chiesa".

Oggi, ha soggiunto, "vi chiedo in nome di Cristo e della Chiesa, per favore, non vi stancate di essere misericordiosi. Con l’olio santo darete sollievo agli infermi e anche agli anziani: non abbiate vergogna di avere tenerezza con gli anziani… Celebrando i sacri riti e innalzando nelle varie ore del giorno la preghiera di lode e di supplica, vi farete voce del Popolo di Dio e dell’umanità intera".


"Consapevoli di essere stati scelti fra gli uomini e costituiti in loro favore per attendere alle cose di Dio - ha affermato - esercitate in letizia e in carità sincera l’opera sacerdotale di Cristo, unicamente intenti a piacere a Dio e non a voi stessi. Siete pastori, non funzionari! Siete mediatori, non intermediari!" Infine, partecipando alla missione di Cristo, Capo e Pastore, in comunione filiale con il vostro vescovo, ha esortato, "impegnatevi a unire i fedeli in un’unica famiglia per condurli a Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Abbiate sempre davanti agli occhi l’esempio del Buon Pastore, che non è venuto per essere servito, ma per servire e per cercare di salvare ciò che era perduto".

 Concelebrano con il Papa il cardinale vicario, Agostino Vallini, e i vescovi ausiliari della diocesi di Roma. Durante la Messa, il Papa ha pregato il Signore affinché i nuovi sacerdoti adempino fedelmente al ministero da Lui ricevuto e “con il loro esempio guidino tutti a un’integra condotta di vita”. “Mediante la loro predicazione con la grazia dello Spirito Santo”, ha pregato ancora Papa Francesco, la parola del Vangelo “fruttifichi nel cuore degli uomini, e raggiunga i confini della terra”.

  segue testo integrale....

http://d2.yimg.com/sr/img/1/1a15bea7-051c-34e4-8621-305c6ae19859



ORDINAZIONE PRESBITERALE

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana
IV Domenica di Pasqua, 21 aprile 2013

[Video]

Fratelli e sorelle carissimi,

questi nostri fratelli e figli sono stati chiamati all’ordine del presbiterato. Riflettiamo attentamente a quale ministero saranno elevati nella Chiesa. Come voi ben sapete il Signore Gesù è il solo Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento, ma in Lui anche tutto il popolo santo di Dio è stato costituito popolo sacerdotale. Nondimeno, tra tutti i suoi discepoli, il Signore Gesù vuole sceglierne alcuni in particolare, perché esercitando pubblicamente nella Chiesa in suo nome l’officio sacerdotale a favore di tutti gli uomini, continuassero la sua personale missione di maestro, sacerdote e pastore.

Come, infatti, per questo Egli era stato inviato dal Padre, così Egli inviò a sua volta nel mondo prima gli Apostoli e poi i Vescovi e i loro successori, ai quali infine furono dati come collaboratori i presbiteri, che, ad essi uniti nel ministero sacerdotale, sono chiamati al servizio del Popolo di Dio.

Dopo matura riflessione e preghiera, ora stiamo per elevare all’ordine dei presbiteri questi nostri fratelli, perché al servizio di Cristo, Maestro, Sacerdote, Pastore, cooperino ad edificare il Corpo di Cristo che è la Chiesa in Popolo di Dio e Tempio santo dello Spirito Santo.

Essi saranno infatti configurati a Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, ossia saranno consacrati come veri sacerdoti del Nuovo Testamento, e a questo titolo, che li unisce nel sacerdozio al loro Vescovo, saranno predicatori del Vangelo, Pastori del Popolo di Dio, e presiederanno le azioni di culto, specialmente nella celebrazione del sacrificio del Signore.

Quanto a voi, fratelli e figli direttissimi, che state per essere promossi all’ordine del presbiterato, considerate che esercitando il ministero della Sacra Dottrina sarete partecipi della missione di Cristo, unico Maestro. Dispensate a tutti quella Parola di Dio, che voi stessi avete ricevuto con gioia. Ricordate le vostre mamme, le vostre nonne, i vostri catechisti, che vi hanno dato la Parola di Dio, la fede…. il dono della fede! Vi hanno trasmesso questo dono della fede. Leggete e meditate assiduamente la Parola del Signore per credere ciò che avete letto, insegnare ciò che avete appreso nella fede, vivere ciò che avete insegnato. Ricordate anche che la Parola di Dio non è proprietà vostra: è Parola di Dio. E la Chiesa è la custode della Parola di Dio.

Sia dunque nutrimento al Popolo di Dio la vostra dottrina, gioia e sostegno ai fedeli di Cristo il profumo della vostra vita, perché con la parola e l’esempio edifichiate la casa di Dio, che è la Chiesa. Voi continuerete l’opera santificatrice di Cristo. Mediante il vostro ministero, il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto, perché congiunto al sacrificio di Cristo, che per le vostre mani, in nome di tutta la Chiesa, viene offerto in modo incruento sull’altare della celebrazione dai Santi Misteri.

Riconoscete dunque ciò che fate, imitate ciò che celebrate, perché partecipando al ministero della morte e resurrezione del Signore, portiate la morte di Cristo nelle vostre membra e camminiate con Lui in novità di vita.

Con il Battesimo aggregherete nuovi fedeli al Popolo di Dio. Con il Sacramento della Penitenza rimetterete i peccati nel nome di Cristo e della Chiesa. E oggi vi chiedo in nome di Cristo e della Chiesa: per favore, non vi stancate di essere misericordiosi. Con l’olio santo darete sollievo agli infermi e anche agli anziani: non abbiate vergogna di avere tenerezza con gli anziani. Celebrando i sacri riti e innalzando nelle varie ore del giorno la preghiera di lode e di supplica, vi farete voce del Popolo di Dio e dell’umanità intera.

Consapevoli di essere stati scelti fra gli uomini e costituiti in loro favore per attendere alle cose di Dio, esercitate in letizia e carità sincera l’opera sacerdotale di Cristo, unicamente intenti a piacere a Dio e non a voi stessi. Siete Pastori, non funzionari. Siete mediatori, non intermediari.

Infine, partecipando alla missione di Cristo, Capo e Pastore, in comunione filiale con il vostro Vescovo, impegnatevi a unire i fedeli in un’unica famiglia, per condurli a Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Abbiate sempre davanti agli occhi l’esempio del Buon Pastore, che non è venuto per essere servito, ma per servire, e per cercare di salvare ciò che era perduto.

 






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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10/06/2013 16:42
 
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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DEL CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE DELLA GERMANIA
[KÖLN, 5-9 GIUGNO 2013]


 
 

Ai venerati Fratelli
il Cardinale Joachim Meisner
Arcivescovo di Colonia
Mons. Robert Zollitsch
Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca

Sotto il motto «Signore, da chi andremo?» (Gv 6,68) si radunano in questi giorni i cattolici della Germania nonché fedeli provenienti dai Paesi vicini in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale a Colonia. L’evento si inserisce nella lunga tradizione di venerazione dell’Eucaristia presente in codesta città, una tra le prime a celebrare, a partire dal XIII secolo, la Festa del Corpus Domini con processioni del Santissimo Sacramento, e sede di un Congresso Eucaristico Mondiale nel 1909. Pertanto invio volentieri da Roma il Cardinale Paul Josef Cordes come mio Inviato Speciale per manifestare la mia viva comunione spirituale con i cattolici tedeschi, e per esprimere la comunione universale della Chiesa. Il Padre celeste doni a tutti i partecipanti abbondanti frutti di grazia dall’adorazione del Cristo eucaristico.

«Signore, da chi andremo?». Con tale domanda, davanti all’incomprensione di molti ascoltatori di Gesù, che vorrebbero approfittare egoisticamente di Lui, san Pietro si fa portavoce dei seguaci fedeli. I discepoli non si fermano nell’appagamento mondano di coloro che si sono saziati (cfr Gv 6,26) e che, tuttavia, si danno da fare per il cibo che non dura (cfr Gv 6,27). Certamente anche Pietro conosce la fame; per lungo tempo non aveva trovato il cibo che l’avesse potuto saziare. Poi è entrato in relazione con l’uomo di Nazaret. L’ha seguito. Ora egli conosce il suo Maestro non solo per sentito dire. Nei rapporti quotidiani con Lui è cresciuta una fiducia senza riserve. Questa è la fede in Gesù; e non senza ragione Pietro si aspetta dal Signore l’auspicata vita in abbondanza (cfr Gv 10,10).

«Signore, da chi andremo?». Anche noi, membri della Chiesa di oggi, ci poniamo questa domanda. Anche se essa è forse più titubante nella nostra bocca che sulle labbra di Pietro, la nostra risposta, come quella dell’Apostolo, può essere solo la persona di Gesù. Certo, Egli visse duemila anni fa.

Tuttavia noi possiamo incontrarLo nel nostro tempo quando ascoltiamo la sua Parola e siamo a Lui vicini, in modo unico, nell’Eucaristia. Il Concilio Vaticano II la chiama “azione sacra per eccellenza; nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado” (Cost. Sacrosanctum Concilium, 7).
Che la Santa Messa non cada per noi in una routine superficiale! Che attingiamo sempre di più alla sua profondità! È proprio essa ad inserirci nell’immensa opera di salvezza di Cristo, ad affinare la nostra vista spirituale per cogliere il suo amore: la sua “profezia in atto” con cui, nel Cenacolo, diede inizio al dono di Sé sulla Croce; la sua vittoria irrevocabile sul peccato e sulla morte, che annunciamo con fierezza e in modo gioioso.

“Bisogna imparare a vivere la Santa Messa” disse un giorno il Beato Giovanni Paolo II, in un Seminario romano, ai giovani che lo interrogarono sul raccoglimento profondo con cui celebrava (Visita al Pontificio Collegio Germanico Ungarico, 18 ottobre 1981). ”Imparare a vivere la Santa Messa”! A questo ci aiuta, ci introduce, il sostare in adorazione davanti al Signore eucaristico nel tabernacolo e il ricevere il Sacramento della Riconciliazione.

«Signore, da chi andremo?». Tale domanda si pongono, infine, alcuni contemporanei, che – lucidamente o con un’intuizione ancora oscura – sono in ricerca del Padre di Gesù Cristo. A loro il Redentore vuole venire incontro attraverso di noi, che, grazie al Battesimo, siamo diventati i suoi fratelli e sorelle, e che, nell’Eucaristia, abbiamo ricevuto la forza di portare insieme a Lui la sua missione di salvezza.
Con la nostra vita e con le nostre parole dobbiamo annunciare a loro ciò che abbiamo riconosciuto insieme a Pietro e agli Apostoli: «Signore, tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). La nostra testimonianza li infiammerà come noi siamo stati infiammati da Cristo. Noi tutti, vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e laici abbiamo l’impegno di portare Dio al mondo e il mondo a Dio.

Incontrare Cristo, affidarsi a Cristo, annunciare Cristo – sono i pilastri della nostra fede che si concentrano, sempre di nuovo, nel punto focale dell’Eucaristia. La celebrazione del Congresso Eucaristico, durante quest’Anno della fede, annuncia con rinnovata gioia e certezza: il Signore della Chiesa vive in essa. Con il mio cordiale saluto imparto di cuore a tutti voi la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, il 30 maggio 2013, Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

Franciscus PP


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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18/06/2013 14:59
 
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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA
Aula Paolo VI
Lunedì, 17 giugno 2013

diocesi roma



"Io non mi vergogno del Vangelo"

Buonasera a tutti, cari fratelli e sorelle!

L’Apostolo Paolo finiva questo brano della sua lettera ai nostri antenati con queste parole: non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia. E questa è la nostra vita: camminare sotto la grazia, perché il Signore ci ha voluto bene, ci ha salvati, ci ha perdonati. Tutto ha fatto il Signore, e questa è la grazia, la grazia di Dio. Noi siamo in cammino sotto la grazia di Dio, che è venuta da noi, in Gesù Cristo che ci ha salvati. Ma questo ci apre verso un orizzonte grande, e questo è per noi gioia. “Voi non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia”. Ma cosa significa, questo “vivere sotto la grazia”? Cercheremo di spiegare qualcosa di che cosa significa vivere sotto la grazia. E’ la nostra gioia, è la nostra libertà. Noi siamo liberi. Perché? Perché viviamo sotto la grazia. Noi non siamo più schiavi della Legge: siamo liberi perché Gesù Cristo ci ha liberati, ci ha dato la libertà, quella piena libertà di figli di Dio, che viviamo sotto la grazia. Questo è un tesoro. Cercherò di spiegare un po’ questo mistero tanto bello, tanto grande: vivere sotto la grazia.

Quest’anno avete lavorato tanto sul Battesimo e anche sul rinnovamento della pastorale post-battesimale. Il Battesimo, questo passare da “sotto la Legge” a “sotto la grazia”, è una rivoluzione. Sono tanti i rivoluzionari nella storia, sono stati tanti. Ma nessuno ha avuto la forza di questa rivoluzione che ci ha portato Gesù: una rivoluzione per trasformare la storia, una rivoluzione che cambia in profondità il cuore dell’uomo. Le rivoluzioni della storia hanno cambiato i sistemi politici, economici, ma nessuna di esse ha veramente modificato il cuore dell’uomo.
La vera rivoluzione, quella che trasforma radicalmente la vita, l’ha compiuta Gesù Cristo attraverso la sua Risurrezione: la Croce e la Risurrezione. E Benedetto XVI diceva, di questa rivoluzione, che “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”. Ma pensiamo a questo: è la più grande mutazione della storia dell’umanità, è una vera rivoluzione e noi siamo rivoluzionarie e rivoluzionari di questa rivoluzione, perché noi andiamo per questa strada della più grande mutazione della storia dell’umanità. Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!
Deve essere rivoluzionario per la grazia! Proprio la grazia che il Padre ci dà attraverso Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto fa di noi rivoluzionari, perché – e cito nuovamente Benedetto – “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”.
Perché cambia il cuore. Il profeta Ezechiele lo diceva: “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”. E questa è l’esperienza che vive l’Apostolo Paolo: dopo avere incontrato Gesù sulla via di Damasco, cambia radicalmente la sua prospettiva di vita e riceve il Battesimo. Dio trasforma il suo cuore!

Ma pensate: un persecutore, uno che inseguiva la Chiesa e i cristiani, diventa un santo, un cristiano fino alle ossa, proprio un cristiano vero! Prima è un violento persecutore, ora diventa un apostolo, un testimone coraggioso di Gesù Cristo, al punto di non aver paura di subire il martirio. Quel Saulo che voleva uccidere chi annunziava il Vangelo, alla fine dona la sua vita per annunciare il Vangelo. E’ questo il mutamento, il più grande mutamento del quale ci parlava Papa Benedetto. Ti cambia il cuore, da peccatore – da peccatore: tutti siamo peccatori – ti trasforma in santo. Qualcuno di noi non è peccatore? Se ci fosse qualcuno, alzi la mano! Tutti siamo peccatori, tutti! Tutti siamo peccatori! Ma la grazia di Gesù Cristo ci salva dal peccato: ci salva! Tutti, se noi accogliamo la grazia di Gesù Cristo, Lui cambia il nostro cuore e da peccatori ci fa santi. Per diventare santi non è necessario girare gli occhi e guardare là, o avere un po’ una faccia da immaginetta! No, no, non è necessario questo! Una sola cosa è necessaria per diventare santi: accogliere la grazia che il Padre ci da in Gesù Cristo. Ecco, questa grazia cambia il nostro cuore. Noi continuiamo ad essere peccatori, perché tutti siamo deboli, ma anche con questa grazia che ci fa sentire che il Signore è buono, che il Signore è misericordioso, che il Signore ci aspetta, che il Signore ci perdona, questa grazia grande, che cambia il nostro cuore.


E, diceva il profeta Ezechiele, che da un cuore di pietra lo cambia in un cuore di carne. Cosa vuol dire, questo? Un cuore che ama, un cuore che soffre, un cuore che gioisce con gli altri, un cuore colmo di tenerezza per chi, portando impresse le ferite della vita, si sente alla periferia della società. L’amore è la più grande forza di trasformazione della realtà, perché abbatte i muri dell’egoismo e colma i fossati che ci tengono lontani gli uni dagli altri. E questo è l’amore che viene da un cuore mutato, da un cuore di pietra che è trasformato in un cuore di carne, un cuore umano. E questo lo fa la grazia, la grazia di Gesù Cristo che noi tutti abbiamo ricevuto.
Qualcuno di voi sa quanto costa la grazia? Dove si vende la grazia? Dove posso comprare la grazia? Nessuno sa dirlo: no. Vado a comprarla dalla segretaria parrocchiale, forse lei la vende, la grazia? Qualche prete la vende, la grazia? Ascoltate bene questo: la grazia non si compra e non si vende; è un regalo di Dio in Gesù Cristo. Gesù Cristo ci dà la grazia. E’ l’unico che ci dà la grazia. E’ un regalo: ce lo offre, a noi. Prendiamola.
E’ bello questo. L’amore di Gesù è così: ci dà la grazia gratuitamente, gratuitamente. E noi dobbiamo darla ai fratelli, alle sorelle, gratuitamente. E’ un po’ triste quando uno incontra alcuni che vendono la grazia: nella storia della Chiesa alcune volte è accaduto questo, e ha fatto tanto male, tanto male. Ma la grazia non si può vendere: la ricevi gratuitamente e la dai gratuitamente. E questa è la grazia di Gesù Cristo.


In mezzo a tanti dolori, a tanti problemi che ci sono qui, a Roma, c’è gente che vive senza speranza. Ciascuno di noi può pensare, in silenzio, alle persone che vivono senza speranza, e sono immerse in una profonda tristezza da cui cercano di uscire credendo di trovare la felicità nell’alcol, nella droga, nel gioco d’azzardo, nel potere del denaro, nella sessualità senza regole … Ma si ritrovano ancora più delusi e talvolta sfogano la loro rabbia verso la vita con comportamenti violenti e indegni dell’uomo.

Quante persone tristi, quante persone tristi, senza speranza! Pensate anche a tanti giovani che, dopo aver sperimentato tante cose, non trovano senso alla vita e cercano il suicidio, come soluzione. Voi sapete quanti suicidi di giovani ci sono oggi nel mondo? La cifra è alta! Perché? Non hanno speranza. Hanno provato tante cose e la società, che è crudele – è crudele! – non ti può dare speranza. La speranza è come la grazia: non si può comprare, è un dono di Dio.


E noi dobbiamo offrire la speranza cristiana con la nostra testimonianza, con la nostra libertà, con la nostra gioia. Il regalo che ci fa Dio della grazia, porta la speranza. Noi, che abbiamo la gioia di accorgerci che non siamo orfani, che abbiamo un Padre, possiamo essere indifferenti verso questa città che ci chiede, forse anche inconsapevolmente, senza saperlo, una speranza che l’aiuti a guardare il futuro con maggiore fiducia e serenità? Noi non possiamo essere indifferenti.
Ma come possiamo fare questo? Come possiamo andare avanti e offrire la speranza? Andare per la strada dicendo: “Io ho la speranza”? No! Con la vostra testimonianza, con il vostro sorriso, dire: “Io credo che ho un Padre”. L’annunzio del Vangelo è questo: con la mia parola, con la mia testimonianza dire: “Io ho un Padre. Non siamo orfani. Abbiamo un Padre”, e condividere questa filiazione con il Padre e con tutti gli altri.

“Padre, adesso capisco: si tratta di convincere gli altri, di fare proseliti!”. No: niente di questo. Il Vangelo è come il seme: tu lo semini, lo semini con la tua parola e con la tua testimonianza. E poi, non fai la statistica di come è andato questo: la fa Dio. Lui fa crescere questo seme; ma dobbiamo seminare con quella certezza che l’acqua la dà Lui, la crescita la dà Lui. E noi non facciamo la raccolta: la farà un altro prete, un altro laico, un’altra laica, un altro la farà. Ma la gioia di seminare con la testimonianza, perché con la parola solo non basta, non basta. La parola senza la testimonianza è aria. Le parole non bastano. La vera testimonianza che dice Paolo.


L’annunzio del Vangelo è destinato innanzitutto ai poveri, a quanti mancano spesso del necessario per condurre una vita dignitosa. A loro è annunciato per primi il lieto messaggio che Dio li ama con predilezione e viene a visitarli attraverso le opere di carità che i discepoli di Cristo compiono in suo nome. Prima di tutto, andare ai poveri: questo è il primo. Nel momento del Giudizio finale, possiamo leggere in Matteo 25, tutti saremo giudicati su questo.

Ma alcuni, poi, pensano che il messaggio di Gesù sia destinato a coloro che non hanno una preparazione culturale. No! No! L’Apostolo afferma con forza che il Vangelo è per tutti, anche per i dotti.
La sapienza, che deriva dalla Risurrezione, non si oppone a quella umana ma, al contrario, la purifica e la eleva. La Chiesa è sempre stata presente nei luoghi dove si elabora la cultura. Ma il primo passo è sempre la priorità ai poveri. Ma anche dobbiamo andare alle frontiere dell’intelletto, della cultura, nell’altezza del dialogo, del dialogo che fa la pace, del dialogo intellettuale, del dialogo ragionevole. E’ per tutti, il Vangelo!

Questo di andare verso i poveri non significa che noi dobbiamo diventare pauperisti, o una sorta di “barboni spirituali”! No, no, non significa questo! Significa che dobbiamo andare verso la carne di Gesù che soffre, ma anche soffre la carne di Gesù di quelli che non lo conoscono con il loro studio, con la loro intelligenza, con la loro cultura. Dobbiamo andare là! Perciò, a me piace usare l’espressione “andare verso le periferie”, le periferie esistenziali. Tutti, tutti quelli, dalla povertà fisica e reale alla povertà intellettuale, che è reale, pure. Tutte le periferie, tutti gli incroci dei cammini: andare là. E là, seminare il seme del Vangelo, con la parola e con la testimonianza.


E questo significa che noi dobbiamo avere coraggio. Paolo VI diceva che lui non capiva i cristiani scoraggiati: non li capiva. Questi cristiani tristi, ansiosi, questi cristiani dei quali uno pensa se credono in Cristo o nella “dea lamentela”: non si sa mai. Tutti i giorni si lamentano, si lamentano; e come va il mondo, guarda, che calamità, le calamità.
Ma, pensate: il mondo non è peggiore di cinque secoli fa! Il mondo è il mondo; è sempre stato il mondo. E quando uno si lamenta: e va così, non si può fare niente, ah la gioventù… Vi faccio una domanda: voi conoscete cristiani così? Ce ne sono, ce ne sono! Ma, il cristiano deve essere coraggioso e davanti al problema, davanti ad una crisi sociale, religiosa deve avere il coraggio di andare avanti, andare avanti con coraggio.
E quando non si può far niente, con pazienza: sopportando. Sopportare. Coraggio e pazienza, queste due virtù di Paolo. Coraggio: andare avanti, fare le cose, dare testimonianza forte; avanti! Sopportare: portare sulle spalle le cose che non si possono cambiare ancora. Ma andare avanti con questa pazienza, con questa pazienza che ci dà la grazia. Ma, cosa dobbiamo fare con il coraggio e con la pazienza? Uscire da noi stessi: uscire da noi stessi. Uscire dalle nostre comunità, per andare lì dove gli uomini e le donne vivono, lavorano e soffrono e annunciare loro la misericordia del Padre che si è fatta conoscere agli uomini in Gesù Cristo di Nazareth.
Annunciare questa grazia che ci è stata regalata da Gesù. Se ai sacerdoti, Giovedì Santo, ho chiesto di essere pastori con l’odore delle pecore, a voi, cari fratelli e sorelle, dico: siate ovunque portatori della Parola di vita nei nostri quartieri, nei luoghi di lavoro e dovunque le persone si ritrovino e sviluppino relazioni. Voi dovete andare fuori.

Io non capisco le comunità cristiane che sono chiuse, in parrocchia. Voglio dirvi una cosa. Nel Vangelo è bello quel brano che ci parla del pastore che, quando torna all’ovile, si accorge che manca una pecora, lascia le 99 e va a cercarla, a cercarne una. Ma, fratelli e sorelle, noi ne abbiamo una; ci mancano le 99! Dobbiamo uscire, dobbiamo andare da loro! In questa cultura - diciamoci la verità - ne abbiamo soltanto una, siamo minoranza! E noi sentiamo il fervore, lo zelo apostolico di andare e uscire e trovare le altre 99? Questa è una responsabilità grande, e dobbiamo chiedere al Signore la grazia della generosità e il coraggio e la pazienza per  uscire, per uscire ad annunziare il Vangelo. Ah, questo è difficile. E’ più facile restare a casa, con quell’unica pecorella! E’ più facile con quella pecorella, pettinarla, accarezzarla… ma noi preti, anche voi cristiani, tutti: il Signore ci vuole pastori, non pettinatori di pecorelle; pastori! E quando una comunità è chiusa, sempre tra le stesse persone che parlano, questa comunità non è una comunità che dà vita. E’ una comunità sterile, non è feconda. La fecondità del Vangelo viene per la grazia di Gesù Cristo, ma attraverso noi, la nostra predicazione, il nostro coraggio, la nostra pazienza.


Viene un po’ lunga la cosa, vero? Ma non è facile! Dobbiamo dirci la verità: il lavoro di evangelizzare, di portare avanti la grazia gratuitamente non è facile, perché non siamo noi soli con Gesù Cristo; c’è anche un avversario, un nemico che vuole tenere gli uomini separati da Dio.

E per questo instilla nei cuori la delusione, quando noi non vediamo ricompensato subito il nostro impegno apostolico. Il diavolo ogni giorno getta nei nostri cuori semi di pessimismo e di amarezza, e uno si scoraggia, noi ci scoraggiamo. “Non va! Abbiamo fatto questo, non va; abbiamo fatto quell’altro e non va! E guarda quella religione come attira tanta gente e noi no!”. E’ il diavolo che mette questo. Dobbiamo prepararci alla lotta spirituale. Questo è importante. Non si può predicare il Vangelo senza questa lotta spirituale: una lotta di tutti i giorni contro la tristezza, contro l’amarezza, contro il pessimismo; una lotta di tutti i giorni! Seminare non è facile. E’ più bello raccogliere, ma seminare non è facile, e questa è la lotta di tutti i giorni dei cristiani.


Paolo diceva che lui aveva l’urgenza di predicare e lui aveva l’esperienza di questa lotta spirituale, quando diceva: “Ho nella mia carne una spina di satana e tutti i giorni la sento”. Anche noi abbiamo spine di satana che ci fanno soffrire e ci fanno andare con difficoltà e tante volte ci scoraggiano. Prepararci alla lotta spirituale: l’evangelizzazione chiede da noi un vero coraggio anche per questa lotta interiore, nel nostro cuore, per dire con la preghiera, con la mortificazione, con la voglia di seguire Gesù, con i Sacramenti che sono un incontro con Gesù, dire a Gesù: grazie, grazie per la tua grazia. Voglio portarla agli altri. Ma questo è lavoro: questo è lavoro. Questo si chiama – non vi spaventate – si chiama martirio. Il martirio è questo: fare la lotta, tutti i giorni, per testimoniare. Questo è martirio. E ad alcuni il Signore chiede il martirio della vita, ma c’è il martirio di tutti i giorni, di tutte le ore: la testimonianza contro lo spirito del male che non vuole che noi siamo evangelizzatori.

E adesso, vorrei finire pensando una cosa. In questo tempo, in cui la gratuità sembra affievolirsi nelle relazioni interpersonali perché tutto si vende e tutto si compra, e la gratuità è difficile trovarla, noi cristiani annunciamo un Dio che per essere nostro amico non chiede nulla se non di essere accolto.
L’unica cosa che chiede Gesù: essere accolto.
Pensiamo a quanti vivono nella disperazione perché non hanno mai incontrato qualcuno che abbia loro mostrato attenzione, li abbia consolati, li abbia fatti sentire preziosi e importanti. Noi, discepoli del Crocifisso, possiamo rifiutarci di andare in quei luoghi dove nessuno vuole andare per la paura di comprometterci e del giudizio altrui, e così negare a questi nostri fratelli l’annuncio della Parola di Dio? La gratuità! Noi abbiamo ricevuto questa gratuità, questa grazia, gratuitamente; dobbiamo darla, gratuitamente. E questo è quello che, alla fine, voglio dirvi. Non avere paura, non avere paura. Non avere paura dell’amore, dell’amore di Dio, nostro Padre. Non avere paura. Non avere paura di ricevere la grazia di Gesù Cristo, non avere paura della nostra libertà che viene data dalla grazia di Gesù Cristo o, come diceva Paolo: “Non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia”. Non avere paura della grazia, non avere paura di uscire da noi stessi, non avere paura di uscire dalle nostre comunità cristiane per andare a trovare le 99 che non sono a casa. E andare a dialogare con loro, e dire loro che cosa pensiamo, andare a mostrare il nostro amore che è l’amore di Dio.


Cari, cari fratelli e sorelle: non abbiamo paura! Andiamo avanti per dire ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che noi siamo sotto la grazia, che Gesù ci dà la grazia e questo non costa niente: soltanto, riceverla. Avanti!



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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06/07/2013 22:07
 
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[SM=g1740758] Bellissimo incontro di Papa Francesco con i Seminaristi.....




Pomeriggio di festa per i seminaristi e i novizi delle famiglie religiose di tutto il mondo in attesa domani di celebrare l’ Anno delle Fede con la messa presieduta dal Papa in San Pietro. E intanto il Papa oggi pomeriggio nell’ Aula Paolo VI ha portato la sua testimonianza alle migliaia di ragazzi che da qualche giorno animano le vie intorno a San Pietro con la loro festosa presenza.
Testimonianze e canti hanno preceduto l’arrivo di Papa Francesco che ha percorso il corridoio centrale dell’ Aula protetto dai gendarmi e dalle guardie svizzere. Migliaia di mani cercavano le sue e alla fine il maggiore Kloter ha sollevato di peso una anziana suorina per farla arrivare a salutare il Papa tra gli applausi di tutti. Anche di quella suorina ha parlato Francesco nel suo discorso. Del sorriso e della serenità che ha visto nei suoi occhi. La gioia di chi ha preso una decisione “per sempre” nella vita religiosa, che non si è lasciata trascinare dalla provvisorietà e che ha saputo scegliere la semplicità.


           



“La scelta per Cristo - ha detto il Papa parlando a braccio- non è provvisoria. E' definitiva. So che in quest'epoca le scelte definitive non sono facili. Dobbiamo imparare a chiudere dall'interno la porta della nostra cella interiore.” Insomma non si lascia uno spiraglio per tornare indietro, dice il Papa. E poi spiega la gioia cristiana, che non viene dal possesso, ma dall’ amore. “Mi fa male - dice il Papa- un prete o una suora con la macchina ultimo modello. La macchina è necessaria me deve essere umile. La gioia non deriva dalle cose che abbiamo.

Esempi ne fa tanti il Papa e poi dice: “La vera gioia nasce dall'incontro, dalla relazione con gli altri, dal sentirsi accettati e amate; dall'accettare e dall'amare dalla gratuità di un incontro.” E questo amore Dio ce lo fa sentire nella preghiera. Gioia quindi perchè “non c’è santità nella tristezza” dice Francesco e ripete una delle sue frasi ormai note: “ Per favore, mai preti o suore con il volto triste, con la faccia di peperoncino sotto aceto.”

Spiega anche l’importanza del celibato che deve crescere e maturare fino a diventare fecondità spirituale, parla della necessaria coerenza di vita dei religiosi: “L'autenticità è fondamentale. Non piacciono i preti e le suore che non sono autentici.” Spiega che si deve essere autentici soprattuto nella confessione: “Ricorda: stai parlando con Gesù, che ti perdona sempre tutto. Lui sa tutto, ma aspetta la tua confessione.”

«LA CULTURA DEL PROVVISORIO CI BASTONA» - Siamo tutti sotto pressione per questa cultura del provvisorio, che fa dire: "Io mi sposo finchè dura l'amore". Oppure: "sarò suora per un pochino"» ha detto Papa Francesco.
«Oggi siete in festa - ha esordito Francesco - perchè vivete un tempo di nozze, applaudite, fate festa. Ma quando finisce la luna di miele che succede?». Parlando a braccio, il Pontefice ha citato «un seminarista bravo che gli aveva confidato di voler servire Cristo per 10 anni e poi ricominciare». «Questo - ha affermato - è pericoloso». «Non rimprovero voi», ha detto ai giovani che hanno scelto la vita consacrata. «Rimprovero - ha spiegato - questa cultura del provvisorio che ci bastona tutti». «Ai miei tempi - ha aggiunto Francesco - era più facile, la cultura favoriva una scelta definitiva»

«Penso - ha esemplificato Bergoglio - a Madre Teresa: era brava questa suora. Non aveva paura di niente. E non aveva paura di inginocchiarsi due ore davanti al Signore. Siate coraggiosi per pregare e andare controcorrente». «Non imparate da noi che non siamo più giovani quello sport che noi, i vecchi facciamo spesso: lo sport del lamento. Il culto della dea lamentela, che è una dea», ha ammonito Bergoglio rivolto ai seminaristi e alle novizie.

«Siate positivi. Siate capaci di incontrare le persone. E pregate il rosario per favore. Tenete sempre Maria con voi nella vostra casa», ha chiesto il Papa ai giovani consacrati. «Non dimenticate poi - ha concluso - che anche io ho bisogno di preghiere che sono un povero peccatore. Avanti con gioia, coerenza, col coraggio di dire la verità di uscire da se stessi per annunciare il Vangelo».

Scherza spesso con l’uditorio il Papa.. Ma il Papa va avanti e parla della formazione che deve essere spirituale, intellettuale, apostolica e comunitaria. “Per quest'ultima- dice- è necessario che la formazione sia in comunità. E' meglio il seminario peggiore che nessun seminario. Su questi quattro pilastri si edifica la propria vocazione. In questa formazione le relazioni di amicizia e di fraternità sono importanti.” Poi torna ancora sui temi che abbiamo imparato a conoscere, condanna le chiacchiere, le lamentele, la mancanza di fraternità e ribadisce: “occorre grande e autentica fraternità per combattere le invidie, le ambizioni.”

Il mandato finale per i giovani che si preparano a scegliere Dio per sempre è missionario: “uscite da voi stessi per annunciare il Vangelo” e spiega: “Ci sono due uscite: una verso Gesù, verso la trascendenza e un'altra verso gli altri. E queste due uscite vanno insieme.” Saluta i ragazzi così. “Voglio una chiesa missionaria, che non ha paura, perché sostenuta nella preghiera a Gesù” e li affida a Maria invitandoli a pregare sempre il rosario.

Pregate per me dice, perchè sono un peccatore: “ Grazie tante. Avanti! Con gioia, coerenza, col coraggio nel dire la verità, col coraggio di uscire da sé stessi per annunciare Gesù con fecondità apostolica.” I giovani lo applaudono poi si preparano a recitare appunto il rosario con una processione nei Giardini vaticani. Domattina di nuovo con il Papa per la Messa.



[SM=g1740733]  appena possibile metteremo il testo che il Papa ha fatto a braccio....







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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07/07/2013 14:24
 
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SANTA MESSA CON I SEMINARISTI, I NOVIZI E LE NOVIZIE

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana
Domenica, 7 luglio
2013

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Cari fratelli e sorelle,

già ieri ho avuto la gioia di incontrarvi, e oggi la nostra festa è ancora più grande perché ci ritroviamo per l’Eucaristia, nel giorno del Signore. Voi siete seminaristi, novizi e novizie, giovani in cammino vocazionale, provenienti da ogni parte del mondo: rappresentate la giovinezza della Chiesa! Se la Chiesa è la Sposa di Cristo, in un certo senso voi ne raffigurate il momento del fidanzamento, la primavera della vocazione, la stagione della scoperta, della verifica, della formazione. Ed è una stagione molto bella, in cui si gettano le basi per il futuro. Grazie di essere venuti!

Oggi la Parola di Dio ci parla della missione. Da dove nasce la missione? La risposta è semplice: nasce da una chiamata, quella del Signore e chi è chiamato da Lui lo è per essere inviato. Quale dev’essere lo stile dell’inviato? Quali sono i punti di riferimento della missione cristiana? Le Letture che abbiamo ascoltato ce ne suggeriscono tre: la gioia della consolazione, la croce e la preghiera.

1.  Il primo elemento: la gioia della consolazione. Il profeta Isaia si rivolge a un popolo che ha attraversato il periodo oscuro dell’esilio, ha subito una prova molto dura; ma ora per Gerusalemme è venuto il tempo della consolazione; la tristezza e la paura devono fare posto alla gioia: «Rallegratevi… esultate… sfavillate di gioia» - dice il Profeta (66,10). È un grande invito alla gioia. Perché? Qual è il motivo di questo invito alla gioia? Perché il Signore effonderà sulla Città santa e sui suoi abitanti una “cascata” di consolazione, una cascata di consolazione - così pieni di consolazione -, una cascata di tenerezza materna: «Sarete portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati» (v. 12). Quando la mamma prende il bambino sulle ginocchia e la accarezza; così il Signore farà con noi e fa con noi. Questa è la cascata di tenerezza che ci dà tanta consolazione. «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» ( v. 13). Ogni cristiano e soprattutto noi, siamo chiamati a portare questo messaggio di speranza che dona serenità e gioia: la consolazione di Dio, la sua tenerezza verso tutti. Ma ne possiamo essere portatori se sperimentiamo noi per primi la gioia di essere consolati da Lui, di essere amati da Lui. Questo è importante perché la nostra missione sia feconda: sentire la consolazione di Dio e trasmetterla! Io ho trovato alcune volte persone consacrate che hanno paura della consolazione di Dio, e… poveri, povere, si tormentano, perché hanno paura di questa tenerezza di Dio. Ma non abbiate paura. Non abbiate paura, il Signore è il Signore della consolazione, il Signore della tenerezza. Il Signore è padre e Lui dice che farà con noi come una mamma con il suo bambino, con la sua tenerezza. Non abbiate paura della consolazione del Signore. L’invito di Isaia deve risuonare nel nostro cuore: «Consolate, consolate il mio popolo» (40,1) e questo diventare missione. Noi, trovare il Signore che ci consola e andare a consolare il popolo di Dio. Questa è la missione. La gente oggi ha bisogno certamente di parole, ma soprattutto ha bisogno che noi testimoniamo la misericordia, la tenerezza del Signore, che scalda il cuore, che risveglia la speranza, che attira verso il bene. La gioia di portare la consolazione di Dio!

2.  Il secondo punto di riferimento della missione è la croce di Cristo. San Paolo, scrivendo ai Galati, afferma: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (6,14). E parla di «stigmate», cioè delle piaghe di Gesù Crocifisso, come del contrassegno, del marchio distintivo della sua esistenza di Apostolo del Vangelo. Nel suo ministero Paolo ha sperimentato la sofferenza, la debolezza e la sconfitta, ma anche la gioia e la consolazione. Questo è il mistero pasquale di Gesù: mistero di morte e di risurrezione. Ed è proprio l’essersi lasciato conformare alla morte di Gesù che ha fatto partecipare san Paolo alla sua risurrezione, alla sua vittoria. Nell’ora del buio, nell’ora della prova è già presente e operante l’alba della luce e della salvezza. Il mistero pasquale è il cuore palpitante della missione della Chiesa! E se rimaniamo dentro questo mistero noi siamo al riparo sia da una visione mondana e trionfalistica della missione, sia dallo scoraggiamento che può nascere di fronte alle prove e agli insuccessi. La fecondità pastorale, la fecondità dell’annuncio del Vangelo non è data né dal successo, né dall’insuccesso secondo criteri di valutazione umana, ma dal conformarsi alla logica della Croce di Gesù, che è la logica dell’uscire da se stessi e donarsi, la logica dell’amore. È la Croce - sempre la Croce con Cristo, perché a volte ci offrono la croce senza Cristo: questa non va! – E’ la Croce, sempre la Croce con Cristo che garantisce la fecondità della nostra missione. Ed è dalla Croce, supremo atto di misericordia e di amore, che si rinasce come «nuova creatura» (Gal 6,15).

