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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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Paolo VI sul Concilio, sulle riforme e sulle false interpretazioni

Ultimo Aggiornamento: 23/05/2014 21:40
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02/08/2013 20:13
 
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UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 29 settembre 1965

 

Le prerogative del popolo di Dio

Diletti Figli e Figlie!

Quando noi abbiamo la fortuna di accogliere queste udienze, sempre così numerose e così variamente composte, Ci ricordiamo d’una bella espressione, che oggi l’esegesi biblica, lo studio teologico, la spiritualità fervorosa hanno messo in più larga circolazione, e che il Concilio ecumenico ha grandemente onorato, dedicandole espressamente il capo secondo della Costituzione sulla Chiesa; e l’espressione è questa: Popolo di Dio.

Il vostro numero, la diversità delle vostre origini, delle vostre età, delle vostre condizioni sociali, e nello stesso tempo l’identità della fede e dei sentimenti, che qui vi riunisce, Ci dànno un’immagine visiva, quasi un campione, di quell’immensa comunità spirituale e sociale, a cui compete questo titolo glorioso: Popolo di Dio. Voi siete Popolo di Dio. Vengono alla mente le parole del re Salomone a Dio: «Ho visto con grande letizia il tuo popolo qui radunato» (1 Par. 29, 17).

Non è che questo titolo sia di recente invenzione. Esso ha una storia; anzi sua è la storia sacra, la storia della salvezza, perché l’uso di questo appellativo risale all’antico Testamento, e ci attesta il disegno di Dio sull’umanità. Dio salva gli uomini svolgendo un piano storico e collettivo; dapprima facendo d’una frazione della moltitudine umana un popolo, il suo popolo, una comunità nazionale, tenuta insieme da due coefficienti: la discendenza etnica, cioè il sangue, e l’obbedienza religiosa al patto instaurato fra Dio e quella comunità. Poi Gesù Cristo instaura un nuovo patto, trasferendo il titolo di Popolo di Dio alla comunità da Lui fondata, la Chiesa, che ha il suo principio d’unità non più in un vincolo razziale, ma in un vincolo spirituale e soprannaturale, costituito dalla fede in Cristo vivificata dalla grazia, dalla carità. Soltanto il rapporto religioso con Cristo è costitutivo della società, che da Lui deriva ed in cui Egli vive.

Che cosa risulta da questa grande innovazione portata da Gestì Cristo rispetto al Popolo di Dio? Risultano due conseguenze: che il principio unitivo del Popolo di Dio è squisitamente e solamente religioso; vitale però, ed operante una misteriosa simbiosi, che fa della moltitudine un solo corpo; l’unità è la definizione essenziale del Popolo di Dio; è la perfezione a cui deve continuamente aspirare. «Tutti i fedeli: uno in Gesù Cristo, scrive Bossuet; e mediante Gesù Cristo: uno fra di loro; e questa unità è la gloria di Dio mediante Gesù Cristo, e il frutto del suo sacrificio. Gesù Cristo è uno con la Chiesa, portando i suoi peccati; la Chiesa è una con Gesù Cristo, portando la sua croce» (Lettre IV, Œuvres, XI, p. 114, Paris 1846).

L’altra conseguenza è la varietà di coloro, persone o nazioni, che sono chiamati a far parte del Popolo di Dio. Nessuno è escluso; tutti sono chiamati, a parità di trattamento. Ricordate San Paolo: «Chiunque infatti di voi è stato battezzato in Cristo, si è rivestito di Cristo. Non importa se sia Giudeo o Greco, né se sia schiavo o libero, né se sia uomo o donna. Perché tutti voi siete una cosa sola in Cristo Gesù» (Gal. 3, 28).

E fate attenzione: questa diversità naturale dei cittadini del Popolo di Dio, cioè della Chiesa, non è soppressa dall’eguaglianza e dalla comunità che compongono i cittadini in unità nella Chiesa medesima; entrando nella Chiesa ciascuno conserva i propri caratteri personali e naturali; non sono abolite le peculiarità nazionali, psicologiche, culturali e sociali. Il che significa che il Popolo di Dio è composto di tanti tipi umani quanti sono quelli che accettano di appartenervi e di abbracciare la sua legge fondamentale di universale fratellanza.

E diciamo inoltre: l’unità del Popolo di Dio non solo non significa uniformità, ma significa rispetto e sviluppo delle note caratteristiche di chi lo compone, mediante un meraviglioso sistema morale psicologico (degno di studio a parte), che bene sa combinare l’ordine comunitario con la giusta libertà dello spirito.

