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L'essenza del cristianesimo è dogma..... l'autentica esegesi e apologetica

Ultimo Aggiornamento: 22/01/2017 15:03
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L’essenza del cristianesimo è il dogma

 

Conferenza di Mons. Antonio Livi 

 Roma, 25 Giugno 2013

 
Papi (chiesa Agia Sophia, Ocrid)
L’essenza del cristianesimo è il dogma.

L’essenza del cristianesimo è il dogma, ossia la formalizzazione della verità rivelata attraverso l’intervento normativo (lex credendi) e pastorale (lex orandi, lex operandi) del magistero ecclesiastico, intervento che nella storia della Chiesa non è mai mancato.
Anche ai nostri giorni, ogni cattolico giustamente desideroso di sapere che cosa veramente si deve credere per essere autentici Christifideles può conoscere facilmente i termini essenziali del dogma, che si trovano esposti in forma divulgativa ma rigorosa nel Catechismo della Chiesa Cattolica, voluto dal beato papa Giovanni Paolo II.
Senza dogma non ci sarebbe più alcun  riferimento preciso e pubblico a quella che è giustamente chiamata “la fede della Chiesa”. Senza dogma non si saprebbe a quale oggettiva “fides quae creditur” si riferisca la soggettiva “fides qua creditur”: ognuno, infatti, penserebbe di credere alla verità salvifica donataci con la Parola di Dio, ma in realtà si tratterebbe soltanto di credenze basate, non già su solidi motivi teologici, ma su scelte sentimentali e quindi incomunicabili e irresponsabili, tanto se sono individuali quanto se sono di gruppo.
Oggi il maggior nemico del dogma – e quindi del cristianesimo – è l’ideologia del relativismo, nata e sviluppatasi in ambito protestantico (dopo Lutero) ma penetrata sempre più profondamente nella vita e nella prassi della Chiesa cattolica.

La prima vittima del relativismo, all’interno della Chiesa, è la teologia, che cessa di compiere la sua funzione propria, che è appunto l’interpretazione scientifica del dogma (vedi Antonio Livi, Vera e falsa teologia, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012). Già nel 1950 il papa Pio XII avvertiva i fedeli, con l’enciclica Humani generis,  che la teologia cattolica rischiava di subire l’influsso del relativismo, ingenerando quello che egli denominava «relativismo dogmatico», dal quale deriva il relativismo nel campo morale» (cfr Acta Apostolicae Sedis, 42 [1950], pp. 566-567). Da allora a oggi la degenerazione della teologia ha assunto aspetti  ancora più deleteri, malgrado le direttive dottrinali emanate dal concilio ecumenico Vaticano II con la costituzione dogmatica Dei Verbum  e con il decreto Optatam totius (1965), e poi da Giovanni Paolo II con l’enciclica Fides et ratio (1998).

Che senso ha parlare di “dittatura del relativismo”.

Essendo il relativismo essenzialmente una insieme di falsità, esso non può insinuarsi nelle menti dei cattolici per via di autentica persuasione razionale: è penetrato e continua a penetrare per via di seduzione sofistica e soprattutto di imposizione violenta, operata attraverso il potere mediatico e finanziario, ossia attraverso la politica come è praticata dai regimi sostanzialmente dittatoriali. Per questo parlo di “dittatura del relativismo”.
L’espressione «dittatura del relativismo» è del card. Joseph Ratzinger, che la utilizzò nell’omelia durante la Messa pro eligendo Romano Pontifice; si trattò di in un importante discorso dal carattere programmatico, in quanto pronunciato nell’imminenza della sua elezione al soglio pontifico (2005). Poi l’espressione è restata una costante nel magistero di Benedetto XVI, e oggi (2013), quando il timone della Barca di Pietro è passato nelle mani di papa Francesco, tutti nella Chiesa debbono farsi carico dell’eredità che il grande papa tedesco ci ha lasciato. Tutti debbono rendersi conto che il relativismo, con la sua pervasività mediatica e la sua effettiva dittatura istituzionale, legislativa e  burocratica, è il maggior attentato alla verità cattolica, che per questo e per tanti altri motivi necessita di una efficace difesa scientifica.