3. Infine il terzo elemento: la preghiera. Nel Vangelo abbiamo ascoltato: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe» (Lc 10,2). Gli operai per la messe non sono scelti attraverso campagne pubblicitarie o appelli al servizio della generosità, ma sono «scelti» e «mandati» da Dio. E’ Lui che sceglie, è Lui che manda, è Lui che manda, è Lui che dà la missione. Per questo è importante la preghiera. La Chiesa, ci ha ripetuto Benedetto XVI, non è nostra, ma è di Dio; e quante volte noi, i consacrati, pensiamo che sia nostra! Facciamo di lei… qualcosa che ci viene in mente. Ma non è nostra, è di Dio. il campo da coltivare è suo. La missione allora è soprattutto grazia. La missione è grazia. E se l’apostolo è frutto della preghiera, in essa troverà la luce e la forza della la sua azione. La nostra missione, infatti, non è feconda, anzi si spegne nel momento stesso in cui si interrompe il collegamento con la sorgente, con il Signore.

Cari seminaristi, care novizie e cari novizi, cari giovani in cammino vocazionale. Uno di voi, uno dei vostri formatori, mi diceva l’altro giorno: évangéliser on fait à genoux, l’evangelizzazione si fa in ginocchio. Sentite bene: “l’evangelizzazione si fa in ginocchio”. Siate sempre uomini e donne di preghiera. Senza il rapporto costante con Dio la missione diventa mestiere. Ma da che lavori tu? Da sarto, da cuoca, da prete, lavori da prete, lavori da suora? No. Non è un mestiere, è un’altra cosa.

Il rischio dell’attivismo, di confidare troppo nelle strutture, è sempre in agguato.


Se guardiamo a Gesù, vediamo che alla vigilia di ogni decisione o avvenimento importante, si raccoglieva in preghiera intensa e prolungata. Coltiviamo la dimensione contemplativa, anche nel vortice degli impegni più urgenti e pesanti. E più la missione vi chiama ad andare verso le periferie esistenziali, più il vostro cuore sia unito a quello di Cristo, pieno di misericordia e di amore. Qui sta il segreto della fecondità pastorale, della fecondità di un discepolo del Signore!

Gesù manda i suoi senza «borsa, né sacca, né sandali» (Lc 10,4). La diffusione del Vangelo non è assicurata né dal numero delle persone, né dal prestigio dell’istituzione, né dalla quantità di risorse disponibili. Quello che conta è essere permeati dall’amore di Cristo, lasciarsi condurre dallo Spirito Santo, e innestare la propria vita nell’albero della vita, che è la Croce del Signore.

Cari amici e amiche, con grande fiducia vi affido all’intercessione di Maria Santissima. Lei è la Madre che ci aiuta a prendere le decisioni definitive con libertà, senza paura. Lei vi aiuti a testimoniare la gioia della consolazione di Dio, senza avere paura della gioia; Lei vi aiuti a conformarvi alla logica di amore della Croce e a crescere in un’unione sempre più intensa con il Signore nella preghiera. Così la vostra vita sarà ricca e feconda!



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SACERDOTI CONCELEBRANTI alla Messa di stamani con il Papa.....
mi sovviene una domanda: ma questi, CONCELEBRANTI, cosa pensavano DURANTE LA MESSA???? se il Sacerdote, celebrante-concelebrante dovrebbe essere l'Alter Christi che stavano celebrando durante la Messa?
..... ma questi sacerdoti l'hanno capita che il Papa ce l'aveva con loro? hanno capito che NON c'è bisogno di portarsi dietro queste DISTRAZIONI SPECIALMENTE SE SIETE CONCELEBRANTI?
che danno sta Messa moderna, che danno!!!! [SM=g1740730]
capisco il laico con la macchina fotografica.... ma un CONCELEBRANTE con la macchina fotografica ed ora pure con i pc no, non li accetto......

"Questo popolo si accosta a me con la bocca e mi onora con le labbra; ma il loro cuore è lontano da me. E invano mi rendono un culto, ......" (Mt.15, 8-9)

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ANGELUS


Cari fratelli e sorelle!

Prima di tutto desidero condividere con voi la gioia di aver incontrato, ieri e oggi, un pellegrinaggio speciale dell’Anno della fede: quello dei seminaristi, dei novizi e delle novizie. Vi chiedo di pregare per loro, perché l’amore per Cristo maturi sempre più nella loro vita e diventino veri missionari del Regno di Dio.

Il Vangelo di questa domenica (Lc 10,1-12.17-20) ci parla proprio di questo: del fatto che Gesù non è un missionario isolato, non vuole compiere da solo la sua missione, ma coinvolge i suoi discepoli. E oggi vediamo che, oltre ai Dodici apostoli, chiama altri settantadue, e li manda nei villaggi, a due a due, ad annunciare che il Regno di Dio è vicino. Questo è molto bello! Gesù non vuole agire da solo, è venuto a portare nel mondo l’amore di Dio e vuole diffonderlo con lo stile della comunione, con lo stile della fraternità. Per questo forma subito una comunità di discepoli, che è una comunità missionaria. Subito li allena alla missione, ad andare.

Ma attenzione: lo scopo non è socializzare, passare il tempo insieme, no, lo scopo è annunciare il Regno di Dio, e questo è urgente!, e anche oggi è urgente! Non c’è tempo da perdere in chiacchiere, non bisogna aspettare il consenso di tutti, bisogna andare e annunciare. A tutti si porta la pace di Cristo, e se non la accolgono, si va avanti uguale. Ai malati si porta la guarigione, perché Dio vuole guarire l’uomo da ogni male. Quanti missionari fanno questo! Seminano vita, salute, conforto alle periferie del mondo. Che bello è questo! Non vivere per se stesso, non vivere per se stessa, ma vive per andare a fare il bene! Ci sono tanti giovani oggi in Piazza : pensate a questo, domandatevi: Gesù mi chiama a andare, a uscire da me per fare il bene? A voi, giovani, a voi ragazzi e ragazze vi domando: voi, siete coraggiosi per questo, avete il coraggio di sentir e la voce di Gesù? E’ bello essere missionari!... Ah, siete bravi! Mi piace questo!

Questi settantadue discepoli, che Gesù manda davanti a sé, chi sono? Chi rappresentano? Se i Dodici sono gli Apostoli, e quindi rappresentano anche i Vescovi, loro successori, questi settantadue possono rappresentare gli altri ministri ordinati, presbiteri e diaconi; ma in senso più largo possiamo pensare agli altri ministeri nella Chiesa, ai catechisti, ai fedeli laici che si impegnano nelle missioni parrocchiali, a chi lavora con gli ammalati, con le diverse forme di disagio e di emarginazione; ma sempre come missionari del Vangelo, con l’urgenza del Regno che è vicino. Tutti devono essere missionari, tutti possono sentire quella chiamata di Gesù e andare avanti e annunciare il Regno!

Dice il Vangelo che quei settantadue tornarono dalla loro missione pieni di gioia, perché avevano sperimentato la potenza del Nome di Cristo contro il male. Gesù lo conferma: a questi discepoli Lui dà la forza di sconfiggere il maligno. Ma aggiunge: «Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20). Non dobbiamo vantarci come se fossimo noi i protagonisti: protagonista è uno solo, è il Signore! Protagonista è la grazia del Signore! Lui è l’unico protagonista! E la nostra gioia è solo questa: essere suoi discepoli, suoi amici. Ci aiuti la Madonna ed essere buoni operai del Vangelo.

Cari amici, la gioia! Non abbiate paura di essere gioiosi! Non abbiate paura della gioia! Quella gioia che ci dà il Signore quando lo lasciamo entrare nella nostra vita, lasciamo che Lui entri nella nostra vita e ci inviti ad andare fuori noi alle periferie della vita e annunciare il Vangelo. Non abbiate paura della gioia. Gioia e coraggio!

 


Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

come sapete, due giorni fa è stata pubblicata la Lettera Enciclica sul tema della fede, intitolata Lumen fidei, “la luce della fede”. Per l’Anno della fede, il Papa Benedetto XVI aveva iniziato questa Enciclica, che fa seguito a quelle sulla carità e sulla speranza. Io ho raccolto questo bel lavoro e l’ho portato a termine. Lo offro con gioia a tutto il Popolo di Dio: tutti infatti, specialmente oggi, abbiamo bisogno di andare all’essenziale della fede cristiana, di approfondirla e di confrontarla con le problematiche attuali. Ma penso che questa Enciclica, almeno in alcune parti, può essere utile anche a chi è alla ricerca di Dio e del senso della vita. La metto nelle mani di Maria, icona perfetta della fede, perché possa portare quei frutti che il Signore vuole.

Rivolgo il mio cordiale saluto a tutti voi, cari fedeli di Roma e pellegrini. Saluto in particolare i giovani della Diocesi di Roma che si preparano a partire per Rio de Janeiro per la Giornata Mondiale della Gioventù. Cari giovani, anch’io mi sto preparando! Camminiamo insieme verso questa grande festa della fede; la Madonna ci accompagni, e ci troveremo laggiù!

[SM=g1740733]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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08/07/2013 10:34
 
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INCONTRO CON I SEMINARISTI, I NOVIZI E LE NOVIZIE

PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Aula Paolo VI
Sabato, 6 luglio
2013

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Buona sera!

Io domandavo a mons. Fisichella se voi capite l’italiano e mi ha detto che tutti voi avete la traduzione… Sono un po’ tranquillo.

Ringrazio mons. Fisichella per le parole, e lo ringrazio anche per il suo lavoro: ha lavorato tanto per fare non solo questo, ma tutto quello che ha fatto e farà nell’Anno della fede. Grazie tante! Ma mons. Fisichella ha detto una parola, e io non so se è vero, ma io la riprendo: ha detto che tutti voi avete voglia di dare la vita per sempre a Cristo! Voi adesso applaudite, fate festa, perché è tempo di nozze… Ma quando finisce la luna di miele, che cosa succede? Ho sentito un seminarista, un bravo seminarista, che diceva che lui voleva servire Cristo, ma per dieci anni, e poi penserà di incominciare un’altra vita… Questo è pericoloso! Ma sentite bene: tutti noi, anche noi più vecchi, anche noi, siamo sotto la pressione di questa cultura del provvisorio; e questo è pericoloso, perché uno non gioca la vita una volta per sempre. Io mi sposo fino a che dura l’amore; io mi faccio suora, ma per un “tempino…”, “un po’ di tempo”, e poi vedrò; io mi faccio seminarista per farmi prete, ma non so come finirà la storia. Questo non va con Gesù! Io non rimprovero voi, rimprovero questa cultura del provvisorio, che ci bastona tutti, perché non ci fa bene: perché una scelta definitiva oggi è molto difficile.
Ai miei tempi era più facile, perché la cultura favoriva una scelta definitiva sia per la vita matrimoniale, sia per la vita consacrata o la vita sacerdotale. Ma in questa epoca non è facile una scelta definitiva. Noi siamo vittime di questa cultura del provvisorio. Io vorrei che voi pensaste a questo: come posso essere libero, come posso essere libera da questa cultura del provvisorio? Noi dobbiamo imparare a chiudere la porta della nostra cella interiore, da dentro. Una volta un prete, un bravo prete, che non si sentiva un buon prete perché era umile, si sentiva peccatore, e pregava tanto la Madonna, e diceva questo alla Madonna - lo dirò in spagnolo perché era una poesia bella -. Lui diceva alla Madonna che mai, mai si sarebbe allontanato da Gesù, e diceva: “Esta tarde, Señora, la promesa es sincera. Por las dudas, no olvide dejar la llave afuera” (“Questa sera, Madre, la promessa è sincera. Ma, per ogni evenienza, non dimenticarti di lasciare la chiave fuori”). Ma questo si dice pensando sempre all’amore alla Vergine, si dice alla Madonna. Ma quando uno lascia la chiave sempre fuori, per quello che può succedere… Non va. Dobbiamo imparare a chiudere la porta da dentro! E se non sono sicura, se non sono sicuro, penso, mi prendo il tempo, e quando mi sento sicuro, in Gesù, si capisce, perché senza Gesù nessuno è sicuro! – quando mi sento sicuro, chiudo la porta. Avete capito questo? Cosa è la cultura del provvisorio?

Quando sono entrato, ho visto quello che avevo scritto. Volevo dirvi una parola e la parola è gioia. Sempre dove sono i consacrati, i seminaristi, le religiose e i religiosi, i giovani, c’è gioia, sempre c’è gioia! E’ la gioia della freschezza, è la gioia del seguire Gesù; la gioia che ci dà lo Spirito Santo, non la gioia del mondo. C’è gioia! Ma  dove nasce la gioia? Nasce… Ma, sabato sera torno a casa e andrò a ballare con i miei antichi compagni? Da questo nasce la gioia? Di un seminarista, per esempio? No? O sì?

Alcuni diranno: la gioia nasce dalle cose che si hanno, e allora ecco la ricerca dell’ultimo modello di smartphone, lo scooter più veloce, l’auto che si fa notare…  Ma io vi dico, davvero, a me fa male quando vedo un prete o una suora con la macchina ultimo modello: ma non si può! Non si può! Voi pensate questo: ma adesso, Padre, dobbiamo andare con la bicicletta? E’ buona la bicicletta! Mons. Alfred va con la bicicletta: lui va con la bicicletta. Io credo che la macchina sia necessaria, perché si deve fare tanto lavoro e per spostarsi di qua… ma prendetene una più umile! E se ti piace quella bella, pensate a quanti bambini muoiono di fame. Soltanto questo! La gioia non nasce, non viene dalle cose che si hanno! Altri dicono che viene dalle esperienze più estreme per sentire il brivido delle sensazioni più forti: alla gioventù piace andare sul filo del coltello, piace proprio! Altri ancora dal vestito più alla moda, dal divertimento nei locali più in voga - ma con questo non dico che le suore vanno in quei posti, lo dico dei giovani in generale. Altri ancora dal successo con le ragazze o con i ragazzi, passando magari da una all’altra o da uno all’altro. E’ questa insicurezza dell’amore, che non è sicuro: è l’amore “per prova”. E potremmo continuare… Anche voi vi trovate a contatto con questa realtà che non potete ignorare.

Noi sappiamo che tutto questo può appagare qualche desiderio, creare qualche emozione, ma alla fine è una gioia che rimane alla superficie, non scende nell’intimo, non è una gioia intima: è l’ebbrezza di un momento che non rende veramente felici. La gioia non è l’ebbrezza di un momento: è un’altra cosa!

La vera gioia non viene dalle cose, dall’avere, no! Nasce dall’incontro, dalla relazione con gli altri, nasce dal sentirsi accettati, compresi, amati e dall’accettare, dal comprendere e dall’amare; e questo non per l’interesse di un momento, ma perché l’altro, l’altra è una persona. La gioia nasce dalla gratuità di un incontro! E’ il sentirsi dire: “Tu sei importante per me”, non necessariamente a parole. Questo è bello… Ed è proprio questo che Dio ci fa capire. Nel chiamarvi Dio vi dice: “Tu sei importante per me, ti voglio bene, conto su di te”. Gesù, a ciascuno di noi, dice questo! Di là nasce la gioia! La gioia del momento in cui Gesù mi ha guardato. Capire e sentire questo è il segreto della nostra gioia. Sentirsi amati da Dio, sentire che per Lui noi siamo non numeri, ma persone; e sentire che è Lui che ci chiama. Diventare sacerdote, religioso, religiosa non è primariamente una scelta nostra. Io non mi fido di quel seminarista, di quella novizia, che dice: “Io ho scelto questa strada”. Non mi piace questo! Non va! Ma è la risposta ad una chiamata e ad una chiamata di amore. Sento qualcosa dentro, che mi inquieta, e io rispondo di sì. Nella preghiera il Signore ci fa sentire questo amore, ma anche attraverso tanti segni che possiamo leggere nella nostra vita, tante persone che mette sul cammino. E la gioia dell’incontro con Lui e della sua chiamata porta a non chiudersi, ma ad aprirsi; porta al servizio nella Chiesa. San Tommaso diceva “bonum est diffusivum sui” - non è un latino troppo difficile! - Il bene si diffonde. E anche la gioia si diffonde. Non abbiate paura di mostrare la gioia di aver risposto alla chiamata del Signore, alla sua scelta di amore e di testimoniare il suo Vangelo nel servizio alla Chiesa. E la gioia, quella vera, è contagiosa; contagia… fa andare avanti.  Invece, quanto tu ti trovi con un seminarista troppo serio, troppo triste, o con una novizia così, tu pensi: ma qualcosa qui non va! Manca la gioia del Signore, la gioia che ti porta al servizio, la gioia dell’incontro con Gesù, che ti porta all’incontro con gli altri per annunziare Gesù. Manca questo! Non c’è santità nella tristezza, non c’è! Santa Teresa – ci sono tanti spagnoli qui e la conoscono bene – diceva: “Un santo triste è un triste santo!”. E’ poca cosa… Quando tu trovi un seminarista, un prete, una suora, una novizia, con una faccia lunga, triste, che sembra che sulla sua vita abbiano buttato una coperta ben bagnata, di queste coperte pesanti… che ti tira giù… Qualcosa non va! Ma per favore: mai suore, mai preti con la faccia di “peperoncino in aceto”, mai! La gioia che viene da Gesù. Pensate questo: quando ad un prete - dico prete, ma seminarista pure – quando ad un prete, ad una suora, manca la gioia, è triste, voi potete pensare: “Ma è un problema psichiatrico”. No., è vero: può andare, può andare, questo sì. Succede: alcuni, poverini, si ammalano… Può andare. Ma in genere non è un problema psichiatrico. E’ un problema di insoddisfazione? Eh, sì! Ma dov’è il centro di quella mancanza di gioia? E’ un problema di celibato. Vi spiego. Voi, seminaristi, suore, consacrate il vostro amore a Gesù, un amore grande; il cuore è per Gesù, e questo ci porta a fare il voto di castità, il voto di celibato. Ma il voto di castità e il voto di celibato non finisce nel momento del voto, va avanti… Una strada che matura, matura, matura verso la paternità pastorale, verso la maternità pastorale, e quando un prete non è padre della sua comunità, quando una suora non è madre di tutti quelli con i quali lavora, diventa triste. Questo è il problema. Per questo io dico a voi: la radice della tristezza nella vita pastorale sta proprio nella mancanza di paternità e maternità che viene dal vivere male questa consacrazione, che invece ci deve portare alla fecondità. Non si può pensare un prete o una suora che non siano fecondi: questo non è cattolico! Questo non è cattolico! Questa è la bellezza della consacrazione: è la gioia, la gioia…

Ma io non vorrei far vergognare questa santa suora [si rivolge ad una suora anziana in prima fila], che era davanti alla transenna, poverina, era proprio soffocata, ma aveva una faccia felice. Mi ha fatto bene guardare la sua faccia, suora! Forse lei avrà tanti anni di vita consacrata, ma lei ha gli occhi belli, lei sorrideva, lei non si lamentava di questa pressione… Quando voi trovate esempi come questi, tanti, tante suore, tanti preti che sono gioiosi, è perché sono fecondi, danno vita, vita, vita… Questa vita la danno perché la trovano in Gesù! Nella gioia di Gesù! Gioia, niente tristezza, fecondità pastorale.

Per essere testimoni gioiosi del Vangelo bisogna essere autentici, coerenti. E questa è un’altra parola che voglio dirvi: autenticità. Gesù bastonava tanto contro gli ipocriti: ipocriti, quelli che pensano di sotto; quelli che hanno – per dirlo chiaramente – doppia faccia. Parlare di autenticità ai giovani non costa, perché i giovani – tutti – hanno questa voglia di essere autentici, di essere corenti. E a tutti voi fa schifo, quando trovate in noi preti che non sono autentici o suore che non sono autentiche!

Questa è una responsabilità prima di tutto degli adulti, dei formatori. E’ di voi formatori che siete qui: dare un esempio di coerenza ai più giovani. Vogliamo giovani coerenti? Siamo noi coerenti! Al contrario, il Signore ci dirà quello che diceva dei farisei al popolo di Dio: “Fate quello che dicono, ma non quello che fanno!”. Coerenza e autenticità!

Ma anche voi, a vostra volta, cercate di seguire questa strada. Io dico sempre quello che affermava san Francesco d’Assisi: Cristo ci ha inviato ad annunciare il Vangelo anche con la parola. La frase è cosi: “Annunciate il Vangelo sempre. E, se fosse necessario, con le parole”. Cosa vuol dire questo? Annunziare il Vangelo con l’autenticità di vita, con la coerenza di vita. Ma in questo mondo a cui le ricchezze fanno tanto male, è necessario che noi preti, che noi suore, che tutti noi, siamo coerenti con la nostra povertà! Ma quando tu trovi che il primo interesse di una istituzione educativa o parrocchiale o qualsiasi è il denaro, questo non fa bene. Non fa bene! E’ una incoerenza! Dobbiamo essere coerenti, autentici. Per questa strada, facciamo quello che dice san Francesco: predichiamo il Vangelo con l’esempio, poi con le parole! Ma prima di tutto è nella nostra vita che gli altri devono poter leggere il Vangelo! Anche qui senza timore, con i nostri difetti che cerchiamo di correggere, con i nostri limiti che il Signore conosce, ma anche con la nostra generosità nel lasciare che Lui agisca in noi. I difetti, i limiti e - io aggiungo un po’ di più - con i peccati… Io vorrei sapere una cosa: qui, nell’Aula, c’è qualcuno che non è peccatore, che non abbia peccati? Che alzi la mano! Che alzi la mano! Nessuno. Nessuno. Da qui fino al fondo… tutti! Ma come porto io il mio peccato, i miei peccati? Voglio consigliarvi questo: abbiate trasparenza col confessore. Sempre. Dite tutto, non abbiate paura. “Padre ho peccato!”. Pensate alla samaritana, che per provare, per dire ai suoi concittadini che aveva trovato il Messia, ha detto: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”, e tutti conoscevano la vita di questa donna. Dire sempre la verità al confessore. Questa trasparenza farà bene, perché ci fa umili, tutti. “Ma padre sono rimasto in questo, ho fatto questo, ho odiato”… qualunque cosa sia. Dire la verità, senza nascondere, senza mezze parole, perché stai parlando con Gesù nella persona del confessore. E Gesù sa la verità. Soltanto Lui ti perdona sempre! Ma il Signore vuole soltanto che tu gli dica quello che Lui già sa. Trasparenza! E’ triste quando uno trova un seminarista, una suora che oggi si confessa con questo per pulire la macchia; domani va con l’altro, con l’altro, con l’altro: una preregrinatio ai confessori per nascondersi la sua verità. Trasparenza! E’ Gesù che ti sta sentendo. Abbiate sempre questa trasparenza davanti a Gesù nel confessore! Ma questa è una grazia. Padre ho peccato, ho fatto questo, questo, questo… con tutte le parole. E il Signore ti abbraccia, ti bacia! Va’, non peccare più! E se torni? Un’altra volta. Io questo lo dico per esperienza. Io ho trovato tante persone consacrate che cadono in questa trappola ipocrita della mancanza di trasparenza. “Ho fatto questo”, umilmente. Come quel pubblicano che era in fondo al Tempio: “Ho fatto questo, ho fatto questo…”. E il Signore ti tappa la bocca: è Lui che te la tappa! Ma non farlo tu! Avete capito? Dal proprio peccato, sovrabbonda la grazia! Aprite la porta alla grazia, con questa trasparenza!

I santi e i maestri della vita spirituale ci dicono che per aiutare a far crescere in autenticità la nostra vita è molto utile, anzi indispensabile, la pratica quotidiana dell’esame di coscienza. Cosa succede nella mia anima? Così, aperto, col Signore e poi col confessore, col Padre spirituale. E’ tanto importante questo! 

Fino a che ora, mons. Fisichella, abbiamo tempo?

[Mons. Fisichella: Se Lei parla così, fino a domani noi siamo qui, assolutamente.]

Ma lui dice fino a domani… Che vi porti un panino e una Coca Cola a ciascuno, se è fino a domani, almeno…

La coerenza è fondamentale perché la nostra testimonianza sia credibile. Ma non basta, ci vuole anche una preparazione culturale, preparazione culturale sottolineo, per dare ragione della fede e della speranza. Il contesto in cui viviamo sollecita continuamente questo “dare ragione”, ed è una cosa buona, perché ci aiuta a non dare nulla per scontato. Oggi non possiamo dare nulla per scontato! Questa civiltà, questa cultura… non possiamo. Ma certamente è anche impegnativo, richiede una buona formazione, equilibrata, che unisca tutte le dimensioni della vita, quella umana, quella spirituale, la dimensione intellettuale con quella pastorale. Nella formazione vostra ci sono i quattro pilastri fondamentali: formazione spirituale, ossia la vita spirituale; la vita intellettuale, questo studiare per “dare ragione”; la vita apostolica, incominciare ad andare ad annunciare il Vangelo; e, quarto, la vita comunitaria. Quattro. E per quest’ultima è necessario che la formazione sia in comunità nel noviziato, nel priorato, nei seminari… Io penso sempre questo: è meglio il peggior seminario che nessun seminario! Perché? Perché è necessaria questa vita comunitaria. Ricordate i quattro pilastri: vita spirituale, vita intellettuale, vita apostolica e vita comunitaria. Questi quattro. Su questi quattro dovete edificare la vostra vocazione.

E qui vorrei sottolineare l’importanza, in questa vita comunitaria, delle relazioni di amicizia e di fraternità che fanno parte integrante di questa formazione. Arriviamo ad un altro problema qui. Perché dico questo: relazioni di amicizia e di fraternità. Tante volte ho trovato comunità, seminaristi, religiosi, o comunità diocesane dove le giaculatorie più comuni sono le chiacchiere! E’ terribile! Si “spellano” uno con l’altro… E questo è il nostro mondo clericale, religioso… Scusatemi, ma è comune: gelosie, invidie, parlare male dell’altro. Non solo parlare male dei superiori, questo è un classico! Ma io voglio dirvi che questo è tanto comune, tanto comune. Anche io sono caduto in questo. Tante volte l’ho fatto, tante volte! E mi vergogno! Mi vergogno di questo! Non sta bene farlo: andare a fare chiacchiere. “Hai sentito… Hai sentito… “. Ma è un inferno quella comunità! Questo non fa bene. E perciò è importante la relazione di amicizia e di fraternità. Gli amici sono pochi. La Bibbia dice questo: gli amici, uno, due… Ma la fraternità, fra tutti. Se io ho qualcosa con una sorella o con un fratello, lo dico in faccia, o lo dico a quello o a quella che può aiutare, ma non lo dico agli altri per “sporcarlo”. E le chiacchiere, è terribile! Dietro le chiacchiere, sotto le chiacchiere ci sono le invidie, le gelosie, le ambizioni. Pensate a questo. Una volta ho sentito di una persona che, dopo gli esercizi spirituali – una persona consacrata, una suora… Questo è buono! Questa suora aveva promesso al Signore di non parlare mai male di un’altra. Questa è una bella, una bella strada alla santità! Non parlare male di altri. “Ma, padre, ci sono problemi…”: dillo al superiore, dillo alla superiora, dillo al vescovo, che può rimediare. Non dirlo a quello che non può aiutare. Questo è importante: fraternità!  Ma dimmi, tu parlerai male della tua mamma, del tuo papà, dei tuoi fratelli? Mai. E perché lo fai nella vita consacrata, nel seminario, nella vita presbiterale? Soltanto questo: pensate, pensate… Fraternità! Questo amore fraterno.

Ci sono però due estremi; in questo aspetto dell’amicizia e della fraternità, ci sono due estremi: tanto l’isolamento quanto la dissipazione. Un’amicizia e una fraternità che mi aiuti a non cadere né nell’isolamento né nella dissipazione. Coltivare le amicizie, sono un bene prezioso: devono però educarvi non alla chiusura, ma ad uscire da voi stessi. Un sacerdote, un religioso, una religiosa non può mai essere un’isola, ma una persona sempre disponibile all’incontro. Le amicizie poi si arricchiscono anche dei diversi carismi delle vostre famiglie religiose. E’ una ricchezza grande. Pensiamo alle belle amicizie di tanti santi.

Io credo che devo tagliare un po’, perché la pazienza vostra è grande!

[Seminaristi: “Noooo!”]

        Io vorrei dirvi: uscite da voi stessi per annunziare il Vangelo, ma per fare questo dovete uscire da voi stessi per incontrare Gesù. Ci sono due uscite: una verso l’incontro di Gesù, verso la trascendenza; l’altra verso gli altri per annunziare Gesù. Queste due vanno insieme. Se tu ne fai una soltanto, non va! Io penso alla Madre Teresa di Calcutta. Era brava questa suora… Non aveva paura di niente, andava per le strade… Ma questa donna non aveva paura anche di inginocchiarsi, due ore, davanti al Signore. Non abbiate paura di uscire da voi stessi nella preghiera e nell’azione pastorale. Siate coraggiosi per pregare e per andare a annunziare il Vangelo.

Io vorrei una Chiesa più missionaria, non tanto tranquilla. Quella bella Chiesa che va avanti. In questi giorni sono venuti tanti missionari e missionarie alla Messa del mattino, qui a Santa Marta, e quando mi salutavano mi dicevano: “Ma io sono una suora anziana; è quarant’anni che sono nel Ciad, che sono qua, che sono là…”. Che bello! Ma tu capivi che questa suora ha passato questi anni così, perché non ha mai tralasciato di incontrare Gesù nella preghiera. Uscire da se stessi, verso la trascendenza a Gesù nella preghiera, verso la trascendenza agli altri nell’apostolato, nel lavoro. Date il contributo per una Chiesa così: fedele alla strada che Gesù vuole. Non imparate da noi, da noi, che non siamo più giovanissimi; non imparate da noi quello sport che noi, i vecchi, abbiamo spesso: lo sport del lamento! Non imparate da noi il culto della “dea lamentela”. E’ una dea quella… sempre col lamento…. Ma siate positivi, coltivate la vita spirituale e, nello stesso tempo, andate, siate capaci di incontrare le persone, specialmente quelle più disprezzate e svantaggiate. Non abbiate paura di uscire e andare controcorrente. Siate contemplativi e missionari. Tenete sempre la Madonna con voi, pregate il Rosario, per favore… Non lasciatelo! Tenete sempre la Madonna con voi nella vostra casa, come la teneva l’Apostolo Giovanni. Lei sempre vi accompagni e vi protegga. E pregate anche per me, perché anche io ho bisogno di preghiere, perché sono un povero peccatore, però andiamo avanti.

Grazie tante e ci rivedremo domani. E avanti, con gioia, con coerenza, sempre con quel coraggio di dire la verità, quel coraggio di uscire da se stessi per incontrare Gesù nella preghiera e di uscire da se stessi per incontrare gli altri e dare loro il Vangelo. Con la fecondità pastorale! Per favore non siate “zitelle” e “zitelli”. Avanti!

Adesso, diceva mons. Fisichella, che ieri avete recitato il Credo, ognuno nella propria lingua. Ma siamo tutti fratelli, abbiamo uno stesso Padre. Adesso, ciascuno nella propria lingua, reciti il Padre Nostro. Recitiamo il Padre Nostro.

[Recita del Padre Nostro]

E abbiamo anche una Madre. Nella propria lingua diciamo l’Ave Maria.

[Recita dell’Ave Maria]




[SM=g1740766]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Ai Reverendi Sacerdoti e Diaconi
della Diocesi di Roma
(con allegato)

     Carissimi,

     Papa Francesco ha espresso il desiderio di incontrare il prossimo 16 settembre, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, alle ore 10, il clero della Diocesi di Roma e i sacerdoti che collaborano nei diversi ministeri diocesani.
     Fin dalle prime parole dopo la sua elezione il Santo Padre ha manifestato la Sua particolare vicinanza alla Chiesa di Roma di cui è Vescovo e in questi primi mesi di ministero abbiamo avuto modo di vedere e apprezzare quanto Egli abbia a cuore la nostra Città e l’intera comunità diocesana.
     In questo primo incontro del nostro presbiterio ascolteremo il Papa per essere confermati nella fede e incoraggiati nel ministero.
     Per prepararci all’incontro il Papa mi ha chiesto di inviarvi il testo di una Sua riflessione fatta ai sacerdoti dell’Arcidiocesi di Buenos Aires nel 2008, dopo la Conferenza dell’Episcopato Latino-americano ad Apparecida (Brasile).
     I primi giorni di settembre verranno fornite dal Vicariato le informazioni sulle modalità di partecipazione e di svolgimento dell’incontro.
     Mentre vi auguro un salutare periodo di riposo e di rigenerazione spirituale dopo il lavoro dell’anno pastorale, vi assicuro il mio fraterno e costante ricordo nella preghiera, che confido sia anche vostro di me.
Dal Vicariato, 16 luglio 2013

Agostino Card. Vallini

 

Documento del Santo Padre Papa Francesco

 
seguirà il testo dell'incontro....

 Il vescovo di Roma ha dialogato a lungo con i suoi preti nella basilica
di San Giovanni in Laterano

Con il sostegno della misericordia

La Chiesa non crolla perché anche oggi la santità di tante donne e di tanti uomini è più forte di ogni scandalo

Lo sguardo misericordioso di Gesù sostiene il sacerdote nella fatica quotidiana della sua missione. Così è, da sessant'anni, per Jorge Mario Bergoglio. Divenuto vescovo di Roma sei mesi fa, stamani 16 settembre ha compiuto un passo decisivo per entrare nel cuore della sua diocesi. Nella basilica di San Giovanni al Laterano, cattedrale di Roma, Papa Francesco ha dialogato a lungo con il suo clero.
"Mi sento prete" ha confidato. E ripercorrendo anche le sue esperienze personali a Buenos Aires, ha rivelato di non avere mai avuto la tentazione di sentirsi più importante da quando è Papa. Al clero romano ha chiesto in particolare di pregare per lui. Soprattutto il 21 settembre, festa di san Matteo. Perché proprio quel giorno, sessant'anni fa, ha scoperto la vocazione al sacerdozio.


Nella prima parte dell'incontro - introdotto dal Veni creator Spiritus e da un passo del vangelo di Giovanni - il Papa ha parlato anzitutto della buona fatica del sacerdote per la missione in mezzo al popolo.

Essere prete, ha assicurato, significa lavorare molto, perché la gente ha oggi più che mai tante esigenze. E la sensazione della fatica, ha aggiunto, comprende per il sacerdote anche domande forti su stesso, sulla bontà della propria vocazione e sulle rinunce che essa comporta, prima fra tutte la paternità biologica. Ma è una fatica che il sacerdote vive e supera con tutto il suo essere. Tra i vari esempi biblici a cui si è riferito, il vescovo di Roma ha indicato soprattutto Maria che, come diceva Giovanni Paolo ii, aveva una "peculiare fatica del cuore". Del resto, la preghiera e la vicinanza agli altri, a partire dal proprio vescovo, sono per il prete un antidoto efficace nei momenti di maggiore fatica.

Papa Francesco ha poi risposto alle domande di cinque rappresentanti del clero romano, affrontando insieme con loro alcune questioni centrali nella vita della Chiesa. Ha subito invitato i preti a essere coraggiosi, ad avere una giusta creatività, che non significare fare qualcosa di nuovo per forza, per arrivare alla necessaria conversione pastorale. Le parrocchie, ha raccomandato, devono essere sempre aperte e accoglienti, magari con il confessore a disposizione. Anche i laici che si occupano dell'amministrazione devono mostrare alla gente il volto accogliente della Chiesa. Si tratta, in buona sostanza, di trovare sempre nuove strade perché il Vangelo sia annunciato e testimoniato nelle realtà della vita quotidiana.
Così è importare cercare nuove vie, adatte e adeguate alle persone a cui ci si rivolge: facilitando, per esempio, la partecipazione ai corsi pre-battesimali e coinvolgendo i laici in missioni di quartiere.
In una grande città come Roma, ha riconosciuto il Pontefice, l'accoglienza cordiale non è sempre facile da organizzare. Ma le persone, ha rimarcato con forza, non devono avere mai l'impressione di trovarsi di fronte a funzionari con interessi economici e non spirituali.

Il vescovo di Roma ha suggerito poi di tenere viva la memoria della nascita della propria vocazione, del primo amore verso Gesù: è il sentimento proprio di un innamorato, e il prete deve esserlo sempre.
Una Chiesa senza memoria, del resto, non ha vita. Proprio questo stile di memoria contribuisce anche a non cadere nella rischio della mondanità spirituale.

Un altro aspetto decisivo è saper dire la verità senza lasciare mai sole le persone in difficoltà. Infatti la verità di Dio va sempre di pari passo con l'accompagnamento personale. Non si tratta di essere di manica larga o rigidi: né l'uno né l'altro sono atteggiamenti misericordiosi. Bisogna invece ccogliere l'altro, accompagnarlo, proprio come Gesù con i due discepoli di Emmaus.
Papa Francesco non ha certo nascosto i problemi e gli scandali anche gravissimi, come la pedofilia, che toccano la Chiesa.
Ma la Chiesa non crolla, ha assicurato rispondendo a un sacerdote che nel suo intervento si era riferito al sogno di Innocenzo iii che vide Francesco di Assisi sostenere l'edificio pericolante della Chiesa. E non crolla perché oggi, come sempre, c'è tanta santità quotidiana: ci sono molte donne e molti uomini che vivono la fede nella vita di ogni giorno. E la santità è più forte degli scandali.

A questo proposito, il Papa ha raccontato il dialogo telefonico, avvenuto ieri, domenica 15 settembre, con una donna di Buenos Aires che gli aveva scritto una lettera su un tovagliolo di carta. A recapitarla al Pontefice era stato, venerdì, il direttore della televisione cattolica dell'arcidiocesi di Buenos Aires. La donna, che fa le pulizie nell'aeroporto della capitale argentina, ha un figlio tossicodipendente e disoccupato. E lavora per lui, sperando nel futuro del ragazzo. Questa è santità, ha commentato il Papa.

L'incontro si è concluso con tre domande sulle periferie esistenziali. Innanzi tutto il Papa ha ripetuto le parole pronunciate al centro Astalli, elogiando la generosità di Roma ma incoraggiando a fare ancora di più. E alle congregazioni religiose che hanno poche vocazioni è tornato a raccomandare di non cadere nella tentazione di aggrapparsi ai soldi ma di avere il coraggio di aprire le porte ai bisognosi.
Inoltre per il Pontefice la realtà si capisce meglio dalla periferia e non dal centro che, invece, fa correre il rischio di atrofizzarsi. E le periferie non sono solo quelle geografiche.

Infine, il vescovo di Roma ha concluso l'incontro affrontando le questioni relative alla nullità del matrimonio, un tema che sta a cuore a Benedetto xvi. E ha reso noto che ci sono proposte, studi e approfondimenti in corso. Ne parleranno a ottobre il gruppo degli otto cardinali e il prossimo sinodo dei Vescovi. Queste situazioni, ha aggiunto, sono una vera e propria periferia esistenziale che esige coraggio pastorale, sempre nella verità e nella giustizia.

Ad accogliere il Papa al suo arrivo, venti minuti prima del previsto, è stato il cardinale vicario Agostino Vallini che nell'indirizzo di saluto ha raccontato come questo incontro sia stato messo in programma dal nuovo vescovo di Roma appena eletto. La diocesi ha fatto dono al proprio vescovo di un'icona raffigurante san Francesco che sorregge la Chiesa, opera del parroco don Massimo Tellan. Al termine, prima di far rientro in Vaticano dopo oltre due ore e dieci minuti, il Pontefice ha incontrato i frati minori che svolgono il ministero di penitenzieri nella basilica cattedrale di Roma. E li ha invitati a essere misericordiosi.