Sarebbe qui da accennare alle prerogative del Popolo di Dio in quanto tale, prerogative sacre ed eccelse, che spesso sono ricordate con le parole famose della prima lettera di S. Pietro: «Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo redento . . .» (2, 9). E sarebbero anche da ricordare le funzioni e i doveri del Popolo di Dio, quali l’adesione e la testimonianza alla sua fede; e tante altre cose, che, conosciute, meditate e vissute, gioverebbero a formare nella comunità cristiana la coscienza della sua elezione, della sua consistenza, della sua missione e del suo finale destino.

Ma basti l’aver ora riconosciuto in voi, cari Figli e Figlie, dei veri cittadini del Popolo di Dio, perché ne gustiate la fortuna, la dignità, la responsabilità e perché la Nostra Benedizione conforti in voi il proposito d’essere sempre di tale Popolo di Dio, che è la Chiesa, membri coscienti, santi e fedeli.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 13 ottobre 1965

 

Amare la Chiesa!

Diletti Figli e Figlie!

Amate la Chiesa! questa sarà la parola che consegniamo al ricordo di questa udienza. Amate la Chiesa! Quale altra raccomandazione vi può fare il Papa, quando Egli è tanto lieto di accogliervi come membri della santa Chiesa, e quando Egli si compiace di ammirare nell’assemblea, che voi qui accolti componete, una figura, anzi una porzione della grande assemblea dei fedeli di tutto il mondo, che compongono la Chiesa stessa? Amate la Chiesa, perché l’ha amata Gesù Cristo, il suo fondatore, che non solo l’ha ideata, iniziata, istruita, educata, arricchita del tesoro inestimabile della sua Parola e dei suoi carismi di grazia e di vita spirituale, ma ha dato la sua vita, il suo sangue per lei, per lei è morto e per lei è risorto, assorbendo in Sé, agnello innocente, le pene, le miserie, le sofferenze, le aspirazioni dell’umanità, e celebrando in Sé la redenzione, che Egli a tutti offre e comunica, a tutti quelli cioè che, accettandola nella fede e nella partecipazione sacramentale, diventano a Lui conformi, anzi suo corpo mistico, sua Chiesa.

Tanto ha amato Cristo la Chiesa da farla rappresentare, nella celebre similitudine di San Paolo (Eph. 5, 25), come sua Sposa, e da indicare l’amore intercorso fra Lui, Cristo, e la Chiesa come il paradigma più alto e più pieno dell’amore, dal quale deve attingere esempio e santità perfino l’amore coniugale.

Amate la Chiesa, Figli carissimi, in quest’ora specialissima della sua storia e della sua vita; l’ora del Concilio; un Concilio, che appunto ha avuto la Chiesa come oggetto principale delle sue discussioni e dei suoi decreti.
Amate la Chiesa, oltre tutto, perché essa è diventata tema d’interesse dell’opinione pubblica, la quale osserva, studia, discute persone, avvenimenti,, problemi riguardanti la Chiesa, come forse non è mai capitato; e perché nell’interno stesso della Chiesa un risveglio s’è prodotto, un fermento, un’inquietudine, una speranza, che tutta la agitano e la scuotono, che le fanno approfondire la coscienza di se stessa, in una incalzante serie di interrogativi interiori, e la spingono a sognare, anzi a tentare espressioni pratiche ed esteriori nuove e originali, in una ricerca di autenticità rigorosa e testuale per alcuni, di conformità al costume storico presente per altri.

Amate la Chiesa. Ma a questo punto dobbiamo completare la Nostra esortazione con un rilievo. Questo fervore di rinnovamento deve essere, innanzi tutto, osservato nella linea dinamica delle sue tendenze e delle sue finalità; e l’osservazione ci presenta, semplificando, due linee correnti in direzioni diverse, talora opposte: una, possiamo dire, centrifuga, l’altra centripeta; una eccitata piuttosto dalla considerazione delle realtà terrene, alimentata dal desiderio di capire il mondo contemporaneo, di esaltare i suoi valori e servire i suoi bisogni, di accettare i suoi modi di sentire, di parlare, di vivere, di estrarre dall’esperienza della vita una teologia umana e terrestre e di dare al cristianesimo espressioni nuove, aderenti, non tanto alle tradizioni sue proprie, quanto all’indole della mentalità moderna; e sta bene;
ma per arrivare a tali risultati questa linea instaura sovente una critica, spesso inizialmente giusta, su manchevolezze, stanchezze, difetti, arcaismi del mondo cattolico, ma poi spesso critica abituale, radicale e superficiale ad un tempo, insofferente della consuetudine e della norma ecclesiastica, incapace alla fine di capire il mistero dell’obbedienza e della carità interiore che collegano e santificano la comunità ecclesiale, per terminare in raffinate espressioni soggettive, spirituali o culturali, che piuttosto disperdono e inaridiscono magnifiche energie, senza potere, né volere più impiegarle umilmente e positivamente nel grande, lento, e coordinato sforzo di costruire la Chiesa.

