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San Tommaso D'Aquino spiega la Fede della Chiesa (catechismo )

Ultimo Aggiornamento: 19/06/2013 10:55
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19/06/2013 10:09
 
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COMMENTO AL PADRE NOSTRO

 

 

Introduzione

 

    Il Pater è la più perfetta tra le formule di preghiera, avendo tutte e cinque le doti che un'orazione ben fatta dovrebbe possedere.

 

    I. Innanzitutto, essa deve elevarsi fiduciosa, sorretta cioè da un tranquillo abbandono. E' infatti un accedere fidente al trono della divinità, per implorarne le grazie (cf. Eb 4, 16). Deve poggiare su una fede che non conosca esitazioni (cf. Gc l, 16).

    Ebbene, a buon diritto la preghiera del Pater è atta a infondere la massima sicurezza essendo stata composta dal nostro miglior difensore, sapientissimo (cf. Col 2, 3), che sta in veste d'avvocato dinanzi al Padre per placarne l'ira accesa dalle continue trasgressioni: Gesù Cristo, il Giusto (cf. I Gv 2, 1). Nel suo commento al Pater san Cipriano ne deduce che, dovendo noi implorare perdono per le nostre colpe, nulla di meglio possiamo fare che ripetere le parole suggeriteci dal nostro patrono.

    Ancor più sicura la rende il fatto che, a chiedere nella maniera più opportuna, ce l'ha insegnato proprio colui che assieme al Padre esaudisce le preghiere, adempiendo alle parole del salmo: «Griderà, rivolto a me, e io lo esaudirò» (Sal 90, 15). Sempre san Cipriano definisce «amichevole, familiare [alle sue orecchie] e devota» quella preghiera che si rivolge al Signore servendosi delle sue stesse parole. Non è possibile quindi che un uomo termini la preghiera del «Padre nostro» senza riportarne qualche frutto: come minimo ne otterrà - insegna sant'Agostino - la remissione dei peccati veniali.

 

    2. Ogni preghiera, poi, dev'essere onesta, ossia deve chieder qualcosa di conveniente. Il Damasceno (92) la definisce, appunto, «una richiesta che abbia le doti dell'accettabilità». Molto spesso non siamo esauditi proprio perché alle nostre preghiere manca tale elemento condizionante (cf. Gc 4, 3).

    D'altra parte è assai difficile sapere esattamente cosa sia opportuno chiedere e cosa no, dal momento che siamo in difficoltà di fronte alla selezione dei desideri. Ne era consapevole l'Apostolo scrivendo ai romani: «Ignoriamo quel che [in particolare e in un dato momento] ci convenga chiedere» (Rm 8, 26). Ma c'è chi può insegnarcelo, Gesù, cui gli apostoli si eran rivolti: «Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11, 1). Sicché, quanto entra a far parte della preghiera del Cristo, è petizione irreprensibile. Se preghiamo in modo giusto e opportuno qualunque siano le frasi che andiamo dicendo (conclude sant'Agostino), nient'altro esprimiamo con esse di ciò che si trova in questa preghiera del Signore.

 

    3. Ci dev'essere un determinato ordine, nelle richieste come nei desideri che esse esprimono. Prima di tutto dobbiamo anteporre le suppliche che riguardino i beni spirituali, e quelle che si realizzano in cielo a quelle terrene: «Cominciate a cercare il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato per giunta» (Mt 6, 33). Ed è volontà esplicita del Signore, come si rileva chiaramente dalle due sezioni che compongono il Pater.

 

    4. Fervente orazione: la religiosità intensa, difatti, rende gradito a Dio il sacrificio dell'orante, come faceva il salmista: «Invocando il tuo nome alzerò le mie mani: come di midollo e di grasso, sia ripiena l'anima mia» (93).

