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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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Paolo VI sul Concilio, sulle riforme e sulle false interpretazioni

Ultimo Aggiornamento: 23/05/2014 21:40
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UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 31 marzo 1965

 

E' un dovere l'unità operante dei cattolici

Diletti Figli e Figlie!

Queste udienze generali Ci presentano un quadro d’insieme, che Ci fa sempre pensare e sempre Ci commuove, non solo per la moltitudine delle persone accorse attorno all’umile Nostra persona, ma per la varietà altresì dei gruppi che compongono questa assemblea, e che, se bene comprendiamo i loro sentimenti, sono lieti d’essere folla, d’essere popolo raccolto in un solo complesso e in un solo sentimento, e forse ancor più lieti d’essere di diversa origine, di diversa lingua, di diversa età, di diversa cultura; e di sentirsi insieme, come se si fossero sempre conosciuti.
Non sarà facile che un simile incontro si riproduca; capiterà a tutti voi certamente d’essere in mezzo a masse di gente varia e disparata e tenuta insieme da particolari contingenze; di viaggio, di spettacoli, di affari, di comizio, eccetera; ma ciò avverrà senza che una profonda e fraterna unità di sentimenti si realizzi in quelle riunioni, spesso più esteriori che interiori; talvolta riunite dagli stessi contrasti che le dividono; in chiesa certo l’assemblea dei fedeli assume una unità spirituale meravigliosa, dove «unum corpus multi sumus», i molti formano un solo corpo (1 Cor. 10, 17); ma di solito la comunità orante possiede già una certa omogeneità e una certa abituale coesione; qui invece la riunione trova la sua interiore armonia soltanto per la stessa fede e per la stessa carità, che alla presenza del Papa acquistano, forse come raramente altrove, la loro espressione di unità, non solo occasionale, ma ecclesiale e spirituale.

Ora è proprio questa unità interiore della Chiesa che Noi vogliamo, questa volta, fare a voi notare, come uno dei principii costitutivi della Chiesa - essa non può non essere intrinsecamente unita -, che la definisce, che la dimostra animata da un influsso superiore, dallo Spirito Santo, che le conferisce questa sorprendente capacità, di mettere insieme gli uomini più disparati rispettando, anzi valorizzando le loro specifiche caratteristiche purché positive, cioè veramente umane, la capacità cioè d’essere cattolica, d’essere universale. Non solo.
L’unità non è soltanto una prerogativa della Chiesa cattolica; è un dovere, una legge, un impegno. Cioè l’unità della Chiesa dev’essere ricevuta e riconosciuta da tutti a da ciascun membro della Chiesa, e da tutti e da ciascuno dev’essere promossa, amata, difesa. Non basta dirsi cattolici; bisogna essere effettivamente uniti. I figli fedeli della Chiesa devono essere i costruttori dell’unità concreta della sua compagine sociale, i seguaci della sua spiritualità comunitaria. Maestro Tommaso insegna che l’unità della Chiesa si deve considerare sotto due aspetti: il primo, nella connessione dei membri della Chiesa fra loro, nell’unità di comunione; il secondo nel riferimento di tutti i membri della Chiesa stessa all’unico Capo, che è Cristo, di cui il Papa fa qui in terra le veci, nell’unità di convergenza (II-IIæ, 39, 1).
La promozione di questo duplice criterio unificatore è uno dei grandi doveri del cattolico; e questo diciamo perché voi stessi, a ricordo di questa udienza, siate sempre gelosi e zelanti cultori dell’intima unità della nostra santa Chiesa.

E forse v’è oggi di ciò particolare bisogno.
Tanto si parla ora dell’unità da ricomporre con i Fratelli separati; e sta bene; è questa una meritevolissima impresa, al cui progresso dobbiamo tutti collaborare con umiltà, con tenacia e con fiducia; ma non si deve da noi trascurare il dovere di operare tanto di più per l’unità interna della Chiesa, tanto necessaria per la sua vitalità spirituale e apostolica. Come daremo ai Fratelli separati l’esempio dell’unità, come ne offriremo loro il dono inestimabile, se noi stessi cattolici non la viviamo nella fedeltà e nella pienezza, ch’essa richiede? Non sempre riceviamo buone notizie circa la fedeltà dei cattolici al dovere dell’unità interiore del Corpo ecclesiastico.