(L'Osservatore Romano 16-17 settembre 2013)


[SM=g1740733] 



[Modificato da Caterina63 16/09/2013 23:58]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    L’unità e l’integrità della fede



47. L’unità della Chiesa, nel tempo e nello spazio, è collegata all’unità della fede: « Un solo corpo e un solo spirito […] una sola fede » (Ef 4, 4-5).Oggi può sembrare realizzabile un’unione degli uomini in un impegno comune, nel volersi bene, nel condividere una stessa sorte, in una meta comune. Ma ci risulta molto difficile concepire un’unità nella stessa verità. Ci sembra che un’unione del genere si opponga alla libertà del pensiero e all’autonomia del soggetto. L’esperienza dell’amore ci dice invece che proprio nell’amore è possibile avere una visione comune, che in esso impariamo a vedere la realtà con gli occhi dell’altro, e che ciò non ci impoverisce, ma arricchisce il nostro sguardo. L’amore vero, a misura dell’amore divino, esige la verità e nello sguardo comune della verità, che è Gesù Cristo, diventa saldo e profondo. Questa è anche la gioia della fede, l’unità di visione in un solo corpo e in un solo spirito. In questo senso san Leone Magno poteva affermare: « Se la fede non è una, non è fede ».[40]

Qual è il segreto di questa unità? La fede è "una", in primo luogo, per l’unità del Dio conosciuto e confessato. Tutti gli articoli di fede si riferiscono a Lui, sono vie per conoscere il suo essere e il suo agire, e per questo possiedono un’unità superiore a qualsiasi altra che possiamo costruire con il nostro pensiero, possiedono l’unità che ci arricchisce, perché si comunica a noi e ci rende "uno".

La fede è una, inoltre, perché si rivolge all’unico Signore, alla vita di Gesù, alla sua storia concreta che condivide con noi. Sant’Ireneo di Lione l’ha chiarito in opposizione agli eretici gnostici. Costoro sostenevano l’esistenza di due tipi di fede, una fede rozza, la fede dei semplici, imperfetta, che si manteneva al livello della carne di Cristo e della contemplazione dei suoi misteri; e un altro tipo di fede più profondo e perfetto, la fede vera riservata a una piccola cerchia di iniziati che si elevava con l’intelletto al di là della carne di Gesù verso i misteri della divinità ignota. Davanti a questa pretesa, che continua ad avere il suo fascino e i suoi seguaci anche ai nostri giorni, sant’Ireneo ribadisce che la fede è una sola, perché passa sempre per il punto concreto dell’Incarnazione, senza superare mai la carne e la storia di Cristo, dal momento che Dio si è voluto rivelare pienamente in essa. È per questo che non c’è differenza nella fede tra "colui che è in grado di parlarne più a lungo" e "colui che ne parla poco", tra colui che è superiore e chi è meno capace: né il primo può ampliare la fede, né il secondo diminuirla.[41]

Infine, la fede è una perché è condivisa da tutta la Chiesa, che è un solo corpo e un solo Spirito. Nella comunione dell’unico soggetto che è la Chiesa, riceviamo uno sguardo comune. Confessando la stessa fede poggiamo sulla stessa roccia, siamo trasformati dallo stesso Spirito d’amore, irradiamo un’unica luce e abbiamo un unico sguardo per penetrare la realtà.

48. Dato che la fede è una sola, deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità. Proprio perché tutti gli articoli di fede sono collegati in unità, negare uno di essi, anche di quelli che sembrerebbero meno importanti, equivale a danneggiare il tutto. 

Ogni epoca può trovare punti della fede più facili o difficili da accettare: per questo è importante vigilare perché si trasmetta tutto il deposito della fede (cfr 1 Tm 6,20), perché si insista opportunamente su tutti gli aspetti della confessione di fede. Infatti, in quanto l’unità della fede è l’unità della Chiesa, togliere qualcosa alla fede è togliere qualcosa alla verità della comunione. I Padri hanno descritto la fede come un corpo, il corpo della verità, con diverse membra, in analogia con il corpo di Cristo e con il suo prolungamento nella Chiesa.[42] L’integrità della fede è stata legata anche all’immagine della Chiesa vergine, alla sua fedeltà nell’amore sponsale per Cristo: danneggiare la fede significa danneggiare la comunione con il Signore.[43] L’unità della fede è dunque quella di un organismo vivente, come ha ben rilevato il beato John Henry Newman quando enumerava, tra le note caratteristiche per distinguere la continuità della dottrina nel tempo, il suo potere di assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra,[44] tutto purificando e portando alla sua migliore espressione. La fede si mostra così universale, cattolica, perché la sua luce cresce per illuminare tutto il cosmo e tutta la storia.

49. Come servizio all’unità della fede e alla sua trasmissione integra, il Signore ha dato alla Chiesa il dono della successione apostolica. 

Per suo tramite, risulta garantita la continuità della memoria della Chiesa ed è possibile attingere con certezza alla fonte pura da cui la fede sorge. La garanzia della connessione con l’origine è data dunque da persone vive, e ciò corrisponde alla fede viva che la Chiesa trasmette. Essa poggia sulla fedeltà dei testimoni che sono stati scelti dal Signore per tale compito. Per questo il Magistero parla sempre in obbedienza alla Parola originaria su cui si basa la fede ed è affidabile perché si affida alla Parola che ascolta, custodisce ed espone.[45] Nel discorso di addio agli anziani di Efeso, a Mileto, raccolto da san Luca negli Atti degli Apostoli, san Paolo testimonia di aver compiuto l’incarico affidatogli dal Signore di annunciare « tutta la volontà di Dio » (At 20,27). È grazie al Magistero della Chiesa che ci può arrivare integra questa volontà, e con essa la gioia di poterla compiere in pienezza.






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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ESORTAZIONE APOSTOLICA
EVANGELII GAUDIUM
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
AI VESCOVI 
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE 
E AI FEDELI LAICI 
SULL' ANNUNCIO DEL VANGELO
NEL MONDO ATTUALE




 papa francesco




 




INDICE




La Gioia del Vangelo [1]




I.  Gioia che si rinnova e si comunica [2-8]




II. La dolce e confortante gioia di evangelizzare [9-13]






Un’eterna novità [11-13]




III. La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede [14-18]






Proposta e limiti di questa Esortazione [16-18]     




CAPITOLO PRIMO
LA TRASFORMAZIONE MISSIONARIA DELLA CHIESA




I. Una Chiesa in uscita [20-24]                         






Prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare [24]




II. Pastorale in conversione [25-33]                   






Un improrogabile rinnovamento ecclesiale [27-33]




III. Dal cuore del Vangelo [34-39]




IV. La missione che si incarna nei limiti umani [40-45]




V. Una madre dal cuore aperto  [46-49]             




CAPITOLO SECONDO
NELLA CRISI DELL'IMPEGNO COMUNITARIO




I. Alcune sfide del mondo attuale [52-75]        






No a un’economia dell’esclusione [53-54]
No alla nuova idolatria del denaro [55-56]
No a un denaro che governa invece di servire [57-58]
No all’inequità che genera violenza [59-60]
Alcune sfide culturali [61-67]
Sfide dell’inculturazione della fede [68-70]
Sfide delle culture urbane [71-75]                   




II. Tentazioni degli operatori pastorali [76-109]              






Sì alla sfida di una spiritualità missionaria [78-80]
No all’accidia egoista [81-83]
No al pessimismo sterile [84-86]
Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo [87-92]
No alla mondanità spirituale [93-97]
No alla guerra tra di noi [98-101]
Altre sfide ecclesiali [102-109]                      




CAPITOLO TERZO
L’ANNUNCIO DEL VANGELO




I. Tutto il Popolo di Dio annuncia il Vangelo [111-134]               






Un popolo per tutti [112-114]
Un popolo dai molti volti [115-118]
Tutti siamo discepoli missionari [119-121]
La forza evangelizzatrice della pietà popolare [122-126] 
Da persona a persona [127-129]
Carismi al servizio della comunione evangelizzatrice [130-131]
Cultura, pensiero ed educazione [132-134]     




II. L’omelia [135-144]                                      






Il contesto liturgico [137-138]
La conversazione di una madre [139-141]
Parole che fanno ardere i cuori [142-144]      




III. La preparazione della predicazione [145-159]    






Il culto della verità [146-148]
La personalizzazione della Parola [149-151]
La lettura spirituale [152-153]
In ascolto del popolo [154-155]
Strumenti pedagogici [156-159]                    




IV. Un’evangelizzazione per l’approfondimento del kerygma [160-175]                   






Una catechesi kerygmatica e mistagogica [163-168]
L’accompagnamento personale dei processi di crescita [169-173]
Circa la Parola di Dio [174-175]                




CAPITOLO QUARTO
LA DIMENSIONE SOCIALE DELL'EVANGELIZZAZIONE




I. Le ripercussioni comunitarie e sociali del kerygma [177-185]                 






Confessione della fede e impegno sociale [178-179]
Il Regno che ci chiama [180-181]
L'insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali [182-185]                     




II. L’inclusione sociale dei poveri [186-216]    






Uniti a Dio ascoltiamo un grido [187-192]
Fedeltà al Vangelo per non correre invano [193-196]
Il posto privilegiato dei poveri nel Popolo di Dio [197-201]
Economia e distribuzione delle entrate [202-208]
Avere cura della fragilità [209-216]             




III. Il bene comune e la pace sociale [217-237]        






Il tempo è superiore allo spazio [222-225]
L’unità prevale sul conflitto [226-230]
La realtà è più importante dell’idea [231-233]
Il tutto è superiore alla parte [234-237]         




IV. Il dialogo sociale come contributo per la pace [238-258]                      






Il dialogo tra la fede, la ragione e le scienze [242-243]
Il dialogo ecumenico [244-246]
Le relazioni con l’Ebraismo [247-249]
Il dialogo interreligioso [250-254]
Il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa [255-258]                       




CAPITOLO QUINTO
EVANGELIZZATORI CON SPIRITO




I. Motivazioni per un rinnovato impulso missionario [262-283]               



L’incontro personale con l’amore di Gesù che ci salva [264-267]
Il piacere spirituale di essere popolo [268-274]
L’azione misteriosa del Risorto e del suo Spirito [275-280]
La forza missionaria dell’intercessione [281-283]   




II. Maria, la Madre dell’evangelizzazione [284-288]                       



Il dono di Gesù al suo popolo [285-286]
La Stella della nuova evangelizzazione [287-288]           





 






 


  cliccando qui, troverete la spiegazione dell'esortazione..... indispensabile per una corretta interpretazione....



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   Il Papa: il rapporto con Gesù salva i sacerdoti da mondanità e idolatria del 'dio Narciso'




Il vero sacerdote, unto da Dio per il suo popolo, ha un rapporto stretto con Gesù: quando questo manca, il prete diventa “untuoso”, un idolatra, devoto del ‘dio Narciso’: è quanto ha affermato Papa Francesco nella Messa presieduta stamani, 11 gennaio a Santa Marta. Hanno concelebrato il cardinale Angelo Bagnasco e un gruppo di sacerdoti dell’arcidiocesi di Genova. Il servizio di Sergio CentofantiRealAudioMP3 

L’omelia di Papa Francesco è tutta dedicata ai sacerdoti. Commentando la prima lettera di San Giovanni, laddove dice che abbiamo la vita eterna perché crediamo nel nome di Gesù, il Papa si chiede come sia il rapporto dei sacerdoti con Gesù, perché “la forza di un sacerdote è in questo rapporto”. “Gesù, quando cresceva in popolarità – osserva - andava dal Padre”, si ritirava “in luoghi deserti a pregare”. “Questa è un po’ la pietra di paragone di noi preti – ha affermato - se andiamo o non andiamo a trovare Gesù; qual è il posto di Gesù Cristo nella mia vita sacerdotale? Un rapporto vivo, da discepolo a Maestro, da fratello a fratello, da pover’uomo a Dio, o è un rapporto un po’ artificiale … che non viene dal cuore?”: 

“Noi siamo unti dallo Spirito e quando un sacerdote si allontana da Gesù Cristo può perdere l’unzione. Nella sua vita, no: essenzialmente ce l’ha … ma la perde. E invece di essere unto finisce per essere untuoso. E quanto male fanno alla Chiesa i preti untuosi! Quelli che mettono la loro forza nelle cose artificiali, nelle vanità, in un atteggiamento … in un linguaggio lezioso … Ma, quante volte si sente dire con dolore: ‘Ma, questo è un prete-farfalla!’, perché sempre è nelle vanità … Questo non ha il rapporto con Gesù Cristo! Ha perso l’unzione: è un untuoso”. 

Il Papa ha quindi aggiunto:

“Noi sacerdoti abbiamo tanti limiti: siamo peccatori, tutti. Ma se andiamo da Gesù Cristo, se cerchiamo il Signore nella preghiera – la preghiera di intercessione, la preghiera di adorazione – siamo buoni sacerdoti, benché siamo peccatori. Ma se ci allontaniamo da Gesù Cristo, dobbiamo compensare questo con altri atteggiamenti … mondani. E così, tutte queste figure … anche il prete-affarista, il prete-imprenditore … Ma il prete che adora Gesù Cristo, il prete che parla con Gesù Cristo, il prete che cerca Gesù Cristo e che si lascia cercare da Gesù Cristo: questo è il centro della nostra vita. Se non c’è questo, perdiamo tutto. E cosa daremo alla gente?”. 

“Il nostro rapporto con Gesù Cristo, rapporto di unti per il suo popolo – ha esortato il Papa - cresca in noi” sacerdoti “ogni giorno di più”: 

“Ma, è bello trovare preti che hanno dato la loro vita come sacerdoti, davvero, e di cui la gente dice: ‘Ma, sì, ha un caratteraccio, ha questo, ha quello … ma è un prete!’. E la gente ha il fiuto! Invece, quando la gente vede i preti – per dire una parola – idolatri, che invece di avere Gesù, hanno i piccoli idoli … piccoli … alcuni devoti del ‘dio Narciso’, anche … Quando la gente vede questi, la gente dice: ‘Poveraccio!’. Quello che ci salva dalla mondanità e dall’idolatria che ci fa untuosi, quello che ci conserva nella unzione, è il rapporto con Gesù Cristo. E oggi, a voi che avete avuto la gentilezza di venire a concelebrare qui, con me, auguro questo: ma perdete tutto nella vita, ma non perdete questo rapporto con Gesù Cristo! Questa è la vostra vittoria. E avanti, con questo!”.




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/01/11/il_papa:_il_rapporto_con_ges%C3%B9_salva_i_sacerdoti_da_mondanit%C3%A0_e/it1-763031 
del sito Radio Vaticana 


 


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06/03/2014 17:07
 
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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARROCI DI ROMA

Aula Paolo VI
Giovedì, 6 marzo 2014

Video

http://d1.yimg.com/sr/img/1/aa813308-fc68-322e-9cc4-fe7f671b18b3

 

Quando insieme al Cardinale Vicario abbiamo pensato a questo incontro, gli ho detto che avrei potuto fare per voi una meditazione sul tema della misericordia. All’inizio della Quaresima riflettere insieme, come preti, sulla misericordia ci fa bene. Tutti noi ne abbiamo bisogno. E anche i fedeli, perché come pastori dobbiamo dare tanta misericordia, tanta!

Il brano del Vangelo di Matteo che abbiamo ascoltato ci fa rivolgere lo sguardo a Gesù che cammina per le città e i villaggi. E questo è curioso. Qual è il posto dove Gesù era più spesso, dove lo si poteva trovare con più facilità? Sulle strade. Poteva sembrare che fosse un senzatetto, perché era sempre sulla strada. La vita di Gesù era nella strada. Soprattutto ci invita a cogliere la profondità del suo cuore, ciò che Lui prova per le folle, per la gente che incontra: quell’atteggiamento interiore di “compassione”, vedendo le folle, ne sentì compassione. Perché vede le persone “stanche e sfinite, come pecore senza pastore”. Abbiamo sentito tante volte queste parole che forse non entrano con forza. Ma sono forti! Un po’ come tante persone che voi incontrate oggi per le strade dei vostri quartieri… Poi l’orizzonte si allarga, e vediamo che queste città e questi villaggi sono non solo Roma e l’Italia, ma sono il mondo… e quelle folle sfinite sono popolazioni di tanti Paesi che stanno soffrendo situazioni ancora più difficili…

Allora comprendiamo che noi non siamo qui per fare un bell’esercizio spirituale all’inizio della Quaresima, ma per ascoltare la voce dello Spirito che parla a tutta la Chiesa in questo nostro tempo, che è proprio il tempo della misericordia. Di questo sono sicuro. Non è solo la Quaresima; noi stiamo vivendo in tempo di misericordia, da trent’anni o più, fino adesso.

1. Nella Chiesa tutta è il tempo della misericordia.

Questa è stata un’intuizione del beato Giovanni Paolo II. Lui ha avuto il “fiuto” che questo era il tempo della misericordia. Pensiamo alla beatificazione e canonizzazione di Suor Faustina Kowalska; poi ha introdotto la festa della Divina Misericordia. Piano piano è avanzato, è andato avanti su questo.

Nell’Omelia per la Canonizzazione, che avvenne nel 2000, Giovanni Paolo II sottolineò che il messaggio di Gesù Cristo a Suor Faustina si colloca temporalmente tra le due guerre mondiali ed è molto legato alla storia del ventesimo secolo. E guardando al futuro disse: «Che cosa ci porteranno gli anni che sono davanti a noi? Come sarà l’avvenire dell’uomo sulla terra? A noi non è dato di saperlo. E’ certo tuttavia che accanto a nuovi progressi non mancheranno, purtroppo, esperienze dolorose. Ma la luce della divina misericordia, che il Signore ha voluto quasi riconsegnare al mondo attraverso il carisma di suor Faustina, illuminerà il cammino degli uomini del terzo millennio». E’ chiaro. Qui è esplicito, nel 2000, ma è una cosa che nel suo cuore maturava da tempo. Nella sua preghiera ha avuto questa intuizione.

Oggi dimentichiamo tutto troppo in fretta, anche il Magistero della Chiesa! In parte è inevitabile, ma i grandi contenuti, le grandi intuizioni e le consegne lasciate al Popolo di Dio non possiamo dimenticarle. E quella della divina misericordia è una di queste. E’ una consegna che lui ci ha dato, ma che viene dall’alto. Sta a noi, come ministri della Chiesa, tenere vivo questo messaggio soprattutto nella predicazione e nei gesti, nei segni, nelle scelte pastorali, ad esempio la scelta di restituire priorità al sacramento della Riconciliazione, e al tempo stesso alle opere di misericordia. Riconciliare, fare pace mediante il Sacramento, e anche con le parole, e con le opere di misericordia.

2. Che cosa significa misericordia per i preti?

Mi viene in mente che alcuni di voi mi hanno telefonato, scritto una lettera, poi ho parlato al telefono… “Ma Padre, perché Lei ce l’ha con i preti?”. Perché dicevano che io bastono i preti! Non voglio bastonare qui…

Domandiamoci che cosa significa misericordia per un prete, permettetemi di dire per noi preti. Per noi, per tutti noi! I preti si commuovono davanti alle pecore, come Gesù, quando vedeva la gente stanca e sfinita come pecore senza pastore. Gesù ha le “viscere” di Dio, Isaia ne parla tanto: è pieno di tenerezza verso la gente, specialmente verso le persone escluse, cioè verso i peccatori, verso i malati di cui nessuno si prende cura… Così a immagine del Buon Pastore, il prete è uomo di misericordia e di compassione, vicino alla sua gente e servitore di tutti. Questo è un criterio pastorale che vorrei sottolineare tanto: la vicinanza. La prossimità e il servizio, ma la prossimità, la vicinanza!… Chiunque si trovi ferito nella propria vita, in qualsiasi modo, può trovare in lui attenzione e ascolto… In particolare il prete dimostra viscere di misericordia nell’amministrare il sacramento della Riconciliazione; lo dimostra in tutto il suo atteggiamento, nel modo di accogliere, di ascoltare, di consigliare, di assolvere… Ma questo deriva da come lui stesso vive il sacramento in prima persona, da come si lascia abbracciare da Dio Padre nella Confessione, e rimane dentro questo abbraccio… Se uno vive questo su di sé, nel proprio cuore, può anche donarlo agli altri nel ministero. E vi lascio la domanda: Come mi confesso? Mi lascio abbracciare? Mi viene alla mente un grande sacerdote di Buenos Aires, ha meno anni di me, ne avrà 72… Una volta è venuto da me. E’ un grande confessore: c’è sempre la coda lì da lui… I preti, la maggioranza, vanno da lui a confessarsi… E’ un grande confessore. E una volta è venuto da me: “Ma Padre…”, “Dimmi”, “Io ho un po’ di scrupolo, perché io so che perdono troppo!”; “Prega… se tu perdoni troppo…”. E abbiamo parlato della misericordia. A un certo punto mi ha detto: “Sai, quando io sento che è forte questo scrupolo, vado in cappella, davanti al Tabernacolo, e Gli dico: Scusami, Tu hai la colpa, perché mi hai dato il cattivo esempio! E me ne vado tranquillo…”. E’ una bella preghiera di misericordia! Se uno nella Confessione vive questo su di sé, nel proprio cuore, può anche donarlo agli altri.

Il prete è chiamato a imparare questo, ad avere un cuore che si commuove. I preti - mi permetto la parola - “asettici” quelli “di laboratorio”, tutto pulito, tutto bello, non aiutano la Chiesa. La Chiesa oggi possiamo pensarla come un “ospedale da campo”. Questo scusatemi lo ripeto, perché lo vedo così, lo sento così: un “ospedale da campo”. C’è bisogno di curare le ferite, tante ferite! Tante ferite! C’è tanta gente ferita, dai problemi materiali, dagli scandali, anche nella Chiesa... Gente ferita dalle illusioni del mondo… Noi preti dobbiamo essere lì, vicino a questa gente. Misericordia significa prima di tutto curare le ferite. Quando uno è ferito, ha bisogno subito di questo, non delle analisi, come i valori del colesterolo, della glicemia… Ma c’è la ferita, cura la ferita, e poi vediamo le analisi. Poi si faranno le cure specialistiche, ma prima si devono curare le ferite aperte. Per me questo, in questo momento, è più importante. E ci sono anche ferite nascoste, perché c’è gente che si allontana per non far vedere le ferite… Mi viene in mente l’abitudine, per la legge mosaica, dei lebbrosi al tempo di Gesù, che sempre erano allontanati, per non contagiare… C’è gente che si allontana per la vergogna, per quella vergogna di non far vedere le ferite… E si allontanano forse un po’ con la faccia storta, contro la Chiesa, ma nel fondo, dentro c’è la ferita… Vogliono una carezza! E voi, cari confratelli - vi domando - conoscete le ferite dei vostri parrocchiani? Le intuite? Siete vicini a loro? E’ la sola domanda…

3. Misericordia significa né manica larga né rigidità.

Ritorniamo al sacramento della Riconciliazione. Capita spesso, a noi preti, di sentire l’esperienza dei nostri fedeli che ci raccontano di aver incontrato nella Confessione un sacerdote molto “stretto”, oppure molto “largo”, rigorista o lassista.E questo non va bene. Che tra i confessori ci siano differenze di stile è normale, ma queste differenze non possono riguardare la sostanza, cioè la sana dottrina morale e la misericordia. Né il lassista né il rigorista rende testimonianza a Gesù Cristo, perché né l’uno né l’altro si fa carico della persona che incontra. Il rigorista si lava le mani: infatti la inchioda alla legge intesa in modo freddo e rigido; il lassista invece si lava le mani:solo apparentemente è misericordioso, ma in realtà non prende sul serio il problema di quella coscienza, minimizzando il peccato. La vera misericordia si fa carico della persona, la ascolta attentamente, si accosta con rispetto e con verità alla sua situazione, e la accompagna nel cammino della riconciliazione. E questo è faticoso, sì, certamente. Il sacerdote veramente misericordioso si comporta come il Buon Samaritano… ma perché lo fa? Perché il suo cuore è capace di compassione, è il cuore di Cristo!

Sappiamo bene che né il lassismo né il rigorismo fanno crescere la santità. Forse alcuni rigoristi sembrano santi, santi… Ma pensate a Pelagio e poi parliamo… Non santificano il prete, e non santificano il fedele, né il lassismo né il rigorismo! La misericordia invece accompagna il cammino della santità, la accompagna e la fa crescere… Troppo lavoro per un parroco? E’ vero, troppo lavoro! E in che modo accompagna e fa crescere il cammino della santità? Attraverso la sofferenza pastorale, che è una forma della misericordia. Che cosa significa sofferenza pastorale? Vuol dire soffrire per e con le persone. E questo non è facile! Soffrire come un padre e una madre soffrono per i figli; mi permetto di dire, anche con ansia…

Per spiegarmi faccio anche a voi alcune domande che mi aiutano quando un sacerdote viene da me. Mi aiutano anche quando sono solo davanti al Signore!

Dimmi: Tu piangi? O abbiamo perso le lacrime? Ricordo che nei Messali antichi, quelli di un altro tempo, c’è una preghiera bellissima per chiedere il dono delle lacrime. Incominciava così, la preghiera: “Signore, Tu che hai dato a Mosè il mandato di colpire la pietra perché venisse l’acqua, colpisci la pietra del mio cuore perché le lacrime…”: era così, più o meno, la preghiera. Era bellissima. Ma, quanti di noi piangiamo davanti alla sofferenza di un bambino, davanti alla distruzione di una famiglia, davanti a tanta gente che non trova il cammino?… Il pianto del prete… Tu piangi? O in questo presbiterio abbiamo perso le lacrime?

Piangi per il tuo popolo? Dimmi, tu fai la preghiera di intercessione davanti al Tabernacolo?

Tu lotti con il Signore per il tuo popolo, come Abramo ha lottato: “E se fossero meno? E se fossero 25? E se fossero 20?...” (cfr Gen 18,22-33). Quella preghiera coraggiosa di intercessione… Noi parliamo di parresia, di coraggio apostolico, e pensiamo ai piani pastorali, questo va bene, ma la stessa parresia è necessaria anche nella preghiera. Lotti con il Signore? Discuti con il Signore come ha fatto Mosè? Quando il Signore era stufo, stanco del suo popolo e gli disse: “Tu stai tranquillo… distruggerò tutti, e ti farò capo di un altro popolo”. “No, no! Se tu distruggi il popolo, distruggi anche a me!”. Ma questi avevano i pantaloni! E io faccio la domanda: Noi abbiamo i pantaloni per lottare con Dio per il nostro popolo?

Un’altra domanda che faccio: la sera, come concludi la tua giornata? Con il Signore o con la televisione?

Com’è il tuo rapporto con quelli che aiutano ad essere più misericordiosi? Cioè, com’è il tuo rapporto con i bambini, con gli anziani, con i malati? Sai accarezzarli, o ti vergogni di accarezzare un anziano?

Non avere vergogna della carne del tuo fratello (cfr Reflexiones en esperanza, I cap.). Alla fine, saremo giudicati su come avremo saputo avvicinarci ad “ogni carne” – questo è Isaia. Non vergognarti della carne di tuo fratello. “Farci prossimo”: la prossimità, la vicinanza, farci prossimo alla carne del fratello. Il sacerdote e il levita che passarono prima del buon samaritano non seppero avvicinarsi a quella persona malmenata dai banditi. Il loro cuore era chiuso. Forse il prete ha guardato l’orologio e ha detto: “Devo andare alla Messa, non posso arrivare in ritardo alla Messa”, e se n’è andato. Giustificazioni! Quante volte prendiamo giustificazioni, per girare intorno al problema, alla persona. L’altro, il levita, o il dottore della legge, l’avvocato, disse: “No, non posso perché se io faccio questo domani dovrò andare come testimone, perderò tempo…”. Le scuse!… Avevano il cuore chiuso. Ma il cuore chiuso si giustifica sempre per quello che non fa. Invece quel samaritano apre il suo cuore, si lascia commuovere nelle viscere, e questo movimento interiore si traduce in azione pratica, in un intervento concreto ed efficace per aiutare quella persona.

Alla fine dei tempi, sarà ammesso a contemplare la carne glorificata di Cristo solo chi non avrà avuto vergogna della carne del suo fratello ferito ed escluso.

Io vi confesso, a me fa bene, alcune volte, leggere l’elenco sul quale sarò giudicato, mi fa bene: è in Matteo 25.

Queste sono le cose che mi sono venute in mente, per condividerle con voi. Sono un po’ alla buona, come sono venute… [Il cardinale Vallini: “Un bell’esame di coscienza”] Ci farà bene. [applausi]

A Buenos Aires – parlo di un altro prete – c’era un confessore famoso: questo era Sacramentino. Quasi tutto il clero si confessava da lui. Quando, una delle due volte che è venuto, Giovanni Paolo II ha chiesto un confessore in Nunziatura, è andato lui. E’ anziano, molto anziano… Ha fatto il Provinciale nel suo Ordine, il professore… ma sempre confessore, sempre. E sempre aveva la coda, lì, nella chiesa del Santissimo Sacramento. In quel tempo, io ero Vicario generale e abitavo nella Curia, e ogni mattina, presto, scendevo al fax per guardare se c’era qualcosa. E la mattina di Pasqua ho letto un fax del superiore della comunità: “Ieri, mezz’ora prima della Veglia Pasquale, è mancato il padre Aristi, a 94 – o 96? – anni. Il funerale sarà il tal giorno…”. E la mattina di Pasqua io dovevo andare a fare il pranzo con i preti della casa di riposo - lo facevo di solito a Pasqua -, e poi – mi sono detto - dopo pranzo andrò alla chiesa. Era una chiesa grande, molto grande, con una cripta bellissima. Sono sceso nella cripta e c’era la bara, solo due vecchiette lì che pregavano, ma nessun fiore. Io ho pensato: ma quest’uomo, che ha perdonato i peccati a tutto il clero di Buenos Aires, anche a me, nemmeno un fiore… Sono salito e sono andato in una fioreria – perché a Buenos Aires agli incroci delle vie ci sono le fiorerie, sulle strade, nei posti dove c’è gente – e ho comprato fiori, rose… E sono tornato e ho incominciato a preparare bene la bara, con fiori... E ho guardato il Rosario che avevo in mano… E subito mi è venuto in mente - quel ladro che tutti noi abbiamo dentro, no? -, e mentre sistemavo i fiori ho preso la croce del Rosario, e con un po’ di forza l’ho staccata. E in quel momento l’ho guardato e ho detto: “Dammi la metà della tua misericordia”. Ho sentito una cosa forte che mi ha dato il coraggio di fare questo e di fare questa preghiera! E poi, quella croce l’ho messa qui, in tasca. Le camicie del Papa non hanno tasche, ma io sempre porto qui una busta di stoffa piccola, e da quel giorno fino ad oggi, quella croce è con me. E quando mi viene un cattivo pensiero contro qualche persona, la mano mi viene qui, sempre. E sento la grazia! Sento che mi fa bene. Quanto bene fa l’esempio di un prete misericordioso, di un prete che si avvicina alle ferite…

Se pensate, voi sicuramente ne avete conosciuti tanti, tanti, perché i preti dell’Italia sono bravi! Sono bravi. Io credo che se l’Italia ancora è tanto forte, non è tanto per noi Vescovi, ma per i parroci, per i preti! E’ vero, questo è vero! Non è un po’ d’incenso per confortarvi, lo sento così.

La misericordia. Pensate a tanti preti che sono in cielo e chiedete questa grazia! Che vi diano quella misericordia che hanno avuto con i loro fedeli. E questo fa bene.

Grazie tante dell’ascolto e di essere venuti qui.

Angelus Domini …


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Papa Francesco e la preghiera "per chiedere il dono delle lacrime" nel "Messale antico" (ma c'è anche in quello nuovo!)



Papa Francesco durante l'incontro con i sacerdoti della diocesi di Roma (qui video completo), ha parlato della preghiera che era presente nel "Messale antico" per chiedere la grazia di piangere i propri peccati e aprirsi alla Misericordia di Dio:
Omnípotens et mitíssime Deus, qui sitienti pópulo fontem viventis aquæ de petra produxísti: educ de cordis nostri durítia lácrimas compunctiónis; ut peccata nostra plángere valeámus, remissionémque eorum, te miseránte, mereámur accípere. Per Dominum nostrum Iesum Christum, Fílium tuum, qui tecum vivit et regnat, in unitate Spíritus Sancti, Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen O Dio onnipotente e mitissimo, che hai fatto scaturire dalla roccia una fonte d’acqua viva per il popolo assetato, fa uscire dalla durezza del nostro cuore lacrime di pentimento: affinché possiamo piangere i nostri peccati e meritare, per tua misericordia, la loro remissione. Per il nostro Signore Gesú Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Nel messale del 1962 il titolo della Messa votiva citata da Papa Francesco e che vi riporto completamente è:
AD PETENDAM COMPUNCTIONEM CORDIS
Oratio Omnípotens et mitíssime Deus, qui sitiénti pópulo fontem vivéntis aquae de petra produxísti: educ de cordis nostri durítia lácrimas compunctiónis; ut peccáta nostra plángere valeámus, remissionémque eórum, te miseránte, mereámur accípere. Per Dóminum nostrum. 
Secreta Hanc oblatiónem, quaesumus, Dómine Deus, quam tuae maiestáti pro peccátis nostris offérimus, propítius réspice: et produc de óculis nostris lacrimárum flúmina, quibus débita flammárum incéndia valeámus exstínguere. Per Dóminum. 
Postcommunio Grátiam Spíritus Sancti, Dómine Deus, córdibus nostris cleménter infúnde: quae nos gemítibus lacrimárum effíciat máculas nostrórum dilúere peccatórum; atque optátae nobis, te largiénte, indulgéntiae praestet efféctum. Per Dóminum nostrum.

Ma la bella notizia è che nella III edizione latina tipica del Messale Romano di Paolo VI, quella che avremo - si spera - presto in Italiano, sono state reintrodotte come "formulario alternativo" queste preghiere "ad petendas lacrimas" (un po' ritoccate la super oblata post communionem...). Uscite dalla porta, rientrano dalla finestra.
Le preghiere citate da Papa Francesco per chiedere il dono delle lacrime di pentimento e rinnovamento, le trovate nel Missale Romanum 2002 tra le messe "Ad diversa", num. 38: "Pro remissione peccatorum", formulario B aliae orationes
Eccovi qui le orazioni del "Nuovissimo Messale" che ricalcano quelle dell' "Antico", e che potete usare nelle vostre messe votive:
Collecta Omnipotens et mitissime Deus, qui sitienti populo tuo fontem viventis aquae de petra produxisti: educ de cordis nostri duritia lacrimas compunctionis; ut peccata nostra plangere valeamus, remissionemque eorum, te miserante, mereamur accipere. Per Dominum...
Super oblata Hanc oblationem, quaesumus, Domine quam maiestati tuae pro peccatis nostris offerimus, propitius respice et praesta, ut sacrificium ex quo hominibus profluit fons veniae Sancti Spiritus gratiam lacrimas effundendi pro nostris offensionibus largiatur. Per Christum...
Post communionem Tui, Domine, sacramenti veneranda perceptio faciat nos gemitibus lacrimarum maculas nostrorum diluere peccatorum atque optatae nobis, te largiente, indulgentiae praestet effectum. Per Christum...


Testo preso da: Papa Francesco e la preghiera "per chiedere il dono delle lacrime" nel "Messale antico" (ma c'è anche in quello nuovo!) http://www.cantualeantonianum.com/2014/03/papa-francesco-e-la-preghiera-per.html#ixzz2vCRrNsPW 
http://www.cantualeantonianum.com 







[Modificato da Caterina63 06/03/2014 17:36]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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SANTA MESSA DEL CRISMA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 17 aprile 201
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Unti con l’olio della gioia

 

Cari fratelli nel sacerdozio! Nell’Oggi del Giovedì Santo, in cui Cristo ci amò fino all’estremo (cfr Gv 13,1), facciamo memoria del giorno felice dell’Istituzione del sacerdozio e di quello della nostra Ordinazione sacerdotale. Il Signore ci ha unto in Cristo con olio di gioia e questa unzione ci invita a ricevere e a farci carico di questo grande dono: la gioia, la letizia sacerdotale. La gioia del sacerdote è un bene prezioso non solo per lui ma anche per tutto il popolo fedele di Dio: quel popolo fedele in mezzo al quale è chiamato il sacerdote per essere unto e al quale è inviato per ungere.

Unti con olio di gioia per ungere con olio di gioia. La gioia sacerdotale ha la sua fonte nell’Amore del Padre, e il Signore desidera che la gioia di questo Amore «sia in noi» e «sia piena» (Gv 15,11). A me piace pensare la gioia contemplando la Madonna: Maria, la «madre del Vangelo vivente, è sorgente di gioia per i piccoli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 288), e credo che non esageriamo se diciamo che il sacerdote è una persona molto piccola: l’incommensurabile grandezza del dono che ci è dato per il ministero ci relega tra i più piccoli degli uomini. Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge. Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze; perciò la nostra preghiera di difesa contro ogni insidia del Maligno è la preghiera di nostra Madre: sono sacerdote perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza (cfr Lc 1,48). E a partire da tale piccolezza accogliamo la nostra gioia. Gioia nella nostra piccolezza!

Trovo tre caratteristiche significative nella nostra gioia sacerdotale: è una gioia che ci unge (non che ci rende untuosi, sontuosi e presuntuosi), è una gioia incorruttibile ed è una gioia missionaria che si irradia a tutti e attira tutti, cominciando alla rovescia: dai più lontani.

Una gioia che ci unge. Vale a dire: è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente. I segni della liturgia dell’ordinazione ci parlano del desiderio materno che ha la Chiesa di trasmettere e comunicare tutto ciò che il Signore ci ha dato: l’imposizione delle mani, l’unzione con il santo Crisma, il rivestire con i paramenti sacri, la partecipazione immediata alla prima Consacrazione… La grazia ci colma e si effonde integra, abbondante e piena in ciascun sacerdote. Unti fino alle ossa… e la nostra gioia, che sgorga da dentro, è l’eco di questa unzione.

Una gioia incorruttibile. L’integrità del Dono, alla quale nessuno può togliere né aggiungere nulla, è fonte incessante di gioia: una gioia incorruttibile, che il Signore ha promesso che nessuno potrà togliercela (cfr Gv 16,22). Può essere addormentata o soffocata dal peccato o dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata. La raccomandazione di Paolo a Timoteo rimane sempre attuale: Ti ricordo di ravvivare il fuoco del dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani (cfr 2 Tm 1,6).

Una gioia missionaria. Questa terza caratteristica la voglio condividere e sottolineare in modo speciale: la gioia del sacerdote è posta in intima relazione con il santo popolo fedele di Dio perché si tratta di una gioia eminentemente missionaria. L’unzione è in ordine a ungere il santo popolo fedele di Dio: per battezzare e confermare, per curare e consacrare, per benedire, per consolare ed evangelizzare.

E poiché è una gioia che fluisce solo quando il pastore sta in mezzo al suo gregge (anche nel silenzio della preghiera, il pastore che adora il Padre è in mezzo alle sue pecorelle e per questo è una “gioia custodita” da questo stesso gregge. Anche nei momenti di tristezza, in cui tutto sembra oscurarsi e la vertigine dell’isolamento ci seduce, quei momenti apatici e noiosi che a volte ci colgono nella vita sacerdotale (e attraverso i quali anch’io sono passato), persino in questi momenti il popolo di Dio è capace di custodire la gioia, è capace di proteggerti, di abbracciarti, di aiutarti ad aprire il cuore e ritrovare una gioia rinnovata.

“Gioia custodita” dal gregge e custodita anche da tre sorelle che la circondano, la proteggono, la difendono: sorella povertà, sorella fedeltà e sorella obbedienza. 

La gioia del sacerdote è una gioia che ha come sorella la povertà. Il sacerdote è povero di gioia meramente umana: ha rinunciato a tanto! E poiché è povero, lui, che dà tante cose agli altri, la sua gioia deve chiederla al Signore e al popolo fedele di Dio. Non deve procurarsela da sé. Sappiamo che il nostro popolo è generosissimo nel ringraziare i sacerdoti per i minimi gesti di benedizione e in modo speciale per i Sacramenti. Molti, parlando della crisi di identità sacerdotale, non tengono conto che l’identità presuppone appartenenza. Non c’è identità – e pertanto gioia di vivere – senza appartenenza attiva e impegnata al popolo fedele di Dio (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 268). Il sacerdote che pretende di trovare l’identità sacerdotale indagando introspettivamente nella propria interiorità forse non trova altro che segnali che dicono “uscita”: esci da te stesso, esci in cerca di Dio nell’adorazione, esci e dai al tuo popolo ciò che ti è stato affidato, e il tuo popolo avrà cura di farti sentire e gustare chi sei, come ti chiami, qual è la tua identità e ti farà gioire con il cento per uno che il Signore ha promesso ai suoi servi. Se non esci da te stesso, l’olio diventa rancido e l’unzione non può essere feconda. Uscire da sé stessi richiede spogliarsi di sé, comporta povertà.

