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L' ESAME DI COSCIENZA.......e la preparazione per una buona Confessione dei peccati! 2

Ultimo Aggiornamento: 23/10/2016 09:19
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24/06/2016 21:44
 
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L’abbraccio del Padre


  in L'Eterno  da 

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…in fondo, ciò che dobbiamo chiedere a Dio, prima di inginocchiarci davanti al prete per ricevere il Sacramento della Penitenza, è il dono di un perfetto dolore…



Un tentativo di fare chiarezza sul Sacramento della Penitenza e sul ministero di Riconciliazione. Sul peccato e la remissione, il pentimento e la conversione. Partendo da una lettura profonda, attenta ai dettagli che sfuggono ai più, della mirabile parabola del Figliol Prodigo


 


padre Francesco Solazzodi p. Francesco Solazzo, Passionista

Di perdono, chiaramente, ha senso parlare dopo che una persona ha commesso un torto verso un’altra persona. Questo torto separa le due persone e le allontana l’una dall’altra, come se innalzasse un muro fra esse. Il male crea incomunicabilità, proprio nel senso di ciò che è il contrario della comunione, crea dunque discordia e inimicizia.


Rispetto a questo moto di allontanamento, il perdono è il cammino inverso: abbatte quel muro che separa e fa ritrovare l’amicizia. A buon titolo, allora, possiamo ritenere la riconciliazione come frutto del perdono.


Questo cammino di riconciliazione, però, non può essere percorso in solitaria, perché non ha un unico verso: sono, sempre e necessariamente, coinvolte tutte e due le parti in causa. Se da una parte c’è chi chiede perdono, ma dall’altra non c’è chi lo offre, esso non si perfeziona e, dunque, non c’è riconciliazione. Simmetricamente, se da una parte c’è chi offre il perdono ma dall’altra non c’è chi lo chiede, parimenti non c’è riconciliazione. La riconciliazione, dunque, esige la reciprocità; cioè che chi ha sbagliato riconosca l’errore e si umili a chiedere perdono e che chi ha subito il torto ugualmente si umili a deporre ogni intenzione di vendetta e accondiscenda alla richiesta di perdono.


Quanto affermo, non toglie che rimanga un’azione moralmente meritoria il fatto di offrire il perdono da parte della persona offesa o il chiederlo da parte del colpevole: non è questo il centro del nostro discorso. Qui mi preme sottolineare quanto sia essenziale la reciprocità affinché vi sia vera riconciliazione.



Riconciliazione fra Dio e l’uomo



Se il perdono fra uomini richiede per il suo perfezionamento la reciprocità, questo vale anche per quanto riguarda il rapporto fra Dio e il peccatore. Se Dio non ci offrisse il suo perdono sarebbero vane tutte le nostre suppliche e le nostre penitenze. Parimenti, quando non chiediamo perdono di cuore a Dio, rendiamo vana la sua offerta di perdono.


Noi ora sappiamo che Gesù Cristo, con il Sacrificio della sua Croce, ci ha dato la certezza assoluta che Dio perdona tutti i nostri peccati: se dunque possiamo essere certi di questo, allora ne consegue che ciò che ci viene richiesto perché possiamo riconciliarci con Dio è il nostro pentimento. Ogni qual volta che non c’è riconciliazione significa che vi è una mancanza nostra, e solo nostra.



La sicurezza del perdono non prescinde dal confessionale



L’assoluzione del sacerdote rende attuale per noi la sentenza che Cristo ha emesso a nostro favore sulla Croce.
L’ASSOLUZIONE DEL SACERDOTE RENDE ATTUALE PER NOI LA SENTENZA CHE CRISTO HA EMESSO A NOSTRO FAVORE SULLA CROCE.