    Siccome però non di rado la devozione si affievolisce a causa dell'eccessiva lunghezza di una preghiera, il Signore ci ha raccomandato d'evitare le prolissità: «Non ripetete macchinalmente le stesse parole» (Mt 6, 7). E Agostino, in una lettera a Proba, ricorda che «l'orazione non ha bisogno di lunghi discorsi; però non facciamoci scrupolo d'insistere se il fervore ci sostiene». Anche in tema di concisione, il Pater ci è di esempio.

    La devozione è un po' il fervore della carità, sia verso Dio che verso il prossimo; ed entrambi vengono raccomandati nel Pater.

    Convinti che egli ci ama, lo chiamiamo «Padre», mentre la carità che nutriamo per il prossimo vien espressa dall'aggettivo che segue la parola iniziale: «nostro».

 

    5. Infine, la preghiera dev'essere umile poiché Dio «ascolta le suppliche degli umili» (Sal 101, 18), come possiamo rilevare dall'episodio evangelico che ha per protagonisti un fariseo e un pubblicano (cf. Lc 18, 9-14), o nelle parole di Giuditta: «A te, Signore, piacque sempre la preghiera degli umili e dei mansueti» (Gdt, 9, 16).

    L'umiltà ha un posto d'onore nel «Padre nostro», dato che tale virtù può dirsi autentica quando un uomo, riconoscendosi inetto a compiere il bene o [a meritare alcunché) con le proprie forze, si ripromette di conseguire tutto dalla divina potenza.

    Ecco adesso i vantaggi d'una preghiera ben fatta.

    E' rimedio efficace contro i mali, operando la liberazione dal peccato. Davide ne è testimone: «Tu perdonasti l'empietà della mia colpa; perciò ti pregherà ogni fedele» (Sal 31, 5-6). In croce, il rapinatore implorò il perdono e lo ottenne, e in quello stesso giorno fu accolto in paradiso (cf. Lc 23, 43). Il pubblicano, pregando [rettamente], se ne tornò assolto a casa sua (cf. Lc 18, 14).

    Inoltre essa libera dal timore di poter essere ancora [fatalmente] schiavi del peccato, quindi dall'angosce e dalle tribolazioni [che vi son connesse] (94). San Giacomo esorta: «C'è qualcuno tra voi che soffre? Preghi!» (Gc 5, 15). Ed è utile, quale scampo dalle persecuzioni dei nemici. Mentre gli avversari lo calunniano e minacciano di morte, Davide, ad esempio, ricorre alla preghiera (cf. Sal 108, 4).

    E' il mezzo più efficace ad ottenerci le buone cose che desideriamo. Sta scritto, infatti: «Tutto ciò che chiederete nella preghiera, abbiate fede d'ottenerlo e l'otterrete» (Mc 11, 24); che se talvolta non siamo esauditi, questo dipende o perché non abbiamo chiesto con la necessaria insistenza laddove «bisogna pregare sempre, senza stancarsi» (Lc 18, 1), oppure perché non stavamo chiedendo ciò che più conviene alla nostra salvezza. Osserva in proposito sant'Agostino: «Il Signore è buono a non dare, spesso, quel che vorremmo, concedendoci in cambio ciò che più dovrebbe starci a cuore». Lo si può dedurre [anche] dal caso di Paolo che, pur avendo implorato in tre diverse circostanze la liberazione dal tormento che l'affliggeva nel corpo, non venne esaudito (95).

    La preghiera, infine, ci rende familiari a Dio, e con maggior confidenza potremo ripetere: «Salga come incenso, Signore, la mia preghiera fino a te» (Sal 140, 2).

 

Padre nostro

 

    Vanno fatte qui due considerazioni: Dio ci è «Padre» per diversi motivi. Quali, allora, i nostri doveri di figli?

    Egli è nostro Padre perché ha riservato a noi la singolare attenzione di crearci a propria immagine e somiglianza, cosa che non concesse alle creature inferiori. Ce lo rammenta la Scrittura: «Non è lui il tuo Padre, che ti ha fatto esistere creandoti?» (Dt 32, 6).