Vi è un’altra linea, un altro metodo d’interesse per il rinnovamento della Chiesa, quello che mira non al distacco o all’allontanamento dalla sua strutturazione organica, concreta e unitaria, ma al suo avvicinamento all’accrescimento della sua vitalità, cioè della sua santità e della sua capacità di rendere vivo e attuale il Vangelo. Questo è il metodo dell’instancabile riforma, di cui parla la Costituzione conciliare sulla Chiesa, affinché essa seipsam renovare non desinat, non dia mai tregua al suo rinnovamento (c. 2, n. 9).
È il metodo che parte dalla considerazione delle verità rivelate, dei valori propriamente religiosi, della fecondità indeficiente delle dottrine tradizionali, e che si alimenta del godimento di questa continua scoperta, in modo tale che trabocca in un bisogno apostolico e missionario, e trova in sé per il mondo circostante una duplice e complementare capacità: quella di conservarsi libero e puro dalle sue facili contaminazioni, e quella di mettersi al suo fianco, anzi di inserirsi nella sua aggrovigliata compagine, come un olio benefico, come un fermento vitale, come un messaggio di letizia, di bontà, di speranza, che non solo non lo guasta, ma lo corrobora e lo innalza a più alto significato umano, cioè religioso e cristiano.

Noi comprenderemo e ammetteremo la bontà, che si trova anche nel primo metodo di interessamento alla vita della Chiesa, ma non senza che la bontà del secondo lo integri e lo preceda; e a questo conserveremo di preferenza il nome di amore. Di quell’amore alla Chiesa, che ora a voi raccomandiamo e con la Nostra benedizione incoraggiamo.


UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 20 ottobre 1965

 

La mistica città collocata sul monte

Diletti Figli e Figlie!

Noi abbiamo esortato i Nostri visitatori, come, del resto, tutti i credenti, ad amare la Chiesa. Sorge allora spontanea la domanda: perché? Quali titoli ha la Chiesa al nostro amore?

Noi crediamo che questa domanda si presenti allo spirito di chi assiste ad un’udienza come questa, non solo come spettatore curioso, ma come fedele devoto ed avido di meglio comprendere le .ragioni della sua professione cattolica; e crediamo altresì che tale domanda faccia scaturire un fiume di risposte, suscettibili ciascuna di ampia e profonda meditazione.

Perché dobbiamo amare la Chiesa? La domanda si pone subito in relazione con un’altra, estremamente semplice e difficile insieme: che cosa è la Chiesa? che cosa è la Chiesa, perché noi la dobbiamo amare?
E allora i vari aspetti, in cui possiamo scorgere il volto della Chiesa, cioè l’essere suo e la sua missione, la sua origine e la sua storia, i nomi con cui essa è designata, ci si presentano come titoli che esigono la nostra devota affezione alla Chiesa: non è la Chiesa l’oggetto dell’amore di Cristo, la sua mistica Sposa? Se Cristo tanto l’ha amata, fino a dare la vita per lei, fino a farne il termine terreno e storico dell’opera sua, non dovremo noi stessi amarla con simile dilezione? Non è la Chiesa nostra madre, nell’ordine della grazia; nostra maestra, nell’ordine della fede? non è l’arca della nostra salvezza? non è la famiglia di Dio, dove la comunità cristiana, l’intera umanità in via di redenzione, si trova riunita dalla carità e per la carità? E così via.

Noi vorremmo fermare la vostra attenzione, per questa volta, sopra uno dei più luminosi motivi, che esigono il nostro amore alla Chiesa: è santa; la dobbiamo amare perché è santa; perché è la santa Chiesa.

Chi le ha dato questo titolo? Non si trova testualmente questo titolo nella sacra Scrittura, ma lo si deduce (cfr. Eph. 5, 33). Il che vuol dire che la Chiesa stessa se lo è riconosciuto. Il senso della santità è fra le prime deduzioni che la Chiesa trasse dalla coscienza del suo essere e della sua vocazione; così che la qualifica di «Santa», attribuita alla Chiesa, fin dai primi padri apostolici (cfr. San Ignazio, ad Trall., introd.) divenne abituale, entrò subito nei simboli e nelle professioni battesimali della fede (cfr. Denz.-Schoen. 1, 10, etc.), e rimase poi sempre come aggettivo consueto e protocollare per designare una delle proprietà intrinseche e una delle note esteriormente visibili della Chiesa, la sua santità.