Non Ci riferiamo, in questo momento, alle raccomandazioni sovente ripetute in favore dell’unità operativa dei cattolici, sempre reclamata per la difesa e l’affermazione dei loro principii e dei loro diritti nel campo civile; Ci riferiamo piuttosto all’obbligo per tutti urgente di alimentare quel senso di solidarietà, di amicizia, di mutua comprensione, di rispetto al patrimonio comune di dottrine e di costumi, di obbedienza e univocità di fede, che deve distinguere il cattolicesimo; esso ne costituisce la forza e la bellezza, e ne dimostra l’autenticità realizzando in questo spirito di concordia e di amore la parola di Gesù: «Sarete da tutti riconosciuti quali miei discepoli, se sarete stretti da vicendevole dilezione» (Io. 13, 35).

Che dovremmo dire di quelli che invece non altro contributo sembra sappiano dare alla vita cattolica che quello d’una critica amara, dissolutrice e sistematica? di coloro che mettono in dubbio o negano la validità dell’insegnamento tradizionale della Chiesa per inventare nuove e insostenibili teologie? di quelli che sembra abbiano gusto a creare correnti l’una all’altra contraria, a seminare sospetti, a negare all’autorità fiducia e docilità, a rivendicare autonomie prive di fondamento e di saggezza? o di coloro che per essere moderni trovano tutto bello, imitabile, e sostenibile ciò che vedono nel campo altrui, e tutto insopportabile e discutibile e sorpassato ciò che si trova nel campo nostro?

Non vogliamo certo censurare il processo di purificazione e di rinnovamento, che ora travaglia e rigenera la Chiesa, e che essa per prima reclama e promuove; vogliamo soltanto invitare tutti quanti sentono la dignità e la responsabilità del nome cattolico ad amare fortemente, profondamente il mistero della sua interiore unità, a venerarlo nella parola e nell’opera per dare alla Chiesa il gaudio d’essere quello che è, magnificamente una e per accrescere lo splendore, che da ciò le deriva per l’illuminazione del mondo. Non è, credetelo, questo uno spirito chiuso, statico, egoista; non è spirito di «ghetto», come oggi si dice; è lo spirito genuino di Cristo, trasfuso nella sua Chiesa; ed è, per chi ha occhio per vedere, un fenomeno di sovrana, spirituale bellezza;. ce lo ricorda S. Agostino, ammonendoci come «omnis . . . pulchritudinis forma unitas sit»; il segreto della bellezza è l’unità (Ep. 18; P.L. 33, 85).




UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 7 aprile 1965

 

Le doverose attività del popolo di Dio

Diletti Figli e Figlie!

La vista della vostra moltitudine, che ogni settimana Ci offre il dono della sua sempre nuova e fors’anche sempre crescente presenza, Ci ricorda il bel capitolo secondo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, testé promulgata dal Concilio Ecumenico, dove parla del Popolo di Dio.

A questo Ci richiama il fatto che voi siete molti, e più siete, e più gode il Nostro animo, non solo per lo spettacolo, sempre gradito e sempre impressionante d’un’assemblea numerosa e concorde, ma per l’immagine spirituale e reale che Ci viene offerta della Chiesa, la quale altro fisicamente non è, se non una moltitudine convocata e riunita nel nome di Cristo, una folla, una gente, una società, a cui tutti possono appartenere, ed a cui tutti sono chiamati; dove tutti e ciascuno hanno un loro posto distinto, un riconoscimento personalissimo, una vocazione loro propria, una missione insostituibile, come ogni singola tessera in un mosaico. La moltitudine non toglie il valore d’ogni singola persona, che compone il Popolo di Dio; così che la moltitudine nella Chiesa non affoga la singolarità, specifica e irriproducibile, del singolo fedele, ma la assume e la onora e la esalta; e la rende idonea a ricevere i doni spirituali della comunità, e a dare i propri alla comunità stessa, come c’insegnò il Principe degli Apostoli, nella sua prima Lettera: «Unusquisque sicut accepit gratiam in alterutrum administrantes; sicut, boni dispensatores multiformis gratiae Dei; da buoni amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi ponga al servizio degli altri il dono ricevuto» (1 Petr. 4, 10).