Se abbiamo la certezza assoluta del perdono di Dio, allora si potrà obiettare che è inutile il Sacramento della Penitenza: a cosa può mai servire confessare i propri peccati e ricevere l’assoluzione impartita dal sacerdote? non basta volersi pentire col cuore e con la volontà? Inutile dire che si tratta di un grave errore, perché così ci abbandoniamo a noi stessi, in balia di quanto più effimero vi sia in noi (Cfr. Ger 17,9: « Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? »). Sulla necessità di questo Sacramento diremo prima di tutto che nella confessione si esprime la propria contrizione, conditio sine qua non del perdono e della riconciliazione.


Riguardo l’assoluzione, invece, val la pena ricordare quanto ha insegnato il Santo Papa Pio X nel suo Catechismo Maggiore. Egli dice: « L’assoluzione è la sentenza, che il sacerdote pronunzia in nome di Gesù Cristo, per rimettere i peccati al penitente » (n. 688). L’assoluzione, dunque, muta la sentenza di condanna, che spetta a noi peccatori, in una sentenza di riconciliazione con Dio ed è necessaria in quanto rende attuale quella sentenza.


Per intenderci, al modo in cui la S. Messa rinnova e rende attuale, nel momento che stiamo vivendo, il Sacrificio della Croce, allo stesso modo l’assoluzione sacramentale rende attuale per la nostra persona il frutto che da quel Sacrificio è nato. E come la S. Messa non toglie e non aggiunge niente al perfetto Sacrificio della Croce, ma toglie o aggiunge a noi i benefici di quel Sacrificio, allo stesso modo l’assoluzione sacramentale non toglie e non aggiunge niente alla sentenza che Gesù Cristo ha pronunciato a nostro favore sulla Croce, ma toglie e aggiunge a noi il favore di quella sentenza.



Il cuore del sacramento di Penitenza: la contrizione del fedele



«689. Delle parti del sacramento della Penitenza qual è la più necessaria?


«Delle parti del sacramento della Penitenza la più necessaria è la contrizione, perché senza di essa non si può mai ottenere il perdono dei peccati, e con essa sola, quando sia perfetta, si può ottenere il perdono, purché sia congiunta col desiderio, almeno implicito, di confessarsi».


Con queste parole di S. Pio X entriamo nel vivo del discorso sul perdono e riconciliazione, perché ci vengono in aiuto confermando quanto abbiamo detto più sopra sul fatto che noi possiamo avere la certezza assoluta del perdono di Dio e che, se la riconciliazione non avviene, la deficienza è solo nostra. Se infatti Dio non ci perdonasse o vi potessero essere dubbi sul suo perdono, anche la più perfetta delle contrizioni sarebbe assolutamente inutile.


È ancora una volta il Catechismo Maggiore di S. Pio X che ci viene in aiuto per comprendere cosa sia la contrizione e come operi nella nostra anima e nel cammino di riconciliazione con Dio. Scrive il santo Papa al n. 681 del suo Catechismo:


«La contrizione, ossia il dolore dei peccati, è un dispiacere dell’animo, pel quale si detestano i peccati commessi e si propone di non farne più in avvenire »; e al n. 682 scrive: « La parola contrizione, vuol dire rottura o spezzamento, come quando una pietra è pestata e ridotta in polvere».


Il ladrone pentito, in punto estremo, si riconobbe peccatore e confessò la regalità di Cristo.
IL LADRONE PENTITO, IN PUNTO ESTREMO, SI RICONOBBE PECCATORE E CONFESSÒ LA REGALITÀ DI CRISTO.

Il potere di poterci pentire e convertire non è affatto scontato e banale, se Dio non avesse avuto misericordia di noi, saremmo rimasti per sempre avvinti nell’inganno del peccato e della morte. Pentimento e conversione, dunque, sono un dono che Dio ci ha dato per mezzo dei meriti del Sacrificio di Cristo sulla Croce, meriti che vanno bel al di là del momento in cui Gesù è morto e che abbracciano l’intera storia umana, fin dalle sue origini.