Anche un intellettuale come Marcello Veneziani, che rifiuta l’etichetta di “filosofo cattolico”, ha osservato giustamente come sia inevitabile che l’abolizione teoretica delle norme fondamentali del diritto naturale (operata dal relativismo a favore del positivismo giuridico) porti alla tirannia di chi detiene il potere nelle società moderne, come avviene in Italia soprattutto con il potere giudiziario: «Quando cadono i principi fondamentali di una civiltà, quando si respinge ogni verità oggettiva, e non c'è più una morale condivisa, una religione rispettata, un comune amor patrio a cui rispondere, allora l'unico criterio supremo che stabilisce i confini del bene e del male e le relative sanzioni è la Legge. In teoria, la legge è un argine al male.
Ma in una società relativista che non crede più in niente, chi amministra la Legge, chi decide e sentenzia in suo nome, dispone di un potere assoluto, irrevocabile e autonomo che spaventa. Risponde solo a se stesso, in quanto è la stessa magistratura a interpretare la legge. L'unica differenza che c'è tra il potere dei magistrati e il potere degli ayatollah è che questi decidono e agiscono nel nome di una religione millenaria, radicata e largamente condivisa dal popolo su cui esercitano la loro autorità. I magistrati, invece, sono la voce e il bastone di una setta che dispone del monopolio della forza, cioè il potere di revocare libertà, diritti e proprietà secondo la loro indiscutibile interpretazione della Legge. I confini tra le prove e gli indizi vengono superati a loro illimitata discrezione, e così quelli tra testimoni e imputati, se i primi non confermano i dettami del magistrato; le garanzie e i diritti elementari non contano rispetto ai loro responsi sovrani e non contano nemmeno gli effetti pubblici, politici, economici, che essi producono con le loro sciagurate sentenze. Possono sfasciare imprese e perfino economie nazionali, governi, alleanze, partiti, famiglie e persone.
È possibile, ad esempio, che l'uso delle intercettazioni sia lecito in alcuni casi e illecito in altri, sono loro a stabilire i confini, così le intercettazioni a volte sono la base su cui fondare i processi e le gogne mediatiche, a volte sono esse stesse il capo d'accusa in altri processi. L'arbitrio nel nome della Legge è il peggiore degli arbitri perché è ammantato di oggettività e di obbligatorietà, non è sottoposto a nessun vincolo se non la legge da loro stessi interpretata e amministrata. Talvolta il dispotismo giudiziario viene esteso ad altri enti, come le agenzie delle entrate quando possono usare poteri enormi in materia di controllo, sanzione, pignoramenti e interessi di mora. Gli effetti anche in quel caso sono devastanti. […] Se in una società incarognita e nichilista come la nostra che ha perso i confini del bene e del male, dove tutto è soggettivo e ognuno si stabilisce le regole di vita, dai a qualcuno un potere smisurato, l'abuso di potere è pressoché inevitabile» (in Il giornale, 24 giugno 2013, p. 12).

Difendersi dall’irrazionalità antiteistica con la razionalità teocentrica

Il relativismo attenta alla fede cattolica, sia dall’esterno, con la propaganda dell’ateismo (e del secolarismo e con la polemica antidogmatica (in Italia ne sono alfieri Gianni Vattimo, Paolo Flores d’Arcais, Giulio Giorello, Piergiorgio Odifreddi; in America, Richard Rorty) ; sia all’interno, con l’imposizione (anche dall’alto: vedi cardinal Ravasi sull’Osservatore romano) di una teoria eretica circa la fede, la quale non richiederebbe alcuna certezza, ma anzi l’umiltà di non avere certezze da offrire agli altri (con il pretesto che ciò significherebbe mancare di rispetto verso chi non crede, presentandosi come superiori o migliori). Araldo di questa sciocca retorica sui media (sia laicisti che cattolici) è Enzo Bianchi, che relativizza il dogma cattolico e dogmatizza la “fede nell’uomo”: distoglie i cristiani dall’Assoluto vero e impone loro il falso Assoluto dell’umanesimo ateo.