Così la moltitudine, che con le sue difficoltà quantitative e materiali Ci impedisce di avvicinare ciascuno di voi, è tuttavia per Noi grande letizia, Ci obbliga alla riconoscenza e all’affezione, Ci ravviva nel cuore quella simpatia, quella carità, che Gesù, come leggiamo nel Vangelo, ebbe per le folle che lo seguivano, per il popolo. Voi Ci rinnovate l’esperienza sensibile del mistero della Chiesa, Ci fate pensare all’intera umanità, che dalla Chiesa riceve o attende salvezza, Ci rinnovate quella riflessione, amorosa e tormentosa, che Noi dobbiamo avere del «mondo», sia che per mondo s’intenda l’intera famiglia umana, sia che per mondo si alluda a coloro che resistono alla vocazione cristiana; e Ci fate sperare.

Sì, sperare. È la grande consolazione che voi Ci portate in questi incontri, tanto brevi, ma tanto pieni di significato e di valore spirituale. Sperare, innanzi tutto, che voi, ciascuno di voi qui presenti, siate e sarete sempre figli fedeli della santa Chiesa. Non vi basti quest’ora di presenza e di devozione alla Tomba e alla Cattedra di San Pietro; tutta la vostra vita sia animata da un sentimento, da un proposito di cosciente fedeltà a Cristo, vivente ed operante nella sua Chiesa.

E la Nostra speranza cresce fino alla gioia, se Noi concediamo a Noi stessi la visione fantastica di ciò e di chi voi, senza forse saperlo, rappresentate. E non è fantasia vana, se ricordiamo che voi siete Popolo di Dio, e che dietro ciascuno di voi è lecito ed è bello immaginare una schiera innumerevole di cristiani rivestiti dalle vostre medesime sembianze umane. Piace a Noi, in questo momento, ravvisare in ciascuno di voi il rappresentante simbolico della sua categoria: vediamo dietro ogni fanciullo presente le file interminabili dei fanciulli delle nostre famiglie cristiane e delle nostre scuole, tutta l’infanzia innocente e lieta che porta ancora con sé la fragranza battesimale; vediamo dietro ogni giovane le schiere degli adolescenti e dei giovani, che, studiando, lavorando, pregando, entrano nella vita e, forti della santa Cresima ricevuta, sono contenti e fieri di dirsi cristiani; vediamo a fianco delle persone adulte la corona dei loro familiari, stretti nei rispettivi focolari cristiani da ineffabili affetti, forti e sacri; vediamo le famiglie buone, oneste, laboriose, religiose, che celebrano nella fedeltà e nel coraggio della quotidiana fatica la legge divina dell’amore e della vita; vediamo nei sacerdoti e nei religiosi presenti le loro chiese, le loro case, le loro opere, le loro comunità, tutte rivolte al servizio di Dio e del prossimo, tutte illuminate dalla luce-guida del Vangelo.
E poi i sofferenti, e con loro appare al Nostro sguardo l’esercito dei malati buoni e pii, che trasformano i loro dolori, e le loro prove in prezzo redentore per sé, per la Chiesa, per il mondo. Vediamo anche i soldati che assistono a questo raduno spirituale, e con loro tutti quanti, militari o civili, compiono con dedizione e con nobiltà di sentimenti il loro dovere a servizio della società nazionale. Vediamo cioè quelli che chiamiamo «buoni», e sono per fortuna senza numero, gli onesti, i fedeli, i cristiani, i cattolici, e fra questi i nostri laici militanti. Quale panorama umano meraviglioso! Quale città di Dio, frammista alla città terrestre! Quale giardino fiorito per virtù della rugiada misteriosa dello Spirito Santo; quale Popolo di Dio!

Ebbene, siate benedetti voi, figli e figlie qui presenti, che di questa visione di onestà, di bellezza morale, di santità Ci date memoria ed esperienza! Siate benedetti voi, che raccogliete la parola di Cristo, della quale Noi siamo messaggeri e custodi, che Ci comprendete, che Ci seguite, che insegnate nella pratica della virtù ciò che Noi vi insegniamo nella dottrina della verità! Siate benedetti voi, che appartenete alla «comunione dei santi» e per essa lottate e soffrite, pregate e gioite. Siate benedetti voi, figli fedeli e forti della santa Chiesa, che con la vostra coerenza, con la vostra adesione, con la vostra testimonianza, col vostro apostolato medicate le ferite della Chiesa stessa, consolate i suoi dolori, corroborate le sue speranze, irradiate la sua bellezza; siate benedetti!

