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San Tommaso D'Aquino spiega la Fede della Chiesa (catechismo )

Ultimo Aggiornamento: 19/06/2013 10:55
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19/06/2013 09:56
 
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Quattro opuscoli che sono la registrazione stenografica di cinquantotto prediche che nell'ultimo anno di vita san Tommaso d'Aquino volle tenere ai suoi universitari e alla popolazione napoletana, dal pulpito di S. Domenico Maggiore.

    Ne risultò una delle quaresime più singolari negli annali della predicazione cristiana, sia per la fama di santità e la sicurezza di dottrina, sia per la personalità del protagonista e per lo stesso filo conduttore dei sermoni.

    Uomo profondamente «serio» fra Tommaso ideava gli schemi degli opuscoli minori e delle omelie che avrebbe tenuto alla messa festiva con la medesima coscienziosità a cui si ispirava nei poderosi trattati: evitando cioè di proposito artifizi e preziosità retoriche, curiose trovate oratorie e sorprese ad effetto, per puntare unicamente alla ricerca della Verità pura e semplice.

    Durante la quaresima del 1273 comincia a predicare al popolo in una forma di catechesi organica. Lascia da parte il latino, che era lingua ufficiale per l'insegnamento della teologia e nelle disputae tra i dotti, per esprimersi nel dialetto appreso al tempo della fanciullezza nel castello di Roccasecca.

    Commenta il Credo, il Padrenostro, l'Avemmaria e il Decalogo. Le ricchezze teologali ed esistenziali della fede e della Scrittura che la sostiene, emergono da «un linguaggio calibratissimo ma sempre alla portata di tutti».

    Cinquant'anni appresso, alcuni testimoni daranno ancora l'impressione di trovarsi sotto il fascino di quella sapienza, che era riuscita ad insegnare non solo le verità salvifiche ma a porre in risalto i legami tra teologia e vita.

    Anche il lettore moderno, coinvolto in questa ricerca quasi dialogica della verità, prova simpatia e gratitudine verso «maestro Tommaso».

 

INTRODUZIONE

La lunga quaresima del 1273

    Era la prima volta che (dati i suoi impegni professorali) fra Tommaso dei Predicatori poteva tornare al pulpito tutti i giorni, per un'intera quaresima. Forse, quest'uomo di quarantotto anni, avvertiva dentro di sé avanzare il male misterioso che presto lo avrebbe atterrato? Un istinto soprannaturale pareva sospingerlo a saldare nel miglior modo possibile il proprio debito sia verso la popolazione studentesca, (incombeva su di lui come su qualunque docente di teologia l'obbligo di tenere ai discepoli chierici un certo numero di sermoni), sia verso la città in cui, trent'anni avanti, aveva iniziato gli studi superiori e vestito l'abito domenicano (1239-44). Inoltre egli era tornato a Napoli, saltuariamente, anche nei dieci anni (1259-68) in cui ebbe a esercitare il magistero in varie località degli Stati della Chiesa.

    Adesso che l'attività universitaria gli concede un po' di respiro - essendo qui il numero. degli iscritti ai corsi inferiore a quello degli studenti parigini, e avendo perciò potuto eliminare dal programma le pubbliche dispute -, san Tommaso concepisce un ampio schema predicabile, intorno ai seguenti argomenti: il Credo, il Pater, il Decalogo e, quale breve appendice, l'Ave Maria.

    Ne parla egli stesso, aprendo il ciclo sui dieci comandamenti messi a raffronto coi due precetti della carità: «Per conseguire la salvezza, l'uomo deve conoscere alcune nozioni di base: cosa debba credere, cosa desiderare e infine che cosa fare. Alla prima esigenza ha risposto il 'Simbolo', che raccoglie gli articoli fondamentali della rivelazione, alla seconda la preghiera del 'Padre nostro', e alla terza, la legge di Dio» (1). Si può agevolmente rilevare la loro coincidenza con l'oggetto delle tre virtù teologali: fede, speranza, carità. Dunque diverse relazioni legano le varie parti in un tutto organico, in una sorta di catechismo ragionato, nonché avvalorato da innumerevoli citazioni della Scrittura, adattissimo alla mentalità e alla preparazione religiosa di quei cristiani del basso medioevo. Quattro, dunque, le serie di collactiones dedicate dal nostro quaresimalista alle verità salvifiche (2).

    Che si tratti di prediche raccolte dalla viva voce, e non già di scritti didattici ne di promemoria o di appunti destinati alla predicazione stilati di propria mano da Tommaso (quale fu il caso delle Dominicales, festivas et quadragesimales, predicate prima del I264), ci risulta con sicurezza. Fra Pietro da Andria dichiara che la sua raccolta contiene solo la registrazione di lezioni o prediche tenute dal Santo: le chiuse sul tipo di «Dio ci aiuti in questo» o «Il Signore Gesù voglia condurci alla vita eterna» richiamano le tipiche finali dei sermoni di ogni epoca; vi si aggiungano le testimonianze raccolte, in tal senso, durante i processi di canonizzazione tenutisi rispettivamente il 21 luglio - 18 settembre 1319 nel palazzo arcivescovile di Napoli e, dal 10 al 20 novembre, nell'abbazia di Fossanova.

    Ci si domanderà: ma la quaresima non durava, anche allora, una quarantina di giorni? Al che rispondiamo che tanto allora quanto oggi andrebbe fatta una distinzione: gli oltre quaranta giorni che dal mercoledì delle ceneri (detto altrimenti in càpite jeiunii) vanno al sabato santo costituiscono la quaresima strettamente penitenziale, resa ancor più rimarchevole appunto dai digiuni, dalla astinenza e dalla pienezza dei riti, sempre più significativi, della settimana che culmina con la Pasqua. Tuttavia la stessa quaresima, preceduta com'era dalle tre settimane di settuagesima, sessagesima e quinquagesima, veniva come a esser preparata a sua volta da un periodo di ambientazione liturgica.