    Anche per il modo di governarci, egli agisce come un padre: non lo fa quasi ci considerasse suoi servi, bensì padroni [delle nostre scelte]. La sua provvidenza guida verso un fine tutte le cose, ma s'interessa di noi con molta delicatezza (cf. Sap 14, 3; 12, 18).

    Si dimostrò Padre, ancora, nell'adottarci. Quel che elargisce alle restanti creature sembrano, in confronto, dei regalucci: per noi -figli ed eredi - c'è l'eredità [del suo regno] (cf. Rm 8, 17). Possiamo quindi chiamarlo «Abba, Padre!» (Rm 8, 15).

    Ne conseguono alcuni doveri, da parte nostra.

 

    I. Onorarlo. Pose egli stesso tale quesito al suo popolo: «Se io sono il Padre, dov'è l'onore che mi spetta?» (Ml 1, 6). Onorarlo con la lode devota in quanto Dio («Chi offre il sacrificio della lode mi onora» (Sal 49, 23), mediante parole che sgorghino dall'intimo, non semplicemente con le labbra (cf. Is 29, 13) e conservandoci anche fisicamente irreprensibili (cf. I Cor 6, 26) nonché imparziali nel giudicare il prossimo, come esige l'equità divina (cf. Sal 98, 4).

 

    2. Dobbiamo poi imitarlo, come si segue l'esempio paterno. E' il gran desiderio di Dio: d'essere riconosciuto Padre e di non vedersi continuamente abbandonato dai figli d'elezione (cf. Ger 3, 19).

    Ricalcando i suoi esempi, dobbiamo «camminare nell'amore» (Ef 5, 1) con sincerità d'affetto, ed essere concretamente misericordiosi (cf. Lc 6, 36), cercando in tutto la perfezione: «Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre che sta nei cieli» (Mt 5, 48).

 

    3. Fare quanto ci ordina. «Se siamo ubbidienti ai nostri padri terreni, non saremo ancor più sottomessi al Padre [creatore] degli spiriti?» (96). Prima di tutto gli ubbidiremo perché egli è il Signore. Diremo anche noi, con Mosè: «Tutto ciò che il Signore ci ha ordinato lo eseguiremo, ubbidienti» (Es 27, 4).

    Poi per l'esempio datoci dal Figlio [unigenito], ubbidiente al Padre sino alla morte in croce (cf. Fil 2, 8). E non va trascurato il vantaggio che ne deriva, sì che potremo ripetere [partecipando a tanti beni soprannaturali]: «Danzerò davanti al mio Signore, che mi ha eletto» (2 Sam 6, 21).

 

    4. Accettare, infine, pazientemente, i castighi che avremo meritato. «Figlio mio - dice l'autore dei Proverbi - non disprezzare la disciplina di Jahvè e non scoraggiarti quando da lui sei castigato, perché Dio corregge chi ama e in esso pone il proprio affetto, come un padre nel suo figliolo» (Prv 3, 11-12).

 

    Nostro. Quest'aggettivo riassume i doveri che abbiamo verso il prossimo: amore e rispetto. Amore in quanto, essendo loro come noi figli di Dio, sono nostri fratelli (cf. I Gv 4, 20). «Non abbiamo forse un Padre unico, noi tutti? Non ci ha creati un unico Dio? E allora perché ci comportiamo con reciproca perfidia? » (Ml 2, 10). E alla voce del profeta si aggiunge quest'altra, dell'Apostolo: «Amatevi con vicendevole fraternità» (Rm 12, 10), facendo a gara nel mutuo rispetto; che è dovuto a tutti i figli di Dio.

    Non piccolo sarà il frutto, dal momento che Cristo è divenuto, per chi adempie ai suoi precetti, «causa di salvezza eterna» (Eb 5, 9).