Ora, la difesa scientifica della verità cattolica (obiettivo dell’Unione da me fondata) richiede di smentire sistematicamente le pretese di ragione, di razionalità e di ragionevolezza del relativismo. La razionalità sta tutta dalla parte della verità cattolica: sia perché è dimostrabile e dimostrato che essa è razionalmente credibile (cfr Razionalità della fede nella rivelazione, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010), sia anche perché l’accettazione dei misteri rivelati, ossia la fede dei credenti in Cristo, poggia su ragioni personali che hanno tutte il crisma della piena razionalità, anche se appartengono alla coscienza del singolo. I credenti hanno dunque il diritto e il dovere di proclamare la dottrina rivelata da Dio come assolutamente vera, anzi come l’unica verità che salva.
Ma tutto ciò comporta che ci siano anche delle verità naturali, con carattere assoluto, che rendono possibile comprendere e accettare la rivelazione divina: sono quelle verità che Tommaso d’Aquino ha chiamato «praeambula fidei». Esse coincidono con quelle evidenze naturali, innegabili, che io chiamo, con un termine moderno, il “senso comune”. Esse consentono di individuare nella conoscenza umana una gerarchia, una struttura consequenziale, per cui una verità presuppone un’altra come sua condizione di possibilità, fino ad arrivare, appunto, alle verità originarie del senso comune. Contro di esse, nessuna tesi può essere presa per vera ma è da considerarsi falsa; senza di esse, una tesi può essere solo ipotetica, ossia è da considerarsi come mera opinione soggettiva o di gruppo. L’opinione, questa sì, è il campo del relativo.
Ma il relativo non annulla l’assoluto, anzi, lo presuppone. Ecco allora fissare le leggi fondamentali della logica aletica. Ora, dunque, la logica aletica fa comprendere che le certezze del senso comune e i primi principi sono di fatto alla base del pensiero umano, e quindi sono la premessa, almeno implicita, di ogni tesi, di ogni affermazione, di ogni ragionamento. Ma la volontà di negare l’evidenza può portare a negare che ci sia una verità assoluta in qualche ambito della conoscenza umana. Di qui la contraddittorietà intrinseca a ogni forma di relativismo. Nega ciò che afferma e afferma ciò che nega in ogni momento del ragionamento. Nega che si possa sostenere e annunciare una verità assoluta riguardo a Dio (che è l’Assoluto), e allo stesso tempo sostiene con  l’assolutezza tipica del fanatismo politico e religioso tesi ideologiche di per sé opinabili. Ma la contraddizione sta proprio nell’affermazione assoluta della relatività (storica, economica, culturale) di ogni pretesa di verità, il che costituisce logicamente un self-denying principle.
Così la logica aletica viene confermata dalla logica pragmatica. Ad esempio, il beato papa Giovanni Paolo II, nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace dell’anno 2002, diceva: «Chi uccide con atti terroristici coltiva sentimenti di disprezzo verso l'umanità, manifestando disperazione nei confronti della vita e del futuro : tutto, in questa prospettiva, può essere odiato e distrutto. Il terrorista ritiene che la verità in cui crede o la sofferenza patita siano talmente assolute da legittimarlo a reagire distruggendo anche vite umane innocenti» (§ 6-8).
 
 
 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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  EVOLUZIONE DEL DOGMA

La fede della Chiesa è sempre la stessa?
Donde proviene?
E’ stata una elaborazione di poveri uomini spauriti, che, infervorati dall’esperienza (per loro) mistica di Pentecoste hanno creduto di autoconvincersi della verità delle loro speranze, frodando il mondo intero con l’annunzio della buona novella, oppiaceo consolatore di anime illuse?
O si tratta proprio della Vita divina che si effonde in comunicazione infallibile al cuore dell’uomo?