È su quell’evento, infatti, che trova forza la prima sentenza che Dio pronunciò in favore dell’uomo peccatore, allontanando da lui il diavolo; quando disse: « Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno » (Gen 3,15). Dio, dunque, per ricostruire la sua amicizia con l’uomo, ha posto inimicizia fa questi e il diavolo e ha dato alla stirpe dell’uomo il potere di schiacciare la testa al serpente, nonostante le insidie del nemico. In quel momento Dio aveva già deciso la Redenzione, ossia l’Incarnazione, la Passione, la Morte e la Risurrezione del Figlio.



Le due fasi della contrizione



La contrizione si realizza dunque in due fasi simultanee e speculari l’una all’altra: il pentimento, che è l’odio per il male commesso, e la conversione, che è il proponimento di non commetterne più nel futuro. Si trova dunque nelle nostre mani (non certamente per nostro merito, ma per i meriti della Passione di Gesù) il potere di spezzare i vincoli che ci legano al peccato e ci tengono lontani dall’amicizia con Dio.


Possiamo comprendere a questo punto come mai l’Apostolo Paolo si mostri tanto vigoroso nell’esortare i cristiani di Corinto, a cui dice: « Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio » (2Cor 5,20). Dio ha mosso i primi passi verso di noi, si è abbassato fino al punto di lasciarsi condannare alla morte di croce per potersi, Lui per primo, riconciliare con noi, dunque l’unica cosa che ci chiede è di accettare questo abbraccio del Padre, allo stesso modo in cui il ladrone pentito, nel punto estremo della sua vita, fece la confessione dei peccati (quando disse: «Noi [siamo stati crocifissi] giustamente perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni.» – Lc 23,41) e confessò la regalità di Cristo (quando disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo Regno.» – Lc 23,42).



Il ministero della Riconciliazione: il momento del prete



La buona e la cattiva confessione. Dipinto spagnolo
LA BUONA E LA CATTIVA CONFESSIONE. DIPINTO SPAGNOLO

Il discorso sul Sacramento della Riconciliazione, però, non può ancora finire, perché di mezzo c’è un altro personaggio: il prete.


È Dio stesso che ha voluto che ogni Rivelazione e ogni Salvezza, così come ogni ministero, siano mediati: anche Gesù Cristo, infatti, per compiere il Sacrificio redentore e far giungere a noi la sua Divinità,  ha voluto la mediazione della natura umana, la mediazione del Suo corpo e della sua anima umane. Ugualmente ha voluto che non ci sia nella Chiesa alcun ministero che non sia mediato, compreso, dunque, quello della Riconciliazione. Gesù istituì questa mediazione dopo la sua Risurrezione, quando diede il mandato ai suoi Apostoli dicendo: « Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati » (Gv 20,22b-23).


Anche l’Apostolo Paolo, da parte sua, prende atto di questa mediazione e ne riconosce l’origine in Dio stesso. Scrive, infatti: « Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione » (2Cor 5,18-19). Il principio della mediazione è dunque Dio, il quale ha affidato agli Apostoli, e dopo di loro ai Vescovi e ai Presbiteri, l’ufficio del Perdono divino.


Dio ha affidato a noi sacerdoti il compito di mediare la grazie della Riconciliazione, ma non l’ha lasciata al nostro arbitrio, poiché noi siamo solo ministri, cioè servi, di questa grazia. Gesù Cristo ci ha dato dei criteri ben precisi per discernere quando concedere il perdono e quando non concederlo. Rifiutarlo quando esso è dovuto, infatti, sarebbe un atto di superbia perché il sacerdote, in tal caso, abuserebbe del proprio mandato e si porrebbe al posto di Dio stesso che, ricordiamolo, non vuole la morte del malvagio, ma la sua conversione (Cfr. Ez 33,11). D’altra parte, invece, concedere il perdono quando esso non può essere accordato, significa, anche in questo caso, abusare del proprio ministero e sbugiardare Dio come Legislatore e Salvatore.