La gioia sacerdotale è una gioia che ha come sorella la fedeltà. Non tanto nel senso che saremmo tutti “immacolati” (magari con la grazia di Dio lo fossimo!) perché siamo peccatori, ma piuttosto nel senso di una sempre nuova fedeltà all’unica Sposa, la Chiesa. Qui è la chiave della fecondità. I figli spirituali che il Signore dà ad ogni sacerdote, quelli che ha battezzato, le famiglie che ha benedetto e aiutato a camminare, i malati che sostiene, i giovani con cui condivide la catechesi e la formazione, i poveri che soccorre… sono questa “Sposa” che egli è felice di trattare come prediletta e unica amata e di esserle sempre nuovamente fedele. E’ la Chiesa viva, con nome e cognome, di cui il sacerdote si prende cura nella sua parrocchia o nella missione affidatagli, è essa che gli dà gioia quando le è fedele, quando fa tutto ciò che deve fare e lascia tutto ciò che deve lasciare pur di rimanere in mezzo alle pecore che il Signore gli ha affidato: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,16.17).

La gioia sacerdotale è una gioia che ha come sorella l’obbedienza. Obbedienza alla Chiesa nella Gerarchia che ci dà, per così dire, non solo l’ambito più esterno dell’obbedienza: la parrocchia alla quale sono inviato, le facoltà del ministero, quell’incarico particolare… bensì anche l’unione con Dio Padre, dal quale deriva ogni paternità. Ma anche l’obbedienza alla Chiesa nel servizio: disponibilità e prontezza per servire tutti, sempre e nel modo migliore, a immagine di “Nostra Signora della prontezza” (cfr Lc 1,39: meta spoudes), che accorre a servire sua cugina e sta attenta alla cucina di Cana, dove manca il vino. La disponibilità del sacerdote fa della Chiesa la Casa dalle porte aperte, rifugio per i peccatori, focolare per quanti vivono per strada, casa di cura per i malati, campeggio per i giovani, aula di catechesi per i piccoli della prima Comunione… Dove il popolo di Dio ha un desiderio o una necessità, là c’è il sacerdote che sa ascoltare (ob-audire) e sente un mandato amoroso di Cristo che lo manda a soccorrere con misericordia quella necessità o a sostenere quei buoni desideri con carità creativa. 

Colui che è chiamato sappia che esiste in questo mondo una gioia genuina e piena: quella di essere preso dal popolo che uno ama per essere inviato ad esso come dispensatore dei doni e delle consolazioni di Gesù, l’unico Buon Pastore che, pieno di profonda compassione per tutti i piccoli e gli esclusi di questa terra, affaticati e oppressi come pecore senza pastore, ha voluto associare molti al suo ministero per rimanere e operare Lui stesso, nella persona dei suoi sacerdoti, per il bene del suo popolo.

In questo Giovedì Santo chiedo al Signore Gesù che faccia scoprire a molti giovani quell’ardore del cuore che fa ardere la gioia appena uno ha la felice audacia di rispondere con prontezza alla sua chiamata.

In questo Giovedì Santo chiedo al Signore Gesù che conservi il brillare gioioso negli occhi dei nuovi ordinati, che partono per “mangiarsi” il mondo, per consumarsi in mezzo al popolo fedele di Dio, che gioiscono preparando la prima omelia, la prima Messa, il primo Battesimo, la prima Confessione… E’ la gioia di poter condividere – meravigliati – per la prima volta come unti, il tesoro del Vangelo e sentire che il popolo fedele ti torna ad ungere in un’altra maniera: con le loro richieste, porgendoti il capo perché tu li benedica, stringendoti le mani, avvicinandoti ai loro figli, chiedendo per i loro malati… Conserva Signore nei tuoi giovani sacerdoti la gioia della partenza, di fare ogni cosa come nuova, la gioia di consumare la vita per te.

In questo Giovedì sacerdotale chiedo al Signore Gesù di confermare la gioia sacerdotale di quelli che hanno parecchi anni di ministero. Quella gioia che, senza scomparire dagli occhi, si posa sulle spalle di quanti sopportano il peso del ministero, quei preti che già hanno tastato il polso al lavoro, raccolgono le loro forze e si riarmano: “cambiano aria”, come dicono gli sportivi. Conserva Signore la profondità e la saggia maturità della gioia dei preti adulti. Sappiano pregare come Neemia: la gioia del Signore è la mia forza (cfr Ne 8,10).

Infine, in questo Giovedì sacerdotale, chiedo al Signore Gesù che risplenda la gioia dei sacerdoti anziani, sani o malati. E’ la gioia della Croce, che promana dalla consapevolezza di avere un tesoro incorruttibile in un vaso di creta che si va disfacendo. Sappiano stare bene in qualunque posto, sentendo nella fugacità del tempo il gusto dell’eterno (Guardini). Sentano, Signore, la gioia di passare la fiaccola, la gioia di veder crescere i figli dei figli e di salutare, sorridendo e con mitezza, le promesse, in quella speranza che non delude.

   





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  ISTITUTI SECOLARI: SIATE RIVOLUZIONARI E NON PERDETE MAI LA SPERANZA

UDIENZA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO PROMOSSO DALLA 
CONFERENZA ITALIANA DEGLI ISTITUTI SECOLARI

Sala del Concistoro
Sabato, 10 maggio 2014

 

Parole pronunciate a braccio dal Santo Padre:

Io ho scritto un discorso per voi, ma oggi è accaduto qualcosa. È colpa mia perché ho dato due udienze non dico nello stesso tempo, ma quasi. Per questo ho preferito consegnarvi il discorso, perché leggerlo è noioso, e dirvi due o tre cosette che forse vi aiuteranno.

Dal tempo in cui Pio XII ha pensato questo, e poi la Provida Mater Ecclesia, è stato un gesto rivoluzionario nella Chiesa. Gli istituti secolari sono proprio un gesto di coraggio che ha fatto la Chiesa in quel momento; dare struttura, dare istituzionalità agli istituti secolari. E da quel tempo fino ad ora è tanto grande il bene che voi fate nella Chiesa, con coraggio perché c’è bisogno di coraggio per vivere nel mondo. Tanti di voi soli, nel vostro appartamento vanno, vengono; alcuni in piccole comunità. Tutti i giorni, fare la vita di una persona che vive nel mondo, e nello stesso tempo custodire la contemplazione, questa dimensione contemplativa verso il Signore e anche nei confronti del mondo, contemplare la realtà, come contemplare le bellezze del mondo, e anche i grossi peccati della società, le deviazioni, tutte queste cose, e sempre in tensione spirituale… Per questo la vostra vocazione è affascinante, perché è una vocazione che è proprio lì, dove si gioca la salvezza non solo delle persone, ma delle istituzioni. E di tante istituzioni laiche necessarie nel mondo. Per questo io penso così, che con la Provida Mater Ecclesia la Chiesa ha fatto un gesto davvero rivoluzionario!

Vi auguro di conservare sempre questo atteggiamento di andare oltre, non solo oltre, ma oltre e in mezzo, lì dove si gioca tutto: la politica, l’economia, l’educazione, la famiglia… lì! Forse è possibile che voi abbiate la tentazione di pensare: “Ma cosa posso fare io?”. Quando viene questa tentazione ricordate che il Signore ci ha parlato del seme del grano! E la vostra vita è come il seme del grano… lì; è come lievito… lì. È fare tutto il possibile perché il Regno venga, cresca e sia grande e anche che custodisca tanta gente, come l’albero della senape. Pensate a questo. Piccola vita, piccolo gesto; vita normale, ma lievito, seme, che fa crescere. E questo vi dà la consolazione. I risultati in questo bilancio sul Regno di Dio non si vedono. Soltanto il Signore ci fa percepire qualcosa... Vedremo i risultati lassù.

E per questo è importante che voi abbiate tanta speranza! È una grazia che voi dovete chiedere al Signore, sempre: la speranza che mai delude. Mai delude! Una speranza che va avanti. Io vi consiglierei di leggere molto spesso il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, quel capitolo della speranza. E imparare che tanti nostri padri hanno fatto questo cammino e non hanno visto i risultati, ma li hanno salutati da lontano. La speranza… Questo è quello che vi auguro. Grazie tante per quello che fate nella Chiesa; grazie tante per la preghiera e per le azioni. Grazie per la speranza. E non dimenticate: siate rivoluzionari!

 * * *

Discorso preparato dal Santo Padre:

Cari fratelli e sorelle,

vi accolgo in occasione della vostra Assemblea e vi saluto dicendovi: conosco e apprezzo la vostra vocazione! Essa è una delle forme più recenti di vita consacrata riconosciute e approvate dalla Chiesa, e forse per questo non è ancora pienamente compresa. Non scoraggiatevi: voi fate parte di quella Chiesa povera e in uscita che sogno!

Per vocazione siete laici e sacerdoti come gli altri e in mezzo agli altri, conducete una vita ordinaria, priva di segni esteriori, senza il sostegno di una vita comunitaria, senza la visibilità di un apostolato organizzato o di opere specifiche. Siete ricchi solo dell’esperienza totalizzante dell’amore di Dio e per questo siete capaci di conoscere e condividere la fatica della vita nelle sue molteplici espressioni, fermentandole con la luce e la forza del Vangelo.

Siete segno di quella Chiesa dialogante di cui parla Paolo VI nell’Enciclica Ecclesiam suam: «Non si salva il mondo dal di fuori – afferma –; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi. Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio» (n. 90).

Il tema della vostra Assemblea, “Nel cuore delle vicende umane: le sfide di una società complessa”, indica il campo della vostra missione e della vostra profezia. Siete nel mondo ma non del mondo, portando dentro di voi l’essenziale del messaggio cristiano: l’amore del Padre che salva. Siete nel cuore del mondo col cuore di Dio.

La vostra vocazione vi rende interessati ad ogni uomo e alle sue istanze più profonde, che spesso restano inespresse o mascherate. In forza dell’amore di Dio che avete incontrato e conosciuto, siete capaci di vicinanza e tenerezza. Così potete essere tanto vicini da toccare l’altro, le sue ferite e le sue attese, le sue domande e i suoi bisogni, con quella tenerezza che è espressione di  una cura che cancella ogni distanza. Come il Samaritano che passò accanto e vide e ebbe compassione. E’ qui il movimento a cui vi impegna la vostra vocazione: passare accanto ad ogni uomo e farvi prossimo di ogni persona che incontrate; perché il vostro permanere nel mondo non è semplicemente una condizione sociologica, ma è una realtà teologale che vi chiama ad uno stareconsapevole, attento, che sa scorgere, vedere e toccare la carne del fratello.

Se questo non accade, se siete diventati distratti, o peggio ancora non conoscete questo mondo contemporaneo ma conoscete e frequentate solo il mondo che vi fa più comodo o che più vi alletta, allora è urgente una conversione!La vostra è una vocazione per sua natura in uscita, non solo perché vi porta verso l’altro, ma anche e soprattutto perché vi chiede di abitare là dove abita ogni uomo.

L’Italia è la nazione con il maggior numero di Istituti secolari e di membri. Siete un lievito che può produrre un pane buono per tanti, quel pane di cui c’è tanta fame: l’ascolto dei bisogni, dei desideri, delle delusioni, della speranza. Come chi vi ha preceduto nella vostra vocazione, potete ridare speranza ai giovani, aiutare gli anziani, aprire strade verso il futuro, diffondere l’amore in ogni luogo e in ogni situazione. Se questo non accade, se la vostra vita ordinaria manca di testimonianza e di profezia, allora, torno a ripetervi, è urgente una conversione!

Non perdete mai lo slancio di camminare per le strade del mondo, la consapevolezza che camminare, andare anche con passo incerto o zoppicando, è sempre meglio che stare fermi, chiusi nelle proprie domande o nelle proprie sicurezze. La passione missionaria, la gioia dell’incontro con Cristo che vi spinge a condividere con gli altri la bellezza della fede, allontana il rischio di restare bloccati nell’individualismo. Il pensiero che propone l’uomo come artefice di se stesso, guidato solo dalle proprie scelte e dai propri desideri, spesso rivestiti con l’abito apparentemente bello della libertà e del rispetto, rischia di minare i fondamenti della vita consacrata, specialmente di quella secolare. E’ urgente rivalutare il senso di appartenenza alla vostra comunità vocazionale che, proprio perché non si fonda su una vita comune, trova i suoi punti di forza nel carisma. Per questo, se ognuno di voi è per gli altri una possibilità preziosa di incontro con Dio, si tratta di riscoprire la responsabilità di essere profezia come comunità, di ricercare insieme, con umiltà e con pazienza, una parola di senso che può essere un dono per il Paese e per la Chiesa, e di testimoniarla con semplicità. Voi siete come antenne pronte a cogliere i germi di novità suscitati dallo Spirito Santo, e potete aiutare la comunità ecclesiale ad assumere questo sguardo di bene e trovare strade nuove e coraggiose per raggiungere tutti.

Poveri tra i poveri, ma con il cuore ardente. Mai fermi, sempre in cammino. Insieme ed inviati, anche quando siete soli, perché la consacrazione fa di voi una scintilla viva di Chiesa. Sempre in cammino con quella virtù che è una virtù pellegrina: la gioia!

Grazie, carissimi, di quello che siete. Il Signore vi benedica e la Madonna vi protegga. E pregate per me!

 





SANTA MESSA CON ORDINAZIONI PRESBITERALI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana
IV Domenica di Pasqua, 11 maggio 2014

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Per l’Omelia, il Santo Padre ha pronunciato le parole suggerite dal Rito di Ordinazione dei Presbiteri, soffermandosi a sottolinearne alcuni passaggi.

 

Fratelli carissimi, questi nostri figli e fratelli sono stati chiamati all’ordine del presbiterato. Come voi ben sapete, il Signore Gesù è il solo sommo sacerdote del Nuovo Testamento; ma in lui anche tutto il popolo santo di Dio è stato costituito popolo sacerdotale. Nondimeno, tra tutti i suoi discepoli, il Signore Gesù vuole sceglierne alcuni in particolare, perché esercitando pubblicamente nella Chiesa in suo nome l’ufficio sacerdotale a favore di tutti gli uomini, continuassero la sua personale missione di maestro, sacerdote e pastore.

Dopo matura riflessione, noi stiamo per elevare all’ordine dei presbiteri questi nostri fratelli, perché al servizio di Cristo maestro, sacerdote e pastore cooperino a edificare il corpo di Cristo, che è la Chiesa, in popolo di Dio e tempio santo dello Spirito.

Essi saranno infatti configurati a Cristo sommo ed eterno sacerdote, ossia saranno consacrati come veri sacerdoti del Nuovo Testamento, e a questo titolo, che li unisce nel sacerdozio al loro vescovo, saranno predicatori del Vangelo, pastori del popolo di Dio, e presiederanno le azioni di culto, specialmente nella celebrazione del sacrificio del Signore.

Quanto a voi, fratelli e figli dilettissimi, che state per essere promossi all’ordine del presbiterato, considerate che esercitando il ministero della sacra dottrina sarete partecipi della missione di Cristo, unico maestro. Dispensate a tutti quella Parola, che voi stessi avete ricevuto con gioia, dalle vostre mamme, dalle vostre catechiste. Leggete e meditate assiduamente la parola del Signore per credere ciò che avete letto, insegnare ciò che avete appreso nella fede, vivere ciò che avete insegnato. Sia dunque nutrimento al popolo di Dio la vostra dottrina, che non è vostra: voi non siete padroni della dottrina! E’ la dottrina del Signore, e voi dovete essere fedeli alla dottrina del Signore! Sia dunque nutrimento al popolo di Dio la vostra dottrina, gioia e sostegno ai fedeli di Cristo il profumo della vostra vita, perché con la parola e l’esempio edifichiate la casa di Dio, che è la Chiesa.

E così voi continuerete l’opera santificatrice dì Cristo. Mediante il vostro ministero il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto, perché congiunto al sacrificio di Cristo, che per le vostre mani in nome di tutta la Chiesa viene offerto in modo incruento sull’altare nella celebrazione dei santi misteri.

Riconoscete dunque ciò che fate, imitate ciò che celebrate, perché partecipando al mistero della morte e risurrezione del Signore, portiate la morte di Cristo nelle vostre membra e camminiate con lui in novità di vita.

Con il Battesimo aggregherete nuovi fedeli al popolo di Dio; con il sacramento della Penitenza rimetterete i peccati in nome di Cristo e della Chiesa. E qui voglio fermarmi e chiedervi, per l’amore di Gesù Cristo: non stancatevi mai di essere misericordiosi! Per favore! Abbiate quella capacità di perdono che ha avuto il Signore, che non è venuto a condannare, ma a perdonare! Abbiate misericordia, tanta! E se vi viene lo scrupolo di essere troppo “perdonatori”,pensate a quel santo prete del quale vi ho parlato, che andava davanti al tabernacolo e diceva: “Signore, perdonami se ho perdonato troppo. Ma sei tu che mi hai dato il cattivo esempio!”. E io vi dico, davvero: a me fa tanto dolore quanto trovo gente che non va più a confessarsi perché è stata bastonata, sgridata. Hanno sentito che le porte delle chiese gli si chiudevano in faccia! Per favore, non fate questo: misericordia, misericordia! Il buon pastore entra per la porta e la porta della misericordia sono le piaghe del Signore: se voi non entrate nel vostro ministero per le piaghe del Signore, non sarete buoni pastori.

Con l’Olio santo darete sollievo agli infermi; celebrando i sacri riti e innalzando nelle varie ore del giorno la preghiera di lode e di supplica, vi farete voce del popolo di Dio e dell’umanità intera.

Consapevoli di essere stati scelti fra gli uomini e costituiti in loro favore per attendere alle cose di Dio, esercitate in letizia e in carità sincera l’opera sacerdotale di Cristo, unicamente intenti a piacere a Dio e non a voi stessi.

E pensate a quello che diceva Sant’Agostino dei pastori che cercavano di piacere a se stessi, che usavano le pecorelle del Signore come pasto e per vestirsi, per indossare la maestà di un ministero che non si sapeva se fosse di Dio. Infine, partecipando alla missione di Cristo, capo e pastore, in comunione filiale con il vostro vescovo, impegnatevi a unire i fedeli in un’unica famiglia, per condurli a Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Abbiate sempre davanti agli occhi l’esempio del Buon Pastore, che non è venuto per essere servito, ma per servire, e per cercare e salvare ciò che era perduto.

 



2014-05-12 Radio Vaticana

Il Papa ha incontrato stamani, 12 maggio,  nell’Aula Paolo VI in Vaticano i rettori e gli studenti dei Pontifici Collegi e Convitti di Roma.

Riferendosi a quanti tra gli studenti provengono dal Medio Oriente e dall’Ucraina ha detto: “Voglio dirvi che vi sono molto vicino in questo momento di sofferenza: davvero, molto vicino; e nella preghiera. Si soffre tanto nella Chiesa; si soffre tanto” e “la Chiesa sofferente è anche la Chiesa perseguitata in alcune parti, e vi sono vicino”.

L’incontro si è svolto in modo libero, con domande e risposte a braccio del Papa. Rispondendo ad una prima domanda sulla formazione accademica, Papa Francesco ha osservato che “c’è il pericolo dell’accademismo”. “I vescovi – ha detto - vi inviano qui perché abbiate una laurea, ma anche per tornare in diocesi. Ma in diocesi dovete lavorare nel presbiterio, come presbiteri”.

Poi ha proseguito: “Ci sono quattro pilastri nella formazione sacerdotale”: “la formazione spirituale, la formazione accademica, la formazione comunitaria e la formazione apostolica. E’ vero che qui, a Roma, si sottolinea – perché per questo siete stati inviati – la formazione intellettuale; ma gli altri tre pilastri si devono coltivare, e tutti e quattro” interagiscono “tra di loro, e io non capirei un prete che venga” a prendere una laurea qui, a Roma, e “che non abbia una vita comunitaria - quello non va - o non cura la vita spirituale – la Messa quotidiana, la preghiera quotidiana, la lectio divina, la preghiera personale con il Signore – o la vita apostolica”.

“Il purismo accademico – ha aggiunto - non fa bene: non fa bene”. “Il Signore vi ha chiamati ad essere sacerdoti, ad essere presbiteri: questa è la regola fondamentale. E c’è un’altra cosa che vorrei sottolineare: se soltanto si vede la parte accademica, c’è pericolo di scivolare sulle ideologie, e questo ammala. Anche, ammala la concezione di Chiesa. Per capire la Chiesa c’è bisogno di capirla dallo studio ma anche dalla preghiera, dalla vita comunitaria e dalla vita apostolica. Quando noi scivoliamo su una ideologia, perché siamo 'macrocefali', per esempio, e andiamo su quella strada, avremo una ermeneutica non cristiana, un’ermeneutica della Chiesa ideologica. E questo fa male, questa è una malattia. L’ermeneutica della Chiesa dev’essere l’ermeneutica che la Chiesa stessa ci offre, che la Chiesa stessa ci dà. Capire la Chiesa con occhi di cristiano; capire la Chiesa con mente di cristiano; capire la Chiesa con cuore cristiano; capire la Chiesa dall’attività cristiana. Al contrario, la Chiesa non si capisce, o finisce mal capita. Per questo è importante sottolineare, sì, il lavoro accademico perché per questo siete stati inviati; ma non trascurare gli altri tre pilastri: la vita spirituale, la vita comunitaria e la vita apostolica”.

Un seminarista cinese ha poi chiesto al Papa un consiglio per fare della comunità del seminario “un luogo di crescita umana e spirituale e di esercizio di carità sacerdotale”.
Papa Francesco ha citato un vecchio vescovo dell’America Latina: “E’ molto meglio il peggiore seminario che il non-seminario”. “Se uno si prepara al sacerdozio da solo, senza comunità – ha proseguito il Papa - questo fa male. La vita del seminario, cioè la vita comunitaria, è molto importante. E’ molto importante perché c’è la condivisione tra i fratelli, che camminano verso il sacerdozio, ma anche ci sono i problemi, ci sono le lotte: lotte di potere, lotte di idee, anche lotte nascoste; e vengono i vizi capitali: l’invidia, la gelosia … E anche, vengono le cose buone: le amicizie, lo scambio di idee e questo è l’importante della vita comunitaria. La vita comunitaria non è il paradiso: almeno, il purgatorio” – ha affermato il Papa tra gli applausi.

Un santo gesuita – ha aggiunto – “diceva che la maggiore penitenza, per lui, era la vita comunitaria. E’ vero, no? Ma, per questo credo che dobbiamo andare avanti, nella vita comunitaria. Ma come? Son quattro-cinque cose che ci aiuteranno tanto: mai, mai sparlare di altri! Se io ho qualcosa contro l’altro, o che non sono del parere: in faccia! Ma noi, i chierici, abbiamo la tentazione di non parlare in faccia, di essere troppo diplomatici, quel linguaggio clericale, no? … Ma, ci fa male! Ci fa male!”. [applauso]

Quindi ha raccontato un fatto risalente a 22 anni fa, quando era stato appena nominato vescovo, e aveva come segretario un sacerdote giovane, ordinato da qualche mese. Nei primi mesi – ha detto – “ho preso una decisione un po’ diplomatica – troppo diplomatica – e con le conseguenze che vengono da queste decisioni che non si prendono nel Signore”. E ha chiesto un parere al segretario. “E lui mi ha guardato in faccia – un giovane, eh? – e mi ha detto: ‘Lei ha fatto male: lei non ha preso una decisione paterna’, e mi ha detto tre o quattro di quelle forti [ridono] Molto rispettoso, ma me le ha dette. E poi, quando se n’è andato, io ho pensato: ‘Questo non lo allontanerò mai dal posto di segretario: questo è un vero fratello!’. Invece, quelli che ti dicono le cose belle davanti e poi da dietro non tanto belle … [ridono] E’ importante, quello, ma … [applauso] le chiacchiere sono la peste di una comunità: si parla in faccia, sempre. E se non hai il coraggio di parlare in faccia, parla al superiore o al direttore, che lui ti aiuterà. Ma non andare per le stanze dei compagni per sparlare. Ma, si dice che chiacchierare è cosa di donne: ma anche di maschi, anche di noi! Noi chiacchieriamo abbastanza e quello distrugge la comunità. Poi, un’altra cosa è sentire, ascoltare le diverse opinioni e discutere le opinioni, ma bene, cercando la verità, cercando l’unità: questo aiuta la comunità”.

E ancora ha raccontato di quando, giovane studente di filosofia, confessò al suo padre spirituale di essere arrabbiato con una persona: “E lui mi ha fatto una sola domanda: ‘Dimmi, tu hai pregato per lui?’. Niente più. E io ho detto: ‘No’. E lui è rimasto zitto. ‘Ma abbiamo finito’, mi ha detto. [ridono – applauso] Ma, pregare: pregare per tutti i membri della comunità, ma pregare principalmente per quelli con cui ho problemi o per quelli a cui io non voglio bene, perché non volere bene ad una persona alcune volte è una cosa naturale, istintiva; ma, pregare: e il Signore farà il resto. Ma sempre pregare. La preghiera comunitaria”. “Vi assicuro che se voi fate queste due cose, la comunità va avanti, si può vivere bene, si può parlare bene, si può discutere bene, si può pregare bene insieme … ma, due piccole cose: non sparlare degli altri e pregare per quelli con i quali io ho problemi”.

Uno studente messicano gli ha chiesto un consiglio su come essere vigilanti per restare fedeli alla vocazione. La vigilanza – ha risposto il Papa – “è un atteggiamento cristiano”. “La vigilanza su se stesso: cosa succede nel mio cuore? Perché dove è il mio cuore è il mio tesoro. Cosa succede, lì? Dicono i Padri orientali, che si deve conoscere bene se il mio cuore è in una turbolenza o il mio cuore è tranquillo”. “Ma se è in turbolenza, non si può vedere cosa c’è dentro. Come il mare. Non si vedono i pesci, quando il mare è così”. Come primo consiglio quando il cuore è nella turbolenza, il Papa ha citato quanto dicevano quando i Padri russi: “andare sotto il manto della Santa Madre di Dio. Ricordatevi che la prima antifona latina è questa, proprio: nei tempi di turbolenza, cercare rifugio sotto il manto della Santa Madre di Dio. E’ l’antifona ‘sub tuum presidium Sancta Dei Genitrix’”. “Prima di tutto, andare là, e là aspettare che ci sia un po’ di calma: con la preghiera, con l’affidamento alla Madonna …
Qualcuno di voi mi dirà: ‘Ma Padre, in questo tempo di tanta modernità buona, della psichiatria, della psicologia, in questi momento di turbolenza credo che sarebbe meglio andare dallo psichiatra che mi aiuti …’. Ma non scarto quello, ma prima di tutto andare alla Madre: perché un prete che si dimentica della Madre e soprattutto nei momenti di turbolenza, qualcosa gli manca. E’ un prete orfano: si è dimenticato di sua mamma!”. E’ “nei momenti difficili” che “il bambino va dalla mamma, sempre. E noi siamo bambini, nella vita spirituale: questo non dimenticarlo sempre! Vigilare come sta il mio cuore. Tempo di turbolenza, andare a cercare rifugio sotto il manto della Santa Madre di Dio. Così dicono i monaci russi, e in verità, è così”.


 


 

[Modificato da Caterina63 12/05/2014 18:32]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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 Testo integrale del dialogo del Papa con i sacerdoti di Caserta


2014-07-27 Radio Vaticana

Prima della Messa a Caserta, il Papa ha incontrato i sacerdoti nella Cappella Palatina della Reggia. E’ stato un dialogo intenso, in un clima di grande familiarità. Di seguito pubblichiamo il testo integrale della conversazione:

(Mons. D’Alise, Vescovo di Caserta)

Santità, non ho preparato niente di scritto perché ho capito subito che Lei vuole un rapporto intimo e profondo con i sacerdoti. Quindi io Le dico: benvenuto. Questa è la nostra Chiesa, i sacerdoti e poi andremo a vedere il resto della Chiesa, mentre celebreremo l’Eucaristia. Per me questo momento è importante, perché sono due mesi che sono qui, e incominciare questo episcopato con la Sua presenza e la Sua benedizione per me è una grazia nella grazia. E adesso aspettiamo la Sua parola. Sapendo che Lei desidera un dialogo, i sacerdoti hanno anche preparato per Lei delle domande.

(Santo Padre)

Ho preparato un discorso, ma lo consegnerò al Vescovo. Grazie tante dell’accoglienza. Grazie. Sono contento e mi sento un po’ colpevole di avere combinato tanti problemi nel giorno della festa patronale. Ma io non sapevo. E quando ho chiamato il Vescovo per dirgli che volevo venire a fare una visita privata, qui, ad un amico, il pastore Traettino, lui mi ha detto: “Ah, proprio il giorno della festa patronale!”. E subito ho pensato: “Il giorno dopo sui giornali ci sarà: nella festa patronale di Caserta il Papa è andato dai protestanti”. Bel titolo, eh? E così abbiamo sistemato la cosa, un po’ in fretta, ma, mi ha aiutato tanto il Vescovo, e anche la gente della Segreteria di Stato. Ho detto al Sostituto, quando l’ho chiamato: “Ma, per favore, toglimi la corda dal collo”. E l’ha fatto bene. Grazie per le vostre domande che farete, possiamo incominciare; si fanno le domande e io vedo se possiamo accorparne due o tre, altrimenti rispondo ad ognuna.

D. - Santità, grazie. Sono il vicario generale di Caserta, don Pasquariello. Un grazie immenso per la sua visita qui a Caserta. Vorrei presentare una domanda: il bene che Lei sta portando nella Chiesa cattolica con le sue omelie quotidiane, i documenti ufficiali, specialmente l’Evangelii Gaudium, sono improntate soprattutto sulla conversione spirituale, intima, personale. E’ una riforma che impegna, secondo il mio modesto parere, solo la sfera della teologia, dell’esegesi biblica e della filosofia. Accanto a questa conversione personale, che è essenziale per la salvezza eterna, vedrei utile qualche intervento, da parte di Vostra Santità, che possa coinvolgere di più il popolo di Dio, proprio in quanto popolo. E mi spiego. La nostra Diocesi, da 900 anni, ha dei confini assurdi: alcuni territori comunali sono divisi a metà con la diocesi di Capua e con quella di Acerra. Addirittura, la stazione della città di Caserta, distante meno di un chilometro dal municipio, appartiene a Capua. Per questo motivo, Beatissimo Padre, Le chiedo un intervento risolutore perché le nostre comunità non abbiano più a soffrire a causa di spostamenti inutili e non sia mortificata ulteriormente l’unità pastorale dei nostri fedeli. E’ chiaro, Santità, che Lei nel N. 10 dell’Evangelii Gaudium dice che queste cose appartengono all’episcopato; però, io ricordo che da giovane sacerdote – 47 anni fa – andammo con mons. Roberti – lui era uscito dalla Segreteria di Stato – e portammo un poco di problemi anche là; dissero, dopo aver spiegato le cose: “Mettetevi d’accordo con i vescovi e noi firmeremo”. E questa è una bellissima cosa. Ma quando si mettono d’accordo, i Vescovi?.

R. - (Santo Padre)

Alcuni storici della Chiesa dicono che in alcuni dei primi Concili i Vescovi arrivavano anche ai pugni, ma poi si mettevano d’accordo. E questo è un segno brutto. E’ brutto quando i Vescovi sparlano uno dell’altro, o fanno cordate. Non dico avere unità di pensiero o unità di spiritualità, perché questo è buono, dico cordate nel senso negativo della parola. Questo è brutto perché si rompe proprio l’unità della Chiesa. Questo non è di Dio. E noi Vescovi dobbiamo dare l’esempio dell’unità che Gesù ha chiesto al Padre per la Chiesa. Ma non si può andare sparlando uno dell’altro: “E questo la fa così e quello la fa là cosà”. Ma vai, dillo in faccia! I nostri antenati nei primi Concili andavano ai pugni, e io preferisco che si gridino quattro cose di quelle forti e poi si abbraccino e non che si parlino di nascosto uno contro l’altro. Questo, come principio generale, ossia: nell’unità della Chiesa è importante l’unità tra i Vescovi.  Lei ha poi sottolineato una strada che il Signore ha voluto per la sua Chiesa. E questa unità tra i Vescovi è quella che favorisce il mettersi d’accordo su questo e su quest’altro. In un Paese – non in Italia, da un’altra parte – c’è una Diocesi i cui limiti sono stati rifatti, ma a motivo della ubicazione del tesoro della cattedrale sono in conflitto nei tribunali da più di 40 anni. 
Per soldi: questo non si capisce! È qui dove il diavolo festeggia! E’ lui che guadagna. E’ bello poi che lei dica che i Vescovi debbano sempre essere d’accordo: ma d’accordo nell’unità, non nell’uniformità. Ognuno ha il suo carisma, ognuno ha il suo modo di pensare, di vedere le cose: questa varietà a volte è frutto di sbagli, ma tante volte è frutto dello stesso Spirito. Lo Spirito Santo ha voluto che nella Chiesa ci fosse questa varietà di carismi. Lo stesso Spirito che fa la diversità, poi è riuscito a fare l’unità; un’unità nella diversità di ognuno, senza che nessuno perda la propria personalità. Ma, io mi auguro che quello che lei ha detto vada avanti. E poi, tutti siamo buoni, perché abbiamo l’acqua del Battesimo tutti, abbiamo lo Spirito Santo dentro che ci aiuta ad andare avanti.

D. - Sono padre Angelo Piscopo, parroco di San Pietro Apostolo e di San Pietro in Cattedra. La mia domanda è questa: Santità, nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium Lei ha invitato a incoraggiare e a rafforzare la pietà popolare, quale prezioso tesoro della Chiesa cattolica. Allo stesso tempo, però, ha mostrato il rischio – purtroppo sempre più reale – della diffusione di un cristianesimo individuale e sentimentale, attento più alle forme tradizionali e alla rivelazione, privato degli aspetti fondamentali della fede e privo di incidenza nella vita sociale. Quale suggerimento può darci per una pastorale che senza mortificare la pietà popolare, possa rilanciare il primato del Vangelo? Grazie, Santità.

R. - (Santo Padre)

Si sente dire che questo è un tempo dove la religiosità è andata giù, ma io non credo tanto. Perché ci sono queste correnti, queste scuole di religiosità intimiste, tipo gli gnostici, che fanno una pastorale simile a una preghiera pre-cristiana, una preghiera pre-biblica, una preghiera gnostica, e lo gnosticismo è entrato nella Chiesa in questi gruppi di pietà intimista: questo io chiamo l’intimismo. L’intimismo non fa bene, è una cosa per me, sono tranquillo, mi sento pieno di Dio. E’ un po’ – non è lo stesso – ma è un po’ sulla strada della New Age. C’è religiosità, sì, ma una religiosità pagana, o addirittura eretica; non dobbiamo avere paura di pronunciare questa parola, perché lo gnosticismo è un’eresia, è stata la prima eresia della Chiesa. Quando parlo della religiosità, parlo di quel tesoro di pietà, con tanti valori, che il grande Paolo VI descriveva nell’Evangelii Nuntiandi. Pensate una cosa: il Documento di Aparecida, che è stato il documento della V Conferenza dell’Episcopato latinoamericano, per fare una sintesi alla fine del documento stesso, nel penultimo paragrafo, poiché gli altri due erano di ringraziamento e di preghiera, ha dovuto andare 40 anni indietro e prendere un pezzo dell’Evangelii Nuntiandi, che è il documento pastorale post-conciliare non ancora superato. 
E’ di un’attualità enorme. 
In quel documento Paolo VI descrive la pietà popolare, affermando che essa alcune volte dev’essere anche evangelizzata. Sì, perché come ogni pietà c’è il rischio di andare un po’ da una parte un po’ dall’altra o non avere un’espressione di fede forte. Ma la pietà che ha la gente, la pietà che entra nel cuore con il Battesimo è una forza enorme, a tal punto che il popolo di Dio che ha questa pietà, nel suo insieme, non può sbagliare, è infallibile in credendo: così dice la Lumen Gentium al N. 12. La pietà popolare vera nasce dal quel sensus fidei di cui parla questo documento conciliare e guida nella devozione dei Santi, della Madonna, anche con espressioni folkloristiche nel senso buono della parola. Per questo la pietà popolare è fondamentalmente inculturata, non può essere una pietà popolare di laboratorio, asettica, ma nasce sempre dalla nostra vita. Si possono fare sbagli piccoli – occorre quindi vigilare – tuttavia la religiosità popolare è uno strumento di evangelizzazione. Pensiamo ai giovani di oggi. I giovani – almeno l’esperienza che io ho avuto nell’altra Diocesi - i giovani, i movimenti giovanili a Buenos Aires non funzionavano. Perché? Si diceva loro: facciamo una riunione per parlare… e alla fine i giovani si annoiavano. Ma quando i parroci hanno trovato la strada per coinvolgere i giovani nelle piccole missioni, fare la missione nelle vacanze, la catechesi ai popoli che ne hanno bisogno, nei paesini che non hanno prete, allora essi aderivano. 
I giovani davvero vogliono questo protagonismo missionario e imparano da qui a vivere una forma di pietà che si può anche dire pietà popolare: l’apostolato missionario dei giovani ha qualcosa della pietà popolare. La pietà popolare è attiva, è un senso di fede – dice Paolo VI – profondo, che soltanto i semplici e gli umili sono capaci di avere. E questo è grande! Nei Santuari ad esempio si vedono miracoli! Ogni 27 luglio andavo al Santuario di San Pantaleo, a Buenos Aires, e confessavo la mattina. Ma, io tornavo nuovo da quell’esperienza, tornavo vergognato della santità che trovavo nella gente semplice, peccatrice ma santa, perché diceva i propri peccati e poi raccontava come viveva, come era il problema del figlio o della figlia o di questo o di quell’altro, e come andava a visitare gli ammalati. Traspariva un senso evangelico. Nei Santuari si trovano queste cose. I confessionali dei Santuari sono un posto di rinnovamento per noi preti e Vescovi; sono un corso di aggiornamento spirituale, a motivo del contatto con la pietà popolare. E i fedeli quando vengono a confessarsi ti dicono le loro miserie, ma tu vedi dietro a quelle miserie la grazia di Dio che li conduce a questo momento. Questo contatto con il popolo di Dio che prega, che è pellegrino, che manifesta la sua fede in questa forma di pietà, ci aiuta tanto nella nostra vita sacerdotale.

D. - Mi consente di chiamarLa padre Francesco, anche perché la paternità implica inevitabilmente una santità, quando è autentica. Quale allievo dei Padri Gesuiti ai quali devo la mia formazione, culturale e sacerdotale, dico prima una mia impressione, e poi una domanda che rivolgo a Lei in modo particolare. L’identikit del prete del terzo millennio: equilibrio umano e spirituale; coscienza missionaria; apertura dialogica con le altre fedi, religiose e non. Perché questo? Lei certamente ha operato una rivoluzione copernicana per linguaggio, stile di vita, comportamento e testimonianza sulle tematiche più ragguardevoli a livello mondiale, anche degli atei e dei lontani della Chiesa cristiano-cattolica. La domanda che Le pongo: come è possibile in questa società, con una Chiesa che si auspica di crescita e di sviluppo, in questa società in una evoluzione dinamica e conflittuale e molto spesso lontana dai valori del Vangelo di Cristo, noi siamo una Chiesa molto spesso in ritardo. La Sua rivoluzione linguistica, semantica, culturale, di testimonianza evangelica sta suscitando nelle coscienze certamente una crisi esistenziale per noi sacerdoti. Come Lei suggerisce a noi delle vie, fantasiose e creative, per superare o quanto meno per attutire questa crisi che noi avvertiamo? Grazie.