La Fede vera non può che provenire da Dio stesso.

Se Dio esiste come Dio, deve essere sicuramente vero e verace; non contraddittorio, talmente autentico da essere la Verità medesima.
sadasdasdwwwddw.jpgTale verità non si può eclissare all’ombra del pensiero umano, ma deve splendere di luce propria attraverso la ripercussione povera di strumenti indegni.
Se Dio è tale, deve esistere, e se abbiamo cognizione di questo, deve essersi rivelato.
Non foss’altro che per lo splendore della sua Gloria.
Chi è in grado di scrutare i segreti del cuore di Dio?
Interroga e risponde la Sacra Scrittura: solo il suo Spirito può sondare le profondità eccelse della sua luce.
L’uomo come può accedere a tale luce, se essa è mistero per lui; se è notte oscura, che si cela a distanza infinita, insolcabile baratro per il valico abissale che separa la creatura dal Creatore?
Deve essere ineluttabilmente Dio a rivelarsi e Lui a consentire all’uomo la sua divinizzazione progressiva.
La conoscenza del Mistero proviene sempre dalla fonte della luce, che, appunto, irradia se stessa rischiarando l’orizzonte ed ogni dove.
L’uomo riceve da Dio l’essere, la vita, l’esistenza e da Lui anche la trasformazione partecipativa all’Essere Divino, attraverso una progressiva invasione dello Spirito Santo, che, in Cristo Gesù, transustanzia e trasmuta ogni particella non solo della sua anima, ma anche del suo corpo.
Questa rivelazione e divinizzazione sono opera di Dio e consenso dell’uomo; avvengono in Gesù e solo in Lui, che riconcilia in Sé ogni cosa, del Cielo e della terra, e assume l’umanità per divinizzarla del tutto.

Questo processo di «theosis» avviene attraverso gli strumenti della fede e della conoscenza.
L’annuncio dell’amore del Padre che dona il Figlio fino alla morte di croce, risorto e vincitore della morte e di ogni male e che effonde lo Spirito Divino senza misura.
Questa evoluzione salvifica che interessa la restaurazione dell’uomo decaduto, integrato perfettamente nell’unità e pace del suo essere parte dall’annuncio missionario del santo Vangelo: la fede insegnata diviene la porta di ingresso nella vita del Cielo.
La verità che si rivela, deve poter essere conosciuta; la conoscibilità è (ordinariamente) funzionale alla salvezza, che origina dall’assenso della persona al dato rivelato.
La fede conosciuta annunziata (luce profetica) diviene fonte di vita (luce santificante), allorché si trasformi in profonda esperienza spirituale.
Il dato da credere assume veste esaustiva nel periodo apostolico per opera del Maestro, che spiega il senso delle Scritture.
Gli apostoli vivono la rivelazione divina definitiva, per impulso dello Spirito Santo, fino alla sua chiusura (la morte di San Giovanni, ultimo degli apostoli a passare alla casa del Padre).
Da quel momento in poi inizia il cosiddetto «deposito della fede».
La verità viene appunto consegnata, depositata nel grembo della Santa Chiesa, che ha l’obbligo, il compito ed il diritto di difenderla e custodirla, annunciandola fedelmente nella sua integrità.
L’unico modo di assicurare il persistere del Vero tra gli uomini, senza la presenza manifesta del Salvatore (vivo tuttavia invisibilmente), è quella di rendere «pubblico» tale detto deposito e renderne «pubblica» l’interpretazione autentica, mediante la sua divina e perenne assistenza.
La fede deve poter essere riconosciuta oggettivamente da parte di chiunque.
Il percorso esoterico, qualunque esso sia, si situa fuori dell’idea di un Dio-Verità-Rivelazione, perché presuppone l’oscuramento del dato oggetto di assenso; ma ripetiamo, Dio non può che essere la Verità e se è tale, deve poter essere evidenza palesemente indubitabile, soprattutto se si pretenda una rivelazione (come ogni religione presume vi sia, ma solo la fede cattolica arriva alla radicale conclusione di esserlo unicamente!); questo comporta un’oggettiva possibilità di riscontro del dato rivelato, che prescinda da oscuri meandri del percorso iniziatico, tipico delle conventicole esoteriche.
La Chiesa, infatti, annuncia e manifesta di essere quel che è il Vero.

