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Cammino di perfezione di santa Teresa d'Avila Dottore della Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 02/11/2013 15:19
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10/08/2013 12:53
 
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CAPITOLO 30

Dice quanto importi capire ciò che si chiede nell’orazione. Tratta di queste parole del Pater noster: Sanctificetur nomen tuum, adveniat regnum tuum, che si applica all’orazione di quiete, di cui comincia a parlare.  

1. Chi è colui, per quanto sconsiderato sia, che dovendo chiedere una grazia a una persona autorevole, non pensi anzitutto come chiedergliela, per riuscirle accetto e non sembrare scortese? Non deve forse sapere cosa chiedere e comprendere il bisogno che ne ha, specialmente se chiede una cosa importante, come quella che c’insegna a chiedere il nostro buon Gesù? Ma ecco quel che mi sembra degno di nota. Non potevate, Signor mio, concludere con una parola e dire: Dateci, Padre, quello che a noi conviene? Per chi conosce tutto così bene, mi sembra che non ci fosse bisogno d’altro.

2. Oh, eterna Sapienza, per voi e per vostro Padre ciò poteva bastare! Così, infatti, voi vi siete espresso nell’orazione dell’Orto degli ulivi; avete manifestato il vostro desiderio e il vostro timore e, poi, vi siete rimesso alla sua volontà. Ma, mio Signore, voi ci conoscete e, sapendo che non siamo così sottomessi alla vostra volontà come lo eravate voi a quella di vostro Padre, avete ritenuto necessario precisare bene le domande per farci considerare se ciò che gli chiediamo ci conviene e, in caso contrario, indurci a non chiederglielo. Siamo così fatti, in realtà, che se non ci viene dato quello che chiediamo, con questo libero arbitrio di cui disponiamo non accetteremo ciò che il Signore voglia darci. D’altronde, anche se è il meglio, non crediamo mai di essere ricchi se non quando abbiamo il denaro tra le mani.

3. Oh, mio Dio, com’è debole la nostra fede! Tanto debole che non riusciamo a capire né quanto sia certo il castigo né quanto lo sia il premio che avremo! Per questo è bene, figlie mie, che sappiate ciò che chiedete nel Pater noster affinché, se il Padre eterno ve lo concederà, non abbiate a rifiutarglielo; considerate assai attentamente se vi conviene; altrimenti non chiedeteglielo, ma pregate Sua Maestà di illuminarvi, perché siamo ciechi e proviamo ripugnanza per i cibi che devono darci la vita, mentre ricerchiamo quelli che ci condurranno alla morte. E che morte spaventosa ed eterna!

4. Il buon Gesù, dunque, ci invita a dire le seguenti parole con le quali chiediamo che venga in noi un tale regno divino: Sia santificato il tuo nome, venga a noi il tuo regno. Ma considerate, figlie mie, l’infinita sapienza del nostro Maestro. Considerate qui, con me, perché è bene rendersene conto, che cosa chiediamo con questo regno. Sua Maestà ha visto che non potevamo santificare, lodare, esaltare né glorificare degnamente questo santo nome dell’eterno Padre con le nostre scarse possibilità, se non provvedeva a darci quaggiù il suo regno, e per questo il buon Gesù pose queste due richieste l’una accanto all’altra. Voglio dirvi qui quello che ne penso, affinché possiamo comprendere non solo ciò che gli chiediamo, ma quanto importi insistere per ottenerlo e fare di tutto per piacere a colui che ci può esaudire. Nel caso che non vi soddisfi questa mia spiegazione, trovate voi altre considerazioni. Il nostro Maestro vi autorizzerà, purché vi sottomettiate in tutto a ciò che insegna la Chiesa, come faccio anch’io in questo stesso momento.

5. Ora, il gran bene che a me sembra vi sia nel regno dei cieli, insieme con molti altri, è non tenere più in alcun conto le cose della terra, ma sentire in sé un gran riposo e una piena felicità, gioire della gioia di tutti, godere di una pace continua e provare una profonda soddisfazione interiore nel vedere che tutti santificano e lodano il Signore, ne benedicono il nome e nessuno l’offende. Tutti lo amano e l’anima stessa non attende ad altro, se non ad amarlo, perché lo conosce. E così l’ameremmo quaggiù, conoscendolo, anche se non con questa perfezione e continuità, ma sempre molto diversamente da come lo amiamo.