 

 

Che sei nei cieli

 

    La fiducia occupa un posto eminente tra i requisiti di chi voglia ben pregare, affinché il suo risulti un chiedere «senza ombra di perplessità» (Gc I, 6). Perciò, volendo insegnarci la preghiera perfetta, il Signore comincia da quei motivi che possono generare la fiducia, e cioè la benignità del Padre, e il suo illimitato potere. [Parlando alla folla, Gesù diceva:] «Se voi, che pure siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, guanto più saprà darle il Padre celeste a chi gliele chiede?» (Lc 11, 13). E questo «Padre», se sta «nei cieli», avrà di certo una grandissima potenza (cf. Sal 122, 1).

    Sono varie le considerazioni che possiamo fare sull'espressione «che sei nei cieli».

 

    I. E' un pensiero che dispone l'anima alla preghiera, secondo l'invito dell'Ecclesiastico (cf. Sir 18, 23), e che suggerisce all'orante l'idea della gloria in cui abita la divinità.

    La nostra preparazione alla preghiera deve prender l'avvio dalla coscienza di ciò che in noi stessi abbiamo di originario del cielo [cioè l'impronta di Dio nel nostro spirito]; come infatti portiamo in noi la natura dell'Adamo terreno, così dobbiamo riprodurre, imitandolo, l'immagine di quello celeste (cf. I Cor 15, 49).

    La meditazione delle realtà soprannaturali [ci dispone ancor meglio]; tutti noi torniamo frequentemente col pensiero dove stanno i nostri genitori e altre persone care («Dov'è il tuo tesoro, lì c'è pure il tuo cuore») (Mt 6, 21).

    I nostri desideri, infine, rivolti al cielo, chiederanno dal Padre che vi abita, di preferenza «le cose di lassù» (Col 3, l).

 

     2. «Che sei nei cieli» può anche, riferito al Padre comune, indicare la compiacenza con cui egli ci ascolta: egli che ci è accanto [oltretutto] per la sua inabitazione nelle anime in grazia. «Tu, o Signore, abiti in noi» (Ger 14, 5), esclama il profeta, mentre quei «cieli che narrano la gloria di Dio» di cui parla l'autore di un salmo possono esser presi, qui, in senso figurato: i santi, cioè, testimoni della bontà e maestà divina (cf. Sal 18, 1).

    Dio abita nel giusto mediante la fede di costui (cf. Ef 3, 17), mediante la carità (cf. Gv 4, 18) e l'osservanza dei comandamenti (cf. Gv 14, 23).

 

    3. L'espressione «che sei nei cieli» può, infine, richiamare alla nostra mente la potenza di colui che ci ascolta. Prendendo i «cieli» nella loro realtà fisica (ma non certo nel senso che questi riescano a delimitare l'Essere infinito (cf. I Re 8, 27)), affiora l'immagine del Dio dalla vista acutissima, propria di chi può considerare le cose da molto in alto: onnisciente, oltre che onnipotente ed eterno (97). Aristotele medesimo rileva come, per l'immutabilità (98), tutti gli uomini hanno indicato il cielo quale sede degli esseri spirituali.

    Così, le parole «che sei nei cieli», ci infondono una fiducia [più salda] nell'atto del pregare. Infatti un Padre che abita nei cieli ci ispira confidenza in virtù del suo potere e della bontà con cui esaudirà ogni conveniente desiderio.

    La potenza dell'Essere cui rivolgiamo le preghiere è adombrata nel testo di Geremia: «Non riempio forse, io, il cielo e la terra? » dice Jahvè (Ger 23, 24). Sapere che egli pervade gli spazi stellari dà la sensazione della divina maestà, di una sublime natura. Diviene così inattendibile la tesi di quanti sostengono che tutto accada per fatalità di un destino governato dagli astri: in tal caso, sarebbe perfettamente inutile rivolgere a Dio una qualunque preghiera. Ma pensarla a questo modo è da stolti, proprio perché Dio sta nei cieli precisamente in qualità di signore degli spazi celesti e dei corpi astrali (cf. Sal 102, 19).