    Orbene, sapendo che avrebbe dovuto concludere le prediche in ogni caso non oltre i primi due giorni della settimana santa (per le ragioni che spiegheremo appresso), san Tommaso ne tien conto per la stesura di un preciso piano di lavoro.

    Ecco perché egli stabilisce di iniziare quegli incontri con i discepoli, fuori dell'aula magna, e con la gente dei popolosi rioni che circondano la chiesa di S. Domenico Maggiore, fin dalla lontana settuagesima. Stabilire in quale giorno preciso è difficile, ma non impossibile. Escludiamo intanto che possa aver cominciato il mercoledì delle ceneri. Tenendo presente che lo sviluppo delle quattro serie di collactiones si articola per otto settimane e mezzo, contro le consuete sei, san Tommaso dedicò al commento del Credo 15 incontri; 10 al Pater, 32 al Decalogo e 2 (o soltanto 1) all'Ave; si ottiene il totale di 59 (o eventualmente 58) prediche. La nota precisione di questo architetto del pensiero non si smentisce neppure adesso.

    Compiamo un passo indietro onde spiegare il motivo per cui il 4 aprile del 1273 si imponeva quale termine massimo. Il regolamento universitario di quei tempi prevedeva un incontro di cultura religiosa tra magister e studentes, al mattino della domenica o di altri giorni festivi: e si aveva il cosiddetto sermo; la sera poi esso veniva ripreso, magari succintamente, nella collactio o conferenza. Quando, come nel caso dei temi quaresimali napoletani, si partiva da un determinato testo da «esporre», ossia da commentare in chiesa o nella sala capitolare, si aveva allora la expositio.

    Qualunque forma di predicazione però (almeno in pubblico) era impossibile ad aversi negli ultimi quattro giorni della «settimana santa», a causa delle funzioni liturgiche e in particolare del cosiddetto «ufficio delle tenebre», che iniziava calato il vespro del mercoledì (3). Il nome traeva origine dall'usanza di recitare il mattutino riducendo progressivamente le luci, nel coro. Sul presbiterio era stato approntato un candeliere triangolare con quindici ceri; fin dal primo salmo - in quel triduo di meditazioni centrate sull'olocausto del Cristo -, a una a una le candele venivano smorzate e, giunti al quinto salmo delle laudi, spentesi le luci nella navata, anche l'ultima fiammella spariva. Dal canto del Benedictus sino all'oremus conclusivo gli oranti restavano immersi così nella tenebra completa.

    Ciò detto, comprendiamo come, data la coincidenza tra l'ora della predicazione e quella dell'ufficiatura corale, si imponeva un anticipo sull'avvio: intorno alla domenica di settuagesima.

    Tuttavia un'ultima considerazione ci costringe a soffermarci ancora sulla questione. È vero che, diciamo così, graficamente la stesura delle prediche quaresimali di fra Tommaso occupa 59 sezioni - dalle parole con cui comincia l'expositio del «Credo» a quelle che chiudono il commento all'«Ave». Ma è appunto la estrema brevità dell'ultima sezione, dedicata al «benedetto il frutto del seno tuo», che induce a credere che l'intero commento all'annunzio, dell'angelo abbia occupato non già due, bensì una sola predica. È vero che notevolmente corta è anche l'esposizione del nono comandamento. Ma quel che ci fa pensare a un ininterrotto discorso nel caso dell'«Ave» sono le parole stesse mediante cui le due parti si legano: «Insomma, ella fu liberata da ogni genere di maledizione » (4); e poi siccome è quasi impensabile che l'ultima predica sia durata sì e no quattro - cinque minuti, preferiamo pensare che l'intera quaresima di Tommaso abbia occupato 38 giorni di effettiva predicazione. L'appuntamento con maestro Tommaso sotto il pulpito di S. Domenico Maggiore ebbe inizio il lunedì di settuagesima (6 febbraio 1273), a meno che non si preferisca pensare a un giorno intermedio di pausa.

 

Predicazione dialettale

    Dal biografo Guglielmo di Tocco sappiamo che Tommaso predicò, anche stavolta, in illo suo vulgari natali soli, ossia nella lingua che i d'Aquino parlavano alloro paese e nel territorio della contea. Lì per lì siamo portati a concludere che, in tal caso, doveva trattarsi del dialetto campano; anzi il Mandonnet si arrischia più oltre: per lui c'est le dialecte campanien ou napolitain (5). Ipotesi certo suggestiva quanto, del resto, la scoperta che un genio della portata di maestro Tommaso non avesse potuto sbarazzarsi delle inflessioni dialettali e di un parlare tra i più caratteristici e fioriti della penisola; anche se ciò, prosegue il cronista, dev'essere attribuito «al suo diuturno concentrarsi nella contemplazione».

    La materia è delicata e complessa, sicché possiamo procedere al massimo per induzione, mancandoci una diretta documentazione in materia.