R. (Santo Padre)

Ecco. Come è possibile, con la Chiesa in crescita e sviluppo, andare avanti? Lei diceva alcune cose: equilibrio, apertura dialogica… Ma, come è possibile andare? Lei ha detto una parola che mi piace tanto: è una parola divina, se è umana è perché è un dono di Dio: creatività. E’ il comandamento che Dio ha dato ad Adamo: “Va e fa crescere la Terra. Sii creativo”. È anche il comandamento che Gesù ha dato ai suoi, mediante lo Spirito Santo, per esempio la creatività della prima Chiesa nei rapporti con l’ebraismo: Paolo è stato un creativo; Pietro, quel giorno quando è andato da Cornelio, aveva una paura di quelle, perché stava facendo una cosa nuova, una cosa creativa. Ma lui è andato là. Creatività è la parola. E come si può trovare questa creatività? Prima di tutto – e questa è la condizione se noi vogliamo essere creativi nelloSpirito, cioè nello Spirito del Signore Gesù – non c’è altra strada che la preghiera. Un Vescovo che non prega, un prete che non prega ha chiuso la porta, ha chiuso la strada della creatività. E’ proprio nella preghiera, quando lo Spirito ti fa sentire una cosa, viene il diavolo e te ne fa sentire un’altra; ma nella preghiera è la condizione per andare avanti. Anche se la preghiera tante volte può sembrare noiosa. 
La preghiera è tanto importante. Non solo la preghiera dell’Ufficio divino, ma la liturgia della Messa, tranquilla, ben fatta con devozione, la preghiera personale con il Signore. Se noi non preghiamo, saremo forse buoni imprenditori pastorali e spirituali, ma la Chiesa senza preghiera diviene una ONG, non ha quella unctio Spiritu Sancti. La preghiera è il primo passo, perché è aprirsi al Signore per potersi aprire agli altri. E’ il Signore che dice: “Vai qua, vai di là, fai questo …”, ti suscita quella creatività che a tanti Santi è costata molto. Pensate al Beato Antonio Rosmini, colui che ha scritto Le cinque piaghe della Chiesa, è stato proprio un critico creativo, perché pregava. Ha scritto ciò che lo Spirito gli ha fatto sentire, per questo è andato nel carcere spirituale, cioè a casa sua: non poteva parlare, non poteva insegnare, non poteva scrivere, i suoi libri erano all’indice. Oggi è Beato! Tante volte la creatività ti porta alla croce. Ma quando viene dalla preghiera, porta frutto. Non la creatività un po’ alla sans façon e rivoluzionaria, perché oggi è di moda fare il rivoluzionario; no questa non è dello Spirito. Ma quando la creatività viene dallo Spirito e nasce nella preghiera. ti può portare problemi. La creatività che viene dalla preghiera ha una dimensione antropologica di trascendenza, perché mediante la preghiera tu ti apri alla trascendenza, a Dio. 
Ma c’è anche l’altra trascendenza: aprirsi agli altri, al prossimo. Non bisogna essere una Chiesa chiusa in sé, che si guarda l’ombelico, una Chiesa autoreferenziale, che guarda se stessa e non è capace di trascendere. È importante la trascendenza duplice: verso Dio e verso il prossimo. Uscire da sé non è un’avventura, è un cammino, è il cammino che Dio ha indicato agli uomini, al popolo fin dal primo momento quando disse ad Abramo: “Vattene dalla tua terra”. Uscire da sé. E quando io esco da me, incontro Dio e incontro gli altri. Come li incontro gli altri? Da lontano o da vicino? Occorre incontrarli da vicino, la vicinanza. Creatività, trascendenza e vicinanza. Vicinanza è una parola chiave: essere vicino. Non spaventarsi di niente. Essere vicino. L’uomo di Dio non si spaventa. Lo stesso Paolo, quando ha visto tanti idoli ad Atene, non si è spaventato, ha detto a quella gente: “Voi siete religiosi, tanti idoli … ma, io vi parlerò di un altro”. Non si è spaventato e si è avvicinato a loro, ha citato anche i loro poeti: “Come dicono i vostri poeti …”. 
Si tratta di vicinanza a una cultura, vicinanza alle persone, al loro modo di pensare, ai loro dolori, ai loro risentimenti. Tante volte questa della vicinanza è proprio una penitenza, perché dobbiamo sentire cose noiose, cose offensive. 

Due anni fa, un sacerdote che è andato missionario in Argentina - era della diocesi di Buenos Aires ed è andato in una diocesi al Sud, in una zona dove da anni non avevano prete, ed erano arrivati gli evangelici – mi raccontava che andò da una donna che era stata la maestra del popolo e poi la direttrice della scuola del paese. Questa signora lo fece sedere e incominciò a insultarlo, non con parolacce, ma insultarlo con forza: “Voi ci avete abbandonati, ci avete lasciati soli, e io che ho bisogno della Parola di Dio sono dovuta andare al culto protestante e mi sono fatta protestante”.  Questo sacerdote giovane, che è un mite, è uno che prega, quando la donna finì la cataratta, disse: “Signora, soltanto una parola: perdono. Perdonaci, perdonaci. Abbiamo abbandonato il gregge”. E il tono di quella donna è cambiato. Tuttavia rimase protestante e il prete non andò sull’argomento di quale fosse la vera religione: in quel momento non si poteva fare questo. Alla fine, la signora incominciò a sorridere e disse: “Padre vuole un caffè?” – “Sì, prendiamo il caffè”. E quando il sacerdote stava per uscire, disse: “Si fermi padre, venga”, e lo ha portato in camera da letto, ha aperto l’armadio e c’era l’immagine della Madonna: “Lei deve sapere che mai l’ho abbandonata. L’ho nascosta a causa del pastore, ma in casa c’è!”. E’ un aneddoto che insegna come la vicinanza, la mitezza hanno fatto sì che questa donna si riconciliasse con la Chiesa, perché si sentiva abbandonata dalla Chiesa. E io ho fatto una domanda che non si deve fare mai: “E poi, com’è finita? Com’è finita la cosa?”. Ma il prete mi ha corretto: “Ah, no, io non ho chiesto niente: lei continua ad andare al culto protestante, ma si vede che è una donna che prega: faccia il Signore Gesù”. E non è andato oltre, non ha invitato a tornare alla Chiesa cattolica. E’ quella vicinanza prudente, che sa fino a dove si deve arrivare. Ma, vicinanza significa pure dialogo; bisogna leggere nella Ecclesiam Suam, la dottrina sul dialogo, poi ripetuta dagli altri Papi. Il dialogo è tanto importante, ma per dialogare sono necessarie due cose: la propria identità come punto di partenza e l’empatia con gli altri. Se io non sono sicuro della mia identità e vado a dialogare, finisco per barattare la mia fede. Non si può dialogare se non partendo dalla propria identità, e l’empatia, cioè non condannare a priori.
Ogni uomo, ogni donna ha qualcosa di proprio da donarci; ogni uomo, ogni donna, ha la propria storia, la propria situazione e dobbiamo ascoltarla. Poi la prudenza dello Spirito Santo ci dirà come rispondervi. Partire dalla propria identità per dialogare, ma il dialogo, non è fare l’apologetica, anche se alcune volte si deve fare, quando ci vengono poste delle domande che richiedono una spiegazione. 
Il dialogo è cosa umana, sono i cuori, le anime che dialogano, e questo è tanto importante! Non avere paura di dialogare con nessuno. Si diceva di un santo, un po’ scherzando – non ricordo, credo fosse San Filippo Neri, ma non sono sicuro – che fosse capace di dialogare anche con il diavolo. Perché? Perché aveva quella libertà di ascoltare tutte le persone, ma partendo dalla propria identità. Era tanto sicuro, ma essere sicuro della propria identità non significa fare proselitismo. Il proselitismo è una trappola, che anche Gesù un po’ condanna, en passant, quando parla ai farisei e sadducei: “Voi che fate il giro del mondo per trovare un proselito e poi vi ricordate di quello …” 
Ma, è una trappola. 
E Papa Benedetto ha un’espressione tanto bella, l’ha fatta ad Aparecida ma credo che l’abbia ripetuta in altra parte: “La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione”. E cosa è l’attrazione? È questa empatia umana che poi viene guidata dallo Spirito Santo. Pertanto come sarà il profilo del prete di questo secolo così secolarizzato? Un uomo di creatività, che segue il comandamento di Dio – “creare le cose” -; un uomo di trascendenza, sia con Dio nella preghiera, sia con gli altri, sempre; un uomo di vicinanza che si avvicina alla gente. Allontanare la gente non è sacerdotale e di questo atteggiamento la gente a volte è stufa, eppure viene da noi lo stesso. Ma chi accoglie la gente ed è vicino ad essa, dialoga con essa lo fa perché si sente sicuro della propria identità, che lo spinge ad avere il cuore aperto all’empatia. Questo è quello che mi viene di dire a lei, alla sua domanda
 

D. - Carissimo Padre, la mia domanda riguarda il luogo dove noi viviamo: la Diocesi, con i nostri Vescovi, i rapporti con i nostri fratelli. E Le chiedo: questo momento storico che noi stiamo vivendo ha delle attese nei confronti di noi presbiteri, cioè di una testimonianza chiara, aperta, gioiosa – come Lei ci sta invitando – proprio alla novità dello Spirito Santo. Le chiedo: quale potrebbe essere, secondo Lei, proprio lo specifico, il fondamento di una spiritualità del prete diocesano? Mi sembra di aver letto da qualche parte che Lei dice: “Il sacerdote non è un contemplativo”. Ma prima, non era così. Ecco, quindi, se Lei ci può donare un’icona da tener presente per la rinascita, per la crescita comunionale della nostra Diocesi. E soprattutto, a me interessa come possiamo essere fedeli, oggi, all’uomo, non tanto a Dio.

R. - (Santo Padre)

Ecco, lei ha detto “le novità dello Spirito Santo”. E’ vero. Ma Dio è il Dio delle sorprese, sempre ci sorprende, sempre, sempre. Leggiamo il Vangelo e troviamo una sorpresa dietro l’altra. Gesù ci sorprende perché arriva prima di noi: Lui ci aspetta prima, ci ama prima, quando noi lo cerchiamo Lui ci sta già cercando. Come dice il profeta Isaia o Geremia, non ricordo bene: Dio è come il fiore del mandorlo, fiorisce per primo in primavera. È il primo, sempre primo, sempre ci aspetta. E questa è la sorpresa. Tante volte noi cerchiamo Dio di qua e Lui noi ci aspetta di là. E poi veniamo alla spiritualità del clero diocesano. Prete contemplativo, ma non come uno che è nella Certosa, non intendo questa contemplatività. Il sacerdote deve avere una contemplatività, una capacità di contemplazione sia verso Dio sia verso gli uomini. 
E’ un uomo che guarda, che riempie i suoi occhi e il suo cuore di questa contemplazione: con il Vangelo davanti a Dio, e con i problemi umani davanti agli uomini. In questo senso deve essere un contemplativo. Non bisogna fare confusione: il monaco è un’altra cosa. Ma dove è il centro della spiritualità del prete diocesano? Io direi che è nella diocesanità. E’ avere la capacità di aprirsi alla diocesanità. La spiritualità di un religioso, per esempio, è la capacità di aprirsi a Dio e agli altri nella comunità: sia la più piccola, sia la più grande della congregazione. Invece, la spiritualità del sacerdote diocesano è aprirsi alla diocesanità. E voi religiosi che lavorate in parrocchia dovete fare le due cose, per questo il dicastero dei Vescovi e il dicastero della vita consacrata stanno lavorando ad una nuova versione della Mutuae relationes, perché il religioso ha le due appartenenze. Ma torniamo alla diocesanità: cosa significa? Significa avere un rapporto con il Vescovo e un rapporto con gli altri sacerdoti. Il rapporto con il Vescovo è importante, è necessario. Un sacerdote diocesano non può essere staccato dal Vescovo. “Ma, il Vescovo non mi vuole bene, il Vescovo qui, il vescovo là…”: Il Vescovo potrà forse essere un uomo con cattivo carattere: ma è il tuo Vescovo. E tu devi trovare, anche in quell’atteggiamento non positivo, una strada per mantenere il rapporto con lui. 
Questa comunque è l’eccezione. Io sono prete diocesano perché ho un rapporto con il Vescovo, un rapporto necessario. È  molto significativo quando nel rito dell’ordinazione si fa il voto di obbedienza al Vescovo. “Io prometto obbedienza a te e ai tuoi successori”. Diocesanità significa un rapporto con il Vescovo che si deve attuare e far crescere continuamente. Nella maggioranza dei casi non è un problema catastrofico, ma una realtà normale. In secondo luogo la diocesanità comporta un rapporto con gli altri sacerdoti, con tutto il presbiterio. Non c’è spiritualità del prete diocesano senza questi due rapporti: con il Vescovo e con il presbiterio. E sono necessari. “Io, sì, con il Vescovo vado bene, ma alle riunioni del clero non ci vado perché si dicono stupidaggini”. 
Ma con questo atteggiamento ti viene a mancare qualcosa: non hai quella vera spiritualità del prete diocesano. E’ tutto qui: è semplice, ma al tempo stesso non è facile. Non è facile, perché mettersi d’accordo con il Vescovo non è sempre facile, perché uno la pensa in una maniera l’altro la pensa nell’altra, ma si può discutere … e si discuta! E si può fare a voce forte? Si faccia! Quante volte un figlio con il suo papà discutono e alla fine rimangono sempre padre e figlio. Tuttavia, quando in questi due rapporti, sia con il Vescovo sia con il presbiterio, entra la diplomazia non c’è lo Spirito del Signore, perché manca lo spirito di libertà. Bisogna avere il coraggio di dire “Io non la penso così, la penso diversamente”, e anche l’umiltà di accettare una correzione. E’ molto importante. E qual è il nemico più grande di questi due rapporti? Le chiacchiere. 
Tante volte penso – perché anche io ho questa tentazione di chiacchierare, l’abbiamo dentro, il diavolo sa che quel seme gli dà frutti e  semina bene – io penso se non sia una conseguenza di una vita celibataria vissuta come sterilità, non come fecondità. Un uomo solo finisce amareggiato, non è fecondo e chiacchiera sugli altri. Questa è un’aria che non fa bene, è proprio quello che impedisce quel rapporto evangelico e spirituale e fecondo con il Vescovo e con il presbiterio. Le chiacchere sono il nemico più forte della diocesanità, cioè della spiritualità. Ma, tu sei un uomo, quindi se hai qualcosa contro il Vescovo vai e gliela dici. Ma poi ci saranno conseguenze non buone. Porterai la croce, ma sii uomo! Se tu sei un uomo maturo e vedi qualcosa in tuo fratello sacerdote che non ti piace o che credi sia sbagliata, vai a dirglielo in faccia, oppure se vedi che quello non tollera di essere corretto, vai a dirlo al Vescovo o all’amico più intimo di quel sacerdote, affinché possa aiutarlo a correggersi. Ma non dirlo agli altri: perché ciò è sporcarsi l’un l’altro. 
E il diavolo è felice con quel “banchetto”, perché così attacca proprio il centro della spiritualità del clero diocesano. Per me le chiacchiere fanno tanto danno. E non sono una novità post-conciliare…. Già San Paolo dovette affrontarle, ricordate la frase: “Io sono di Paolo,  io sono di Apollo ……” Le chiacchere sono una realtà presente già all’inizio della Chiesa, perché il demonio non vuole che la Chiesa sia una madre feconda, unita, gioiosa. Qual è invece il segno che questi due rapporti, tra prete e Vescovo e tra prete e gli altri preti, vanno bene? E’ la gioia. Così come l’amarezza è il segno che non c’è una vera spiritualità diocesana, perché manca un bel rapporto con il Vescovo o con il presbiterio, la gioia è il segno che le cose funzionano. Si può discutere, ci si può arrabbiare, ma c’è la gioia al di sopra di tutto, ed è importante che essa rimanga sempre in questi due rapporti che sono essenziali per la spiritualità del sacerdote diocesano.

 Vorrei tornare su un altro segno, il segno dell’amarezza. Una volta mi diceva un sacerdote, qui a Roma: “Ma, io vedo che tante volte noi siamo una Chiesa di arrabbiati, sempre arrabbiati uno contro l’altro; abbiamo sempre qualcosa per arrabbiarci”. Questo porta la tristezza e l’amarezza: non c’è la gioia. Quando troviamo in una Diocesi un sacerdote che vive così arrabbiato e con questa tensione, pensiamo: ma quest’uomo al mattino per colazione prende l’aceto. Poi, a pranzo, le verdure sott’aceto, e poi alla sera una bella spremuta di limone. Così la sua vita non va, perché è l’immagine di una Chiesa degli arrabbiati. Invece la gioia è il segno che va bene. Uno può arrabbiarsi: è anche sano arrabbiarsi una volta. Ma lo stato di arrabbiamento non è del Signore e porta alla tristezza e alla disunione. E alla fine, lei ha detto “la fedeltà a Dio e all’uomo”. E’ lo stesso che abbiamo detto prima. E’ la doppia fedeltà e la doppia trascendenza: essere fedeli a Dio è cercarlo, aprirsi a Lui nella preghiera, ricordando che Lui è il fedele, Lui non può rinnegare se stesso, è sempre fedele. E poi aprirsi all’uomo; è quell’empatia, quel rispetto, quel sentirlo, e dire la parola giusta con la pazienza.

            Dobbiamo fermarci per amore ai fedeli che aspettano… Ma vi ringrazio, davvero, e vi chiedo di pregare per me, perché anch’io ho le difficoltà di ogni Vescovo e devo anche riprendere ogni giorno il cammino della conversione. La preghiera uno per l’altro ci farà bene per andare avanti. Grazie della pazienza.


 
[Modificato da Caterina63 29/07/2014 20:53]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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03/10/2014 14:38
 
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Il Papa: vescovi vigilino su vocazioni per il bene del popolo di Dio




Papa Francesco incontra la Congregazione per il Clero



03/10/2014


Vocazione, formazione, evangelizzazione. Papa Francesco ha incentrato su questi tre punti il discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero, guidati dal cardinale Beniamino Stella. Il Pontefice ha sottolineato che non bisogna limitarsi a “fare i preti” ma vivere con gioia la propria vocazione, ed ha invitato i pastori a vincere la tentazione di prendere giovani in seminario senza valutarne bene le qualità. Il servizio di Alessandro Gisotti:


“Abbiamo bisogno di sacerdoti, mancano le vocazioni. Il Signore chiama, ma non è sufficiente”. Papa Francesco ha guardato con franchezza alla crisi vocazionale per poi rivolgere, a braccio, un ammonimento ai vescovi affinché vincano “la tentazione di prendere senza discernimento i giovani che si presentano”:


“Questo è un male per la Chiesa! Per favore, studiare bene il percorso di una vocazione! Esaminare bene se quello è dal Signore, se quell’uomo è sano, se quell’uomo è equilibrato, se quell’uomo è capace di dare vita, di evangelizzare, se quell’uomo è capace di formare una famiglia e rinunciare a questo per seguire Gesù".


"Oggi  - ha soggiunto – abbiamo tanti problemi, e in tante diocesi per questo errore di alcuni vescovi di prendere quelli che vengono a volte espulsi dai seminari o dalle case religiose perché hanno bisogno di preti. Per favore! Pensare al bene del popolo di Dio”. La vocazione è come “un tesoro nascosto in un campo”, ha detto ancora Papa Francesco che ha preso spunto dall’immagine del Vangelo di Matteo per sottolineare quanto la chiamata al ministero ordinato sia fondamentale. Ed ha avvertito che questo tesoro “non è fatto per arricchire solo qualcuno”:


“Chi è chiamato al ministero non è 'padrone' della sua vocazione, ma amministratore di un dono che Dio gli ha affidato per il bene di tutto il popolo, anzi di tutti gli uomini, anche di coloro che si sono allontanati dalla pratica religiosa o non professano la fede in Cristo”.


Al tempo stesso, ha soggiunto, “tutta la comunità cristiana è custode del tesoro di queste vocazioni, destinate al suo servizio, e deve avvertire sempre più il compito di promuoverle, accoglierle ed accompagnarle con affetto”. Ha quindi rivolto il pensiero alla formazione che, ha osservato, “è la risposta dell’uomo, della Chiesa al dono che Dio le fa tramite le vocazioni”. Si tratta, ha affermato, “di custodire e far crescere le vocazioni, perché portino frutti maturi”. Esse, infatti, “sono un diamante grezzo, da lavorare con cura, rispetto della coscienza delle persone e pazienza, perché brillino in mezzo al popolo di Dio”. La formazione perciò, ha voluto sottolineare, “non è un atto unilaterale, con il quale qualcuno trasmette nozioni, teologiche o spirituali”:


“Gesù non ha detto a quanti chiamava: ‘vieni, ti spiego’ o ‘seguimi, ti istruisco’; la formazione offerta da Cristo ai suoi discepoli è invece avvenuta tramite un ‘vieni e seguimi’, ‘fai come faccio io’, e questo è il metodo che anche oggi la Chiesa vuole adottare per i suoi ministri. La formazione di cui parliamo è un’esperienza discepolare, che avvicina a Cristo e permette di conformarsi sempre più a Lui”. 


“Proprio per questo – ha aggiunto – essa non può essere un compito a termine, perché i sacerdoti non smettono mai di essere discepoli di Gesù, di seguirlo”. Ed ha evidenziato che “un simile percorso di scoperta e valorizzazione della vocazione ha uno scopo preciso: l’evangelizzazione”. Francesco ha messo in guardia i sacerdoti dall’essere “più preoccupati del consenso altrui e del proprio benessere che animati dalla carità pastorale, per l’annuncio del Vangelo, sino alle più remote periferie”. Infine, il Papa ha ribadito che i sacerdoti devono “accrescere la consapevolezza di essere pastori, inviati per stare in mezzo al loro gregge”:


“Si tratta di ‘essere’ preti, non limitandosi a ‘fare’ i preti, liberi da ogni mondanità spirituale, consci che è la loro vita ad evangelizzare prima ancora delle loro opere. Quanto è bello vedere sacerdoti gioiosi nella loro vocazione, con una serenità di fondo, che li sostiene anche nei momenti di fatica e di dolore! E questo non accade mai senza la preghiera, quella del cuore, quel dialogo con il Signore…che è il cuore, per così dire, della vita sacerdotale”.




DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA PLENARIA DELLA CONGREGAZIONE PER IL CLERO

Sala Clementina
Venerdì, 3 ottobre 2014

 

Signori Cardinali,
cari fratelli vescovi e sacerdoti,
fratelli e sorelle,

rivolgo a ciascuno un cordiale saluto e un sincero ringraziamento per la vostra collaborazione alla sollecitudine della Santa Sede per i ministri ordinati e la loro azione pastorale. Ringrazio il Cardinale Beniamino Stella per le parole con le quali ha introdotto questo incontro. Quello che vorrei dirvi oggi ruota intorno a tre temi, che corrispondono ai fini e all’attività di questo Dicastero: vocazione, formazione, evangelizzazione.

Riprendendo l’immagine del Vangelo di Matteo, mi piace paragonare la vocazione al ministero ordinato al “tesoro nascosto in un campo” (13,44). È davvero un tesoro che Dio mette da sempre nel cuore di alcuni uomini, da Lui scelti e chiamati a seguirlo in questo speciale stato di vita. Questo tesoro, che richiede di essere scoperto e portato alla luce, non è fatto per “arricchire” solo qualcuno. Chi è chiamato al ministero non è “padrone” della sua vocazione, ma amministratore di un dono che Dio gli ha affidato per il bene di tutto il popolo, anzi di tutti gli uomini, anche di coloro che si sono allontanati dalla pratica religiosa o non professano la fede in Cristo. Al tempo stesso, tutta la comunità cristiana è custode del tesoro di queste vocazioni, destinate al suo servizio, e deve avvertire sempre più il compito di promuoverle, accoglierle ed accompagnarle con affetto.

Dio non cessa di chiamare alcuni a seguirlo e servirlo nel ministero ordinato. Anche noi, però, dobbiamo fare la nostra parte, mediante la formazione, che è la risposta dell’uomo, della Chiesa al dono di Dio, quel dono che Dio le fa tramite le vocazioni. Si tratta di custodire e far crescere le vocazioni, perché portino frutti maturi. Esse sono un “diamante grezzo”, da lavorare con cura, rispetto della coscienza delle persone e pazienza, perché brillino in mezzo al popolo di Dio. La formazione perciò non è un atto unilaterale, con il quale qualcuno trasmette nozioni, teologiche o spirituali. Gesù non ha detto a quanti chiamava: “vieni, ti spiego”, “seguimi, ti istruisco”: no!; la formazione offerta da Cristo ai suoi discepoli è invece avvenuta tramite un “vieni e seguimi”, “fai come faccio io”, e questo è il metodo che anche oggi la Chiesa vuole adottare per i suoi ministri. La formazione di cui parliamo è un’esperienza discepolare, che avvicina a Cristo e permette di conformarsi sempre più a Lui.

Proprio per questo, essa non può essere un compito a termine, perché i sacerdoti non smettono mai di essere discepoli di Gesù, di seguirlo. A volte procediamo spediti, altre volte il nostro passo è incerto, ci fermiamo e possiamo anche cadere, ma sempre restando in cammino. Quindi, la formazione in quanto discepolato accompagna tutta la vita del ministro ordinato e riguarda integralmente la sua persona, intellettualmente, umanamente e spiritualmente. La formazione iniziale e quella permanente vengono distinte perché richiedono modalità e tempi diversi, ma sono le due metà di una sola realtà, la vita del discepolo chierico, innamorato del suo Signore e costantemente alla sua sequela.

Un simile percorso di scoperta e valorizzazione della vocazione ha uno scopo preciso: l’evangelizzazione. Ogni vocazione è per la missione e la missione dei ministri ordinati è l’evangelizzazione, in ogni sua forma. Essa parte in primo luogo dall’ “essere”, per poi tradursi in un “fare”. I sacerdoti sono uniti in una fraternità sacramentale, pertanto la prima forma di evangelizzazione è la testimonianza di fraternità e di comunione tra loro e con il Vescovo. Da una simile comunione può scaturire un potente slancio missionario, che libera i ministri ordinati dalla comoda tentazione di essere più preoccupati del consenso altrui e del proprio benessere che animati dalla carità pastorale, per l’annuncio del Vangelo, sino alle più remote periferie.

In tale missione evangelizzatrice, i presbiteri sono chiamati ad accrescere la consapevolezza di essere pastori, inviati per stare in mezzo al loro gregge, per rendere presente il Signore tramite l’Eucaristia e per dispensare la sua misericordia. Si tratta di “essere” preti, non limitandosi a “fare” i preti, liberi da ogni mondanità spirituale, consci che è la loro vita ad evangelizzare prima ancora delle loro opere. Quanto è bello vedere sacerdoti gioiosi nella loro vocazione, con una serenità di fondo, che li sostiene anche nei momenti di fatica e di dolore! 
E questo non accade mai senza la preghiera, quella del cuore, quel dialogo con il Signore…che è il cuore, per così dire, della vita sacerdotale. Abbiamo bisogno di sacerdoti, mancano le vocazioni. Il Signore chiama, ma non è sufficiente. 
E noi vescovi abbiamo la tentazione di prendere senza discernimento i giovani che si presentano. Questo è un male per la Chiesa! Per favore, occorre studiare bene il percorso di una vocazione! Esaminare bene se quello è dal Signore, se quell’uomo è sano, se quell’uomo è equilibrato, se quell’uomo è capace di dare vita, di evangelizzare, se quell’uomo è capace di formare una famiglia e rinunciare a questo per seguire Gesù.Oggi abbiamo tanti problemi, e in tante diocesi, per questo errore di alcuni vescovi di prendere quelli che vengono a volte espulsi dai seminari o dalle case religiose perché hanno bisogno di preti. Per favore! Dobbiamo pensare al bene del popolo di Dio.

Cari fratelli e sorelle, i temi che state trattando in questi giorni di Assemblea sono di grande rilevanza. Una vocazione curata mediante una permanente formazione, nella comunione, diviene un potente strumento di evangelizzazione, al servizio del popolo di Dio. Il Signore vi illumini nelle vostre riflessioni, vi accompagni anche la mia benedizione. E per favore, vi chiedo di pregare per me e per il mio servizio alla Chiesa. Grazie.

   



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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10/11/2014 23:02
 
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Il Papa alla Cei: non servono preti clericali né funzionari ma conformi al Buon Pastore




Antica immagine del Buon Pastore





10/11/2014 07:33



Il presbitero, la sua formazione e la sua missione. Questi i temi attorno a cui ruota il messaggio che Papa Francesco  indirizza alla 67.ma Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, che si è aperta oggi ad Assisi e proseguirà fino al 13 novembre. Il servizio di Debora Donnini:

“Non servono preti clericali, il cui comportamento rischia di allontanare la gente dal Signore, né preti funzionari che, mentre svolgono un ruolo, cercano lontano da Lui la propria consolazione”. Lo ricorda Papa Francesco all’Assemblea generale della Cei, dedicata specialmente alla vita e alla formazione permanente dei presbiteri.

Nel messaggio il Papa sottolinea che “solo chi si lascia conformare al Buon Pastore trova unità, pace e forza nell’obbedienza del servizio” e che “solo chi respira nell’orizzonte della fraternità presbiterale esce dalla contraffazione di una coscienza che si pretende epicentro di tutto, unica misura del proprio sentire e delle proprie azioni”.

Convenire ad Assisi, prosegue, fa pensare al grande amore che san Francesco nutriva per la “Santa Madre Chiesa Gerarchica” e per i sacerdoti. E quindi il Pontefice ricorda ai vescovi che tra le loro principali responsabilità c’è quella di consolidare  questi collaboratori “attraverso i quali la maternità della Chiesa raggiunge il popolo di Dio”.

“Quanti – scrive -  con la loro testimonianza hanno contribuito ad attrarci a una vita di consacrazione!”. “Li abbiamo visti spendere la vita tra la gente delle nostre parrocchie, educare i ragazzi, accompagnare le famiglie, visitare i malati a casa e all’ospedale, farsi carico dei poveri, nella consapevolezza che ‘separarsi per non sporcarsi con gli altri è la sporcizia più grande’”, prosegue citando Tolstoj.

“I sacerdoti santi sono peccatori perdonati e strumenti di perdono” ricorda Papa Francesco, sanno di essere nelle mani di Uno che non viene meno alle promesse e una tale consapevolezza cresce con la carità pastorale con cui circondano di attenzione “le persone loro affidate, fino a conoscerle una a una”.

“Sì – scrive – è ancora tempo di presbiteri di questo spessore, ‘ponti’ per l’incontro fra Dio e il mondo”. Ma Francesco sottolinea anche che “preti così non s’improvvisano”: li forgia il Seminario e l’Ordinazione li consacra ma il tempo può intiepidire la generosa dedizione degli inizi e per questo è necessario “un cammino quotidiano di riappropriazione, a partire da ciò che ne ha fatto un ministro di Gesù Cristo”.

Una formazione, dunque, che consiste in “un’esperienza di discepolato permanente”, che non ha termine, perché “i sacerdoti non smettono mai di essere discepoli di Gesù”. Per Papa Francesco , quindi, “la formazione iniziale e quella permanente sono due momenti di una sola realtà: il cammino del discepolo presbitero, innamorato del suo Signore”.

L’augurio è, quindi, di  vivere giornate che portino a “tratteggiare nuovi itinerari di formazione permanente, capaci di coniugare la dimensione spirituale con quella culturale, la dimensione comunitaria con quella pastorale: sono questi i pilastri di vite formate secondo il Vangelo, custodite nella disciplina quotidiana, nell’orazione, nella custodia dei sensi, nella cura di sé, nella testimonianza umile e profetica; vite che restituiscono alla Chiesa la fiducia che essa per prima ha posto in loro”.







LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
AI PARTECIPANTI ALL'ASSEMBLEA GENERALE STRAORDINARIA 
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

[ASSISI, 10-13 NOVEMBRE 2014]

[Multimedia]


 

Cari Fratelli nell’episcopato,

con queste righe desidero esprimere la mia vicinanza a ciascuno di voi e alle Chiese in mezzo alle quali lo Spirito di Dio vi ha posto come Pastori. Questo stesso Spirito possa animare con la sua sapienza creativa l’Assemblea generale che state iniziando, dedicata specialmente alla vita e alla formazione permanente dei presbiteri.

A tale proposito, il vostro convenire ad Assisi fa subito pensare al grande amore e alla venerazione che san Francesco nutriva per la Santa Madre Chiesa Gerarchica, e in particolare proprio per i sacerdoti, compresi quelli da lui riconosciuti come “pauperculos huius saeculi” (dal Testamento).

Tra le principali responsabilità che il ministero episcopale vi affida c’è quella di confermare, sostenere e consolidare questi vostri primi collaboratori, attraverso i quali la maternità della Chiesa raggiunge l’intero popolo di Dio. Quanti ne abbiamo conosciuti! Quanti con la loro testimonianza hanno contribuito ad attrarci a una vita di consacrazione! Da quanti di loro abbiamo imparato e siamo stati plasmati! Nella memoria riconoscente ciascuno di noi ne conserva i nomi e i volti. Li abbiamo visti spendere la vita tra la gente delle nostre parrocchie, educare i ragazzi, accompagnare le famiglie, visitare i malati a casa e all’ospedale, farsi carico dei poveri, nella consapevolezza che “separarsi per non sporcarsi con gli altri è la sporcizia più grande” (L. Tolstoj). Liberi dalle cose e da sé stessi, rammentano a tutti che abbassarsi senza nulla trattenere è la via per quell’altezza che il Vangelo chiama carità; e che la gioia più vera si gusta nella fraternità vissuta.

I sacerdoti santi sono peccatori perdonati e strumenti di perdono. La loro esistenza parla la lingua della pazienza e della perseveranza; non sono rimasti turisti dello spirito, eternamente indecisi e insoddisfatti, perché sanno di essere nelle mani di Uno che non viene meno alle promesse e la cui Provvidenza fa sì che nulla possa mai separarli da tale appartenenza. Questa consapevolezza cresce con la carità pastorale con cui circondano di attenzione e di tenerezza le persone loro affidate, fino a conoscerle ad una ad una.

Sì, è ancora tempo di presbiteri di questo spessore, “ponti” per l’incontro tra Dio e il mondo, sentinelle capaci di lasciar intuire una ricchezza altrimenti perduta.

Preti così non si improvvisano: li forgia il prezioso lavoro formativo del Seminario e l’Ordinazione li consacra per sempre uomini di Dio e servitori del suo popolo. Ma può accadere che il tempo intiepidisca la generosa dedizione degli inizi, e allora è vano cucire toppe nuove su un vestito vecchio: l’identità del presbitero, proprio perché viene dall’alto, esige da lui un cammino quotidiano di riappropriazione, a partire da ciò che ne ha fatto un ministro di Gesù Cristo.

La formazione di cui parliamo è un’esperienza di discepolato permanente, che avvicina a Cristo e permette di conformarsi sempre più a Lui. Perciò essa non ha un termine, perché i sacerdoti non smettono mai di essere discepoli di Gesù, di seguirlo. Quindi, la formazione in quanto discepolato accompagna tutta la vita del ministro ordinato e riguarda integralmente la sua persona e il suo ministero. La formazione iniziale e quella permanente sono due momenti di una sola realtà: il cammino del discepolo presbitero, innamorato del suo Signore e costantemente alla sua sequela (cfr Discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero, 3 ottobre 2014).

Del resto, fratelli, voi sapete che non servono preti clericali il cui comportamento rischia di allontanare la gente dal Signore, né preti funzionari che, mentre svolgono un ruolo, cercano lontano da Lui la propria consolazione. Solo chi tiene fisso lo sguardo su ciò che è davvero essenziale può rinnovare il proprio sì al dono ricevuto e, nelle diverse stagioni della vita, non smettere di fare dono di sé; solo chi si lascia conformare al Buon Pastore trova unità, pace e forza nell’obbedienza del servizio; solo chi respira nell’orizzonte della fraternità presbiterale esce dalla contraffazione di una coscienza che si pretende epicentro di tutto, unica misura del proprio sentire e delle proprie azioni.

Vi auguro giornate di ascolto e di confronto, che portino a tracciare itinerari di formazione permanente, capaci di coniugare la dimensione spirituale con quella culturale, la dimensione comunitaria con quella pastorale: sono questi i pilastri di vite formate secondo il Vangelo, custodite nella disciplina quotidiana, nell’orazione, nella custodia dei sensi, nella cura di sé, nella testimonianza umile e profetica; vite che restituiscono alla Chiesa la fiducia che essa per prima ha posto in loro.

Vi accompagno con la mia preghiera e la mia Benedizione, che estendo, per intercessione della Vergine Madre, a tutti i sacerdoti della Chiesa in Italia e a quanti lavorano al servizio della loro formazione; e vi ringrazio per le vostre preghiere per me e per il mio ministero.

Dal Vaticano, 8 novembre 2014

 

Francesco



[Modificato da Caterina63 11/11/2014 13:10]
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  Papa, il 19 febbraio incontro clero romano su Ars celebrandi




Papa Francesco - AP





07/02/2015

19 febbraio, Papa incontra il clero romano sul tema dell’Ars celebrandi

Sarà l’"Ars celebrandi", in particolare l’omelia nella celebrazione dell’Eucarestia, il tema del tradizionale incontro del Papa con il clero della diocesi di Roma, in programma giovedì 19 febbraio, alle ore 10, nell’Aula Paolo VI, in Vaticano. Il Pontefice terrà un discorso e poi risponderà ad alcune domande che gli verranno poste dai sacerdoti. “Si tratta – scrive il cardinale vicario, Agostino Vallini, in una lettera pubblicata sul sito web diocesano – del’incontro annuale con il nostro Vescovo, che viviamo sempre con gioia e tanto frutto spirituale”.

Un tema caro a Papa Francesco
“Il tema dell’Ars celebrandi – continua il porporato – è stato suggerito dal Consiglio dei prefetti ed è un argomento trattato dal Pontefice nell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium”. Per permettere al clero romano di prepararsi all’incontro, per desiderio del Papa è stato distribuito un intervento del 2005, che l’allora cardinale Bergoglio tenne presso la Congregazione per il Culto Divino proprio su questo tema.

Il celebrante, leadership umile ma incisiva
Nel suo discorso, il futuro Pontefice sottolineava la necessità, per il sacerdote, di cogliere per primo il senso del mistero della celebrazione per poi comunicarlo alla comunità cristiana, così da permetterle di conformarsi ad esso. Tutto questo, diceva l’allora cardinale Bergoglio, “richiede una fede viva, nutrita, e un saldo spirito di preghiera”, accompagnato da una “leadership umile, ma incisiva”, che fa intuire al popolo “un uomo che sa pregare la liturgia e che soprattutto sa rivestirsi del Signore Gesù Cristo”.

Celebrazione dell’Eucaristia, atto di giustizia
Il futuro Papa Francesco rimarcava, poi, che la celebrazione dell’Eucaristia non è “un atto di carità”, ma “un atto di giustizia” che il pastore fa al suo popolo; l’omelia, quindi, non deve essere “semplicemente un leggere, un predicare, un annunciare, ma piuttosto un pregare sincero”, un “parlare al cuore”.

Il sacerdote non è uno showman
Infine, l’allora porporato suggeriva di evitare alcuni atteggiamenti, come quello del “sacerdote dai gesti rigidi, che pare quasi ignaro della presenza del popolo”, oppure quello del “prete-showman che investe energie in una specie di animazione superficiale”, o ancora l’atteggiamento del sacerdote affetto dalla “sindrome di Marta”, ovvero così indaffarato che “non ha tempo per una degna celebrazione in tempi ragionevoli”. (I.P.)

   poi inseriremo il testo integrale....