6. A quanto dico, sembrerebbe che dobbiamo essere angeli per rivolgergli questa richiesta e pregare bene vocalmente. Ben lo desidererebbe il nostro divino Maestro, visto che ci prescrive di rivolgergli una richiesta così sublime, e si può essere certi che egli non ci suggerisce di chiedere cose impossibili. Sarebbe possibile pertanto, con l’aiuto di Dio, che un’anima vivente ancora in quest’esilio l’ottenesse, anche se non con la perfezione di quelle che son libere da questo carcere, perché dopo tutto si è ancora tra i flutti del mare e in viaggio. Ma vi sono momenti in cui il Signore, vedendoci stanchi del cammino, ci procura un riposo delle potenze e una serenità dell’anima tali da far chiaramente capire, per segni manifesti, quale sia il sapore di ciò che viene dato a coloro che egli introduce nel suo regno; e a quelli di cui esaudisce quaggiù la richiesta dà pegni capaci di alimentare la grande speranza di andare a godere eternamente ciò che qui ci viene dato a sorsi.

7. Se non doveste accusarmi di parlare di contemplazione, verrebbe a proposito, in questa richiesta del Pater, dire qualcosa sull’inizio della pura contemplazione, chiamata, da coloro che ne sono favoriti, orazione di quiete. Ma – ripeto – io tratto di orazione vocale, e a chi non ne abbia esperienza sembra che una cosa non vada bene con l’altra, mentre io so che si conciliano perfettamente. Perdonatemi se ve ne voglio parlare, perché conosco molte persone le quali, mentre pregano vocalmente – com’è stato detto – sono elevate da Dio, senza che esse sappiano come, a un alto grado di contemplazione. Ne conosco una, ad esempio, che non poté mai praticare se non l’orazione vocale e, attaccata ad essa, realizzava tutto. Se, invece, non pregava così, l’intelletto si smarriva talmente che diventava un supplizio. Magari avessimo tutte un’orazione mentale così perfetta com’era la sua vocale! In certi Pater noster che recitava in onore delle varie volte in cui il Signore sparse il suo sangue – e in poche altre preghiere – impiegava alcune ore. Una volta venne da me piena d’angoscia perché non sapeva elevarsi alla contemplazione, ma solo pregare vocalmente. Le chiesi cosa recitasse: vidi allora che, fedele al Pater noster, arrivava alla pura contemplazione e il Signore la elevava anche fino all’orazione di unione. Del resto, appariva chiaro dalle sue opere che doveva ricevere grazie assai sublimi, perché spendeva santamente la sua vita. Io ne lodai il Signore e invidiai la sua orazione vocale. Se questo è vero – com’è in realtà – non pensate, voi che siete nemici dei contemplativi, di non poter diventarlo anche voi, se recitate le orazioni vocali come devono essere recitate, con una coscienza pura.



CAPITOLO 31

Prosegue sullo stesso argomento. Spiega cosa sia l’orazione di quiete e dà alcuni consigli a coloro che la praticano. È un capitolo molto importante.

1. Voglio ora, figlie mie, continuare a spiegarvi – secondo quanto ho sentito dire da altri o il Signore ha voluto farmi capire, forse proprio perché ve ne parli – questa orazione di quiete. In questa preghiera a me sembra, come ho detto, che il Signore cominci a mostrarci che ascolta la nostra richiesta, dando inizio al possesso del suo regno quaggiù, affinché lo lodiamo sinceramente, santifichiamo il suo nome e procuriamo che lo facciano tutti.

2. Questa è già una cosa soprannaturale che non possiamo procurarci da noi, nonostante ogni nostra diligenza possibile. L’anima infatti entra ormai nella pace o, per meglio dire, ve la fa entrare il Signore con la sua divina presenza, come fece con il giusto Simeone. Allora tutte le potenze restano inattive e l’anima si rende conto, per virtù di una consapevolezza del tutto estranea a quella procurata dai sensi esterni, d’essere ormai assai vicina al suo Dio, tanto che, innalzandosi un po’ di più, diverrebbe una cosa sola con lui, mediante l’unione. Mi esprimo così non perché lo veda con gli occhi del corpo o con quelli dell’anima. Nemmeno il giusto Simeone, guardando il glorioso Gesù, vedeva più di un bambino poverissimo; dai panni che l’avvolgevano e dalle poche persone che l’accompagnavano nella processione, l’avrebbe piuttosto creduto figlio di povera gente che Figlio del Padre celeste, ma lo stesso infante divino glielo fece intendere. A questa medesima comprensione l’anima giunge qui, anche se non con uguale chiarezza, non sapendo ancora come riesca a capirlo; vede solo che è nel suo regno, o per lo meno vicino al Re che glielo deve dare, e si sente compresa di tale rispetto da non osare chiedere nulla. Si è come tramortiti, interiormente ed esteriormente, al punto che l’uomo esteriore (cioè il «corpo», perché m’intendiate meglio) non vorrebbe muoversi, allo stesso modo di chi, arrivato quasi al termine del cammino, si concede un po’ di riposo, per poi riprendere il viaggio, con forze rinnovate, perché in quella sosta gli si raddoppiano.