    In primo luogo rammenterò che madonna Teodora, la madre di Tommaso, era una napoletana «verace», ed è sicuramente un fatto che avrà influito come di consueto sui figli. Tommaso ha dunque imparato le prime parole - e le ha balbettate da parte sua ­ in napoletano. Un napoletano però che presto dovette arricchirsi, e deformarsi, nei naturali contatti che legavano al castello gli abitanti di quel feudo che sorgeva nell'antica Terra di Lavoro (6). Ordinariamente, ripeto, si tende a classificare san Tommaso tra i santi meridionali, quando non ne facciamo addirittura un concittadino di sant'Alfonso. Ma occorre precisare che Aquino e Roccasecca si trovano a metà strada tra Roma e Napoli (cento chilometri in linea d'aria dalla prima; ottanta dalla seconda), ad appena una trentina da Frosinone. Il che ci porta in Ciociaria (7). Non intendo con ciò far di Tommaso un romano, e neppure un laziale in senso stretto; vorrei soltanto porre sulla bilancia i vari elementi della questione.

    Teodora gli parla in napoletano; ma se a Cassino i monaci insegnavano nella lingua di Cicerone, è fuori di dubbio che durante le ricreazioni i suoi compagni di collegio, provenienti in gran parte dal basso Lazio e dall'alta Campania (senza escludere il Molise sud-occidentale), avranno riempito i chiostri dell'abbazia d'un pittoresco vociare dalle molte sfumature dialettali.

    In favore della preponderanza del napoletano nel volgare di Tommaso però c'è un altro punto: ricorderemo cioè che egli trascorse gli anni dell’adolescenza a Napoli. Seguì la parentesi tedesca e, soprattutto, francese; Tommaso parla ormai e scrive nel suo «discreto» latino. Dal 1272 è di nuovo a Napoli; e la pittoresca parlata materna - sia pure inframmezzata di locuzioni casertane e forse anche ciociare - si rinfresca in quella memoria già tanto salda e scattante.

    Ciò detto a mo' di premessa e volendo cercar di soddisfare (ma in maniera assai approssimativa) la curiosità di chi tentasse d'immaginarsi al vivo Tommaso sul pulpito di S. Domenico Maggiore, possiamo solo aggiungere che un volgare italiano sufficientemente definito, in quello scorcio del Duecento ancora non esisteva.

    Sarebbe facile citare, poniamo dalla Cronaca di Partenope (8), vasti squarci di volgare due-trecentesco, ma è linguaggio dotto, troppo aulico per la semplicità di fra Tommaso. Tutt'al più egli vi avrà fatto ricorso - cercando di metter assieme qualche periodo alla meno peggio - in circostanze straordinarie, come la volta che, immersosi in contemplazione durante il desinare anche alla presenza di un sovrano (9), dovette formulare le sue umili scuse.

     Sfogliando a caso il codice suddetto, ci troviamo di fronte un volgare pulito, che a prima vista non sapremmo distinguere dal toscano; solo ogni tanto un termine, una preposizione, una sillaba finale, ne denunziano la) matrice campana. A titolo di esempio: dintro, quillo, mastro Nicola, dui, mo', viscovo, maravigliusi, da-llà et da-qqua, celo.

     Di contro va collocato un altro specimen, da una sacra rappresentazione risalente a circa la metà del XIV secolo (10). Qui i dialettismi sono romaneschi o della provincia, e fan pensare all'influsso che, dal nord questa volta, dovettero premere su Tommaso ragazzo, a Montecassino: «[Zaccaria e Anna] della volontà de Dio se contentavano, e ll'uno et l'altro annàvano... Sì chomo t'aio ditto, Elysabetta toa moglie te farrà o figlio...; serrà sanctificato, nanti che jescha del cuorpo, in eterno... So' vecchia ragricciata... Serrà figliolo de Dio e de ti, Maria... Tu, Jovanni piccioliello... Li fideli n'averanno pace; noi judei ne gannarèmo... Alegrèmo e cantèmo... Per lo mondo se ne esbìglia (11) ,questa fama sì verace: jamo tucti in bona pace, Dio Signore noi laudèmo».

    Ora, è precisamente nello stesso periodo in cui nascevano i primi capitoli della Cronaca di Partenope (ossia intorno al 1325) che il giovane Boccaccio prende soggiorno a Napoli con suo padre, banchiere di casa Bardi. Ebbene, avendo egli scritto a un amico una lettera semiseria e tutta in dialetto napoletano (12), ci piace chiudere questa parentesi linguistica citandone alcune espressioni che faranno intendere al lettore non solo la notevolissima somiglianza con la lingua che ancora oggi si parla da Piedi grotta al Vomero, da Spaccanapòli alla Vicarià, ma l'idioma che avrà risonato per anni negli orecchi - assorti quanto si voglia - di fra Tommaso. Un bimbo dunque vi vien descritto come «'no bello figlio màscolo, ca dice la mammàna che tutto s'assomiglia a lo patre...; lo chiù bello purpo ca vidìssivo màie». E sempre scherzando, messer Giovanni conclude: «Figlio mio, va' spìcciate, va: ioca a la scola co' li zitielli».

     La nostra indagine in qualche modo filologica deve arrestarsi qui, e forse continuerà a sfuggirci una chiara risultante. Ognuno potrà determinarla per proprio conto. Il lettore potrà ora - se vuole - da sé dar corpo e, meglio, voce a maestro Tommaso predicante se non in napoletano, almeno in un vernacolo regionale ben accetto e familiare ai fedeli accorsi ad ascoltarlo nella quaresima di S. Domenico Maggiore.

 

Il ricordo dei testimoni

    Tommaso (così lo ricordava chi, durante quella predicazione, non gli staccò lo sguardo di dosso) parla pacatamente, come si addice alla materia e a un predicatore dal fisico massiccio, dal tratto solenne, quasi ieratico. Gli hanno preparato sul pergamo uno sgabello, ed egli parla seduto, con gravità magisteriale facendosi però intendere da ognuno.