[Modificato da Caterina63 09/02/2015 18:39]
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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
AI PARTECIPANTI AL CORSO PROMOSSO 
DAL TRIBUNALE DELLA PENITENZIERIA APOSTOLICA

Sala Clementina
Giovedì, 12 marzo 2015

[Multimedia]



 

Cari fratelli,

sono particolarmente lieto, in questo tempo di Quaresima, di incontrarvi in occasione dell’annuale Corso sul Foro Interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica

Rivolgo un cordiale saluto al Cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore, e lo ringrazio per le sue cortesi espressioni. Lo ringrazio per gli auguri che mi ha fatto, ma vorrei anche condividere un’altra ricorrenza: oltre a quella di domani, dei due anni di pontificato, oggi ricorre il 57.mo della mia entrata nella vita religiosa. 
Pregate per me! 
Saluto il Reggente, Mons. Krzysztof Nykiel, i Prelati, gli Officiali e il Personale della Penitenzieria, i Collegi dei Penitenzieri ordinari e straordinari delle Basiliche Papali in Urbe, e tutti voi partecipanti al Corso, che ha come fine pastorale quello di aiutare i novelli sacerdoti e i candidati all’Ordine sacro ad amministrare rettamente il Sacramento della Riconciliazione. I Sacramenti, come sappiamo, sono il luogo della prossimità e della tenerezza di Dio per gli uomini; essi sono il modo concreto che Dio ha pensato, ha voluto per venirci incontro, per abbracciarci, senza vergognarsi di noi e del nostro limite.

Tra i Sacramenti, certamente quello della Riconciliazione rende presente con speciale efficacia il volto misericordioso di Dio: lo concretizza e lo manifesta continuamente, senza sosta. Non dimentichiamolo mai, sia come penitenti che come confessori: non esiste alcun peccato che Dio non possa perdonare! Nessuno! Solo ciò che è sottratto alla divina misericordia non può essere perdonato, come chi si sottrae al sole non può essere illuminato né riscaldato.

Alla luce di questo meraviglioso dono di Dio, vorrei sottolineare tre esigenze: vivere il Sacramento come mezzo per educare alla misericordia; lasciarsi educare da quanto celebriamo; custodire lo sguardo soprannaturale.

1. Vivere il Sacramento come mezzo per educare alla misericordia, significa aiutare i nostri fratelli a fare esperienza di pace e di comprensione, umana e cristiana. La Confessione non deve essere una “tortura”, ma tutti dovrebbero uscire dal confessionale con la felicità nel cuore, con il volto raggiante di speranza, anche se talvolta – lo sappiamo – bagnato dalle lacrime della conversione e della gioia che ne deriva (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 44). 
Il Sacramento, con tutti gli atti del penitente, non implica che esso diventi un pesante interrogatorio, fastidioso ed invadente. Al contrario, dev’essere un incontro liberante e ricco di umanità, attraverso il quale poter educare alla misericordia, che non esclude, anzi comprende anche il giusto impegno di riparare, per quanto possibile, il male commesso. Così il fedele si sentirà invitato a confessarsi frequentemente, e imparerà a farlo nel migliore dei modi, con quella delicatezza d’animo che fa tanto bene al cuore – anche al cuore del confessore! In questo modo noi sacerdoti facciamo crescere la relazione personale con Dio, così che si dilati nei cuori il suo Regno di amore e di pace.

Tante volte si confonde la misericordia con l’essere confessore “di manica larga”.   
Ma pensate questo: né un confessore di manica larga, né un confessore rigido è misericordioso. Nessuno dei due. Il primo, perché dice: “Vai avanti, questo non è peccato, vai, vai!”. L’altro, perché dice: “No, la legge dice…”. Ma nessuno dei due tratta il penitente come fratello, lo prende per mano e lo accompagna nel suo percorso di conversione! L’uno dice: “Vai tranquillo, Dio perdona tutto. Vai, vai!”. L’altro dice: “No, la legge dice no”. 

Invece, il misericordioso lo ascolta, lo perdona, ma se ne fa carico e lo accompagna, perché la conversione sì, incomincia – forse – oggi, ma deve continuare con la perseveranza… Lo prende su di sé, come il Buon Pastore che va a cercare la pecora smarrita e la prende su di sé. Ma non bisogna confondere: questo è molto importante. Misericordia significa prendersi carico del fratello o della sorella e aiutarli a camminare. Non dire “ah, no, vai, vai!”, o la rigidità. Questo è molto importante. E chi può fare questo? Il confessore che prega, il confessore che piange, il confessore che sa che è più peccatore del penitente, e se non ha fatto quella cosa brutta che dice il penitente, è per semplice grazia di Dio. Misericordioso è essere vicino e accompagnare il processo della conversione.

2. Ed è proprio a voi confessori che dico: lasciatevi educare dal Sacramento della Riconciliazione! Secondo punto. 
Quante volte ci capita di ascoltare confessioni che ci edificano! Fratelli e sorelle che vivono un’autentica comunione personale ed ecclesiale con il Signore e un amore sincero per i fratelli. Anime semplici, anime di poveri in spirito, che si abbandonano totalmente al Signore, che si fidano della Chiesa e, perciò, anche del confessore. Ci è dato anche, spesso, di assistere a veri e propri miracoli di conversione. Persone che da mesi, a volte da anni sono sotto il dominio del peccato e che, come il figliol prodigo, ritornano in sé stesse e decidono di rialzarsi e ritornare alla casa del Padre (cfr Lc 15,17), per implorarne il perdono. Ma com’è bello accogliere questi fratelli e sorelle pentiti con l’abbraccio benedicente del Padre misericordioso, che ci ama tanto e fa festa per ogni figlio che ritorna a Lui con tutto il cuore!

Quanto possiamo imparare dalla conversione e dal pentimento dei nostri fratelli! Essi ci spingono a fare anche noi un esame di coscienza: io, sacerdote, amo così il Signore, come questa vecchietta? Io sacerdote, che sono stato fatto ministro della sua misericordia, sono capace di avere la misericordia che c’è nel cuore di questo penitente? Io, confessore, sono disponibile al cambiamento, alla conversione, come questo penitente, del quale sono stato posto al servizio? Tante volte ci edificano queste persone, ci edificano.

3. Quando si ascoltano le confessioni sacramentali dei fedeli, occorre tenere sempre lo sguardo interiore rivolto al Cielo, al soprannaturale. Dobbiamo anzitutto ravvivare in noi la consapevolezza che nessuno è posto in tale ministero per proprio merito; né per le proprie competenze teologiche o giuridiche, né per il proprio tratto umano o psicologico. Tutti siamo stati costituiti ministri della riconciliazione per pura grazia di Dio, gratuitamente e per amore, anzi, proprio per misericordia. 
Io che ho fatto questo e questo e questo, adesso devo perdonare… Mi viene in mente quel brano finale di Ezechiele 16, quando il Signore rimprovera con termini molto forti l’infedeltà del suo popolo. Ma alla fine dice: “Ma io ti perdonerò e ti porrò sopra le tue sorelle – gli altri popoli –  per giudicarli, e tu sarai più importante di loro, e questo lo farò per la tua vergogna, perché ti vergogni di quello che hai fatto”.L’esperienza della vergogna: io, nel sentire questo peccato, quest’anima che si pente con tanto dolore o con tanta delicatezza d’animo, sono capace di vergognarmi dei miei peccati? E questa è una grazia. Siamo ministri della misericordia grazie alla misericordia di Dio; non dobbiamo mai perdere questo sguardo soprannaturale, che ci rende davvero umili, accoglienti e misericordiosi verso ogni fratello e sorella che chiede di confessarsi. 
E se io non ho fatto questo, non sono caduto in quel brutto peccato o non sono in carcere, è per pura grazia di Dio, soltanto per questo! 
Non per merito proprio. E questo dobbiamo sentirlo nel momento dell’amministrazione del Sacramento. Anche il modo di ascoltare l’accusa dei peccati dev’essere soprannaturale: ascoltare in modo soprannaturale, in modo divino; rispettoso della dignità e delle storia personale di ciascuno, così che possa comprendere che cosa Dio vuole da lui o da lei. Per questo la Chiesa è chiamata ad «iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – all’“arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro» (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium,169). Anche il più grande peccatore che viene davanti a Dio a chiedere perdono è “terra sacra”, e anch’io che devo perdonarlo in nome di Dio posso fare cose più brutte di quelle che ha fatto lui. Ogni fedele penitente che si accosta al confessionale è “terra sacra”, terra sacra da “coltivare” con dedizione, cura e attenzione pastorale.

Vi auguro, cari fratelli, di approfittare del tempo quaresimale per la conversione personale e per dedicarvi generosamente all’ascolto delle Confessioni, così che il popolo di Dio possa giungere purificato alla festa di Pasqua, che rappresenta la vittoria definitiva della Divina Misericordia su tutto il male del mondo. Affidiamoci all’intercessione di Maria, Madre della Misericordia e Rifugio dei peccatori. Lei sa come aiutarci, noi peccatori.A me piace tanto leggere le Storie di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, e i diversi capitoli del suo libro “Le glorie di Maria”. Queste storie della Madonna, che sempre è il rifugio dei peccatori e cerca la strada perché il Signore perdoni tutto. Che Lei ci insegni questa arte. Vi benedico di cuore e, per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie.

  


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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SANTA MESSA DEL CRISMA


OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 2 aprile 2015

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«La mia mano è il suo sostegno, / il mio braccio è la sua forza» (Sal 88,22). Così pensa il Signore quando dice dentro di sé: «Ho trovato Davide, mio servo, / con il mio santo olio l’ho consacrato» (v. 21). Così pensa il nostro Padre ogni volta che “trova” un sacerdote. E aggiunge ancora: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / …  Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”» (vv. 25.27).

E’ molto bello entrare, con il Salmista, in questo soliloquio del nostro Dio. Egli parla di noi, suoi sacerdoti, suoi preti; ma in realtà non è un soliloquio, non parla da solo: è il Padre che dice a Gesù: “I tuoi amici, quelli che ti amano, mi potranno dire in modo speciale: Tu sei mio Padre” (cfr Gv 14,21). E se il Signore pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, è perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica. Lo sperimentiamo in tutte le forme: dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio.

La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre.

Siate sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei (cfr Evangelii gaudium, 286). E a suo Figlio dirà, come a Cana: «Non hanno vino» (Gv 2,3).

Succede anche che, quando sentiamo il peso del lavoro pastorale, ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione. La nostra fatica è preziosa agli occhi di Gesù, che ci accoglie e ci fa alzare: “Venite a me quando siete stanchi e oppressi, io vi darò ristoro” (cfr Mt 11,28). Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova, perché chi ha unto con olio di letizia il popolo fedele di Dio, il Signore pure lo unge: “cambia la sua cenere in diadema, le sue lacrime in olio profumato di letizia, il suo abbattimento in canti” (cfr Is 61,3).

Teniamo ben presente che una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia e il nostro ricordare che anche noi siamo pecore e abbiamo bisogno del pastore, che ci aiuti. Possono aiutarci alcune domande a questo proposito.

So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare? So chiedere aiuto a qualche sacerdote saggio? So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – ad essi piace stare in mia compagnia –, e nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio – …? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito Santo che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: «So in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12)?

Ripassiamo un momento, brevemente, gli impegni dei sacerdoti, che oggi la liturgia ci proclama: portare ai poveri la Buona Notizia, annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione ai ciechi, dare la libertà agli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Isaia dice anche curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti.

Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio…; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. 
Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto di ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara… Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. 

Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario:  noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca.

Vorrei ora condividere con voi alcune stanchezze sulle quali ho meditato.

C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfrEvangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). 
Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).

C’è anche quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sé stessi dal male (cfr Evangelii gaudium, 83). Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare - è un’abitudine importante: imparare a neutralizzare -: neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv16,33). E questa parola ci darà forza.

E per ultima – ultima perché questa omelia non vi stanchi troppo – c’è anche “la stanchezza di sé stessi” (cfr Evangelii gaudium, 277). E’ forse la più pericolosa. 
Perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare (siamo quelli che si prendono cura). Invece questa stanchezza, è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro.Questa stanchezza mi piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio.

L’immagine più profonda e misteriosa di come il Signore tratta la nostra stanchezza pastorale è quella che «avendo amato i suoi…, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): la scena della lavanda dei piedi. Mi piace contemplarla come la lavanda della sequela. Il Signore purifica la stessa sequela, Egli si «coinvolge» con noi (Evangelii gaudium, 24), si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome.

Sappiamo che nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo. Nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore. Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute, tentando di condurre il gregge ai verdi pascoli e alle acque tranquille (cfr ibid., 270). Il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. E questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava.

La sequela di Gesù è lavata dallo stesso Signore affinché ci sentiamo in diritto di essere “gioiosi”, “pieni”, “senza paura né colpa” e così abbiamo il coraggio di uscire e andare “sino ai confini del mondo, a tutte le periferie”, a portare questa buona notizia ai più abbandonati, sapendo che “Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Francesco: vocazione è un "esodo" da sé verso Dio e i poveri

Francesco con un gruppo di sacerdoti - AP

14/04/2015 

L’azione missionaria ed evangelizzatrice della Chiesa è al centro del Messaggio scritto da Papa Francesco per la 52.ma Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. La vocazione cristiana – scrive Francesco – è caratterizzata dall’esperienza dell’esodo. Di qui l’invito rivolto in particolare ai giovani a non aver paura di uscire da sé stessi e a mettersi in cammino, sempre con lo sguardo rivolto ai più bisognosi. Il servizio di Stefano Leszczynski:

“L’esodo, esperienza fondamentale della vocazione” è il significativo titolo scelto da Papa Francesco per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni che viene celebrata quest’anno il 26 aprile ed è giunta alla sua 52.ma edizione. In una Chiesa missionaria – scrive il Papa – “la vocazione cristiana non può che nascere all’interno di un’esperienza di missione” e questo è possibile solo se si è capaci di uscire da sé stessi, compiendo un vero e proprio “esodo”, paragonabile all’Esodo biblico che il popolo di Dio compie affrancandosi dalla schiavitù per trovare vita nuova in Cristo. Un passaggio che per il Papa rappresenta una parabola di tutta la storia della salvezza e della dinamica della fede cristiana.

Alla radice di ogni vocazione cristiana – spiega Francesco – c’è proprio l’uscita “dalla comodità e rigidità del proprio io per centrare la nostra vita in Gesù Cristo”. Un’uscita che non rappresenta però “un disprezzo della propria vita del proprio sentire e della propria umanità”, anzi. La vocazione – spiega Francesco citando la “Deus Caritas est” di Benedetto XVI – è una chiamata d’amore che attrae e rimanda oltre sé stessi, innescando “un esodo permanente dall’io chiuso in sé stesso verso la sua liberazione nel dono di sé”.

Questa dinamica dell’esodo – scrive il Papa – non riguarda solo il singolo chiamato, ma l’azione missionaria ed evangelizzatrice di tutta la Chiesa: una Chiesa “in uscita”, “capace di andare incontro ai figli di Dio nella loro situazione reale e di com-patire per le loro ferite”. “La Chiesa che evangelizza – scrive Francesco – esce incontro all’uomo, annuncia la parola liberante del Vangelo, cura con la grazia di Dio le ferite delle anime e dei corpi, solleva i poveri ed i bisognosi”. La vocazione cristiana rappresenta un impegno concreto al servizio della costruzione del Regno di Dio sulla terra e spinge necessariamente all’impegno solidale , soprattutto verso i più poveri.

Ai più giovani il Papa dedica un accorato appello a non temere le incertezze e delle incognite della quotidianità che rischiano di frenare i loro sogni. Francesco li incita a non avere paura di uscire da sé stessi e di mettersi in cammino sulle orme di Gesù, come già fece la Vergine Maria, modello di ogni vocazione, che non ha temuto di pronunciare il proprio “fiat” alla chiamata del Signore.


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA 52ª GIORNATA MONDIALE
DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI

Tema: L’esodo, esperienza fondamentale della vocazione

 

Cari fratelli e sorelle!

La quarta Domenica di Pasqua ci presenta l’icona del Buon Pastore che conosce le sue pecore, le chiama, le nutre e le conduce. In questa Domenica, da oltre 50 anni, viviamo la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Ogni volta essa ci richiama l’importanza di pregare perché, come disse Gesù ai suoi discepoli, «il signore della messe…mandi operai nella sua messe» (Lc10,2). Gesù esprime questo comando nel contesto di un invio missionario: ha chiamato, oltre ai dodici apostoli, altri settantadue discepoli e li invia a due a due per la missione (Lc 10,1-16). In effetti, se la Chiesa «è per sua natura missionaria» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 2), la vocazione cristiana non può che nascere all’interno di un’esperienza di missione. Così, ascoltare e seguire la voce di Cristo Buon Pastore, lasciandosi attrarre e condurre da Lui e consacrando a Lui la propria vita, significa permettere che lo Spirito Santo ci introduca in questo dinamismo missionario, suscitando in noi il desiderio e il coraggio gioioso di offrire la nostra vita e di spenderla per la causa del Regno di Dio.

L’offerta della propria vita in questo atteggiamento missionario è possibile solo se siamo capaci di uscire da noi stessi. Perciò, in questa 52ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, vorrei riflettere proprio su quel particolare “esodo” che è la vocazione, o, meglio, la nostra risposta alla vocazione che Dio ci dona. Quando sentiamo la parola “esodo”, il nostro pensiero va subito agli inizi della meravigliosa storia d’amore tra Dio e il popolo dei suoi figli, una storia che passa attraverso i giorni drammatici della schiavitù in Egitto, la chiamata di Mosè, la liberazione e il cammino verso la terra promessa. Il libro dell’Esodo – il secondo libro della Bibbia –, che narra questa storia, rappresenta una parabola di tutta la storia della salvezza, e anche della dinamica fondamentale della fede cristiana. Infatti, passare dalla schiavitù dell’uomo vecchio alla vita nuova in Cristo è l’opera redentrice che avviene in noi per mezzo della fede (Ef 4,22-24). Questo passaggio è un vero e proprio “esodo”, è il cammino dell’anima cristiana e della Chiesa intera, l’orientamento decisivo dell’esistenza rivolta al Padre.

Alla radice di ogni vocazione cristiana c’è questo movimento fondamentale dell’esperienza di fede: credere vuol dire lasciare sé stessi, uscire dalla comodità e rigidità del proprio io per centrare la nostra vita in Gesù Cristo; abbandonare come Abramo la propria terra mettendosi in cammino con fiducia, sapendo che Dio indicherà la strada verso la nuova terra. Questa “uscita” non è da intendersi come un disprezzo della propria vita, del proprio sentire, della propria umanità; al contrario, chi si mette in cammino alla sequela del Cristo trova la vita in abbondanza, mettendo tutto sé stesso a disposizione di Dio e del suo Regno. Dice Gesù: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Tutto ciò ha la sua radice profonda nell’amore. Infatti, la vocazione cristiana è anzitutto una chiamata d’amore che attrae e rimanda oltre sé stessi, decentra la persona, innesca «un esodo permanente dall’io chiuso in sé stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (Benedetto XVI, Lett. Enc. Deus Caritas est, 6).

L’esperienza dell’esodo è paradigma della vita cristiana, in particolare di chi abbraccia una vocazione di speciale dedizione al servizio del Vangelo. Consiste in un atteggiamento sempre rinnovato di conversione e trasformazione, in un restare sempre in cammino, in un passare dalla morte alla vita così come celebriamo in tutta la liturgia: è il dinamismo pasquale. In fondo, dalla chiamata di Abramo a quella di Mosè, dal cammino peregrinante di Israele nel deserto alla conversione predicata dai profeti, fino al viaggio missionario di Gesù che culmina nella sua morte e risurrezione, la vocazione è sempre quell’azione di Dio che ci fa uscire dalla nostra situazione iniziale, ci libera da ogni forma di schiavitù, ci strappa dall’abitudine e dall’indifferenza e ci proietta verso la gioia della comunione con Dio e con i fratelli. Rispondere alla chiamata di Dio, dunque, è lasciare che Egli ci faccia uscire dalla nostra falsa stabilità per metterci in cammino verso Gesù Cristo, termine primo e ultimo della nostra vita e della nostra felicità.

Questa dinamica dell’esodo non riguarda solo il singolo chiamato, ma l’azione missionaria ed evangelizzatrice di tutta la Chiesa. La Chiesa è davvero fedele al suo Maestro nella misura in cui è una Chiesa “in uscita”, non preoccupata di sé stessa, delle proprie strutture e delle proprie conquiste, quanto piuttosto capace di andare, di muoversi, di incontrare i figli di Dio nella loro situazione reale e di com-patire per le loro ferite. Dio esce da sé stesso in una dinamica trinitaria di amore, ascolta la miseria del suo popolo e interviene per liberarlo (Es 3,7). A questo modo di essere e di agire è chiamata anche la Chiesa: la Chiesa che evangelizza esce incontro all’uomo, annuncia la parola liberante del Vangelo, cura con la grazia di Dio le ferite delle anime e dei corpi, solleva i poveri e i bisognosi.

Cari fratelli e sorelle, questo esodo liberante verso Cristo e verso i fratelli rappresenta anche la via per la piena comprensione dell’uomo e per la crescita umana e sociale nella storia. Ascoltare e accogliere la chiamata del Signore non è una questione privata e intimista che possa confondersi con l’emozione del momento; è un impegno concreto, reale e totale che abbraccia la nostra esistenza e la pone al servizio della costruzione del Regno di Dio sulla terra. Perciò la vocazione cristiana, radicata nella contemplazione del cuore del Padre, spinge al tempo stesso all’impegno solidale a favore della liberazione dei fratelli, soprattutto dei più poveri. Il discepolo di Gesù ha il cuore aperto al suo orizzonte sconfinato, e la sua intimità con il Signore non è mai una fuga dalla vita e dal mondo ma, al contrario, «si configura essenzialmente come comunione missionaria» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 23).

Questa dinamica esodale, verso Dio e verso l’uomo, riempie la vita di gioia e di significato. Vorrei dirlo soprattutto ai più giovani che, anche per la loro età e per la visione del futuro che si spalanca davanti ai loro occhi, sanno essere disponibili e generosi. A volte le incognite e le preoccupazioni per il futuro e l’incertezza che intacca la quotidianità rischiano di paralizzare questi loro slanci, di frenare i loro sogni, fino al punto di pensare che non valga la pena impegnarsi e che il Dio della fede cristiana limiti la loro libertà. Invece, cari giovani, non ci sia in voi la paura di uscire da voi stessi e di mettervi in cammino! Il Vangelo è la Parola che libera, trasforma e rende più bella la nostra vita. Quanto è bello lasciarsi sorprendere dalla chiamata di Dio, accogliere la sua Parola, mettere i passi della vostra esistenza sulle orme di Gesù, nell’adorazione del mistero divino e nella dedizione generosa agli altri! La vostra vita diventerà ogni giorno più ricca e più gioiosa!

La Vergine Maria, modello di ogni vocazione, non ha temuto di pronunciare il proprio “fiat” alla chiamata del Signore. Lei ci accompagna e ci guida. Con il coraggio generoso della fede, Maria ha cantato la gioia di uscire da sé stessa e affidare a Dio i suoi progetti di vita. A lei ci rivolgiamo per essere pienamente disponibili al disegno che Dio ha su ciascuno di noi; perché cresca in noi il desiderio di uscire e di andare, con sollecitudine, verso gli altri (cfr Lc 1,39). La Vergine Madre ci protegga e interceda per tutti noi.

Dal Vaticano, 29 marzo 2015

Domenica delle Palme

Franciscus



 

Fraternamente CaterinaLD

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ORDINAZIONE SACERDOTALE DI DIACONI DELLA DIOCESI DI ROMA


OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Basilica Vaticana
IV Domenica di Pasqua, 26 aprile 2015

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Fratelli carissimi,

questi nostri figli sono stati chiamati all’ordine del presbiterato. Ci farà bene riflettere un po’ a quale ministero saranno elevati nella Chiesa. Come voi ben sapete il Signore Gesù è il solo Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento, ma in Lui anche tutto il popolo santo di Dio è stato costituito popolo sacerdotale. Tutti noi! Nondimeno, tra tutti i suoi discepoli, il Signore Gesù vuole sceglierne alcuni in particolare, perché esercitando pubblicamente nella Chiesa in suo nome l’officio sacerdotale a favore di tutti gli uomini, continuassero la sua personale missione di maestro, sacerdote e pastore.

Come, infatti, per questo Egli era stato inviato dal Padre, così Egli inviò a sua volta nel mondo prima gli Apostoli e poi i Vescovi e i loro successori, ai quali infine furono dati come collaboratori i presbiteri, che, ad essi uniti nel ministero sacerdotale, sono chiamati al servizio del Popolo di Dio.

Loro hanno riflettuto su questa loro vocazione, e adesso vengono per ricevere l’ordine dei presbiteri. E il vescovo rischia – rischia! – e sceglie loro, come il Padre ha rischiato per ognuno di noi.

Essi saranno infatti configurati a Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, ossia saranno consacrati come veri sacerdoti del Nuovo Testamento, e a questo titolo, che li unisce nel sacerdozio al loro Vescovo, saranno predicatori del Vangelo, Pastori del Popolo di Dio, e presiederanno le azioni di culto, specialmente nella celebrazione del sacrificio del Signore.

Quanto a voi, che state per essere promossi all’ordine del presbiterato, considerate che esercitando il ministero della Sacra Dottrina sarete partecipi della missione di Cristo, unico Maestro. Dispensate a tutti quella Parola di Dio, che voi stessi avete ricevuto con gioia. Leggete e meditate assiduamente la Parola del Signore per credere ciò che avete letto, insegnare ciò che avete appreso nella fede, vivere ciò che avete insegnato.

E questo sia il nutrimento del Popolo di Dio; che le vostre omelie non siano noiose; che le vostre omelie arrivino proprio al cuore della gente perché escono dal vostro cuore, perché quello che voi dite a loro è quello che voi avete nel cuore. Così si dà la Parola di Dio e così la vostra dottrina sarà gioia e sostegno ai fedeli di Cristo; il profumo della vostra vita sarà la testimonianza, perché l’esempio edifica, ma le parole senza esempio sono parole vuote, sono idee e non arrivano mai al cuore e addirittura fanno male: non fanno bene! Voi continuerete l’opera santificatrice di Cristo. Mediante il vostro ministero, il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto, perché congiunto al sacrificio di Cristo, che per le vostre mani, in nome di tutta la Chiesa, viene offerto in modo incruento sull’altare nella celebrazione dei Santi Misteri.

Quando voi celebrate la Messa, riconoscete dunque ciò che fate. Non farlo di fretta! Imitate ciò che celebrate - non è un rito artificiale, un rituale artificiale - perché così, partecipando al mistero della morte e risurrezione del Signore, portiate la morte di Cristo nelle vostre membra e camminiate con Lui in novità di vita.

Con il Battesimo aggregherete nuovi fedeli al Popolo di Dio. Non bisogna rifiutare mai il Battesimo a chi lo chiede!  Con il Sacramento della Penitenza rimetterete i peccati nel nome di Cristo e della Chiesa. E io, in nome di Gesù Cristo, il Signore, e della sua Sposa, la Santa Chiesa, vi chiedo di non stancarvi di essere misericordiosi. Nel confessionale voi starete per perdonare, non per condannare! Imitate il Padre che mai si stanca di perdonare. Con l’olio santo darete sollievo agli infermi. Celebrando i sacri riti e innalzando nelle varie ore del giorno la preghiera di lode e di supplica, vi farete voce del Popolo di Dio e dell’umanità intera.

Consapevoli di essere stati scelti fra gli uomini e costituiti in loro favore per attendere alle cose di Dio, esercitate in letizia e carità sincera l’opera sacerdotale di Cristo, unicamente intenti a piacere a Dio e non a voi stessi. E’ brutto un sacerdote che vive per piacere a sé stesso, che “fa il pavone”!

Infine, partecipando alla missione di Cristo, Capo e Pastore, in comunione filiale con il vostro Vescovo, impegnatevi a unire i fedeli in un’unica famiglia - siate ministri dell’unità nella Chiesa, nella famiglia -, per condurli a Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. E abbiate sempre davanti agli occhi l’esempio del Buon Pastore, che non è venuto per essere servito, ma per servire; non per rimanere nelle sue comodità, ma per uscire e cercare e salvare ciò che era perduto.






REGINA COELI

Piazza San Pietro
Domenica, 26 aprile 2015

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La Quarta Domenica di Pasqua – questa -, detta “Domenica del Buon Pastore”, ogni anno ci invita a riscoprire, con stupore sempre nuovo, questa definizione che Gesù ha dato di sé stesso, rileggendola alla luce della sua passione, morte e risurrezione. «Il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10,11): queste parole si sono realizzate pienamente quando Cristo, obbedendo liberamente alla volontà del Padre, si è immolato sulla Croce. Allora diventa completamente chiaro che cosa significa che Egli è “il buon pastore”: dà la vita, ha offerto la sua vita in sacrificio per tutti noi: per te, per te, per te, per me, per tutti! E per questo è il buon pastore!

Cristo è il pastore vero, che realizza il modello più alto di amore per il gregge: Egli dispone liberamente della propria vita, nessuno gliela toglie (cfr v. 18), ma la dona a favore delle pecore (v. 17). In aperta opposizione ai falsi pastori, Gesù si presenta come il vero e unico pastore del popolo: il cattivo pastore pensa a sé stesso e sfrutta le pecore; il pastore buono pensa alle pecore e dona sé stesso. A differenza del mercenario, Cristo pastore è una guida premurosa che partecipa alla vita del suo gregge, non ricerca altro interesse, non ha altra ambizione che quella di guidare, nutrire e proteggere le sue pecore. E tutto questo al prezzo più alto, quello del sacrificio della propria vita.

Nella figura di Gesù, pastore buono, noi contempliamo la Provvidenza di Dio, la sua sollecitudine paterna per ciascuno di noi. Non ci lascia da soli! La conseguenza di questa contemplazione di Gesù Pastore vero e buono, è l’esclamazione di commosso stupore che troviamo nella seconda Lettura dell’odierna liturgia: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre…» (1 Gv 3,1). È davvero un amore sorprendente e misterioso, perché donandoci Gesù come Pastore che dà la vita per noi, il Padre ci ha dato tutto ciò che di più grande e prezioso poteva darci! È l’amore più alto e più puro, perché non è motivato da alcuna necessità, non è condizionato da alcun calcolo, non è attratto da alcun interessato desiderio di scambio. Di fronte a questo amore di Dio, noi sperimentiamo una gioia immensa e ci apriamo alla riconoscenza per quanto abbiamo ricevuto gratuitamente.

Ma contemplare e ringraziare non basta. Occorre anche seguire il Buon Pastore. In particolare, quanti hanno la missione di guide nella Chiesa – sacerdoti, Vescovi, Papi – sono chiamati ad assumere non la mentalità del manager ma quella del servo, a imitazione di Gesù che, spogliando sé stesso, ci ha salvati con la sua misericordia. A questo stile di vita pastorale, di buon pastore, sono chiamati anche i nuovi sacerdoti della diocesi di Roma, che ho avuto la gioia di ordinare questa mattina nella Basilica di San Pietro.

E due di loro si affacceranno per ringraziarvi per le vostre preghiere e per salutarvi… [due sacerdoti neo-ordinati si affacciano accanto al Santo Padre]

Maria Santissima ottenga per me, per i Vescovi e per i sacerdoti di tutto il mondo la grazia di servire il popolo santo di Dio mediante la gioiosa predicazione del Vangelo, la sentita celebrazione dei Sacramenti e la paziente e mite guida pastorale.


Dopo il Regina Coeli:

Cari fratelli e sorelle,

desidero assicurare la mia vicinanza alle popolazioni colpite da un forte terremoto in Nepal e nei Paesi confinanti. Prego per le vittime, per i feriti e per tutti coloro che soffrono a causa di questa calamità. Abbiano il sostegno della solidarietà fraterna. E preghiamo la Madonna perché sia loro vicino. “Ave Maria…”.

Oggi, in Canada, viene proclamata Beata Maria Elisa Turgeon, fondatrice della Suore di Nostra Signora del Santo Rosario di San Germano: una religiosa esemplare, dedita alla preghiera, all’insegnamento nei piccoli centri della sua diocesi e alle opere di carità. Rendiamo grazie al Signore per questa donna, modello di vita consacrata a Dio e di generoso impegno al servizio del prossimo.

Saluto con affetto tutti i pellegrini provenienti da Roma, dall’Italia e da vari Paesi, in particolare quelli venuti numerosi dalla Polonia in occasione del primo anniversario della canonizzazione di Giovanni Paolo II. Carissimi, risuoni sempre nei vostri cuori il suo richiamo: “Aprite le porte a Cristo!”, che diceva con quella voce forte e santa che lui aveva. Il Signore benedica voi e le vostre famiglie e la Madonna vi protegga.

Saluto i fedeli di Budapest, Madrid, Burgos, Bratislava e Il Cairo; come pure quelli di Trieste, Giovinazzo, Gorga, Gorlago, Pesaro, Lamezia Terme. Saluto i giovani di Niscemi e Trezzano Rosa, e i ragazzi dei vicariati di Casalpusterlengo e Codogno, che stanno per rinnovare la professione di fede.

A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. 






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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08/05/2015 21:15
 
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  riflettiamo....




















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08/05/2015 21:35
 
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[SM=g1740758] Il 30 aprile 2015 il santo Padre Francesco ha tenuto un Discorso davvero strepitoso che abbiamo voluto mettere in evidenza attraverso questo video. Il Papa ci chiede di imparare le 7 opere di misericordia corporali e le 7 opere di misericordia spirituali e perchè?, si chiede: ma per metterle in pratica! è la sua risposta spontanea e sincera.

Inoltre sottolinea la tristezza nel constatare quanti bambini, anche nelle famiglie cristiane, non sanno farsi il segno della Croce... Il Papa invita e sollecita a seguire così lo Spirito Santo autentico e ad imparare a diffidare degli spiriti falsi. Infine ricorda che ogni autentico carisma va tradotto nelle realtà che viviamo e non tradito.
Insomma, ascoltiamo per davvero e mettiamo in pratica quanto ci insegna.

www.youtube.com/watch?v=67kb1T-72zs






[SM=g1740733]

Fraternamente CaterinaLD

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21/11/2015 13:14
 
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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
AI PARTECIPANTI AL CON
VEGNO PROMOSSO DALLA CONGREGAZIONE PER IL CLERO,
IN OCCASIONE DEL 50° ANNIVERSARIO DEI DECRETI CONCILIARI
"OPTATAM TOTIUS" E "PRESBYTERORUM ORDINIS"

Sala Regia
Venerdì, 20 novembre 2015

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Signori Cardinali,
cari fratelli Vescovi e sacerdoti,
fratelli e sorelle,

rivolgo a ciascuno un cordiale saluto ed esprimo un sincero ringraziamento a Lei, Cardinale Stella, e alla Congregazione per il Clero, che mi hanno invitato a partecipare a questo Convegno, a cinquant’anni dalla promulgazione dei Decreti conciliari Optatam totius ePresbyterorum ordinis.

Mi scuso di aver cambiato il primo progetto, che era che venissi io da voi, ma avete visto che il tempo non c’era e anche qui sono arrivato in ritardo!

Non si tratta di una “rievocazione storica”. Questi due Decreti sono un seme, che il Concilio ha gettato nel campo della vita della Chiesa; nel corso di questi cinque decenni essi sono cresciuti, sono diventati una pianta rigogliosa, certamente con qualche foglia secca, ma soprattutto con tanti fiori e frutti che abbelliscono la Chiesa di oggi. Ripercorrendo il cammino compiuto, questo Convegno ha mostrato tali frutti e ha costituito una opportuna riflessione ecclesiale sul lavoro che resta da fare in questo ambito così vitale per la Chiesa. Ancora resta lavoro da fare!

Optatam totius e Presbyterorum ordinis sono stati ricordati insieme, come le due metà di una realtà unica: la formazione dei sacerdoti, che distinguiamo in iniziale e permanente, ma che costituisce per essi un’unica esperienza di discepolato. Non a caso, Papa Benedetto, nel gennaio 2013 (Motu proprio Ministrorum institutio) ha dato una forma concreta, giuridica, a questa realtà, attribuendo alla Congregazione per il Clero anche la competenza sui seminari. In questo modo lo stesso Dicastero può iniziare a occuparsi della vita e del ministero dei presbiteri sin dal momento dell’ingresso in seminario, lavorando perché le vocazioni siano promosse e curate, e possano sbocciare nella vita di santi preti. Il cammino di santità di un prete inizia in seminario!

Dal momento che la vocazione al sacerdozio è un dono che Dio fa ad alcuni per il bene di tutti, vorrei condividere con voi alcuni pensieri, proprio a partire dal rapporto tra i preti e le altre persone, seguendo il n. 3 di Presbyterorum ordinis, nel quale si trova come un piccolo compendio di teologia del sacerdozio, tratto dalla Lettera agli Ebrei: «I presbiteri sono stati presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati, vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli».

Consideriamo questi tre momenti: “presi fra gli uomini”, “costituiti in favore degli uomini”, presenti “in mezzo agli altri uomini”.

Il sacerdote è un uomo che nasce in un certo contesto umano; lì apprende i primi valori, assorbe la spiritualità del popolo, si abitua alle relazioni. Anche i preti hanno una storia, non sono “funghi” che spuntano improvvisamente in Cattedrale nel giorno della loro ordinazione. È importante che i formatori e i preti stessi ricordino questo e sappiano tenere conto di tale storia personale lungo il cammino della formazione. Nel giorno dell’ordinazione dico sempre ai sacerdoti, ai neo-sacerdoti: ricordatevi da dove siete stati presi, dal gregge, non dimenticatevi della vostra mamma e della vostra nonna! Questo lo diceva Paolo a Timoteo, e lo dico anch’io oggi. Questo vuol dire che non si può fare il prete credendo che uno è stato formato in laboratorio, no; incomincia in famiglia con la “tradizione” della fede e con tutta l’esperienza della famiglia. Occorre che essa sia personalizzata, perché è la persona concreta ad essere chiamata al discepolato e al sacerdozio, tenendo in ogni caso conto che è solo Cristo il Maestro da seguire e a cui configurarsi.

Mi piace in questo senso ricordare quel fondamentale “centro di pastorale vocazionale” che è la famiglia, chiesa domestica e primo e fondamentale luogo di formazione umana, dove può germinare nei giovani il desiderio di una vita concepita come cammino vocazionale, da percorrere con impegno e generosità.

In famiglia e in tutti gli altri contesti comunitari – scuola, parrocchia, associazioni, gruppi di amici – impariamo a stare in relazione con persone concrete, ci facciamo modellare dal rapporto con loro, e diventiamo ciò che siamo anche grazie a loro.

Un buon prete, dunque, è prima di tutto un uomo con la sua propria umanità, che conosce la propria storia, con le sue ricchezze e le sue ferite, e che ha imparato a fare pace con essa, raggiungendo la serenità di fondo, propria di un discepolo del Signore. La formazione umana è quindi una necessità per i preti, perché imparino a non farsi dominare dai loro limiti, ma piuttosto a mettere a frutto i loro talenti.

Un prete che sia un uomo pacificato saprà diffondere serenità intorno a sé, anche nei momenti faticosi, trasmettendo la bellezza del rapporto col Signore. Non è normale invece che un prete sia spesso triste, nervoso o duro di carattere; non va bene e non fa bene, né al prete, né al suo popolo. Ma se tu hai una malattia, sei nevrotico, vai dal medico! Dal medico spirituale e dal medico clinico: ti daranno pastiglie che ti faranno bene, ambedue! Ma per favore che i fedeli non paghino la nevrosi dei preti! Non bastonare i fedeli; vicinanza di cuore con loro.

Noi sacerdoti siamo apostoli della gioia, annunciamo il Vangelo, cioè la “buona notizia” per eccellenza; non siamo certo noi a dare forza al Vangelo – alcuni lo credono -, ma possiamo favorire o ostacolare l’incontro tra il Vangelo e le persone. La nostra umanità è il “vaso di creta” in cui custodiamo il tesoro di Dio, un vaso di cui dobbiamo avere cura, per trasmettere bene il suo prezioso contenuto.