3. Si provano un grande benessere fisico e una profonda gioia spirituale. L’anima è così felice solo di vedersi vicino alla fonte, che anche prima di bere si sente già sazia. Le sembra che non ci sia altro da desiderare: le potenze sono talmente tranquille che non vorrebbero muoversi; tutto le appare d’impedimento ad amare, anche se le potenze non sono così assopite da non percepire chi sia colui presso il quale si trovano, perché due di esse restano libere. Solo la volontà è qui schiava, e se, in questo stato, può sentire qualche pena, è quella di sapere che deve riacquistare la libertà. L’intelletto non vorrebbe comprendere che una cosa, la memoria non ricordarne che una sola, perché vedono che la volontà sola è necessaria, mentre le altre due facoltà non fanno che turbare l’anima. Coloro che sono in questo stato non vorrebbero che il corpo si muovesse, nel timore di perdere quella pace, pertanto non osano muoversi. Dà loro pena il parlare: per dire un solo Pater noster possono impiegare anche un’ora. Sono così prossimi a Dio che s’intendono per segni. Stanno nel palazzo accanto al loro Re e capiscono che egli comincia a dar loro fin da questa vita «il suo regno»; non hanno l’impressione di stare nel mondo, né vorrebbero vederlo né udirlo, per vedere e udire soltanto il loro Dio; nulla dà loro pena e nulla sembra possa dargliene. Infine, per tutto il tempo in cui permangono in questo stato, con la soddisfazione e la gioia che hanno in sé, le anime sono talmente estasiate che non ricordano che ci sia altro da desiderare e direbbero volentieri con san Pietro: «Signore, facciamo qui tre tende».

4. Qualche volta, in questa orazione di quiete Dio concede un’altra grazia assai difficile da capire, se non se ne è fatta molta esperienza; ma per poco che tale esperienza esista, chi l’avesse fatta m’intenderà subito e sarà per lui una gioia grande sapere cosa sia. Io credo anche che Dio la conceda spesso insieme con la precedente. Quando lo stato di quiete è profondo e dura molto, mi sembra che, se la volontà non fosse attaccata a qualcosa, non potrebbe restare a lungo in quella pace. Accade infatti di sentirci per un giorno o due pieni di questa felicità, senza renderci conto di come ciò avvenga. Si vede bene – mi riferisco a quelli che godono di questo favore – che non si è tutti interi nell’applicarsi a qualcosa: manca il meglio, la volontà che, a mio parere, è unita a Dio e lascia le altre potenze libere, affinché si occupino di cose attinenti al suo servizio. E per questo esse hanno allora una capacità molto maggiore, mentre per trattare le cose del mondo sono inabili e, a volte, come inebetite.

5. È una grande grazia, questa, per chi la riceve dal Signore, in quanto unisce in sé la vita attiva e la vita contemplativa. Tutto serve, allora, in noi all’unisono il Signore, perché la volontà attende al suo lavoro, cioè alla sua contemplazione, senza sapere come lo compia; le altre due potenze fanno l’ufficio di Marta; pertanto Marta e Maria vanno insieme. Io so di una persona alla quale il Signore concedeva spesso questo stato. Non riuscendo a capirci nulla, ne chiese spiegazione a un grande contemplativo, il quale le disse che era una cosa possibile e che a lui accadeva spesso. Penso pertanto che, essendo l’anima così soddisfatta in questa orazione di quiete, la potenza della volontà sia quasi sempre unita a colui che solo può soddisfarla.