    Altro errore è quello di coloro che non riescono a pregare senza fare ricorso a immaginazioni sensibili della divinità; ebbene, affermando che Dio «è nei cieli», ossia al di sopra della creazione terrestre, la preghiera del Pater rivela la natura sublime di un Dio che trascende qualunque altra realtà, compresi i pensieri e i desideri degli uomini. Qualsiasi cosa riescano a concepire il cuore o la mente umana, sarà sempre al di sotto della sublime realtà che è Dio. Giobbe ne era convinto: «Ecco, Dio è grande e sorpassa la nostra intelligenza» (Gb 36, 26), mentre un salmo lo chiama «eccelso sopra tutta l'umanità» (Sal 112, 4).

    Anche la familiarità di Dio [verso gli uomini] è messa qui in risalto, se vogliamo intendere per «cieli» le anime dei giusti. Avendo insegnato taluni che Dio, a motivo della propria trascendenza, non potrebbe abbassarsi per prendersi cura delle vicende umane, [mediante questa interpretazione mistica ma fondata] egli stesso ci rassicura che ci è vicino, anzi è intimo nostro! È nei cieli, negli uomini cioè santificati dalla grazia (99).

    La fiducia dell'uomo in preghiera se ne avvantaggia per due ragioni: sappiamo infatti che «il Signore è vicino a quanti lo invocano» (Sal 144, 18); e addirittura, raccomandando di raccoglierci in orazione dentro la stanza più segreta, il Signore allude alla possibilità di incontrarlo nell'intimità del cuore (cf. Mt 6, 6).

    Inoltre, siamo incoraggiati a pregare fiduciosamente sapendo che potremo ottenere quanto desiderato grazie al patrocinio di altri, davvero santi, nei quali Dio inabita familiarmente (100).

    Ulteriore capacità impetratoria acquista la preghiera se diamo al termine «cieli» - in cui Dio abita - il significato di beni spirituali, eterni, nei quali consiste la nostra felicità. Per due motivi. Le aspirazioni umane tenderanno così verso l'alto, dove sappiamo di avere un Padre e la sua eredità. San Paolo ci esorta in tal senso a ricercare «le cose di lassù» (Ef 3, 1) e l'apostolo Pietro benedice Dio, «Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il quale, conforme alla sua grande misericordia, ci ha rigenerati (...) ordinandoci al godimento di un'eredità incorruttibile, immacolata e inalterabile, riservata per voi nei cieli» (I Pt I, 4).

    L'umana esistenza vien così sollecitata a rendersi degna del cielo e del Padre che sta nei cieli (cf. 1 Cor 15, 48).

    Desideri elevati e vita di perfezione rendono l'uomo in preghiera degno d'essere esaudito. La supplica non resterà senza risposta.

 

 

Sia santificato il tuo nome

 

    E' la prima delle sette domande rivolte al Padre, ed esprime il nostro desiderio di poter conoscere [e far conoscere] in una luce sempre più chiara il nome di Dio.

    Nome meraviglioso, capace di operare meraviglie, fino a mettere in fuga gli spiriti del male (cf. Mc 16, 17).

    Nome amabile, dato che «non esiste nel creato un altro nome dal quale gli uomini possano attendersi la salvezza» (At 4, 12): e salvarsi è desiderio universale. In sant'Ignazio martire (101) trovi uno splendido esempio d'amore per il nome di Cristo. Invitato dall'imperatore Traiano a rinnegarlo, rispose che nessuno sarebbe riuscito nell'intento, neppure se (come l'imperatore minacciava di fare) gli avessero mozzato il capo. «Potresti sigillarmi le labbra, senza togliermi nondimeno Cristo dal cuore; lo porto scolpito in me: quindi l'invocazione al Cristo è incessante». Desiderando di verificare quanto aveva sentito, fattolo decapitare, Traiano comandò che gli strappassero il cuore. E ognuno poté vedere che Ignazio recava davvero in sé, scritto a lettere d'oro, il nome di Cristo.