Questo già basterebbe a far dubitare su una pretesa tanto eccelsa, che inevitabilmente si trova al bivio dell’assolutamente vero o dell’irrimediabilmente falso; ma il fatto che Dio sia la Verità e che Lui si riveli, rende tale pretesa necessariamente soltanto e pienamente autentica.
E’ evidente.
Se è Dio a rivelarsi che posto può avere il dubbio interpretativo?
Soltanto in relazione all’uomo (accidentalmente), ma non a Dio (sostanzialmente); ma la Fede è tutta sostanziale.
Non esistono appendici irrilevanti; la Fede è unica ed unitaria, non frazionabile.
Allora che senso ha parlare di «evoluzione del dogma»?
Il dogma è proprio esercizio in difesa della fede, che la Chiesa pone in essere per difendere l’integrità del dato rivelato, contro gli attacchi dei nemici interni o esterni.
E’ estremo tentativo, riuscito, di non razionalizzare la narrazione evangelica.
La fede cristiana è l’unica genuinamente razionale, ma è anche oltremodo metarazionale: supera la ragione, ma non la nega né la schiaccia, negandola.
Ancora il dogma è luce divina che serve ad aprire l’accesso alla vita del Cielo, annunciandone infallibilmente un asserto verissimo.
Quel che il dogma spiega, è proprio quel che realmente è.
Tuttavia l’uomo ha una comprensione - per quanto reale - limitata del Mistero, che lo trascenderà sempre e comunque.
Dire che Dio è Santissima Trinità è verissimo; ma comprenderne il senso nella sua pienezza è solo di Dio e di chi (in una certa misura, sempre limitata) partecipi di Lui (qui in vita, sotto la luce della fede) ed in Cielo, al lume della gloria.
«Impossibile ingannarsi sul pensiero di San Tommaso; il modo stesso con cui pone il problema dell’oggetto della fede indica il senso della sua risposta. Essa è duplice: l’oggetto della fede fuori di noi è la semplicità della Verità divina; l’oggetto della fede in noi è la complessità di un enunciato. L’oggetto della fede è al tempo stesso l’enunciato in quanto sfocia nella realtà, e realtà in quanto essa ci viene manifestata nell’enunciato; è ad un tempo l’enunciato a cui la fede acconsente, e la realtà su cui essa si apre acconsentendo, verso cui essa tende, in cui essa si acquieta».
‘Alcuni hanno pensato che la fede non riguardi l’enunciato, ma la realtà, non est de enunciabili sed de re ... E’ un errore, perché la fede suppone un assenso e quindi un giudizio sul vero o sul falso, non potest esse nisi de composizione, in qua verum et falsum invenitur’ » (De Veritate, qu. 14, a. 12). (1)