    Gli occhi socchiusi o, a tratti, fissi verso l'alto a leggere dentro misteriosi splendori, cominciò a trasmettere, vorremmo dire a rifrangere sui fedeli la luce della verità che salva. La comunica al popolo dopo averla esposta, nelle pagine dei suoi trattati, mediante sottili distinzioni e argomentazioni persuasive, per i dotti.

    Quelle verità di fede, rimaste nascoste ai massimi esponenti del razionalismo d'ogni epoca, acquistavano adesso un'evidenza solare anche per la vecchierella cristiana, abbandonata più che mai durante l'ascolto, alla divina provvidenza.

    Articolo dopo articolo, una pericope appresso all'altra, san Tommaso prese a illustrare le ricchezze teologali ed esistenziali della fede e dei passi scritturistici che la sorreggono, in un linguaggio calibratissimo ma sempre alla portata di tutti.

    Al primo processo informativo, troviamo tra i convenuti il giudice napoletano Giovanni di Biagio: è il testimone che dichiarerà d'aver sentito predicare «per oltre dieci anni» fra Tommaso d'Aquino, e di essere stato suo familiare anche in refettorio e nella cella del santo religioso.

    Può darsi che Giovanni sia stato uno dei minutanti presso fa curia locale? Siccome poi il medesimo giovane seguiva allora i corsi di diritto presso lo Studium retto dai domenicani, può darsi che, dietro compenso, avesse ottenuto di alloggiare nella foresteria del convento? E’ un'ipotesi.

    Sta di fatto che Giovanni di Biagio forse poté occupare davvero uno dei posti in fondo al grande refettorio, e probabilmente non avrà disertato quelle istruzioni capitolari che, ordinariamente riservate ai religiosi e tenute dal priore, talvolta possono essere state demandate al dotto e buon fra Tommaso, incapace di negarsi (13).

    Deponendo in qualità di testimoni sulla vita di lui, Giovanni di Biagio, Pietro Branca e Giovanni Coppa - cinquant'anni avanti, rispettivamente, uno studente in diritto, un militare e un salariato del convento - pur trovandosi concordi nell'attestare le virtù di fra Tommaso non sono altrettanto uniformi circa gli argomenti trattati da lui in quella lontana quaresima del '73.

    Ci può essere stata una più o meno conscia amplificatio veritatis, ma in ogni caso ciò non sembra aver deformato la sostanza dei ricordi poiché altre testimonianze collaterali intervengono a ricomporre l'equilibrio. Mentre cioè da un lato il giudice ricorda d'aver ascoltato Tommaso predicare sull'«Ave» per l'intera quaresima, gli ultimi due rammentano (senza però escludere positivamente l'affermazione suddetta) una inconsueta serie di sermoni quaresimali sul tema del «Padre nostro». Non ci pare che la contraddizione sia radicale. Volendo citare altri esempi del genere, in cui la verità si restaura nell'apporto integrativo di passi paralleli, basterà richiamarci al passo dell'evangelista Matteo (14): «Beffeggiavano [Gesù] anche i ladroni che erano stati crocifissi con lui», mentre sappiamo da Luca, con ricchezza di particolari, che gli insulti provennero soltanto da parte di «uno dei ladroni» (15).

    Ciò che conta, agli effetti del valore testimoniai e, è la piena concordanza nell'attestare che san Tommaso predicò, l'anno 1273, argomenti peculiarmente catechetici. «Per dei giovani laici, sentire un lungo commento sulle preghiere che meglio conoscevano e che recitavano o sentivano recitare più spesso, doveva impressionarli più delle spiegazioni del «Simbolo» e del «Decalogo», con cui avevano minor dimestichezza» (16).

    L'attenzione di fronte al primo gruppo di prediche dev'essere stata sufficientemente vigile, per smorzarsi magari verso il termine della seconda settimana. Frequentare una quaresima predicata è quasi sempre impresa per certi versi eroica, al tempo della giovinezza... Ecco però in cartello un tema meno fuor del comune, ecco le dieci istruzioni sul Pater, e possiamo immaginare che l'applicazione mentale, cordiale, dei giovani uditori si sia fatta di bel nuovo solerte, da non perderne una parola.

    I trentadue sermoni dedicati al commento dei dieci comandamenti li avranno interessati a intervalli, specie quando fra Tommaso scende a una casistica che sembra riguardare da vicino la loro vita, goliardica e militare. I nostri amici, dall'aldilà, ci vorranno perdonare se ipotizziamo oltre a quanto detto fin qui, anche talune eventuali assenze a quella terza fase. Tuttavia non mancarono agli incontri conclusivi: e di nuovo qualcosa si imprime a fondo nella loro memoria. Alla concisa ma densa predicazione mariologica che prendeva lo spunto dall'«Ave», col passar degli anni (e ne passarono una cinquantina) dovettero associarsi tutti gli altri riferimenti a Maria, che noi stessi troveremo disseminati in questo volume (17). Il ricordo di quell'«Ave», così magistralmente analizzata, non perse la sua posizione di rilievo nelle ricordanze del giudice, sovrastando altri particolari.

    Potrà far meraviglia infine che, dopo aver dedicato cinquantasette sermoni all'interpretazione dell'insieme di verità che costituiscono per il cristiano l'economia della salvezza soprannaturale, Tommaso abbia sentito il bisogno di dedicare una o due prediche sul saluto dell'angelo a Maria. Un tale stupore non sarebbe giustificato appena si rifletta che il Duecento è il secolo dell'Avemmaria, che fin dai primi decenni diventa preghiera universale nel mondo cristiano, subito dopo quella rivolta al Padre.