E che cosa significa santità? Non possiamo ora soffermarci su questo concetto complesso e vasto come un mare; ci basta accennare alla parentela ch’esso ha con la religione. Dice bene San Tommaso che la santità è essenzialmente la stessa cosa che la religione, salvo che questa si riferisce al culto di Dio, mentre la santità, in senso generale, consiste nell’ordinamento d’ogni atto virtuoso verso Dio stesso (cfr. S. Th. II, II, 81, 8 ad 1); la possiamo perciò considerare come la più alta perfezione morale e spirituale dell’uomo sotto l’influsso della religione. Ciò significa che la santità trova la sua piena e originaria espressione in Dio e da Dio, santo per essenza e prima sorgente d’ogni santità.
La Chiesa perciò è santa in quanto a Dio si riferisce, per tramite e virtù di Cristo, che santa la concepì e la fondò, santa la fece e sempre la va facendo con l’infusione dello Spirito Santo, nei sacramenti e in tutta l’economia della grazia; santa la rende per la custodia e per la diffusione della sua parola, per la distribuzione dei suoi carismi, per l’esercizio delle sue potestà, per la capacità di generare e formare anime viventi in comunione con Dio. La Chiesa è santa come istituzione divina, come maestra di verità divine, come strumento di poteri divini, come società composta di membri aggregati in virtù di principii divini. «Nella misura in cui ella è di Dio, la Chiesa è assolutamente santa» (cfr. S. August.: Contra litteras Petiliani;. P.L. 43, 453; Congar, Angelicum, 1965, 3, p. 279).

Noi dovremmo essere capaci di contemplare questo volto splendente della Chiesa, questa sua visione idealmente santa e perfetta, questa Gerusalemme celeste calata sulla terra (Apoc. 21, 2), questa «città collocata sulla montagna» (Matth. 5, 14), questa santa Chiesa di Dio, umanità rigenerata a formare il Corpo mistico di Cristo. La sua bellezza ci riempie di meraviglia e d’amore. Sì, d’amore, perché questa Chiesa è il pensiero di Dio realizzato nell’umanità, è lo strumento e il termine della nostra salvezza. Impossibile non amare la Chiesa, quando la si e contemplata nella sua santità.

A questo punto Noi avvertiamo la solita obbiezione: ma codesta Chiesa, tutta santa e luminosa, è ideale o reale? è un sogno, un’utopia, o esiste davvero? La Chiesa, che noi conosciamo e che noi siamo, non è piena di imperfezioni e di deformità? La Chiesa storica e terrestre non è composta di uomini deboli, fallaci, peccatori? Anzi non è proprio il confronto stridente fra la santità, che la Chiesa predica e che dovrebbe essere sua, e la sua condizione effettiva, quello che suscita ironia, antipatia e scandalo verso la Chiesa?

Sì, sì: gli uomini che compongono la Chiesa sono fatti dell’argilla di Adamo, e possono essere e spesso sono peccatori. La Chiesa è santa nelle sue strutture, e può essere peccatrice nelle membra umane in cui si realizza; è santa in cerca di santità; è santa e penitente insieme? è santa in se stessa, inferma negli uomini che le appartengono. Questo fatto dell’infermità morale in tanti uomini di Chiesa è una terribile e sconcertante realtà; non dobbiamo dimenticarlo. Ma esso non altera l’altra realtà, esistente nel disegno di Dio e in parte già raggiunta dagli eletti, quella della stupenda santità della Chiesa; ed invece di produrre scandalo e sdegno, dovrebbe produrre amore ancora maggiore, quello che noi abbiamo per le persone care, quando sono malate; un amore che così si pronuncia: affinché la Chiesa sia santa, noi, noi dobbiamo essere santi, cioè veramente suoi figli degni, forti e fedeli.

È ciò che auguriamo dando a tutti la Nostra Benedizione Apostolica.









ANGELUS

Domenica, 31 ottobre 1965

 

Quest'oggi la Nostra benedizione è principalmente rivolta alla grande campana, che vedete qui presente sulla Piazza, circondata da un migliaio di Trentini. È la campana dei Caduti, che l’Opera promotrice di Rovereto, dopo la sua nuova rifusione, ha qua recata, prima di collocarla lassù in Trentino, a Rovereto, dove ogni sera il suo suono, mesto e pio, richiamerà la memoria dei Caduti di tutte le guerre.

Volentieri la benediciamo, insieme a voi tutti, in questa ricorrenza della festa di Cristo Re, e nella prossimità della festa di tutti i Santi e della commemorazione dei Defunti.

La Campana dei morti è la Campana per i vivi. Essa infatti ci invita a non dimenticare chi è morto a causa della guerra, e a pregare affinché la guerra abbia a cessare nel mondo, e la pace possa regnare fra tutti i popoli.


La campana è dedicata alla Madonna addolorata: Maria dolens. Noi ora La invocheremo affinché sia dato riposo eterno alle anime dei Caduti e a quelle dei nostri Defunti, e affinché siano santificati i nostri dolori dal suo, ed Ella ci ottenga da Cristo la vittoria della sua regalità: quella del perdono reciproco, della fraterna concordia, della vera pace, nell’amore e nella giustizia
.









Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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