Quel che evolve quindi non è l’articolo di fede, ma la formale e pubblica rappresentazione della medesima Fede, senza mutamenti di sorta.
«Quanto al problema della dottrina da credere, seguendo san Tommaso, non vi è dunque progresso quanto alla ‘sostanza’, ma solo quanto alla ‘spiegazione’.
Ma tale spiegazione, questo passaggio dall’implicito all’esplicito, differisce a seconda che esso esige nuove rivelazioni, o se invece avviene per semplice chiarificazione.
‘Effettivamente, vi sono due gradi molto diversi di implicità. L’una è tanto profonda che, pur essendo in se stessa veramente oggettiva, tuttavia è come se non lo fosse affatto per la ragione umana, visto che la ragione ed i mezzi umani sono impotenti a spiegarla o a scioglierla; si richiede la rivelazione divina. E’ proprio così che il dogma della Trinità è contenuto nel dogma dell’esistenza di un Dio soprannaturale; oppure il dogma dell’Incarnazione è contenuto nel dogma di Dio rimuneratore. Queste verità che, pur essendo veramente implicite per se stesse, non lo sono per noi, ricevono il nome di dogmi fondamentali o di articoli di fede, perché non possono essere conosciuti che per mezzo di nuove rivelazioni. Ed è questa implicità che Dio ha spiegato sempre maggiormente durante 1’Antico Testamento; per cui anche se non vi è stato progresso nell’Antico Testamento quanto alla sostanza ma unicamente quanto alla spiegazione, vi fu tuttavia un progresso per via di nuovi articoli fondamentali e, conseguentemente, un progresso per via di nuove rivelazioni. Questa spiegazione ebbe fine con Gesù Cristo e gli apostoli: haec explicatio completa est per Christum’.
‘Vi è un’altra implicità che, senza contentarsi di una spiegazione di parole, non è però cosi profonda da esigere una rivelazione: la penetrazione umana congiunta alla assistenza divina è sufficiente per esplicitarla. E’ il caso del dogma circa i due intelletti e le due volontà in Gesù Cristo come conseguenza del dogma delle sue due nature perfette; oppure del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria come conseguenza del dogma della sua divina maternità. La stessa cosa avviene per tutte le verità implicite del Nuovo Testamento dopo gli apostoli’ (F. Marin-Sola, O. P., ‘L’évolution homogène du dogme catbolique’, Friburgo, 1924, t. II, pagine 40-41).
Ecco il progresso non più in ragione di nuove rivelazioni, ma per semplice chiarimento della rivelazione.» (2)

La definizione dogmatica, quindi, è sempre funzionale alla spiegazione della verità, secondo quelli che sono i ritmi ed i movimenti e la mentalità interni al tempo in cui la Chiesa si trovi ad operare.
«Bisogna parlare il linguaggio del proprio tempo? Sì, se ciò serve per risvegliare il proprio tempo al messaggio dell’eternità; no, se ciò serve per dissolvere questo messaggio nel flusso del tempo o dell’evoluzione, e cloroformizzare nell’uomo il senso dell’assoluto.
Si, se è al fine di sforzarsi attraverso il linguaggio del proprio tempo - attraverso ogni linguaggio di ogni tempo - di raggiungere in ogni uomo le zone di profondità dove gli enunciati del messaggio rivelato possono fare capire l’assoluto della loro verità, della loro esigenza, della loro promessa di liberazione.
No, se è al fine di inserire le verità divine nel contesto delle ideologie dove vive e muore lo spirito di un’epoca; o per fare del cristianesimo - dimenticando la sua trascendenza - il coronamento normale di un processo evolutivo dell’universo. ‘La filosofia è identica allo spirito dell’epoca in cui compare; non è al di sopra, essa è solo la coscienza della sostanza del suo tempo, oppure il sapere pensante di ciò che vi ha nel tempo... Un individuo non può più uscire dalla sostanza del suo tempo come non può uscire dalla propria pelle. Così dunque, dal punto di vista di sostanza, la filosofia non può superare il suo tempo’ (Hegel, ‘Storia della Filosofia’. Ecco in tutta la sua forza la definizione dello storicismo)». (3)
Impossibile presso l’uomo, non presso Dio; anzi il cattolico è chiamato proprio a tale salvifica «traslimitante» universalità.

Stefano Maria Chiari


1) Da «Il dogma, cammino della fede», («Le dogme, chemin de la Foi) del cardinale Charles Journet, A. Fayard, Parigi, 1963.
2) Opera citata.
3) Opera citata.



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