    Il commento all'«Ave» costituisce la chiusa, non tanto logicamente quanto devozionalmente necessaria da parte di questo domenicano, devoto della Madonna al punto da cominciare le pagine dei suoi manoscritti con un attestato di affetto per lei: Ave, Maria (vedi gli autografi della Summa contra gentiles). Se la Expositio in salutationem angelicam non ci fosse pervenuta attraverso la documentazione scritta, ne avremmo potuto supporre lo stesso, quasi necessariamente, l'esistenza (18).

 

Una nuova catechesi per adulti  

    Napoli faceva ressa attorno al pulpito di fra Tommaso d'Aquino, attrattovi dalla fama della sua santità e della eccezionale dottrina.

    Egli partiva dalla convinzione che il Credo rappresenti il compendio delle Scritture sante, la sintesi della rivelazione, cui deve rifarsi la fede di ciascuno, dal teologo al semplice fedele. Le verità contenute nelle pagine della Bibbia sono però, assai spesso, avviluppate in un contesto ampiamente discorsivo, né sempre facilmente agevoli ad intendersi. Ecco dunque - spiegava maestro Tommaso - l'esigenza di raccogliere assieme i vari articoli in un «simbolo» (19) onde le parti siano intimamente, connesse tra loro; e laddove risultino più ardue e inevidenti, esse sono sottolineate da uno stacco. L'articolo della passione e sepoltura di Cristo è distinto da quello circa la sua resurrezione, essendo diverse le ragioni che ci conducono ad accettare la morte del Dio incarnato, da quelle che fan da sostegno al suo risorgere (20).

    Comincia a profilarsi negli uditori l'ariosa e solida architettura del Credo: dai praeambula fidei (21) alle verità trascendenti che si incentrano sulla grandezza di Dio, dall'unità e trinità delle divine Persone alle operazioni «appropriate» a ciascuna di esse, quali la creazione e l'azione molteplice della grazia santificante.

    Riguardo all'umanità del Cristo, passa in rassegna il concepimento e la sua nascita dalla beata Vergine; la passione, la morte, la sepoltura; la discesa agli inferi, la risurrezione, l'ascensione al cielo e l'attesa del suo ritorno in qualità di giudice universale. Lo spirito Santo, la Chiesa, i sacramenti, le prospettive escatologiche... Un affresco possente, che i cristiani convenuti al quaresimale ammiravano con un senso di tremore e di rinnovata responsabilità.

    Con l'inizio delle prediche sul Pater il discorso si fèce ancor più familiare; l'attenzione dei presenti si acuì nella quotidiana scoperta di tanti e insospettati tesori dentro quelle formule abituali e un tantino strapazzate.

    Dal tempo della catastrofe compiutasi nel giardino dell'Eden l'umanità non pregava, oppure schiudeva le labbra solo dinanzi a un idolo o per invocare i demoni. Ed ecco il Cristo insegnarci il segreto della preghiera autentica, restituire all'uomo il diritto alla speranza, la gioia che solo un orfano cui venga concesso di riabbracciare il Padre può comprendere, la tranquillità di aver trovato nel Cristo medesimo un maestro e un intercessore impareggiabile.

    Eppure, senza la parola di commento del santo teologo, la stessa preghiera al Padre difficilmente sarebbe intesa, da noi, oggi, come modello perfetto di prece fiduciosa, moderata e regolata nelle sue aspirazioni, fervente e umile, cui anela forse senza saperlo il cuore umano.

    La terza serie di sermoni si presentò interessante per un altro verso: era il commento al codice più infranto ma anche più sentito come vero e obbligante, nel fondo delle coscienze. Tommaso ebbe modo così di toccare un'infinità di concrete situazioni e di scendere a conclusioni pratiche d'ordine morale o rituale, indispensabili per dare all'umanità - come è nei disegni di Dio - il volto di una società ordinata dall'alto verso fini supremi.

    Eccolo, perciò, prendere in esame tanto i precetti che ognuno percepisce intuitivamente come dovere anche solo alla luce della pura ragione naturale, quanto gli altri comandamenti che necessitano di più sottile indagine sapienziale, e soprattutto quelli che l'uomo conosce attraverso l'insegnamento del Dio rivelante.

    Fedeltà, rispetto, servizio nei confronti del legislatore che provvede all'umana collettività sono espressi dall'osservanza dei primi tre comandamenti («Non avrai un altro Dio», «Non nominare il nome di Dio invano», «Ricordati di santificare la festa»).

    Seguono i doveri generali e quelli speciali, che ciascuno di noi ha verso il prossimo: l'obbligo della riconoscenza riguardo ai benefattori, riassunto nell'emblematico «Onora il padre e la madre»; l'obbligo di non danneggiare i nostri simili attentando all'incolumità altrui, oltre che alla propria («Non uccidere»), strumentalizzando la verità («Non dire falsa testimonianza»), o insidiando la persona legata a un uomo dal vincolo dell'amore fisico-spirituale e dalla funzione responsabile di propagare la prole («Non commettere adulterio», «Non desiderare la donna d'altri»); l'obbligo, finalmente, di rispettare i beni temporali che non ci appartengono («Non rubare», «Non desiderare la roba altrui»).

    Nei precetti della legge divina è racchiusa la massima sapienza, trasparente anche nell'ordine esatto in cui essi si raccordano, poiché è proprio del sapiente disporre le cose nel debito ordine e nella maniera più congrua possibile.

    Esponendo i vari comandamenti dell'antica legislazione, Tommaso non trascura di indicarne il nesso coi precetti della legge evangelica. Tutto si ricapitola in Cristo, e in lui tutto acquista nuovo valore dalla libertà e dall'amore dei figli d'adozione.

    Era persuaso inoltre che se la solenne proclamazione della Parola spettava al diacono, e al sacerdote del medioevo la predicazione kerigmatica (una forma elementare di catechesi al popolo), apparteneva al vescovo e ai fratres praedicatores, che lo affiancano nel ministero pastorale, la predicazione omiletica, essenzialmente dottrinale.