Un prete non può perdere le sue radici, resta sempre un uomo del popolo e della cultura che lo hanno generato; le nostre radici ci aiutano a ricordare chi siamo e dove Cristo ci ha chiamati. Noi sacerdoti non caliamo dall’alto, ma siamo chiamati, chiamati da Dio, che ci prende “fra gli uomini”, per costituirci “in favore degli uomini”.
Mi permetto un aneddoto. In diocesi, anni fa... Non in diocesi, no, nella Compagnia c’era un prete bravo, bravo, giovane, due anni di prete. E’ entrato in confusione, ha parlato col padre spirituale, con i suoi superiori, con i medici e ha detto: “Io me ne vado, non ne posso più, me ne vado”. E pensando a queste cose - io conoscevo la mamma, gente umile - gli ho detto: “Perché non vai dalla tua mamma e le parli di questo?”. E’ andato, ha passato tutta la giornata con la mamma, è tornato cambiato. La mamma gli ha dato due “schiaffi” spirituali, gli ha detto tre o quattro verità, lo ha messo a posto, ed è andato avanti. Perché? Perché è andato alla radice. Per questo è importante non togliere la radice da dove veniamo. In seminario devi fare la preghiera mentale… Sì, certo, questo si deve fare, imparare… Ma prima di tutto prega come ti ha insegnato tua mamma, e poi vai avanti. Ma sempre la radice è lì, la radice della famiglia, come hai imparato a pregare da bambino, anche con le stesse parole, incomincia a pregare così. Poi andrai avanti nella preghiera.

Ecco il secondo passaggio:in favore degli uomini”.

Qui c’è un punto fondamentale della vita e del ministero dei presbiteri. Rispondendo alla vocazione di Dio, si diventa preti per servire i fratelli e le sorelle. Le immagini di Cristo che prendiamo come riferimento per il ministero dei preti sono chiare: Egli è il “Sommo Sacerdote”, allo stesso modo vicino a Dio e vicino agli uomini; è il “Servo”, che lava i piedi e si fa prossimo ai più deboli; è il “Buon Pastore”, che sempre ha come fine la cura del gregge.

Sono le tre immagini a cui dobbiamo guardare, pensando al ministero dei preti, inviati a servire gli uomini, a far loro giungere la misericordia di Dio, ad annunciare la sua Parola di vita. Non siamo sacerdoti per noi stessi e la nostra santificazione è strettamente legata a quella del nostro popolo, la nostra unzione alla sua unzione: tu sei unto per il tuo popolo. Sapere e ricordare di essere “costituiti per il popolo” -popolo santo, popolo di Dio -, aiuta i preti a non pensare a sé, ad essere autorevoli e non autoritari, fermi ma non duri, gioiosi ma non superficiali, insomma, pastori, non funzionari. Oggi, in entrambe le Letture della Messa si vede chiaramente la capacità di gioire che ha il popolo, quando viene ripristinato e purificato il tempio, e invece l’incapacità di gioia che hanno i capi dei sacerdoti e gli scribi davanti alla cacciata dei mercanti dal tempio da parte di Gesù.
Un prete deve imparare a gioire, non deve mai perdere, meglio così, la capacita di gioia: se la perde c’è qualcosa che non va. E vi dico sinceramente, io ho paura a irrigidire, ho paura. Ai preti rigidi… Lontano! Ti mordono! E mi viene alla mente quella espressione di sant’Ambrogio, secolo IV: “Dove c’è la misericordia c’è lo spirito del Signore, dove c’è la rigidità ci sono soltanto i suoi ministri”. Il ministro senza il Signore diventa rigido, e questo è un pericolo per il popolo di Dio. Pastori, non funzionari.

Il popolo di Dio e l’umanità intera sono destinatari della missione dei sacerdoti, a cui tende tutta l’opera della formazione. La formazione umana, quella intellettuale e quella spirituale confluiscono naturalmente in quella pastorale, alla quale forniscono strumenti e virtù e disposizioni personali. Quando tutto questo si armonizza e si amalgama con un genuino zelo missionario, lungo il cammino di una vita intera, il prete può adempiere alla missione affidata da Cristo alla sua Chiesa.

Infine, ciò che dal popolo è nato, col popolo deve rimanere; il prete è sempre “in mezzo agli altri uomini”, non è un professionista della pastorale o dell’evangelizzazione, che arriva e fa ciò che deve – magari bene, ma come fosse un mestiere – e poi se ne va a vivere una vita separata. Si diventa preti per stare in mezzo alla gente: la vicinanza. E mi permetto, fratelli vescovi, anche la nostra vicinanza di vescovi con i nostri preti. Questo vale anche per noi! Quante volte sentiamo le lamentele dei preti: “Mah, ho chiamato il vescovo perché ho un problema… Il segretario, la segretaria, mi ha detto che è molto occupato, che è in giro, che non può ricevermi prima di tre mesi…”. Due cose. La prima. Un vescovo sempre è occupato, grazie a Dio, ma se tu vescovo ricevi una chiamata di un prete e non puoi riceverlo perché hai tanto lavoro, almeno prendi il telefono e chiamalo e digli: “E’ urgente? non è urgente? quando, vieni quel giorno…”, così si sente vicino. Ci sono vescovi che sembrano allontanarsi dai preti… Vicinanza, almeno una telefonata! E questo è amore di padre, fraternità.
E l’altra cosa. “No, ho una conferenza in tale città e poi devo fare un viaggio in America, e poi…”. Ma, senti, il decreto di residenza di Trento ancora è vigente! E se tu non te la senti di rimanere in diocesi, dimettiti, e gira il mondo facendo un altro apostolato molto buono. Ma se tu sei vescovo di quella diocesi, residenza. Queste due cose, vicinanza residenza. Ma questo è per noi vescovi! Si diventa preti per stare in mezzo alla gente.

Il bene che i preti possono fare nasce soprattutto dalla loro vicinanza e da un tenero amore per le persone. Non sono filantropi o funzionari, i preti sono padri e fratelli. La paternità di un sacerdote fa tanto bene.

Vicinanza, viscere di misericordia, sguardo amorevole: far sperimentare la bellezza di una vita vissuta secondo il Vangelo e l’amore di Dio che si fa concreto anche attraverso i suoi ministri. Dio che non rifiuta mai. E qui penso al confessionale. Sempre si possono trovare strade per dare l’assoluzione. Accogliere bene. Ma alcune volte non si può assolvere.   Ci sono preti che dicono: “No, da questo non ti posso assolvere, vattene via”. Questa non è la strada. Se tu non puoi dare l’assoluzione, spiega e dì: “Dio ti ama tanto, Dio ti vuole bene. Per arrivare a Dio ci sono tante vie. Io non ti posso dare l’assoluzione, ti do la benedizione. Ma torna, torna sempre qui, che ogni volta che tu torni ti darò la benedizione come segno che Dio ti ama”. E quell’uomo o quella donna se ne va pieno di gioia perché ha trovato l’icona del Padre, che non rifiuta mai; in una maniera o nell’altra lo ha abbracciato.

Un buon esame di coscienza per un prete è anche questo; se il Signore tornasse oggi, dove mi troverebbe? «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). E il mio cuore dov’è? In mezzo alla gente, pregando con e per la gente, coinvolto con le loro gioie e sofferenze, o piuttosto in mezzo alle cose del mondo, agli affari terreni, ai miei “spazi” privati? Un prete non può avere uno spazio privato, perché è sempre o col Signore o col popolo. Io penso a quei preti che ho conosciuto nella mia città, quando non c’era la segreteria telefonica, ma dormivano con il telefono sul comodino, e a qualunque ora chiamasse la gente, loro si alzavano a dare l’unzione: non moriva nessuno senza i sacramenti! Neppure nel riposo avevano uno spazio privato. Questo è zelo apostolico. La risposta a questa domanda: il mio cuore dov’è?, può aiutare ogni prete a orientare la sua vita e il suo ministero verso il Signore.

Il Concilio ha lasciato alla Chiesa “perle preziose”. Come il mercante del Vangelo di Matteo (13,45), oggi andiamo alla ricerca di esse, per trarre nuovo slancio e nuovi strumenti per la missione che il Signore ci affida.

Una cosa che vorrei aggiungere al testo – scusatemi! – è il discernimento vocazionale, l’ammissione al seminario. Cercare la salute di quel ragazzo, salute spirituale, salute materiale, fisica, psichica. Una volta, appena nominato maestro dei novizi, anno ’72, sono andato a portare alla psicologa gli esiti del test di personalità, un test semplice che si faceva come uno degli elementi del discernimento. Era una brava donna, e anche brava medico.
Mi diceva: “Questo ha questo problema ma può andare se va così…”. Era anche una buona cristiana, ma in alcuni casi era inflessibile: “Questo non può” – “Ma dottoressa, è tanto buono questo ragazzo” - “Adesso è buono, ma sappia che ci sono giovani che sanno inconsciamente, non ne sono consapevoli, ma sentono inconsciamente di essere psichicamente ammalati e cercano per la loro vita strutture forti che li difendano, così da poter andare avanti. E vanno bene, fino al momento in cui si sentono bene stabiliti e lì incominciano i problemi” – “Mi sembra un po’ strano…”.
E la risposta non la dimentico mai, la stessa del Signore a Ezechiele: “Padre, Lei non ha mai pensato perché ci sono tanti poliziotti torturatori? Entrano giovani, sembrano sani ma quando si sentono sicuri, la malattia incomincia ad uscire. Quelle sono le istituzioni forti che cercano questi ammalati incoscienti: la polizia, l’esercito, il clero… E poi tante malattie che tutti noi conosciamo che vengono fuori”.

E’ curioso. Quando mi accorgo che un giovane è troppo rigido, è troppo fondamentalista, io non ho fiducia; dietro c’è qualcosa che lui stesso non sa. Ma quando si sente sicuro… Ezechiele 16, non ricordo il versetto, ma è quando il Signore dice al suo popolo tutto quello che ha fatto per lui: l’ha trovato appena nato, e poi l’ha vestito, l’ha sposato… “E poi, quando tu ti sei sentita sicura, ti sei prostituita”. E’ una regola, una regola di vita. Occhi aperti sulla missione nei seminari. Occhi aperti.

Confido che il frutto dei lavori di questo Convegno – con tanti autorevoli relatori, provenienti da regioni e culture diverse – potrà essere offerto alla Chiesa come utile attualizzazione degli insegnamenti del Concilio, portando un contributo alla formazione dei sacerdoti, quelli che ci sono e quelli che il Signore vorrà donarci, perché, configurati sempre più a Lui, siano buoni preti secondo il cuore del Signore, non funzionari! E grazie della pazienza.




[Modificato da Caterina63 21/11/2015 13:15]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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17/04/2016 13:56
 
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ORDINAZIONI SACERDOTALI


OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Basilica Vaticana
Domenica, 17 aprile 2016

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Fratelli carissimi,

questi nostri figli e fratelli sono stati chiamati all’ordine del presbiterato. Come voi ben sapete il Signore Gesù è il solo Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento, ma in Lui anche tutto il popolo santo di Dio è stato costituito popolo sacerdotale. Nondimeno, tra tutti i suoi discepoli, il Signore Gesù vuole sceglierne alcuni in particolare, perché esercitando pubblicamente nella Chiesa in suo nome l’officio sacerdotale a favore di tutti gli uomini, continuassero la sua personale missione di maestro, sacerdote e pastore.

Dopo matura riflessione, ora stiamo per elevare all’ordine dei presbiteri questi nostri fratelli, perché al servizio di Cristo, Maestro, Sacerdote, Pastore, cooperino ad edificare il Corpo di Cristo che è la Chiesa in Popolo di Dio e Tempio santo dello Spirito.

Essi saranno infatti configurati a Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, ossia saranno consacrati come veri sacerdoti del Nuovo Testamento, e a questo titolo, che li unisce nel sacerdozio al loro Vescovo, saranno predicatori del Vangelo, Pastori del Popolo di Dio, e presiederanno le azioni di culto, specialmente nella celebrazione del sacrificio del Signore.

Quanto a voi, figli e fratelli dilettissimi, che state per essere promossi all’ordine del presbiterato, considerate che esercitando il ministero della Sacra Dottrina sarete partecipi della missione di Cristo, unico Maestro. Dispensate a tutti la Parola di Dio, quella Parola che voi stessi avete ricevuto con gioia. Fate memoria della vostra storia, di quel dono della Parola che il Signore vi ha dato tramite la mamma, la nonna – come dice san Paolo –, i catechisti e tutta la Chiesa. Leggete e meditate assiduamente la Parola del Signore per credere ciò che avete letto, insegnare ciò che avete appreso nella fede, vivere ciò che avete insegnato.

Sia dunque nutrimento al Popolo di Dio la vostra dottrina, gioia e sostegno ai fedeli di Cristo il profumo della vostra vita, perché con la parola e l’esempio – vanno insieme: parola ed esempio - edifichiate la casa di Dio, che è la Chiesa. Voi continuerete l’opera santificatrice di Cristo. Mediante il vostro ministero, il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto, perché congiunto al sacrificio di Cristo, che per le vostre mani, in nome di tutta la Chiesa, viene offerto in modo incruento sull’altare nella celebrazione dei Santi Misteri.

Riconoscete dunque ciò che fate. Imitate ciò che celebrate perché partecipando al mistero della morte e risurrezione del Signore, portiate la morte di Cristo nelle vostre membra e camminiate con Lui in novità di vita. Portare la morte di Cristo in voi stessi, e camminare con Cristo in novità di vita. Senza croce non troverete mai il vero Gesù; e una croce senza Cristo non ha senso.

Con il Battesimo aggregherete nuovi fedeli al Popolo di Dio. Con il Sacramento della Penitenza rimetterete i peccati nel nome di Cristo e della Chiesa. E, per favore, in nome dello stesso Gesù Cristo, il Signore, e in nome della Chiesa, vi chiedo di essere misericordiosi, tanto misericordiosi. Con l’olio santo darete sollievo agli infermi. Celebrando i sacri riti e innalzando nelle varie ore del giorno la preghiera di lode e di supplica, vi farete voce del Popolo di Dio e dell’umanità intera.

Consapevoli di essere stati scelti fra gli uomini. Scelti, non dimenticatevi questo. Scelti! E’ il Signore che vi ha chiamato, uno ad uno. Scelti fra gli uomini e costituiti in loro favore, e non in mio favore!

In comunione filiale con il vostro Vescovo, impegnatevi a unire i fedeli in un’unica famiglia per condurli a Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Abbiate sempre davanti agli occhi l’esempio del Buon Pastore, che non è venuto per essere servito, ma per servire; per cercare e salvare ciò che era perduto.

 





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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06/05/2016 21:08
 
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 ATTENZIONE, cari Sacerdoti! Come leggere il testo papale di Amoris laetitia? Con questo lavoro di Padre Angelo Bellon O.P. del sito Amici Domenicani,  riteniamo che il padre Domenicano abbia risposto dando consigli utili e preziosi per una riuscita dell'applicazione del testo.....

Un sacerdote risponde

Considerazioni sull’Esortazione post sinodale Amoris laetitia

Quesito

Come era prevedibile, dopo la pubblicazione dell’Esortazione post sinodale Amoris laetitia molti visitatori, sconcertati da quanto riferito dai mezzi di comunicazione sociale o anche da interviste rilasciate da alcuni uomini di Chiesa,  mi hanno scritto chiedendo che cosa stesse avvenendo e chiedendo una parola chiarificatrice.
Ecco quanto ho scritto come risposta generale che tocca alcuni punti del capitolo 8° dell’Esortazione.
Ognuno dei visitatori può trovarvi la soluzione del proprio quesito.
Chiedo scusa se per motivi di brevità e per evitare ripetizioni non riporto i contenuti delle singole mail.


Risposta del sacerdote

1. Premesse

1. Il testo offerto da Papa Francesco sulla famiglia è avvincente nella sua esposizione ed è pieno di carità pastorale nei confronti di coloro che si trovano in stato di sofferenza, di disagio o di non conformità nei confronti dell’insegnamento di Gesù sul matrimonio e sull’amore umano.

2. Leggendo l’Esortazione dall’inizio alla fine, senza preconcetti e senza le caricature dei giornalisti o delle persone intervistate, non ho trovato nessuna rottura con il Magistero precedente, ma una continuità e uno sviluppo, soprattutto nell’atteggiamento di ricerca, di accoglienza, di accompagnamento e di integrazione di coloro che si trovano in difficoltà nell’essere conformi alla logica evangelica.
Alcune espressioni dell’Esortazione sono un po’ enfatizzate a motivo del carattere parenetico del documento stesso e anche del modo proprio di esprimersi di Papa Francesco.
Non bisogna prendere ogni parola come una sentenza dogmatica.

3. La questione più controversa è quella relativa alla Santa Comunione ai divorziati risposati, che tuttavia non viene mai espressamente menzionata nell’Esortazione.
Va notato che soprattutto nel capitolo 8° il linguaggio talvolta è molto sfumato e si può prestare a valutazioni non solo differenti, ma addirittura fra di loro opposte.
Ebbene, proprio in merito a questo capitolo desidero presentare alcune riflessioni generali e poi prendere in  considerazione le espressioni più discusse.

2. Criteri di lettura

1. Il primo criterio di lettura è quello dell’orizzonte nel quale va letta l’Esortazione, pena deformarla.
Quest’orizzonte l’ha fornito Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor.
Nella nota 100 Giovanni Paolo II afferma: “Lo sviluppo della dottrina morale della chiesa è simile a quello della dottrina della fede.
Anche alla dottrina morale si applicano le parole pronunciate da Giovanni XXIII in occasione dell’apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962): “Occorre che questa dottrina (= la dottrina cristiana nella sua integralità) certa e immutabile, che dev’essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo.
Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra venerabile dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (VS, nota 100).
Qui dunque si trova il principio ermeneutico o di interpretazione: i documenti del Magistero anche in temi morali vanno interpretati secondo l’ermeneutica della continuità e dell’approfondimento. E non già secondo l’ermeneutica della discontinuitàdella rottura o della svolta rispetto al Magistero di sempre.
Il progresso della dottrina morale della Chiesa avviene sotto l’azione dello Spirito Santo che gradualmente porta alla conoscenza della verità tutta intera, senza mai contraddire o rinnegare il Magistero precedente.
Si tratta dunque di un progresso omogeneo e non dialettico.

2. Fatta questa premessa fondamentale, occorre leggere l’Amoris Laetitia alla luce del Magistero precedente perché lo continua e lo approfondisce, come del resto a più riprese viene affermato dall’Esortazione stessa, come ad esempio quando dice: “Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (AL 79).
Poiché soprattutto il capitolo ottavo dell’Esortazione è stato letto nelle maniere più disparate e contraddittorie, è necessario dire che l’interpretazione esatta, quella indicata dal Magistero, è quella data in meliorem partem, se ci si può esprimere così, e cioè nella linea della continuità.
Anzi, solo questa lettura fa comprendere il testo senza ambiguità e senza contraddizioni.

3. Sicché mentre la lettura in meliorem partem non va incontro ad obiezioni che ne sbarrino la strada, quella data in pejorem partem, e cioè secondo l’ermeneutica della rottura, non porta invece da nessuna parte, anzi va a cozzare contro una miriade di affermazioni del Magistero e si rivela inconcludente e sbagliata.

3. L’interpretazione in meliorem partem di alcune affermazioni

1. Il n. 302 dell’Esortazione ricorda una grande varietà di motivi da tenere presenti nella valutazione dei singoli casi:
“Riguardo a questi condizionamenti il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime in maniera decisiva: «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali» (n. 1735). In un altro paragrafo fa riferimento nuovamente a circostanze che attenuano la responsabilità morale, e menziona, con grande ampiezza, l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali (n. 2352). Per questa ragione, un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta (Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione sull’ammissibilità alla Comunione dei divorziati risposati(24 giugno 2000), 2)” (AL 302).
Ebbene, quelli elencati sono tutti motivi per cui un tribunale ecclesiastico può dare e anzi già dà una sentenza di nullità del matrimonio contratto.
Per evitare che all’interno delle comunità cristiane si dica che ad un divorziato risposato è stata data l’assoluzione e ad un altro no, la cosa migliore è quella di procedere ordinatamente che è quella ottenere una sentenza di nullità del matrimonio ed eventualmente di sanare in radice l’unione contratta civilmente.
È questa la prima via suggerita da Papa Francesco con la riforma della procedura nelle cause matrimoniali. 
Tanto più che egli stesso ha chiesto che la sentenza venga data entro un anno, senza lungaggini.
Questo è il metodo più ordinato e sicuro.
Al contrario, lasciare tutto alla valutazione non sempre illuminata del parroco o del confessore può rendere insicuri e può causare confusione e malumore nelle comunità. Facilmente si potrebbe argomentare: perché ad uno sì e ad un altro no?

2. Al n. 299 si legge: “i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni forma di scandalo”.
Anche questo va sempre tenuto presente.
Qualora il sacerdote desse l’assoluzione ad un divorziato risposato o ad una persona convivente, è necessario ricordare che si può fare la Santa Comunione solo là dove non si è conosciuti come divorziati risposati o conviventi. Diversamente si genera scandalo tra i fedeli.
La Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi “circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati” del 7 luglio 2000 dice: “Non si trovano invece in situazione di peccato grave abituale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - «soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris consortio, 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della Penitenza.
Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo” (2 c).
Remoto scandalo significa che si può fare privatamente o là dove non si è conosciuti come divorziati risposati o conviventi, evitando così di causare giudizi, confusione, sconcerto e scandalo tra i fedeli.

3. In quest’ottica va letto anche quanto si legge al n. 305: “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti”.
Qui implicitamente l’Esortazione ribadisce che per accostarsi alla Santa Comunione è necessario essere in grazia di Dio.
Questa non è una norma umana ma divina, come ricorda la Sacra Scrittura: “Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno pertanto esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e un buon numero sono morti” (1 Cor 11,27-30).

4. Circa quanto è scritto nella nota 351: “In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (EG 44). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (EG 47)”.
Qui il Papa non dice tout court di dare la Santa Comunione ai divorziati risposati.
Prevede che coloro che sono pentiti e vivono in graziae cioè senza rapporti adulterini o di fornicazione, possano ricevere l’assoluzione e possano partecipare all’Eucaristia, anche facendo la Santa Comunione, sempre remoto scandalo.

5. Inoltre quando il Papa dice che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» afferma una cosa profondamente vera.
Proprio perché siamo tutti deboli, anche se viviamo in grazia di Dio, abbiamo bisogno di fortificarci di questo Pane per sostenerci nel cammino verso il Cielo.
Ma rimane sempre vero che chi è spiritualmente morto, perché si trova in peccato mortale, prima di nutrirsi in maniera salutare di questo cibo, ha bisogno di risuscitare e di ritrovare la vita soprannaturale attraverso la Confessione, che dai santi Padri viene definita come un secondo Battesimo.
Pertanto il sacramento proprio di chi è spiritualmente morto è la confessione.
Diversamente si realizza quanto ha detto la Sacra Scrittura: “Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore” (1 Cor 11,27).

6. Qualcuno ha detto giustamente che dar da mangiare ad un morto serve a farlo puzzare ancora di più.
Ed è per questo che Giovanni Paolo II ha detto: “A questo dovere lo richiama lo stesso Apostolo con l’ammonizione: «Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice» (1 Cor 11,28). San Giovanni Crisostomo, con la forza della sua eloquenza, esortava i fedeli: «Anch’io alzo la voce, supplico, prego e scongiuro di non accostarci a questa sacra Mensa con una coscienza macchiata e corrotta.
Un tale accostamento, infatti, non potrà mai chiamarsi comunione, anche se tocchiamo mille volte il corpo del Signore, ma condanna, tormento e aumento di castighi» (Omelie su Isaia 6, 3).
In questa linea giustamente il Catechismo della Chiesa Cattolicastabilisce: «Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla comunione» (CCC 1385). 
Desidero quindi ribadire che vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ha concretizzato la severa ammonizione dell’apostolo Paolo affermando che, al fine di una degna ricezione dell’Eucaristia, si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale” (Ecclesia de Eucaristia, 36).

7. Al n. 298 il Papa riconosce che vi sono “divorziati che vivono una nuova unione… consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe” e che “seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione”.
In nota (n. 329) aggiunge: “In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Gaudium et spes, 51).
In merito a questa nota che ha attirato l’attenzione di molti va detto:
- primo: il Papa ricorda l’insegnamento di Familiaris consortio che chiede di non vivere more uxorio e cioè in castità, come amici e fratelli e sorelle; 
-secondo: il Papa, pur facendo riferimento al Concilio che parla di intimità coniugale, parla solo di intimità. È chiaro che in ogni caso non sarebbe coniugale perché i due non sono marito e moglie.
- terzo: vuol dire che pur “accettando di vivere come fratello e sorella”, se succede che talvolta vadano oltre, si deve usare pazienza ed esortarli a fare quanto dice Paolo VI nell’Humanae vitae: “E se il peccato facesse ancora presa su di loro, non si scoraggino, ma ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita nel sacramento della Penitenza” (HV 25).
Questo significa comprendere in meliorem partem.
Dare un’altra interpretazione significa che il 6° comandamento che vieta i rapporti sessuali tra persone che fra di loro non sono sposate subisca delle eccezioni.
Ma “i precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti” (Veritatis Splendor, 52)

8. In merito al n. 301 si legge: “La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante”.
A dire il vero questo non è mai stato detto né nel Magistero né nei manuali di Teologia. 
Basterebbe ricordare la Dichiarazione della Congregazione del Clero in riferimento al cosiddetto ‘caso Washington’: “Le particolari circostanze che accompagnano un atto umano oggettivamente cattivo, mentre non possono trasformarlo in un atto oggettivamente virtuoso, possono renderlo incolpevole o meno colpevole o soggettivamente giustificabile” (26.4.1971).
Il Papa allora si riferisce a quello che può essere stato detto da prete Tizio o Caio. Qui troviamo, come si diceva all’inizio, il carattere parenetico e proprio di Papa Francesco.
Presa la frase in se stessa, bisognerebbe dire che non corrisponde alla realtà perché questo non è mai stato detto.

9. Analogamente al n. 304 si legge: “È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”.
Letta superficialmente quest’affermazione sembra una critica alla morale finora insegnata.
Ma questo non corrisponde alla verità perché si è sempre detto che i criteri per discernere la moralità di un atto sono tre: oggetto (finis operis), intenzione (finis operantis) e circostanze.
Anche qui il Papa si riferisce al comportamento di qualcuno che senza guardare al soggetto e alle circostanze può aver giudicato solo in base alla legge morale. Allora questo, sì, è meschino, anzi è sbagliato.

10. Sempre al n. 301 il Papa scrive: “Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù (Somma Teologica I-II, 65, 3, ad 2), in modo che anche possedendo tutte le virtù morali infuse, non manifesta con chiarezza l’esistenza di qualcuna di esse, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà: «Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, […] sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù» (Ib., ad 3)”.
San Tommaso, dopo aver detto che insieme alla grazia vengono infuse anche le virtù morali, dice: “Talora capita, per una difficoltà nata dall'esterno, che chi possiede un abito provi difficoltà nell'operare, e quindi non senta piacere e compiacimento nell'atto: è il caso di chi avendo l'abito della scienza, per la sonnolenza o per un'infermità, prova difficoltà nell'intendere. Allo stesso modo talora provano difficoltà nell'operare gli abiti delle virtù morali infuse, a causa delle disposizioni contrarie lasciate dagli atti precedenti. La quale difficoltà non capita ugualmente nelle virtù morali acquisite: poiché mediante l'esercizio degli atti, col quale vennero acquistate, furono tolte anche le disposizioni contrarie” (ad 2). 
E nell’ad 3: “Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, per il motivo indicato sopra; sebbene essi abbiano l'abito di tutte le virtù”.
Ebbene, qui San Tommaso vuol dire che alcuni esercitano malamente una determinata virtù o non la esercitino affatto (ad esempio: la devozione o il raccoglimento nella preghiera) a motivo delle disposizioni lasciate dalle azioni precedenti (ad esempio: l’essere afflitti o contrariati per una brutta notizia o per una grossa discussione. Allora, come emerge dall’esperienza, si prega male, con poco raccoglimento e con molte distrazioni).
Ma un conto è esercitare male una virtù o non esercitarla affatto, per cui si ha poco merito o non si merita niente.
Un altro conto invece è compiere un peccato grave contrario a quella virtù. Col peccato si demerita sempre e si offende il Signore.
Tra l’altro per San Tommaso se un singolo atto contrario ad una virtù acquisita non fa perdere tale virtù perché l’atto contraria l’atto ma non l’abito (sicché se uno si ubriaca una volta non si può dire che ha perso la virtù della sobrietà), tuttavia vi farebbe eccezione la lussuria: “Ma con un atto di lussuria la castità viene meno di per se stessa” (Sed actu luxuriae castitas per se privatur”, s. tommaso, In II Sent., d. 42, q. 1, a. 2, ad 4).
Per cui interpretando in meliorem partem questo n. 301 dell’Esortazione si può dire che i divorziati risposati, anche se vivono come fratello e sorella, dovendo stare insieme a motivo della presenza dei figli, non esercitano nel migliore modo la castità.
Ma se con questo testo si volesse dire che vivono in grazia anche se hanno rapporti sessuali sarebbe completamente sbagliato, perché è contrario non solo all’insegnamento di San Tommaso, ma a quello di Dio e della Chiesa.

Interpretati così, i punti più scottanti dell’Esortazione non fanno difficoltà.
Mentre molte difficoltà nascono da una lettura diversa.
Va considerato infine che questa Esortazione è tutta permeata da un clima di accoglienza e di misericordia. Questo è lo stile che le si è voluto dare.
E ne va tenuto conto.

Padre Angelo Bellon, o.p.


Pubblicato 29.04.2016


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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09/05/2016 21:24
 
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  “Amoris Laetitia”: Mons. Livi parla ai penitenti e ai confessori

6 maggio 2016, San Giovanni alla Porta Latina
 

Nello scorso mese di aprile, in onore alla schiettezza e lealtà ecclesiale di Santa Caterina da Siena, Mons. Antonio Livi ha tenuto una conferenza presso la Basilica di San Giovanni alla Porta Latina, organizzata dalla “Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis”. Pubblichiamo la trascrizione dall’orale, approvata dall’autore, nella certezza che il suo contenuto contribuirà a far chiarezza fra tanti laici (ma forse anche fra tanti sacerdoti) che oggi si sentono smarriti.




Dottrina morale e prassi pastorale 

nella “Amoris laetitia

Cari amici,
mi avete chiesto di spiegare in termini semplici a voi, laici - ma vedo anche nell’uditorio dei confratelli e quindi dei confessori -, perché un sacerdote (e teologo) come me ha pubblicamente criticato, in varie occasioni e in varie sedi, l’esortazione apostolica Amoris laetitia di papa Francesco. Mi accingo dunque a spiegare a voi, con la massima schiettezza, il contenuto e le vere motivazioni ecclesiali di queste critiche, che sono naturalmente prudenti nel merito, rispettose nella forma e responsabili nelle intenzioni.

Premetto, per cominciare, quello che dice la Chiesa stessa, in un celebre documento della Congregazione per la Dottrina della fede, pubblicato nel 1990 a firma dell’allora prefetto, cardinale Joseph Ratzinger:

«Il Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all'errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente. La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola.
Può tuttavia accadere che il teologo si ponga degli interrogativi concernenti, a seconda dei casi, l'opportunità, la forma o anche il contenuto di un intervento. II che lo spingerà innanzitutto a verificare accuratamente quale è l'autorevolezza di questi interventi, così come essa risulta dalla natura dei documenti, dall'insistenza nel riproporre una dottrina e dal modo stesso di esprimersi […]. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l'insegnamento del Magistero, come si conviene ad ogni credente nel nome dell'obbedienza della fede.
Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni ed a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi. Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall'insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l'insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato»
(Congregazione per la Dottrina della fede, Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990, nn. 24; 29-30).

Io conosco bene questo documento, e l'ho studiato per anni. L’ho utilizzato soprattutto per denunciare l’abuso del titolo di “teologo” da parte di chi si ribella per principio agli insegnamenti definitivi del Magistero e pretende di ri-formulare il dogma cristiano (cfr Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Leonardo da Vinci, Roma 2012).

Ma ora devo rifarmi proprio a questo documento per legittimare i miei interventi critici di fronte alle tante ambiguità (nell'indirizzo pastorale) e alla evidente deriva relativistica (nella dottrina morale) che caratterizzano, purtroppo, molti gesti e molti discorsi di questo Papa e in particolare l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia.
Sono rilievi critici suggeriti sempre soltanto dalla responsabilità ecclesiale che mi impegna - come sacerdote e come teologo - soprattutto di fronte a quei fedeli che sovente manifestano in pubblico il loro turbamento e in privato mi confidano il disorientamento della loro coscienze, pensando anche a quei fedeli che posso immaginare che siano addirittura indotti alla perdita del senso del peccato -  essendo  esso la coscienza di essere tutti peccatori, unitamente alla convinzione che solo la grazia sacramentale, una volta avviata la conversione interiore, può redimerci e garantirci la salvezza eterna.

Parto dal presupposto che la "nota teologica" di questo documento pontificio sia proprio quella indicata nel n. 30 della dichiarazione Donum veritatis, e quindi limito le mie critiche alla “forma” dell’esortazione e alla sua opportunità pastorale, date le premesse storico-ecclesiastiche e le conseguenze nella formazione della coscienza dei fedeli. Le premesse storiche sono molto significative: il Papa ha fatto sua una delle due opinioni formalmente espresse dai padre sinodali (quella dei cardinali Schoenborn, Marx, Baldisseri e Kasper, e dei vescovi Forte e Semeraro, tutti favorevoli a un cambiamento radicale della prassi pastorale e dei suoi presupposti dottrinali), non tenendo minimamente conto dell’opinione di quanti (come i cardinali Müller, Caffarra, Burke, De Paolis, Sarah) avevano insistentemente criticato l’ipotesi della concessione della Comunione ai fedeli in stato di pubblico scandalo per aver divorziato davanti al tribunale civile e per aver istituito una convivenza more uxorio (la quale configura canonicamente il “pubblico concubinato”), dopo aver contratto un invalido e finto nuovo matrimonio, sempre davanti al tribunale civile.

Per queste concrete circostanze, l’esortazione apostolica post-sinodale era un documento molto atteso per conoscere le indicazioni della Chiesa dopo i due Sinodi dei vescovi sulla famiglia e la ridda di interpretazioni da parte dei vescovi favorevoli al mantenimento della disciplina attuale e di quelli che chiedevano un cambiamento radicale. Ma l’attesa di un chiarimento è stata delusa.

Alcune parti del documento papale - quelle che sono dedicate a illustrare i nuovi criteri pastorali - sono caratterizzate dall’ambiguità dell’enunciato, un’ambiguità che genera gravissimi equivoci di interpretazione proprio riguardo a ciò che Francesco vuole che sia fatto in pratica, all’atto di decidere che cosa suggerire o prescrivere ai fedeli che manifestano l’intenzione di accostarsi all’Eucaristia pur trovandosi in una situazione irregolare.
I termini «misericordia», «accompagnamento» e «discernimento», pur ripetuti tante volte, non sono mai spiegati in modo da far capire se sono davvero la cifra di una nuovissima prassi (nel qual caso avrebbero ragione quelli che hanno parlato di una «novità rivoluzionaria») oppure sono semplicemente sinonimi di quello che le leggi ecclesiastiche vigenti e i documenti dell’ultimo Concilio chiamano la «carità pastorale», non diverso, sostanzialmente, da ciò che si ritrova nella dottrina teologico-pratica di un dottore della Chiesa come sant’Alfonso Maria de’ Liguori (autore tra l’altro della Praxis confessarii ad bene excipiendas Confessiones), il cui positivo riscontro pastorale è ben visibile nell’esempio dei santi (si pensi al Curato d’Ars nell’Ottocento o a padre Pio e a padre Leopoldo nel Novecento).

Per di più, l’aspra ma generica polemica del Papa contro quelli che a suo avviso sarebbero dei rigoristi dal cuore duro, dei formalisti senza carità, addirittura dei «farisei», lascia intendere che il Papa ha non solo favorito una delle due opinioni emerse nella discussione sinodale – quella dei riformisti – , ma ha anche tolto ogni  credibilità a coloro che avevano presentato ponderose e documentate obiezioni alle proposte di riforma (e pensare che tra questi oppositori c’era addirittura il prefetto della Congregazione per la dottrina  della fede!).  Per di più, avvalendosi di questa (voluta) ambiguità del documento pontificio, molti vescovi si sono precipitati a dichiarare che il Papa con questa esortazione apostolica veniva a legittimare una prassi «misericordiosa» (cioè permissiva, o meglio lassista, anzi irresponsabile) che essi già avevano consentito nelle rispettive diocesi, in disobbedienza alle leggi  canoniche vigenti.

Allo stesso tempo, il cardinale americano Burke e il vescovo kazaco Schneider dichiaravano ai giornalisti che l’esortazione apostolica di papa Francesco non era da prendere come documento del Magistero, tanti erano i riferimenti dottrinali confusi o addirittura erronei che essa conteneva. Insomma, l’opinione pubblica cattolica è stata indotta a ritenere che il Papa abbia voluto abrogare la dottrina cristiana circa l’indissolubilità del matrimonio e la necessità dello stato di grazia per accedere alla Comunione. E, di fronte a questa (presunta) “rivoluzione” dogmatica, molti hanno provato sgomento, ritenendo che papa Francesco sia stato ingannato dai suoi consiglieri e abbia avallato l’eterodossia, mentre altri hanno gioito ritenendo che finalmente la Chiesa aveva messo da parte l’ortodossia dei conservatori per concedere piena libertà alle dottrine teologiche più avanzate, più consone ai nuovi tempi e alla mentalità dell’uomo di oggi.

La Chiesa, nella sua storia bimillenaria, ha vissuto tante vicende drammatiche. La storia ecclesiastica narra di diverse epoche di confusione e di scisma, persino di pontefici che con la loro condotta di vita hanno scandalizzato. Papa Francesco certamente non lo fa con la sua condotta personale, ma la dottrina teologica che egli favorisce, questa sì che scandalizza, nel senso biblico del temine, nel senso che è una “pietra di inciampo” per la fede dei semplici e disorienta le coscienze di tanti.

Questa confusione e questo disorientamento della coscienza dei comuni fedeli è il risultato - forse voluto, forse imprevisto, anche se facilmente prevedibile - dell’ambiguità strutturale del documento pontificio. Ed è il motivo per il quale io ne parlo, evidenziandone gli aspetti critici: non per mancare di rispetto al Magistero, né per prendere le parti dei conservatori contro i progressisti nella disputa ideologica che affligge la Chiesa da tanto tempo, e tanto meno per voler contrapporre alla dottrina del Papa - che dovrebbe esprimere e interpretare con autorità divina il dogma della fede - una mia opinabile dottrina teologica: ma solo per responsabilità pastorale nei confronti dei fedeli che da siffatta situazione non possono non subire danni gravissimi nella loro coscienza di fede, sia riguardo al dovere di obbedire all’autorità ecclesiastica lì dove essa comanda espressamene e lecitamente, sia riguardo al dovere di rispettare la natura divina dei segni sacramentali, evitando ogni rischio di profanazione e di sacrilegio.

A voi che siete qui presenti, laici e quasi tutti regolarmente coniugati, mi rivolgo con un accorato appello: non pensate che  il documento pontifico, in materia di Sacramenti (Matrimonio, Penitenza, Eucaristia), vi obblighi a credere qualcosa di diverso da quello che avete sempre creduto, né difare qualcosa di diverso da quello che avete sempre fatto.

Anzi, vi dirò di più. L’esortazione apostolica non è una nuova legge ecclesiastica: non comanda alcunché ad alcuno nella Chiesa cattolica; è, appunto, soltanto un’esortazione, un invito, un incoraggiamento, rivolto ai Pastori (vescovi e presbiteri) perché pratichino il loro ministero con attenzione alle situazioni specifiche dei loro fedeli, aiutandoli anche con la direzione spirituale personale (il “foro interno”) e sempre con spirito di misericordia.