Popolo di Dio! con i vostri Pastori il Papa è con voi, e con voi cammina verso la Patria eterna, ammirandovi, confortandovi, benedicendovi!


UDIENZA GENERALE

Festa di San Giuseppe Artigiano
Sabato, 1° maggio 1965

 

Il 1° maggio cristiano auspice il grande Artigiano di Nazareth

Diletti Figli e Figlie!

Se cerchiamo quali motivi spirituali dànno a questa udienza un significato particolare, è facile rilevare che tali motivi sono due: la festa del lavoro e la festa di San Giuseppe; anzi è uno solo, quello che suggerì dieci anni or sono, al Nostro Predecessore, di venerata memoria, Pio XII, di abbinare questi due titoli, che dànno al Calendimaggio il carattere d’un giorno speciale di festa, per farne, com’Egli disse, un «giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani della grande famiglia del lavoro» (Discorsi e Radiomessaggi, XVII, 76).
Questo atto, che ha potuto apparire a qualcuno come un pio artificio, come uno sforzo per attribuire ad una celebrazione profana, anzi laica nel senso più radicale del termine, un qualche tardivo e compiacente riconoscimento, rivela invece, come nel campo cattolico tutti hanno notato con soddisfazione, un gesto doppiamente coerente: coerente con la tradizione del culto cristiano, il quale non soltanto per purificare ed elevare le feste pagane, più d’una di esse ha assorbito nel suo calendario e ha trasfigurato in senso cristiano, ma altresì per obbedire al suo genio profondamente teologico e profondamente umano, il quale scopre in ogni manifestazione autentica della vita un campo sempre possibile e quasi predisposto all’economia dell’Incarnazione, alla penetrazione del divino nell’umano, all’infusione redentrice e sublimante della grazia.

E seconda coerenza: e cioè con tutta l’opera dottrinale e pastorale svolta dalla Chiesa, dai Papi specialmente, dai Vescovi e da Maestri cattolici, da un secolo in qua, per ridare al lavoro una sua nuova spiritualità, una sua animazione cristiana.
E allora l’aver fatto coincidere la festa del lavoro con la festa del lavoratore S. Giuseppe, che nella scena evangelica, nella stessa famiglia terrena di Cristo, personifica il tipo umano, che Cristo medesimo scelse per qualificare la propria posizione sociale «fabri filius» (Matth. 13, 55), pone il grande, enorme, moderno problema della riconciliazione del mondo del lavoro con i valori religiosi e cristiani, e della conseguente irradiazione di dignità, di energie, di conforti, di speranze, che il Vangelo può e deve ancor oggi diffondere sulla fatica umana; anzi quasi lo dà, questo problema, per risoluto, anche se oggi pur troppo, in gran parte, risoluto non è.

Anche questo modo di agire è nel costume della Chiesa credente, la quale sovente opera «contra spem, in spem» (Rom. 4, 18), sicura che il tempo, i fatti, gli uomini le daranno ragione, perché lo Spirito di Dio anticipa alla Chiesa una sicurezza profetica, che un giorno, a bene dell’umanità, sarà vittoriosa.

E nulla diremo, in questo brevissimo momento, delle troppe cose che si offrono alla mente dalla presentazione del problema suddetto, del rapporto cioè fra vita religiosa e vita del lavoro: perché queste due supreme espressioni dell’attività umana dovrebbero essere separate fra loro? Perché in contrasto? Come fu che la loro alleanza, la loro simbiosi si ruppe? Quale lunga storia, quale diligente analisi ce ne può indicare le ragioni, i pretesti, le rovine? Forse non fu a tempo compresa la trasformazione psicologica e sociale che il passaggio dall’impiego di umili e primitivi utensili in aiuto della fatica dell’uomo all’impiego della macchina con tutte le sue nuove potentissime energie avrebbe prodotto? Non ci si avvide che nasceva una favolosa speranza dal regno della terra che avrebbe oscurato e sostituito la speranza del regno dei cieli?