6. Mi sembra che sarà bene qui dare alcuni suggerimenti a quelle tra voi, sorelle, che il Signore, solamente per sua bontà, ha fatto giungere a questo stato, perché so che ve ne sono alcune. Il primo è che, vedendosi così piene di gioia senza sapere come tale gioia sia loro venuta, per lo meno rendendosi conto di non averla potuta raggiungere per se stesse, sono prese dalla tentazione di credere alla possibilità di trattenerla, così che non vorrebbero neppure respirare. Ed è una sciocchezza, perché allo stesso modo in cui non possiamo far spuntare il giorno, così non possiamo evitare che faccia notte: non è già tale grazia opera nostra, ma soprannaturale ed è assolutamente impossibile acquistarla con le nostre forze. Il modo migliore per conservarla è comprendere chiaramente che a questo riguardo noi non abbiamo voce in capitolo, che ne siamo in degnissimi e che dobbiamo riceverla con riconoscenza, senza servirci di molte parole, ma solo di un alzare gli occhi come il pubblicano.

7. È bene ricercare una maggiore solitudine per meglio facilitare l’azione del Signore e lasciare che Sua Maestà operi in noi come in casa propria. Tutt’al più, di quando in quando, pronunciare una parola dolce, come chi soffia leggermente sulla candela, quando la vede spegnersi, per ravvivarne la fiamma; ma, io credo, non servirebbe ad altro che a spegnerla se sta ardendo. Dico pertanto che il soffio dev’essere leggero, onde evitare che, per mettere insieme con l’intelletto molte parole, non si occupi la volontà.

8. Considerate attentamente, amiche mie, questo suggerimento che ora voglio darvi, perché vi vedrete molte volte nell’impossibilità di farcela con le altre due potenze. Accade, infatti, che l’anima sia immersa in una quiete profonda e che l’intelletto sia così distratto da non accorgersi che quanto avviene si svolge nella sua casa; gli sembra allora d’essere un ospite in casa altrui; va allora in cerca di altro alloggio dove stare, non essendo soddisfatto di quello, perché non gli piace stare fermo. Forse sarà così solo del mio, e diversamente degli altri. Parlo dunque di me stessa. Alcune volte desidero morire, incapace come sono di porre un rimedio a questa mobilità dell’intelletto. Altre volte questo sembra trovare stabilità in casa sua, accompagnandosi alla volontà, e quando tutt’e tre le potenze sono in buona armonia, è un paradiso, come avviene di due sposi: se si amano, ognuno vuole quel che vuole l’altro, mentre, se sono male accoppiati, si vede subito l’inquietudine che un marito può dare a sua moglie. La volontà pertanto, quando si trova in questa quiete non faccia caso dell’intelletto più che di un pazzo, perché se lo vuole trascinare con sé, forzatamente dovrà distrarsi e in parte turbarsi. Al grado di orazione a cui è giunta tutto ciò sarà affaticarsi per non guadagnare nulla, anzi, perdere quello che il Signore le concede senza alcuna fatica da parte sua.

9. Fate attenzione a questo paragone, che mi sembra cada a proposito qui: l’anima è come un bambino lattante attaccato al seno della madre, la quale, senza che egli faccia lo sforzo di succhiare, gli spreme il latte in bocca per tenerezza. Così avviene qui dove, senza alcun lavoro dell’intelletto, la volontà è intesa ad amare e comprende, senza pensarci, per volere di Dio, che sta con lui e che non deve far altro se non inghiottire il latte che Sua Maestà le pone in bocca e godere di quella dolcezza, riconoscendo che tale grazia le viene dal Signore; goda, quindi, di goderne, ma non cerchi di capire come ne goda e che cosa gode; si sforzi, anzi, di dimenticarsi, perché chi le sta accanto non mancherà di provvedere a ciò che le conviene. Al contrario, se si mette a lottare con l’intelletto per farlo partecipe del suo stato, trascinandolo con sé, non potrà arrivare a tutto e necessariamente si lascerà cadere il latte dalla bocca, perdendo così quel sostentamento divino.