    Perciò, chiunque salga il pulpito, dovrà essersi dedicato allo studio e alla contemplazione delle verità salvifiche. San Tommaso nutriva ammirazione per quelle figure che, nella storia della salvezza e della Chiesa, potevano esser paragonate alla lucerna che arde illuminando la notte. Di Giovanni il precursore, fra Tommaso aveva scritto: «Il suo animo, i suoi sentimenti erano infocati; emanava fervore all'intorno... Taluni sono invece lucerne solamente in quanto occupano un determinato posto nella Chiesa, in quanto fu assegnato loro un particolare officio; ma in fatto di intima partecipazione [all'impegno apostolico] sono lucerne spente. Non hanno in sé il fuoco della carità. Una fonte di calore infatti, se c'è, la si avverte ancora prima di individuarla localmente; così l'uomo che possiede la verità, viene segnalato dal fervore delle opere, innanzi che cominci a parlare.

    Una fiamma riscalda e splende... Giovanni possedeva la luce, essendo stato illuminato nel contatto col Cristo, e poi la diffondeva a gran voce, confermandola infine con la rettitudine della vita.

    Il predicatore della Parola deve possedere tre requisiti: “esser cioè fedele al messaggio di verità che ha ricevuto, chiaro nell'esposizione della medesima, consapevole di essere stato chiamato al servizio di Dio, per cui eviterà di finalizzare il suo ministero in vista di vantaggi personali” (22).

    Neppure quei tempi difettavano di predicatori astrusi nel linguaggio o per le scelte degli argomenti. S. Tommaso, al contrario, lasciati da parte i preziosismi e le tematiche peregrine, si attenne per tutta la quaresima 1273 ai pilastri della fede e della devozione cristiana.

 

Sentire cum Ecclesia

    Difficilmente si potrebbe sospettare che un testo poco esteso, quale quello della predica sull'«Ave», potesse obbligarci a un'ultima sosta, dopo quella occasionata dalla famosa deposizione di Giovanni di Biagio. L'importanza dottrinale è adesso, senza paragone, assai maggiore. Il testo (relativo al modo e al momento in cui la santa Vergine fu santificata) si trova a p. 268-69, nota 24, e preghiamo il lettore di integrarlo con quanto andremo qui esponendo.

    Orbene, attraverso la consultazione accurata di 19 manoscritti - pienamente accreditata dal Mandonnet - pare possibile ricondurre il testo alla sua autenticità: e il medesimo, dunque, andrebbe letto così: «[Maria] fu purissima sia quanto alla minima colpa, giacché non conobbe il peccato d'origine e non commise alcun peccato, né mortale né veniale; sia quanto alla pena». L'importanza di una simile ricostruzione, in favore della quale interviene il peso di autorevoli teologi, da Norberto del Prado al Palmieri, al Reiser, al Garrigou-Lagrange, a G.P. Rossi (23), non ha bisogno di esser da noi sottolineata.

    Si può a questo punto parlare di un progresso, di un vero e proprio ripensamento nel pensiero mariano del santo dottore? Ha mai inteso egli negare a Maria, positivamente e inequivocabilmente, il privilegio dell'immacolato concepimento o non piuttosto, anche nei testi più controversi (lasciando cioè per ora da parte le affermazioni che potrebbero sonare risolutive, dello stesso Tommaso) egli si rivela preoccupato di nulla togliere all'affermazione paolina, incontestabile, secondo cui «Cristo è il salvatore di tutti» (24)? Nella Summa theologica ragiona a questo modo: la santità della beata Vergine non si può pensare anteriore alla sua animazione. Primo perché la santificazione di cui parliamo è la purificazione dal peccato originale, ma la colpa si può mondare solo mediante la grazia, che può esser recepita esclusivamente da una creatura razionale. E poi, sempre considerandola prima dell'infusione dell'anima, la prole concepita non è suscettibile di colpa. Sicché, se fosse stata santificata allora, ossia avanti che possedesse un' entità come persona umana attraverso la recezione di una propria anima, Maria non avrebbe contratto il debito comune al resto degli uomini, né avrebbe avuto bisogno della redenzione e della salvezza. Dunque, non rimane che porre tale santificazione di Maria dopo la sua animazione (25).

    Vediamo d'intenderei meglio, riducendo per il lettore meno preparato la complessa questione in termini accessibili. Visto nel contesto storico e dottrinale, ogni passo che Tommaso ci ha lasciato in proposito (anche se non sempre in maniera esplicita) è ordinato a porre in risalto l'opera del Cristo redentore. Se l'anima della beata Vergine non fosse stata destinata al contagio del péccato d'origine, Cristo perderebbe la prerogativa di essere il salvatore di tutti, l'unico che non abbia avuto bisogno di essere salvato.

    Talvolta l'espressione suona rude e, a prima vista, tale da escludere riserve o incertezze, come nel caso: «La beata Vergine contrasse il peccato originale, da cui però fu mondata prima della sua nascita» (26). Ma prendere in considerazione l'ipotesi del peccato quale infezione non già effettivamente contratta bensì da cui non parrebbe possibile scampare, non offusca minimamente la persona di Maria: essa, infatti, al pari di tutti noi, discendendo per via di generazione da altri figli di Eva, nell'atto di esistere in quanto persona avrebbe dovuto contrarre il debitum culpae, cui l'umanità era condannata. Una ineluttabilità riguardante ciascun membro della stirpe umana (escluso Cristo), tranne il caso che non intervenga un qualche speciale privilegio, capace di esplicare un effetto liberatore.