Dunque sono soprattutto i sacerdoti in cura d’anime a dover applicare al loro quotidiano servizio (catechesi e amministrazione dei sacramenti) i criteri indicati dal Papa. Sono io, e con me tutti i miei confratelli nel sacerdozio, sotto la guida del rispettivo vescovo, a dover recepire e attuare questi consigli pastorali, senza mettere da parte - nessuno me lo può chiedere, e il Papa non me lo ha chiesto - i criteri teologico-morali e le norme canoniche vigenti, ossia i criteri di base, sempre validi, con i quali ho esercitato il ministero della Confessione fino a oggi, nei miei 55 anni di sacerdozio.

Questi  criteri  mi impediscono di fraintendere (o di intendere secondo l’interpretazione dei “riformisti e progressisti”) alcuni passi ambigui dell’esortazione apostolica, che ora leggo con voi, per poi fornirne l’unica interpretazione ammissibile dal punto di vista di una prassi sacramentaria rispettosa del dogma e dei principi morali definitivamente stabiliti dalla Chiesa.

Leggo innanzitutto il § 305:
«A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 302, nota n. 351).

A questo punto il documento è corredato da una nota:
«In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, “ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” […] Ugualmente segnalo che l’Eucaristia “non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” [Esort. Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, § 44 e 47: AAS 105, 2013, pp. 1038-1939]» (Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 302, nota n. 351).

Il paragrafo e la nota sono inserite nel capitolo VIII dedicato alle «situazioni irregolari», cioè alla convivenze e soprattutto alle nuove unioni civili a seguito di divorzio dove il precedente matrimonio è canonicamente valido. Nel testo si fa riferimento all’ipotesi che ci si trovi di fronte a una situazione oggettivamente disordinata (il divorziato che si è risposato civilmente) ma il cui soggetto (il fedele cattolico divorziato risposato) dia a intendere di non esserne cosciente.
Fatta tale ipotesi, il Papa suggerisce, come strumento pastorale per questa condizione particolare, l’amministrazione dei sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucarestia.

Il suggerimento ha senso solo se nel caso in questione il divorziato-risposato sia riconosciuto come trovandosi in stato di grazia perché privo di responsabilità soggettiva della sua condizione. Mancando la piena avvertenza sulla materia grave, costui non sarebbe in stato di peccato mortale, ergo il divorziato risposato potrebbe comunicarsi. Che il Papa intenda insinuare una soluzione del genere sembra confermato da un altro passaggio del documento:

«Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” [Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, 22 novembre 1981, § 33: AAS 74, 1982, p. 121]» (Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 302).

In altri termini, secondo questi suggerimenti papali, il confessore potrebbe giudicare non del tutto responsabile il penitente se fosse in grado di verificare in “foro interno” e caso per caso che il penitente versa in uno stato di errore in merito alla sua condizione. Ma come è possibile effettuare tale verifica se non ricorrendo alla tradizionale “praxis confessariorum”?

Si è sempre saputo che la cosiddetta «ignoranza invincibile» deve essere responsabilmente accertata dal ministro della Penitenza; costui, peraltro, tenendo presente che tale ignoranza può anche essere colpevole (la ripetizione di peccati consapevolmente commessi può condurre la persona all’ottundimento della coscienza), può arrivare alla convinzione che il soggetto in questione non può essere considerato dalla Chiesa in grazia di Dio.
E poi, anche ammesso che l’ignoranza invincibile di quel dato soggetto sia davvero tale da non renderlo soggettivamente colpevole (ipotesi che io ritengo meramente teorica e non riscontrabile nella vita reale dei fedeli che frequentano i sacramenti), ogni sacerdote sa bene che ciò che egli è chiamato agiudicare (nel tribunale della Penitenza il confessore è il giudice per conto della Chiesa) non è la coscienza del penitente, e tanto menol’azione della grazia in essa, ma solo le manifestazioni esterne del pentimento e della volontà di rimediare al male commesso, in relazione alla situazione (esterna, talvolta anche pubblica) del penitente.

Se tali rilevamenti portano il confessore a concludere che non è possibile assolvere la tale persona, egli avrà cura di spiegare con la massima delicatezza al penitente che spetta a lui impegnarsi a percorrere fino in fondo la strada della conversione, e che nel frattempo non gli è consentito di fare la Comunione. Gli spiegherà anche che ciò che non lo rende ancora “degno” della Comunione eucaristica è la sua condizione esterna, visibile, indice delle sue ancora imperfette condizioni interiori: ricevere sacramentalmente Cristo esige una condizione della vita personale che non sia oggettivamente in contraddizione con la santità di Cristo.

Sicché ogni sacerdote che sia davvero responsabile, se chiamato dal vescovo o dal fedele stesso a dare un suo giudizio in merito, non consiglierà mai ai conviventi e ai divorziati-risposati che non vivono castamente (o che vivono castamente ma che dovrebbero interrompere la loro relazione perché su di loro non gravano particolari obblighi morali) di accostarsi alla Comunione, perché tali condizioni sono oggettivamente contrarie alla volontà di Dio, ossia alla sua misericordia verso noi uomini.

Il sacerdote deve illuminare la coscienza del penitente ricordandogli che la nostra vita personale e sociale deve essere conforme all’ordo amoris,un sapientissimo orientamento di ogni cosa alla gloria del Creatore e al bene delle creature. La legge naturale e la rivelazione divina ci fanno sapere, con  certezza di ragione e di fede, che vi sono atti che sono di per sé contrastanti con questo ordo, ed è appunto il caso dei rapporti sessuali al di fuori del rapporto di coniugio: tali atti non sono conformi al piano di Dio - non sono cioè santificabili e santificanti - e di conseguenza pongono la persona che li compie volontariamente in una condizione che di fatto è incompatibile con all’ordo amoris, al di là della maggiore o minore consapevolezza della loro gravità.

Ciò comporta per il confessore - diretto responsabile del culto divino nella celebrazione della Penitenza - il gravissimo dovere ministeriale di non assolvere il fedele “divorziato-risposato” che non intendesse di fatto cambiare la sua situazione. Per amministrare validamente l’assoluzione mancherebbero infatti le condizioni essenziali, ossia il sincero pentimento e la volontà diriparazione.

Il pentimento non risulta esserci quando il fedele non dichiara al confessore di voler uscire dal proprio stato di “divorziato-risposato” troncando il rapporto con il (o la) convivente e adoperandosi per tornare con il legittimo consorte, oppure quando non si propone di riparare ai danni arrecati al coniuge legittimo, alla eventuale prole, al convivente che ha indotto in peccato e all’intera comunità cristiana a cui ha recato scandalo.
Mancando queste condizioni - le quali, dal punto di vista teologico, costituiscono la “materia” del sacramento della Penitenza - il confessore è tenuto a negare, per il momento, l’assoluzione, che non sarebbe un atto di misericordia ma un inganno (perché l’assoluzione sarebbe illecita, e soprattutto invalida).    

       
Antonio Livi

Pubblicato da Disputationes Theologicae 




APERTURA DELLA 69a ASSEMBLEA GENERALE DELLA CEI

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
ALLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Aula del Sinodo
Lunedì, 16 maggio 2016

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Cari fratelli,

a rendermi particolarmente contento di aprire con voi questa Assemblea è il tema che avete posto come filo conduttore dei lavori –Il rinnovamento del clero –, nella volontà di sostenere la formazione lungo le diverse stagioni della vita.

La Pentecoste appena celebrata mette questo vostro traguardo nella giusta luce. Lo Spirito Santo rimane, infatti, il protagonista della storia della Chiesa: è lo Spirito che abita in pienezza nella persona di Gesù e ci introduce nel mistero del Dio vivente; è lo Spirito che ha animato la risposta generosa della Vergine Madre e dei Santi; è lo Spirito che opera nei credenti e negli uomini di pace, e suscita la generosa disponibilità e la gioia evangelizzatrice di tanti sacerdoti. Senza lo Spirito Santo – lo sappiamo – non esiste possibilità di vita buona, né di riforma. Preghiamo e impegniamoci a custodire la sua forza, affinché «il mondo del nostro tempo possa ricevere la Buona Novella […] da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80).

Questa sera non voglio offrirvi una riflessione sistematica sulla figura del sacerdote. Proviamo, piuttosto, a capovolgere la prospettiva e a metterci in ascolto, in contemplazione. Avviciniamoci, quasi in punta di piedi, a qualcuno dei tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità; lasciamo che il volto di uno di loro passi davanti agli occhi del nostro cuore e chiediamoci con semplicità: che cosa ne rende saporita la vita? Per chi e per che cosa impegna il suo servizio? Qual è la ragione ultima del suo donarsi?

Vi auguro che queste domande possano riposare dentro di voi nel silenzio, nella preghiera tranquilla, nel dialogo franco e fraterno: le risposte che fioriranno vi aiuteranno a individuare anche le proposte formative su cui investire con coraggio.

1. Che cosa, dunque, dà sapore alla vita del “nostro” presbitero? Il contesto culturale è molto diverso da quello in cui ha mosso i primi passi nel ministero. Anche in Italia tante tradizioni, abitudini e visioni della vita sono state intaccate da un profondo cambiamento d’epoca.

Noi, che spesso ci ritroviamo a deplorare questo tempo con tono amaro e accusatorio, dobbiamo avvertirne anche la durezza: nel nostro ministero, quante persone incontriamo che sono nell’affanno per la mancanza di riferimenti a cui guardare! Quante relazioni ferite! In un mondo in cui ciascuno si pensa come la misura di tutto, non c’è più posto per il fratello.

Su questo sfondo, la vita del nostro presbitero diventa eloquente, perché diversa, alternativa. Come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto”, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco.

È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato. Dell’altro accetta, invece, di farsi carico, sentendosi partecipe e responsabile del suo destino.

Con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza. Avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro. Così, il nostro sacerdote non è un burocrate o un anonimo funzionario dell’istituzione; non è consacrato a un ruolo impiegatizio, né è mosso dai criteri dell’efficienza.

Sa che l’Amore è tutto. Non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi.

Il segreto del nostro presbitero – voi lo sapete bene! – sta in quel roveto ardente che ne marchia a fuoco l’esistenza, la conquista e la conforma a quella di Gesù Cristo, verità definitiva della sua vita. È il rapporto con Lui a custodirlo, rendendolo estraneo alla mondanità spirituale che corrompe, come pure a ogni compromesso e meschinità. È l’amicizia con il suo Signore a portarlo ad abbracciare la realtà quotidiana con la fiducia di chi crede che l’impossibilità dell’uomo non rimane tale per Dio.

2. Diventa così più immediato affrontare anche le altre domande da cui siamo partiti. Per chi impegna il servizio il nostro presbitero? La domanda, forse, va precisata. Infatti, prima ancora di interrogarci sui destinatari del suo servizio, dobbiamo riconoscere che il presbitero è tale nella misura in cui si sente partecipe della Chiesa, di una comunità concreta di cui condivide il cammino. Il popolo fedele di Dio rimane il grembo da cui egli è tratto, la famiglia in cui è coinvolto, la casa a cui è inviato. Questa comune appartenenza, che sgorga dal Battesimo, è il respiro che libera da un’autoreferenzialità che isola e imprigiona: «Quando il tuo battello comincerà a mettere radici nell’immobilità del molo – richiamava Dom Hélder Câmara – prendi il largo!». Parti! E, innanzitutto, non perché hai una missione da compiere, ma perché strutturalmente sei un missionario: nell’incontro con Gesù hai sperimentato la pienezza di vita e, perciò, desideri con tutto te stesso che altri si riconoscano in Lui e possano custodire la sua amicizia, nutrirsi della sua parola e celebrarLo nella comunità.

Colui che vive per il Vangelo, entra così in una condivisione virtuosa: il pastore è convertito e confermato dalla fede semplice del popolo santo di Dio, con il quale opera e nel cui cuore vive. Questa appartenenza è il sale della vita del presbitero; fa sì che il suo tratto distintivo sia la comunione, vissuta con i laici in rapporti che sanno valorizzare la partecipazione di ciascuno. In questo tempo povero di amicizia sociale, il nostro primo compito è quello di costruire comunità; l’attitudine alla relazione è, quindi, un criterio decisivo di discernimento vocazionale.

Allo stesso modo, per un sacerdote è vitale ritrovarsi nel cenacolo del presbiterio. Questa esperienza – quando non è vissuta in maniera occasionale, né in forza di una collaborazione strumentale – libera dai narcisismi e dalle gelosie clericali; fa crescere la stima, il sostegno e la benevolenza reciproca; favorisce una comunione non solo sacramentale o giuridica, ma fraterna e concreta. Nel camminare insieme di presbiteri, diversi per età e sensibilità, si spande un profumo di profezia che stupisce e affascina. La comunione è davvero uno dei nomi della Misericordia.

Nella vostra riflessione sul rinnovamento del clero rientra anche il capitolo che riguarda la gestione delle strutture e dei beni: in una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio.

3. Infine, ci siamo chiesti quale sia la ragione ultima del donarsi del nostro presbitero. Quanta tristezza fanno coloro che nella vita stanno sempre un po’ a metà, con il piede alzato! Calcolano, soppesano, non rischiano nulla per paura di perderci… Sono i più infelici! Il nostro presbitero, invece, con i suoi limiti, è uno che si gioca fino in fondo: nelle condizioni concrete in cui la vita e il ministero l’hanno posto, si offre con gratuità, con umiltà e gioia. Anche quando nessuno sembra accorgersene. Anche quando intuisce che, umanamente, forse nessuno lo ringrazierà a sufficienza del suo donarsi senza misura.

Ma – lui lo sa – non potrebbe fare diversamente: ama la terra, che riconosce visitata ogni mattino dalla presenza di Dio. È uomo della Pasqua, dallo sguardo rivolto al Regno, verso cui sente che la storia umana cammina, nonostante i ritardi, le oscurità e le contraddizioni. Il Regno – la visione che dell’uomo ha Gesù – è la sua gioia, l’orizzonte che gli permette di relativizzare il resto, di stemperare preoccupazioni e ansietà, di restare libero dalle illusioni e dal pessimismo; di custodire nel cuore la pace e di diffonderla con i suoi gesti, le sue parole, i suoi atteggiamenti.

* * *

Ecco delineata, cari fratelli, la triplice appartenenza che ci costituisce: appartenenza al Signore, alla Chiesa, al Regno. Questo tesoro in vasi di creta va custodito e promosso! Avvertite fino in fondo questa responsabilità, fatevene carico con pazienza e disponibilità di tempo, di mani e di cuore.

Prego con voi la Vergine Santa, perché la sua intercessione vi custodisca accoglienti e fedeli. Insieme con i vostri presbiteri possiate portare a termine la corsa, il servizio che vi è stato affidato e con cui partecipate al mistero della Madre Chiesa. Grazie.

   




[Modificato da Caterina63 17/05/2016 12:17]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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02/11/2016 16:59
 
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ANCHE PAPA FRANCESCO DICE UN CHIARO "NO" AL SACERDOZIO ALLE DONNE   (alleluia!!)

dall'intervista sull'aereo che lo riportava dalla Svezia, qui la fonte ufficiale:

Adesso una domanda della televisione svedese: Anna Cristina Kappelin, di Sveriges TV.

Anna Cristina Kappelin:

Buongiorno. La Svezia, che ha ospitato questo importante incontro ecumenico, ha una donna a capo della propria Chiesa. Che cosa ne pensa? E’ realistico pensare a donne-preti anche nella Chiesa Cattolica, nei prossimi decenni? E se no, perché? I preti cattolici hanno paura della competizione?

Papa Francesco:

Leggendo un po’ la storia di questa zona, dove siamo stati, ho visto che c’è stata una regina che è rimasta vedova tre volte; e ho detto: “Questa donna è forte!”. E mi hanno detto: “Le donne svedesi sono molto forti, molto brave, e per questo qualche uomo svedese cerca una donna di un’altra nazionalità”. Non so se sia vero!... Sull’ordinazione di donne nella Chiesa Cattolica, l’ultima parola chiara è stata data da San Giovanni Paolo II, e questa rimane. Questo rimane. Sulla competizione, non so…

[domanda della stessa giornalista, fuori campo]

Papa Francesco:

Se leggiamo bene la dichiarazione fatta da San Giovanni Paolo II, va in quella linea. Sì. Ma le donne possono fare tante cose, meglio degli uomini. E anche nel campo dogmatico – per chiarire, forse per dare una chiarezza, non soltanto fare riferimento a un documento –, nella ecclesiologia cattolica ci sono due dimensioni: la dimensione petrina, che è quella degli apostoli – Pietro e il collegio apostolico, che è la pastorale dei vescovi – e la dimensione mariana, che è la dimensione femminile della Chiesa. E questo l’ho detto più di una volta. Io mi domando, chi è più importante nella teologia e nella mistica della Chiesa: gli apostoli o Maria, nel giorno di Pentecoste? E’ Maria! Di più: la Chiesa è donna. E’ “la” Chiesa, non è “il” Chiesa. E’ la Chiesa. E la Chiesa sposa Gesù Cristo. E’ un mistero sponsale. E alla luce di questo mistero si capisce il perché di queste due dimensioni: la dimensione petrina, cioè episcopale, e la dimensione mariana, con tutto quello che è la maternità della Chiesa, ma in senso più profondo. Non esiste la Chiesa senza questa dimensione femminile, perché lei stessa è femminile.

 


Il cardinale Muller
 

Intervista esclusiva al mensile Il Timone del cardinale Gerard Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: «Non mi piace, non è corretto che tanti vescovi stiano interpretando Amoris Laetitia secondo il loro proprio modo di intendere l’insegnamento del Papa: «Non si può dire che ci sono circostanze per cui un adulterio non costituisce peccato mortale».

di Riccardo Cascioli

«La Amoris Laetitia va interpretata alla luce di tutta la dottrina della Chiesa…. Non mi piace, non è corretto che tanti vescovi stiano interpretando Amoris Laetitia secondo il loro proprio modo di intendere l’insegnamento del Papa. Questo non va nella linea della dottrina cattolica». Sono le chiare affermazioni del cardinale Gerard Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in una lunga intervista rilasciata al mensile Il Timone. 

Nell’intervista, che appare nel numero di febbraio da oggi acquistabile e immediatamente disponibile sul sito della rivista (un numero 3 euro, abbonamento annuale 28 euro), il cardinale Müller esclude la possibilità della comunione per i divorziati risposati: «Non si può dire che ci sono circostanze per cui un adulterio non costituisce peccato mortale». Mancanza di misericordia? Niente affatto: «Noi siamo chiamati ad aiutare le persone, poco a poco, per raggiungere la pienezza nel loro rapporto con Dio, ma non possiamo fare sconti», afferma Müller. E i vescovi – con codazzo di giornalisti adulanti - che indicano ormai possibile la comunione ai divorziati risposati? «A tutti questi che parlano troppo – è la risposta del prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – raccomando di studiare prima la dottrina sul papato e sull’episcopato nei due concili vaticani, senza dimenticare la dottrina sui sette sacramenti».

La lunga intervista, che tocca molti temi inerenti la dottrina cattolica, arriva come una doccia fredda sugli entusiasmi di quegli osservatori che consideravano le ormai famose dichiarazioni del cardinale Müller al TgCom24 (clicca qui) come il distacco definitivo del prefetto dalle posizioni dei quattro cardinali che hanno firmato i Dubia. Al contrario, le articolate risposte di Müller suonano come una risposta positiva ai Dubia, un contributo alla chiarezza così come i quattro chiedono.

Ai sopra citati vescovi, teologi e giornalisti, non piacerà neanche la parte in cui il il cardinale Müller spazza via il politicamente corretto in tema di ecumenismo. «La riforma protestante – ha osservato Müller – non deve essere semplicemente intesa come una riforma da alcuni abusi morali, ma bisogna riconoscere che andava a incidere sul nucleo del concetto cattolico di Rivelazione». «Si può sempre riformare la vita morale, le nostre istituzioni, università, strutture pastorali; è necessario anche sbarazzarsi di una certa “mondanizzazione” della Chiesa». 

La cover di MullerAl proposito Müller afferma che «ci sono errori dogmatici fra i riformatori che noi mai possiamo accettare. Con i protestanti il problema non sta solo nel numero dei Sacramenti, ma anche nel loro significato». Müller ha poi messo in guardia, per quel che riguarda l’ecumenismo, dal relativismo e dall’indifferenza verso i temi dottrinali: «Per cercare l’unità non possiamo accettare di “regalare” due o tre sacramenti, o accettare che il Papa sia una specie di presidente delle diverse confessioni cristiane», ha detto.

Tutti questi temi sono maggiormente approfonditi nell’intervista, che tocca molti altri punti interessanti. Di sicuro il cardinale Müller ha voluto lanciare un avvertimento a chi crede di poter liquidare facilmente la dottrina (che altro non è che il contenuto della Rivelazione di Gesù) pensando così di andare incontro alle esigenze dell’uomo moderno. «Senza dottrina non c’è Chiesa», titola in copertina Il Timone sintetizzando le parole del prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Non si può immaginare nulla di più ecclesialmente scorretto.

 

Un sacerdote risponde

Mi sono imbattuto in un sito cattolico su un commento ad Amoris Laetitia francamente per me molto triste

Quesito

Carissimo Padre Angelo,
le volevo chiedere un parere utile a tante persone che cercano di seguire gli insegnamenti della Chiesa anche in materia matrimoniale.
Mi sono imbattuto in un sito cattolico su un commento ad Amoris Laetitia francamente per me molto triste, perché questi messaggi rendono il tema “paternità responsabile” / “non liceità della contraccezione” molto ambiguo e rafforzano la diffusissima convinzione che si possa fare quello che si vuole nei rapporti matrimoniali per essere “buoni cristiani”.
Quello che mi dispiace è che chi vuole seguire il pensiero della Chiesa è confuso da AL, perché il giornalista ha gioco facile a ribadire che non “proibendo esplicitamente” di fatto si lascia all’individuo fare come meglio pensa, pur “consigliando” i metodi naturali e citando l’enciclica HV.
E’ evidente che un sito cattolico non è il Papa e nemmeno un vescovo però quello che oggettivamente emerge è che se in 400 e passa pagine di Lettera Pastorale se ne parla così…magari il fatto che sia un tema “non fondamentale” passa come messaggio….
Le evidenzio sotto le parti per me più imbarazzanti.
"Se il Santo Padre avesse voluto condannare formalmente o semplicemente mettere in guardia contro l’uso della contraccezione l’avrebbe fatto, ma non è stato così. Dall’altro lato, non ha detto formalmente che l’uso della contraccezione non è più proibito, ma è facile comprendere perché su questo argomento Francesco rifiuti di essere intrappolato nella logica del “permesso” e del “proibito”. I tomisti diranno giustamente che il papa vuole sostituire la “legge morale” con la “virtù morale”, la crescita della grazia.
In tutta l’onestà intellettuale basata sulla fede, sembra quindi legittimo concludere questa breve revisione critica dicendo che l’esortazione apostolica Amoris Laetitia segna non l’abrogazione ma l’eliminazione, implicita ma reale, del divieto assoluto della contraccezione per le coppie cattoliche.
Prego per lei e la famiglia Domenicana che tanto mi ha aiutato e mi aiuta a seguire Nostro Signore. 
Alberto


Risposta del sacerdote

Caro Alberto,
1. l’affermazione che tu hai riportato dà l’impressione che il papa non abbia voluto condannare la contraccezione e neanche abbia detto il contrario.
Il che farebbe concludere che ognuno infine potrebbe fare quello che vuole, sebbene l’articolista neghi anche quest’affermazione.

2. Ebbene, non è vero che il Papa in Amoris Laetitia non proibisca la contraccezione.
Al n. 80 vi si legge: “Fin dall’inizio l’amore rifiuta ogni impulso di chiudersi in sé stesso e si apre a una fecondità che lo prolunga oltre la sua propria esistenza. Dunque nessun atto genitale degli sposi può negare questo significato,[86] benché per diverse ragioni non sempre possa di fatto generare una nuova vita” (AL 80).
Nessun atto genitale: pertanto la contraccezione coniugale rimane esclusa sempre, dal momento che i precetti morali negativi obbligano semper et pro semper (sempre e in ogni caso).

3. La nota n. 86 fa riferimento all’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, ed espressamente ai numeri 11 e 12.
Ora nel n. 11 è contenuta l’affermazione centrale dell’enciclica: “Ma, richiamando gli uomini all’osservanza delle norme della legge naturale, interpretata dalla sua costante dottrina, la chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita”.

4. E nel n. 12 si legge: “Tale dottrina, più volte esposta dal magistero della chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo. Infatti, per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna.
Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità”.

5. Quando Amoris laetitia aggiunge: “benché per diverse ragioni non sempre possa di fatto generare una nuova vita” fa riferimento a quanto scritto nel medesimo n. 11 dell’HV: “Questi atti, con i quali gli sposi si uniscono in casta intimità e per mezzo dei quali si trasmette la vita umana, sono, come ha ricordato il recente concilio, "onesti e degni", e non cessano di essere legittimi se, per cause mai dipendenti dalla volontà dei coniugi, sono previsti infecondi, perché rimangono ordinati ad esprimere e consolidare la loro unione”.

6. Sempre Amoris laetitia dice: “In seguito, «il beato Paolo VI, sulla scia del Concilio Vaticano II, ha approfondito la dottrina sul matrimonio e sulla famiglia. In particolare, con l’Enciclica Humanae vitae, ha messo in luce il legame intrinseco tra amore coniugale e generazione della vita: “L’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa esattamente compresa. […] L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori» (n. 10)” (AL 68).
Riconoscere i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società non è un optional. È la legge morale, la quale non è consigliata, ma comandata.

7. Sempre nel medesimo punto Amoris laetitia parla della dottrina del Vaticano II approfondita da Paolo VI.
In seguito, per quanto concerne i divorziati risposati, dice ancora: “Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina” (AL 79).
Su questi punti, pertanto, non vi è alcun dubbio: Amoris laetitia fa riferimento alla dottrina.

8. Ora la dottrina si approfondisce, si sviluppa, si applica a diverse situazioni ma sempre secondo un criterio di omogeneità, per cui essa rimane la stessa nel medesimo modo in cui noi, pur passando attraverso vari sviluppi, siamo rimasti gli stessi e abbiamo conservato la nostra identità.
Per questo Giovanni XXIII nel discorso inaugurale del Concilio aveva detto: “Il 21 concilio ecumenico - che si avvarrà dell’efficace e importante somma di esperienze giuridiche, liturgiche, apostoliche e amministrative - vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti, che lungo venti secoli, nonostante difficoltà e contrasti, è divenuta patrimonio comune degli uomini. Patrimonio non da tutti bene accolto, ma pur sempre ricchezza aperta agli uomini di buona volontà. 
Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige, proseguendo così il cammino, che la chiesa compie da quasi venti secoli. 
Lo scopo principale di questo concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della chiesa, in ripetizione diffusa dell’insegnamento dei padri e dei teologi antichi e moderni quale si suppone sempre ben presente e familiare allo spirito. 
Per questo non occorreva un concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della chiesa nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti conciliari del Tridentino e del Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettatasia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo
Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata”.

9. Giovanni Paolo II dal canto suo ha detto: “Quanto è insegnato dalla Chiesa sulla contraccezione non appartiene a materia liberamente disputabile tra i teologi. Insegnare il contrario equivale a indurre nell’errore la coscienza morale degli sposi” (5.5.1987).
Nel medesimo discorso ha detto anche che “emerge a tale proposito una grave responsabilità: coloro che si pongono in aperto contrasto con la legge di Dio, autenticamente insegnata dal magistero della Chiesa, guidano gli sposi su una strada sbagliata.
Benedetto XVI, nel 40° della pubblicazione dell’Humanae vitae ha affermato: “Il Magistero della Chiesa non può esonerarsi da riflettere in maniera sempre nuova e approfondita sui principi fondamentali che riguardano il matrimonio e la procreazione. Quanto era vero ieri, rimane vero anche oggi. La verità espressa nell’Humanae Vitae non muta”.
E la stessa cosa ha detto anche Papa Francesco in Amoris laetitia al n. 80 sopra citato.
Pertanto se l’articolista che hai citato ha detto quanto hai riferito è nell’errore. Per usare il linguaggio di Giovanni Paolo II è su una strada sbagliata e induce nell’errore la coscienza morale degli sposi”.

11. Il Vademecum per i confessori del Pontificio Consiglio per la famiglia (12.2.1997) scrive: “La Chiesa ha sempre insegnato l’intrinseca malizia della contraccezione, cioè di ogni atto coniugale intenzionalmente infecondo. Questo insegnamento è da ritenere come dottrina definitiva ed irreformabile. La contraccezione si oppone gravemente alla castità matrimoniale, è contraria al bene della trasmissione della vita (aspetto procreativo del matrimonio), e alla donazione reciproca dei coniugi (aspetto unitivo del matrimonio), ferisce il vero amore e nega il ruolo sovrano di Dio nella trasmissione della vita umana” (n. 2.4).

12. Amoris laetitia cita un testo del Concilio che nel quale l’articolista inciampa in maniera abbastanza clamorosa e conclude malamente. 
Perché il Concilio in tale testo parla del numero dei figli da procreare. Mentre l’articolista applica il testo alle vie da seguire (contraccezione o metodi naturali).
Ecco il testo del Concilio: “Rimane valido quanto affermato con chiarezza nel Concilio Vaticano II: «I coniugi [...], di comune accordo e con sforzo comune, si formeranno un retto giudizio: tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno; valutando le condizioni sia materiali che spirituali della loro epoca e del loro stato di vita; e, infine, tenendo conto del bene della comunità familiare, della società temporale e della Chiesa stessa. Questo giudizio in ultima analisi lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi» (Gaudium et spes 50).
Mentre a proposito delle vie da seguire il Concilio dice: “Però nella loro linea di condotta i coniugi cristiani siano consapevoli che non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che sia con forme alla legge divina stessa; e siano docili al magistero della Chiesa, che interpreta in modo autentico quella legge alla luce del Vangelo.
Tale legge divina manifesta il significato pieno dell'amore coniugale, lo protegge e lo conduce verso la sua perfezione veramente umana” (GS 50).
E ancora: “Quando si tratta di comporre l’amore coniugale con la trasmissione responsabile della vita, il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri oggettivi che hanno il loro fondamento nella dignità stessa della persona umana e dei suoi atti e sono destinati a mantenere in un contesto di vero amore l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana, e tutto ciò non sarà possibile se non venga coltivata con sincero animo la virtù della castità coniugale.
I figli della Chiesa, fondati su questi principi, non potranno seguire strade che sono condannate dal Magistero nella spiegazione della legge divina” (GS 51).
Mi pare che questo equivoco sia grave.
Ne va della competenza o della buona fede di chi ha scritto quel pezzo.

13. Va detto anche che non era obiettivo del Sinodo pronunciarsi sulla dottrina della Chiesa in tema di contraccezione. Non è stato convocato per questo. In parole povere, il suo obiettivo non era quello di riformare la dottrina dell’Humanae vitae.
Anzi su questo ha richiamato più volte l’enciclica di Paolo VI e ne ha ribadito la dottrina.
Né ha lasciato ai coniugi la libertà di scegliere le vie che vogliono. Qui si tratta di legge divina, che è una legge di vita.
Scegliere il contrario è la stessa cosa che scegliere la morte.
Valgono anche per il nostro argomento le parole che si leggono in Dt 30,19-20: “Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità, per poter così abitare nel paese che il Signore ha giurato di dare ai tuoi padri”.
La legge di Dio non è un optional, una via facoltativa, il cui percorso vale quanto il contrario.
L’osservanza della legge di Dio è la stessa cosa che la scelta della vita: dell’amore umano anzitutto, poi del matrimonio e della famiglia e poi anche di qualcosa d’altro.
Fare il contrario è la stessa cosa che scegliere la morte: dell’amore umano anzitutto, poi del matrimonio e della famiglia e poi anche di qualcosa d’altro.
Vale anche per questa materia quanto si legge nella Sacra Scrittura “Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza” (Dt 30,19).

14. Infine,  viene detto che il papa “vuole sostituire la legge morale con la virtù morale, la crescita della grazia” come dicono i tomisti.
Ma, proprio come dicono proprio i tomisti, la crescita nella grazia non avviene sostituendo la natura, ma presupponendola, confermandola e sanandola.
San Tommaso è esplicito su questo fin dall’inizio della Somma teologica: “La grazia infatti non distrugge la natura, ma anzi la perfeziona” (Somma teologica, I, 1, 8, ad 2).
Pertanto non va creata opposizione tra legge morale e virtù morale, perché è virtuoso proprio chi si lascia guidare da Dio e dai suoi comandamenti.
“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (Gv 14,21). E San Tommaso commenta: “Qui si noti che il vero amore si esprime e si mostra nelle opere, perché l’amore così si manifesta. Infatti amare qualcuno altro non è che volere a lui del bene e desiderare quello che lui vuole; perciò non ama veramente colui che non fa la volontà dell’amato e non eseguisce quello che conosce come voluto da lui. Perciò chi non fa la volontà di Dio mostra di non amarlo veramente. Ecco perché Gesù afferma: Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama, ossia ha un amore vero verso di me” (Commento al Vangelo di Giovanni 14,21).

Ti ringrazio di avermi dato l’opportunità di portare un po’ di chiarezza su punti molto importanti per la vita dei singoli nei loro rapporti con Dio e sui quali alcuni intendono mettere confusione.
Mi auguro anche di aver tolto la tristezza che causata dalla lettura di quell’articolo.
Ti ricordo al Signore e ti benedico. 
Padre Angelo Bellon OP



[Modificato da Caterina63 07/10/2017 14:20]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN MYANMAR E BANGLADESH
(26 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 2017)

SANTA MESSA E ORDINAZIONE PRESBITERALE

OMELIA DEL SANTO PADRE

Suhrawardy Udyan Park (Dhaka)
Venerdì, 1° dicembre 2017

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[Omelia tratta dal Rituale per l’Ordinazione dei presbiteri]

Fratelli carissimi, questi nostri figli sono stati chiamati all’ordine del presbiterato. Riflettiamo attentamente a quale ministero saranno elevati nella Chiesa.

Come voi ben sapete, fratelli, il Signore Gesù è il solo sommo sacerdote del Nuovo Testamento; ma in lui anche tutto il popolo santo di Dio è stato costituito popolo sacerdotale. Nondimeno, tra tutti i suoi discepoli, il Signore Gesù volle sceglierne alcuni in particolare, perché esercitando pubblicamente nella Chiesa in suo nome l'ufficio sacerdotale a favore di tutti gli uomini, continuassero la sua personale missione di maestro, sacerdote e pastore.

Come infatti per questo egli era stato inviato dal Padre, così egli inviò a sua volta nel mondo prima gli Apostoli e poi i vescovi loro successori, ai quali infine furono dati come collaboratori i presbiteri, che, ad essi uniti nel ministero sacerdotale, sono chiamati al servizio del popolo di Dio.

Dopo matura riflessione, ora noi stiamo per elevare all'ordine dei presbiteri questi nostri fratelli, perché al servizio di Cristo maestro, sacerdote e pastore cooperino a edificare il corpo di Cristo, che è la Chiesa, in popolo di Dio e tempio santo dello Spirito.

Quanto a voi, figli dilettissimi, che state per essere promossi all'ordine del presbiterato, considerate che esercitando il ministero della sacra dottrina sarete parte­cipi della missione di Cristo, unico maestro. Dispensate a tutti quella parola di Dio, che voi stessi avete ricevuto con gioia. Leggete e meditate assiduamente la parola del Signore per credere ciò che avete letto, insegnare ciò che avete appreso nella fede, vivere ciò che avete insegnato. Sia dunque nutrimento al popolo di Dio la vostra dottrina, gioia e sostegno ai fedeli di Cristo il profumo della vostra vita, perché con la parola e l'esempio edifichiate la casa di Dio, che è la Chiesa.

Voi continuerete l'opera santificatrice di Cristo. Mediante il vostro ministero il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto, perché congiunto al sacrificio di Cristo, che per le vostre mani in nome di tutta la Chiesa viene offerto in modo incruento sull'altare nella celebrazione dei santi misteri.

Riconoscete dunque ciò che fate, imitate ciò che celebrate, perché partecipando al mistero della morte e risurrezione del Signore, portiate la morte di Cristo nelle vostre membra e camminiate con lui in novità di vita.

Con il Battesimo aggregherete nuovi fedeli al popolo di Dio; con il sacramento della Penitenza rimetterete i peccati nel nome di Cristo e della Chiesa; con l'Olio santo darete sollievo agli infermi; celebrando i sacri riti e innalzando nelle varie ore del giorno la preghiera di lode e di supplica, vi farete voce del popolo di Dio e dell'umanità intera.

Consapevoli di essere stati scelti fra gli uomini e costituiti in loro favore per attendere alle cose di Dio, esercitate in letizia e carità sincera l'opera sacerdotale di Cristo, unicamente intenti a piacere a Dio e non a voi stessi.

Infine, partecipando alla missione di Cristo, capo e pastore, in comunione filiale con il vostro vescovo, impegnatevi a unire i fedeli in un'unica famiglia, per condurli a Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Abbiate sempre davanti agli occhi l'esempio del Buon Pastore, che non è venuto per essere servito, ma per servire, e per cercare e salvare ciò che era perduto.

Adesso voglio rivolgermi a voi, cari fratelli e sorelle che siete venuti a questa festa, a questa grande festa di Dio nell’Ordinazione di questi fratelli sacerdoti. So che tanti di voi siete venuti da lontano, con un viaggio di più di due giorni… Grazie per la vostra generosità! Questo indica l’amore che voi avete per la Chiesa, questo indica l’amore che voi avete per Gesù Cristo. Grazie tante! Grazie tante per la vostra generosità, grazie tante per la vostra fedeltà. Andate avanti, con lo spirito delle Beatitudini. E mi raccomando, oggi, mi raccomando, pregate sempre per i vostri sacerdoti, specialmente per questi che oggi riceveranno il sacramento dell’Ordine sacro. Il popolo di Dio sostiene i sacerdoti con la preghiera. E’ vostra responsabilità sostenere i sacerdoti. Qualcuno di voi potrà domandarmi: “Ma, padre, come si fa per sostenere un sacerdote?”. Fidatevi della vostra generosità. Il cuore generoso che voi avete vi dirà come sostenere i sacerdoti. Ma il primo sostegno del sacerdote è la preghiera. Il popolo di Dio - cioè tutti, tutti - sostiene il sacerdote con la preghiera. Non stancatevi mai di pregare per i vostri sacerdoti. Io so che lo farete. Grazie tante! E adesso continuiamo il rito dell’Ordinazione di questi diaconi che saranno i vostri sacerdoti. Grazie.

INCONTRO CON L'EPISCOPATO BRASILIANO

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Arcivescovado di Rio de Janeiro
Sabato, 27 luglio 2013




"Il compito della Chiesa nella società

Nell’ambito della società c’è una sola cosa che la Chiesa chiede con particolare chiarezza: la libertà di annunciare il Vangelo in modo integrale, anche quando si pone in contrasto con il mondo, anche quando va controcorrente, difendendo il tesoro di cui è solo custode, e i valori dei quali non dispone, ma che ha ricevuto e ai quali deve essere fedele.

Cari Fratelli, se non formeremo ministri capaci di riscaldare il cuore alla gente, di camminare nella notte con loro, di dialogare con le loro illusioni e delusioni, di ricomporre le loro disintegrazioni, che cosa potremo sperare per il cammino presente e futuro? Non è vero che Dio sia oscurato in loro. Impariamo a guardare più in profondità: manca chi riscaldi loro il cuore, come con i discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,32).

Per questo è importante promuovere e curare una formazione qualificata che crei persone capaci di scendere nella notte senza essere invase dal buio e perdersi; di ascoltare l’illusione di tanti, senza lasciarsi sedurre; di accogliere le delusioni, senza disperarsi e precipitare nell’amarezza; di toccare la disintegrazione altrui, senza lasciarsi sciogliere e scomporsi nella propria identità.

Serve una solidità umana, culturale, affettiva, spirituale, dottrinale."





 

[Modificato da Caterina63 08/12/2017 23:53]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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