10. La differenza tra questa orazione e quella in cui tutta l’anima è unita a Dio è che in quest’ultima non si ha neanche bisogno d’inghiottire il nutrimento; lo pone il Signore all’interno di noi stessi, senza che sappiamo come. Nell’altra, invece, sembra volere che si lavori un po’, anche se il lavoro si compie con tanta tranquillità che quasi non si avverte. Chi dà questo tormento all’anima è l’intelletto, il che non accade quando c’è l’unione di tutt’e tre le potenze, perché colui che le ha create ne sospende l’attività singola. Infatti, con la gioia di cui le inonda, sono tutte rapite in questo, senza sapere né intendere come. Ripeto, pertanto, quando l’anima si trova in questa orazione sperimenta una felicità dolce e profonda della volontà. Benché non possa precisare in cosa consista, vede tuttavia che è assai diversa da ogni soddisfazione terrena e che non basterebbe essere padroni del mondo con tutti i suoi piaceri per poter sentire in sé quella gioia. Questa è nell’intimo della volontà, mentre i piaceri della vita essa li gode, mi sembra, all’esterno della volontà, come, per così dire, nella superficie di essa. Quando, dunque, si vede elevato a un alto grado di orazione (che è, come ho già detto, evidentemente soprannaturale), non si preoccupi se l’intelletto o – per essere più chiara – il pensiero, si lasciasse andare alle maggiori insensatezze del mondo. Si rida di esso, lo consideri come un pazzo e se ne resti nella sua quiete, incurante del suo andirivieni. Qui la volontà è potente sovrana e lo richiamerà a sé senza che voi ve ne occupiate. Se, poi, l’anima vuol richiamarlo a viva forza, perde l’energia che ha contro di esso in virtù del nutrirsi e accogliere in sé quel divino sostentamento, sì che né l’uno né l’altro guadagneranno nulla, ma entrambi perderanno. Si dice che «chi troppo vuole nulla stringe», e così credo che avverrà qui. L’esperienza vi aiuterà a capirlo, perché non mi meraviglierebbe che tutto ciò possa sembrare molto oscuro e non necessario a chi non l’abbia provato. Ma, ripeto che per poco che se ne faccia esperienza, si capirà, se ne trarrà vantaggio e si loderà il Signore che mi ha concesso di riuscire a parlarvene qui.

11. Ora, dunque, concludiamo dicendo che l’anima, giunta a questa orazione, può già credere che l’eterno Padre abbia esaudito la sua richiesta di darle il suo regno quaggiù. Oh, benedetta richiesta che ci fa chiedere un così gran bene senza saperlo! Oh, benedetto modo di chiedere! Per questo, sorelle, vorrei che considerassimo bene come recitiamo quest’orazione del Pater noster e tutte le altre preghiere vocali. Una volta che Dio ci ha fatto questa grazia, non dobbiamo più preoccuparci delle cose del mondo, in quanto il Signore, arrivando nell’anima, la sgombra di ciò che la occupa. Non dico che tutti coloro che abbiano tale grazia debbano essere, per ciò stesso, staccati completamente dal mondo, ma desidero che almeno capiscano quello che loro manca, si umilino e si adoperino gradatamente a distaccarsi in modo assoluto, altrimenti resteranno fermi a questo punto. Quando un’anima riceve da Dio tali pegni è segno che è stata da lui eletta a grandi cose: se non è per sua colpa, andrà molto innanzi. Ma se Dio vede che, pur avendo egli posto il regno del cielo nella sua casa, se ne ritorna alla terra, non solo non gliene svelerà i segreti, ma le farà di rado questa grazia e per breve tempo.

12. Può anche essere che io m’inganni in proposito. Vedo, però, e so che le cose vanno così, anzi, sono convinta che sia questo il motivo per cui vi sono poche anime dedite alla vita spirituale. Siccome non rispondono con le opere a una tale grazia, non tornando a disporsi a riceverla, ma ritirando dalle mani del Signore la volontà che ormai riteneva come cosa sua, e collocandola in cose tanto vili, il Signore va in cerca di anime che lo amino davvero, per concedere loro favori più grandi. Tuttavia il Signore lascia alle prime quello che ha loro elargito, purché vivano con una coscienza pura. Ma vi sono persone, e io sono stata una di esse, alle quali il Signore dà sentimenti di devozione, sante ispirazioni, luce sulla vanità del tutto e, infine, il dono di quiete, mentre esse fanno le sorde. Questo perché sono talmente desiderose di parlare e di dire molte orazioni vocali in gran fretta, come chi vuole portare a termine presto il suo compito, nella misura in cui sono obbligate a recitarle ogni giorno. E sebbene – come ho detto – il Signore ponga loro nelle mani il suo regno, non lo accettano, perché pensano di far meglio con le loro preghiere, e così si distraggono dall’orazione di quiete.

13. Voi, sorelle, non fatelo, e state bene attente quando il Signore vi concederà questa grazia. Badate che, perdendola, perdereste un gran tesoro e che fate molto di più pronunciando di quando in quando una sola parola del Pater noster che recitandolo molte volte in fretta. Colui che voi pregate è così vicino che non mancherà di ascoltarvi. Credetemi, in questo consiste il lodare e santificare veramente il suo nome. Infatti voi allora glorificherete il Signore come persone della sua casa, lo loderete con maggiore affetto e fervore e, infine, vi sembrerà impossibile fare a meno di servirlo.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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