    Si badi, non un privilegio qualunque. Il « Precursore» (Giovanni) fu santificato anch'egli nel grembo materno, ma tre mesi dopo essere stato concepito: Maria, l'unica - l'Immacolata Concezione come la proclama solennemente la Chiesa cattolica -, fruì del beneficio di una redenzione preveniente.

    L'Angelico non adoperò mai, e neppure conobbe la formula a noi tanto familiare, di un intervento divino «in previsione dei meriti di Cristo»; tuttavia, fin dagli inizi della sua carriera di teologo, Tommaso sembrò nutrire nell'intimo un identico convincimento.

    Nel primo libro del suo commentario alle quattro Sentenze di Pietro Lombardo, il giovane professore aveva scritto: «La beata Vergine fu di tale immacolatezza da autorizzarci a sostenere la sua immunità tanto dal peccato d'origine, quanto da quello attuale» (27). Posizione esplicita e netta, uscita dalla penna di maestro Tommaso allo stesso modo di altre, opposte diametralmente ma solo all’apparenza, che egli ebbe il coraggio di fare in ossequio alla dottrina ufficiale e a un'equanime indagine teologica. Sino al rischio di venir frainteso.

    La sua mente vigile dovette accorgersi presto, o addirittura subito, che un'affermazione tanto inconsueta avrebbe potuto condurre altri teologi a illazioni inaccettabili, almeno entro il contesto della mariologia di quell'epoca. Non sarebbe parso, allora, che Maria fosse l'unica creatura a non beneficiare della redenzione che sappiamo di portata universale - operata dal Figlio? E secondo quale modalità la Vergine poteva essere stata oggetto di santificazione prima del concepimento?

     San Tommaso sembra perciò preferire, per quanto possibile, nelle dispute e negli scritti più sistematici, l'astenersi da un pronunciamento - in un senso o nell'altro - di fronte all'interrogativo sul «quando» preciso Maria fu santificata. Se è costretto a farlo, e lo si vedrà nel testo seguente, si esprime in modo da riferire più l'opinione corrente che una personale convinzione: «Si ritiene che Maria sia stata santificata ‘cito post conceptionem et animae infusionem’» (28). Il suo creditur espone una sentenza accettata da molti. Il che corrispondeva a verità, per la maggioranza dei teologi fino al secolo XIII.

    Tommaso proseguì la sua quieta meditazione; quieta e sofferta, per l'alternarsi forse ora dell'una, ora dell'altra prospettiva e delle rispettive implicazioni. Serbò nitida la percezione di aver visto chiaro fin dall'inizio? Prudente, con quel senso della misura che lo contraddistingue, preferì sacrificarsi in materia tanto delicata alla tradizione e all'atteggiamento pratico della Chiesa che non celebrava la festa dell'Immacolata? (29) E cosa sicura che fino a quel momento lo Spirito Santo non aveva inondato di luce un segreto così arcano. E Tommaso sembra custodire dentro di sé, per se stesso e nel corso di lunghi anni, il convincimento. Ne nutre una silente devozione. Fino a che, giunto al termine della parabola terrena, qualcosa o Qualcuno pare sospingerlo a ribadire daccapo la primitiva, silenziosa certezza che accuratamente aveva voluto disgiungere dal suo profondo sentire cum Ecclesia.

    Sotto le nuove formule riaffiora la certezza personale che Maria non soggiacque all'influsso del peccato d'origine (anche se, cosa ben diversa, ella doveva esser considerata inclusa nell'ambito, universale come il genere umano, dei discendenti da una coppia di progenitori moralmente falliti, che avevano riversato sull'intera stirpe le conseguenze di un debitum da saldare). Maria, possiamo ben affermarlo in quest'ordine di idee, ebbe bisogno d'essere redenta: è questo il significato vero dell'opera redentrice di Cristo, che santificò sua Madre nell'istante in cui essa veniva concepita. Maestro Tommaso optava per un sincrono confluire dell'anima (cui - in linea di principio - necessitava la grazia santificante) e della grazia stessa? Desideriamo confortare una simile tesi - sostanzialmente immacolatista - non cedendo a pregiudiziali antistoriche quantunque in buona fede, ma limitandoci a riportare gli ultimi testi di Tommaso, a poco più di un anno dalla sua morte. È in questa direzione che vogliono condurci i suoi dettati estremi?

    Si apra il Compendium theologiae (1272-73), e vi troveremo: «[Maria] fu resa immune non solo dal peccato attuale ma anche da quello originale, 'in forza di uno speciale privilegio'»(30). In questo termine, immunis, c'è solo la liberazione «cito post [conceptionem et animae infusionem] »(31) ­ e in tal caso come spiegare l'immunità sostenuta nel commento a Pietro Lombardo? - (32) o non piuttosto il senso plenario di un aggettivo che, in latino ancora più che nella nostra lingua, quando venga usato in forma assoluta importa esenzione, privilegio, immunità da tutto ciò che contamina, e quindi immacolatezza? Il «cito post» di Tommaso ha proprio ed esclusivamente valore temporale? È lecito cioè, alla luce di quanto detto fin qui e di quanto stiamo per aggiungere, eliminare dal «cito post» ogni concomitanza d'ordine divino-intenzionale tra animazione del feto e santificazione immunizzante? Il privilegio soltanto allora sarebbe davvero singolare, facendo della sanctificatio in utero l'estinzione del debito nell'istante medesimo in cui i meriti di Cristo compiono, su colei che diverrà sua madre, il primo effetto redentivo.