    Nome degno di venerazione, a tal punto che «ogni ginocchio in cielo, in terra e nell'inferno si dovrà piegare nel sentirlo» (Fil 2, 9-10). In cielo, gli angeli e i beati; qui in terra, dove gli uomini adorano il Cristo mossi dal desiderio di conseguire la beatitudine [eterna] o, quanto meno, dal timore di esser condannati; nell'inferno, i reprobi che vedono nel Cristo giudice l'autore della divina giustizia (102).

    Nome che nessuno potrà mai pienamente interpretare a fondo, neppure gli angeli. Si ricorre perciò a delle metafore. Così viene detto pietra per indicare la stabilità su cui, ad esempio, si sostiene la Chiesa (cf. Mt 16, 18). Oppure lo paragoniamo al fuoco, nel senso che come la fiamma separa le scorie dal metallo, così Dio purifica il cuore dei peccatori. Leggiamo nel Deuteronomio: «Il Signore, tuo Dio, è simile a un fuoco divoratore» (103). A volte è chiamato luce. Il nome divino è infatti capace di rischiarare le tenebre dell'umano intelletto. Toccante l'invocazione [né resterà senza risposta]: «Dio mio, illumina le mie tenebre!» (Sal 17, 29).

    Noi stessi [ripetendo «sia santificato il tuo nome»] chiediamo che il nome di Dio [Padre] sia noto, a tutti e, quindi, tenuto nella venerazione dovuta alle sacre realtà.

    Santo può prendersi secondo vari significati [e tutti convengono al nome di Dio].

    I. E' santo ciò che è stato sancito, dichiarato inviolabile (104). In tal senso, i beati del cielo, confermati nell'eterna beatitudine son detti per questo motivo santi. Quaggiù, soggetti come siamo all'instabilità terrena, nessuno può esser detto santo. Lo riconosceva Agostino, scrivendo: «Son andato alla deriva, Signore, lontano da te; troppo spesso ho sbagliato strada, sviandomi dalla via maestra che sei tu, ove avrei potuto procedere con passo sicuro».

 

    2. Santo può equivalere anche a tutto ciò che non è terreno, e nei santi che sono in cielo manca ogni attaccamento ai beni mondani; fin d'ora chi cerca di santificarsi ­ e Paolo, tra gli altri - si priva di tanti vantaggi e prerogative, e le stima come spazzatura pur di guadagnare Cristo con tutti i suoi beni (105). Al contrario, con il nome «terra» [nella Scrittura] vengono designati i peccatori: difatti, come il terreno non coltivato germinerà soltanto spine e triboli (cf. Gn 3, 18), l'anima dell'empio - finché non sia lavorata dalla grazia ­ altro non produrrà che tormenti e acuti rimorsi. Di più, come la terra è scura e non si lascia attraversare dalla luce, l'anima in peccato è ottenebrata e resiste all'opera della grazia. E' infine un elemento asciutto, tendente a polverizzarsi se l'umidità dell'acqua non le dia compattezza. Altrettanto può dirsi del peccatore: la sua anima sembra essersi fatta arida e assetata. Ne fece Davide l'esperienza: «Dinanzi a te, l'anima mia è come il deserto che ha sete di pioggia» (Sal 142, 6).

 

    3. Una terza etimologia della parola 'santo' la farebbe risalire a: tinto nel sangue (106). Si applica in particolare ai santi che sono in paradiso, dei quali l'Apocalisse dice: «Costoro hanno superato la grande tribolazione [terrena] e han lavato le loro stole, purificandole grazie al sangue dell'Agnello» (Ap 7, 14); di Cristo, cioè, che amando ci «ha operato la liberazione dai nostri peccati, mediante il proprio sangue» (Ap I, 5).

    [Dunque, il tuo nome, Signore, è degno d'essere venerato quanto merita: nome santo e santificante].


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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