Non ci si accorse che la nuova forma di lavoro avrebbe risvegliato nel lavoratore la coscienza della sua alienazione, che cioè egli non operava più per sé, ma per altri, con strumenti non più propri, ma di altri, non più solo ma con altri, e che sarebbe sorta nel suo animo la brama d’una redenzione economica e temporale, che non gli lasciava più apprezzare la redenzione morale e spirituale offertagli dalla fede di Cristo, non a quella contraria, ma di quella fondamento e corona?
E mancò forse (non certo nei Papi) il linguaggio, mancò il coraggio per dire al mondo del lavoro, sconvolto delle sue stesse affermazioni, qual era la via buona del suo riscatto, e quale il bisogno e il dovere di non mortificare al livello del benessere economico la sua capacità ed il suo diritto di salire insieme al livello delle supreme realtà della vita, che sono quelle dell’anima e di Dio?

Nulla diremo. Del resto sono cose che tutti ora, più o meno, conoscono, e che solo richiamiamo al vostro spirito, oggi e proprio qui, perché abbiate a ricordarle e a meditarle, alla luce che la festa di S. Giuseppe, esempio e protettore del mondo del lavoro, proietta su di noi, quando siamo memori del Vangelo e memori della meravigliosa fedeltà, con cui esso si rispecchia nelle attualissime Encicliche pontificie.

E abbiate a interessarvi di queste cose, che hanno tanta importanza nella vita moderna fino a determinarne le forme salienti ed il corso, non si sa se più travagliato o trionfale. Interessarvi per pregare per il mondo del lavoro, per quanti in esso sono oggi sofferenti: disoccupati, sottoccupati, emigrati, mal sicuri del loro pane, mal retribuiti della loro fatica, amareggiati della loro sorte. E per quanti anche del lavoro fanno argomento programmatico e permanente di lotta sociale, invece che di armoniosa e positiva cooperazione nella giustizia e nella libertà; fonte di odio sociale e di passione, invece che di amore fraterno e di esaltazione di nobili sentimenti. Ed infine perché all’interessamento di pensiero e di preghiera abbiate ad aggiungere, come possibile, quello della solidarietà e dell’operosità, affinché «la giustizia e la pace» auspice l’umile e grande Artigiano di Nazareth, abbiano a rifiorire cristianamente nel mondo del lavoro.

La Nostra Benedizione vi incoraggia e vi assicura l’aiuto del Cielo.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 5 maggio 1965

 

Le vocazioni ecclesiastiche

Diletti Figli e Figlie!

Il nostro desiderio sarebbe di salutarvi ad uno ad uno! Questo è nell’aspirazione dell’affetto, che tende naturalmente al colloquio personale; questo è nell’ordine della carità, la quale, mentre si rivolge alla moltitudine e vuole a tutti arrivare e fare di tutti una cosa sola, non per questo dimentica che ciascuno è persona, e che ciascuno è degno del suo proprio esclusivo ed ineffabile rapporto della parola: cor ad cor loquitur - come diceva il Newman -: il cuore parla al cuore.

Veniva a Noi questo pensiero meditando il Vangelo della scorsa domenica, il Vangelo del Buon Pastore, che presentando questa bella immagine, che potremmo dire virgiliana, sembra assimilare a un branco di pecore i seguaci del Vangelo, mentre in questa similitudine di unità e di autorità, propria della comunità ecclesiale, subito è marcata la personale individualità del gregge cristiano, là dove il Pastore nota che intercorre una conoscenza particolare fra il Pastore stesso e le sue pecorelle, che distinguono la voce di Lui, il Quale - è una precisazione non solo descrittiva e poetica, ma profondamente psicologica e mistica - il Quale «le chiama ciascuna per nome: vocat nominatim» (Io. 10, 4).

Naturalmente questa misteriosa conversazione fra il Pastore ed ogni singola anima è una prerogativa esclusiva di Cristo, ben a ragione definito «Re e centro di ogni cuore», ma segna un aspetto, offre un esempio, stabilisce un principio della vita pastorale della Chiesa. Dobbiamo sempre ricordarci di questo: che cosa è la Chiesa? È la convocazione dei fedeli, è l’umanità chiamata a comporre il gregge di Cristo, o, con un’altra immagine estremamente espressiva e notissima, il Corpo mistico di Cristo. Il termine stesso di «Chiesa», s’è detto tante volte, vuole dire assemblea chiamata ad unirsi a Cristo ed in Cristo.