     La priorità temporale dell'infusione dell'anima (necessaria certo a costituire nel grembo materno quel nuovo essere) non è forse compatibile con una arcana co-priorità salvifica, in simultaneo concorso? Un interrogativo che viene ad aggiungersi agli altri della vexata quaestio.

     Prendiamo, infine, l'incompiuto commento di Tommaso al salterio (tra l'ottobre 1272 e il 6 dicembre successivo egli aveva commentato cinquantaquattro salmi) dove, nell'esegesi del salmo 14 abbiamo, testualmente: «In Cristo e nella Vergine Maria non vi fu, assolutamente, la minima ombra di peccato» (33). O neghiamo l'autenticità del testo (e non è lecito almeno finora), oppure non possiamo pretendere maggior chiarezza: omnino sine macula, può tradursi in una sola maniera: non macchiata, assolutamente incorrotta, tanto da poter essere posta al fianco del Cristo, il Santo, l'intemerato per eccellenza.

     Ma se non bastasse, poche pagine più in là, nell'esporre il salmo 13, Tommaso riprende: «Dicendo dunque [il salmista]: 'Ha stabilito nel sole la propria dimora' (…) intende affermare che [Cristo] abitò corporalmente nel Sole, ossia nella beata Vergine, la quale non conobbe affatto l'oscurità del peccato: quae nullam habuit obscuritatem peccati».

     Scrivendo che Maria non conobbe affatto («non habuit») oscurità di peccato è cosa ben diversa che se l'Aquinate avesse scritto: «non aveva più (non habebat)» tale oscurità o intorpidimento morale nel momento in cui concepiva il Figlio per virtù dello Spirito Santo. Interessante anche la rigorosa analogia con la formula di un testo agostiniano, citato sovente da san Tommaso: «[Dominus] constat nullum peccatum habuisse: sappiamo, cioè, che il Signore non conobbe assolutamente il peccato».

    In entrambi i casi l'affermazione è svincolata da qualunque limite temporale. Maria, allora, splendette come il sole dall'istante medesimo in cui, concepita e con-santificata, incominciò a essere Maria.

 

Salvati dalla verità 

     La lunghezza delle quattro collactiones varia in un rapporto diretto con le intrinseche difficoltà, dogmatiche e morali.

     Una semplice scorsa basterà poi a mostrare con ogni evidenza che l'ossatura di quest'opera composita è sostanzialmente scritturistica: in queste pagine si possono contare oltre un migliaio di citazioni bibliche.

     In effetti, da testi privi all'apparenza di qualunque difficoltà e magari di peculiare interesse, Tommaso sa isolare tre o quattro termini, e d'incanto ecco ampliarsi l'orizzonte e la portata dell'intero discorso. Il lettore vedrà da sé in quale grado l’Aquinate possedesse l'arte di scegliere una determinata auctoritas (solitamente dalla Scrittura o dalla patristica), per servirsene come punto di appoggio o come connessione dinamica.

     Lo troveremo sempre coerente con la prima regola che egli raccomandava ai confratelli predicatori: la salda adesione alla dottrina certa, onde non deviare dalla verità. Si attiene alla parola rivelata, al dogma e al sensus Ecclesiae, deciso a svolgere il proprio ruolo di fedele interprete e di umile divulgatore. Si ha la sensazione netta che Tommaso cerchi la verità innanzitutto per un'insopprimibile esigenza personale. Egli prova ripugnanza di fronte a ogni sorta di oscurità. Di qui la sua cura nel dividere e suddividere, e il lettore moderno di buon volere finirà per rilevarne l'intrinseco pregio.

    Nell'esporre la sacra pagina, Tommaso si attiene il più possibile al senso letterale, cui farà seguire un giudizioso impiego del significato morale e dei simbolismi tradizionali. Tutto il pensiero cristiano di Tommaso - la sua teologia - si edifica in un sapiente ricorso alla Parola.

    La predicazione viva si avvalora sul pulpito mediante l'uso dei gesti, delle infinite tonalità della voce umana, delle pause e degli stessi silenzi. Così, i passaggi impliciti tra pensiero proprio e citazione biblica, Tommaso li avrà sottolineati con questi accorgimenti tanto naturali quanto allusivi, che tuttavia nessuno stenografo avrebbe potuto mai registrare.

    Per questa ragione e al fine di rendere più agevole la lettura ed espliciti i nessi riguardanti gli innumerevoli riferimenti scritturistici citati da san Tommaso, abbiamo fatto ricorso a dei passaggi, a dei legamenti nostri, nella misura più discreta possibile, sul tipo di «affinché non abbiamo a sentirci dire da Pietro» (e seguono le parole dell'apostolo), o «perché il profeta Amos non abbia a rimproverarci», e via dicendo.

    Nel commentare il «Decalogo», Tommaso sostiene che, per conseguire la salvezza, l'uomo deve conoscere talune nozioni basilari (la «scientia credendorum», la «scientia desiderandorum» e la «scientia operandorum»). Costante, come si vede, il termine scientia: la conoscenza.

    Nelle prediche dedicate al «Padre nostro», poi, illustrava il significato primario del termine «salvezza», quale scampo dai pericoli che attentano al conseguimento di un dato fine. Avendo Dio creato l'uomo in ordine alla vita eterna, ci potremo dire salvi allorché ci troveremo nelle condizioni di ottenere la medesima.

    E sono le buone opere - conclude nell'esegesi del «Credo» ­ quelle che ci conducono alla vita eterna. Ragion per cui ogni cristiano deve conoscere e richiamare costantemente alla memoria queste verità, da cui dipende la salvezza. Esplicito, dunque, il rapporto tra conoscenza della verità rivelata, della salvezza offertaci dal Cristo, e della vita eterna.

    La verità di Dio è l'unica verità che salva.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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