E il Nostro pensiero andava volgendosi al tema, che il Concilio ha posto in evidenza, del Popolo di Dio, ch’è appunto la grande comunità convocata da Dio nel suo disegno di salvezza e di elevazione soprannaturale, tramite il ministero apostolico. La voce di Dio che chiama si esprime in due modi, diversi, meravigliosi e convergenti : uno interiore, quello della grazia, quello dello Spirito Santo, quello ineffabile del fascino interiore che la «voce silenziosa» e potente del Signore esercita nelle insondabili profondità dell’anima umana; e uno esteriore, umano, sensibile, sociale, giuridico, concreto, quello del ministro qualificato della Parola di Dio, quello dell’Apostolo, quello della Gerarchia, strumento indispensabile, istituito e voluto da Cristo, come veicolo incaricato di tradurre in linguaggio sperimentabile il messaggio del Verbo e del precetto divino. Così insegna con San Paolo la dottrina cattolica: «Quomodo audient sine praedicante?. . . Fides ex auditu»: come potranno intendere senza uno che parli predicando? . . . la fede nasce dall’ascoltare (Rom. 10, 14 e 17).

Vi diciamo questo, Figli e Figlie, anche per un’altra ragione: domenica scorsa la Chiesa nostra, da qualche anno, fissa su questo stupendo ordine di pensieri teologici e spirituali un suo pensiero pastorale, diventato assillante, quello delle vocazioni, e per vocazioni qui si intendono le chiamate libere e privilegiate al totale servizio e all’unico amore di Cristo nei posti specificamente determinati dalla santa Chiesa. Sono le vocazioni ecclesiastiche, sono le vocazioni religiose. Sono quelle che palesano un’iniziativa, un desiderio, una aspettativa di Cristo. Perché Cristo chiama. Come agli Apostoli, da Lui eletti ed educati, Gesù ripete ancor oggi: vieni e seguimi. È il Pastore che viene a colloquio personale, intimo, sconvolgente forse ed avvincente: chiama per nome, «nominatim»: Te io chiamo!

Voi sapete che oggi, mentre da un lato cresce il bisogno di chi si consacri all’amore e al culto di Dio e all’amore e al servizio dei fratelli, diminuisce - in molte regioni della Chiesa, anche in quelle che un tempo erano le più fiorenti e fertili di anime generose e pure, votate al Vangelo - diminuisce il numero di questi volontari della Croce e della Gloria di Cristo. La Chiesa viene a trovarsi in una dolorosa e talora pungente condizione: quella d’avere dinanzi a sé il mondo aperto per la sua missione, un mondo che sembra insensibile e repulsivo, e che in realtà attende ed implora: vieni a soccorrerci, adiuva nos (cfr. Act. 16, 9) e non può; non può per mancanza di uomini e di donne, che abbiano accettato di darsi a Cristo e alla salvezza del mondo. Gesù stesso, voi ricordate, sperimentò questa pena, che doveva essere poi perenne nel cuore dei suoi apostoli: «La messe è molta ma gli operai sono pochi» (Matth. 9, 37).

E qui il lamento di Gesù, diletti Figli e Figlie, si fa Nostro! La sua chiamata viene alle Nostre labbra, e suona ora così: rifletta ognuno che ha la grazia, la somma fortuna, d’appartenere alla Chiesa, d’essere un chiamato, d’avere una sua «vocazione» cristiana; e rifletta chi nella coscienza di questa sublime, ma comune chiamata avvertisse un invito più diretto e più profondo, più esigente e più soave, se il Signore non voglia qualche cosa di più della comune fedeltà, non voglia tutto, non voglia quel sacrificio che sembra annientare chi lo accetta e che dà invece a lui la nuova pienezza promessa ai generosi; quel centuplo, che già fin da questa vita terrena conferisce un’intima felicità incomparabile. La vocazione è una grazia che non è di tutti; ma può essere ancor oggi di molti. Di molti giovani, forti e puri; di molte anime che hanno l’ansia della bellezza superiore della vita, l’ansia della perfezione, la passione della salvezza dei fratelli; di molti spiriti, che nella loro stessa timidità ed umiltà sentono scaturire la forza che rende tutto facile e tutto possibile: «Omnia possum in Eo qui me confortat»: tutto posso in Colui che mi sostiene (Phil. 4, 13).

Preghiamo che sia così. Forse qualcuno, che ora ode questa Nostra umile voce di fuori, sente di dentro la voce regale di Cristo?

Preghiamo che sia così: la Nostra Benedizione è per quanti «ascoltano la parola di Dio e la custodiscono» (Luc. 11, 28).



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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