La parabola del figliol prodigo. Alcuni criteri di discernimento



Discernere il pentimento e la conversione è veramente un compito impervio e quasi impossibile a compierlo se Gesù Cristo stesso non ci avesse istruiti. Una tappa fondamentale di questa istruzione è costituita dalla celeberrima parabola del figlio prodigo (Lc 15,11-32) o, come si preferisce chiamarla in tempi più recenti, del padre misericordioso.


Io qui riporterò una parte di questo brano; chi non lo conosce può leggerlo e a chi lo conosce chiedo di fare attenzione alle parole che ho evidenziato:


11 Disse ancora: « Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e làsperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.15 Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzeròandrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20 Si alzò e tornò da suo padre. »


Gesù, come possiamo vedere, è anche un genio della narrativa: col metodo delle parabole, quindi con un linguaggio semplice e concreto, riesce a comunicare dei contenuti molto complessi e, tante volte, anche astratti; e questo è un eccelso esempio. Come rendere in parole i moti dell’animo umano, così astratti? Come descrivere il processo della disobbedienza e del peccato di un uomo e il suo successivo pentimento e conversione? Gesù usa quelle parole che io ho messo in evidenza col grassetto: i verbi partire e sperperare indicano la dissoluzione, mentre i verbi alzarsi e tornare (andare esprime lo stesso identico concetto; e notiamo come questi due ultimi verbi siano ripetuti due volte, al contrario dei primi!) indicano il pentimento e la riconciliazione.



Questi verbi non sono solo simbolici, ma costituiscono anche dei criteri di discernimento che Gesù ci ha lasciato. Gesù voleva che i suoi discepoli avessero dei saldi principi ermeneutici per poter discernere le situazioni e poter leggere i segni dei tempi; dei principi che non fossero astratti ed “evanescenti”, ma saldi e concreti. Il criterio principe che ci ha lasciato per il discernimento, infatti, è quello esposto nel paragone dell’albero e dei frutti (Cfr. Mt 7,18: « Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi »). Non dobbiamo, cioè scervellarci per comprendere la natura dell’albero, ma sarà il tempo che, portando con sé i frutti, ci dirà di quale albero si tratta. Così, nella parabola che stiamo esaminando, per descrivere i moti dell’animo umano, Gesù non usa parole come cuoreamoresentire, ecc. od altre smancerie (mi si passi il termine) simili, ma usa dei verbi che parlano di gesti concreti, visibili e facilmente verificabili. Ed è proprio in questo senso che essi divengono per noi dei criteri di discernimento.


Se l’unico criterio valido di discernimento è quello di valutare l’albero dai frutti (noi infatti, non siamo come Dio e non possiamo scrutare l’intimo dei cuori) allora l’unico criterio che ci resta per valutare l’autenticità del pentimento, sono i gesti esterni e le azioni che concretamente una persona mette in atto (Cfr. Mt 15,19: «Dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie.»).


Quello che a Gesù preme di far comprendere riguardo il figlio prodigo è che il suo non è un pentimento puramente astratto, ma un pentimento autentico e che, in quanto tale, produce degli effetti visibili nella vita del personaggio. Il figlio prodigo, infatti, non resta là dov’è, ma stacca il culo da mezzo il porcile in cui è andato a finire e, passo dopo passo, giunge alla casa del padre.



La misericordia del padre



Il padre è talmente misericordioso che non rincorre il figlio, ma lo attende in casa, scrutando l’orizzonte. (Eugène Burnand - figlio prodigo Padre in attesa)
IL PADRE È TALMENTE MISERICORDIOSO CHE NON RINCORRE IL FIGLIO, MA LO ATTENDE IN CASA, SCRUTANDO L’ORIZZONTE.
(EUGÈNE BURNAND – FIGLIO PRODIGO PADRE IN ATTESA)

In questa parabola, allora, gli atteggiamenti del padre divengono degli esempi e dei criteri che i pastori possono imitare nel discernimento e anche nell’azione pastorale.
Il padre della parabola, poi, è talmente misericordioso che non si mette all’inseguimento del figlio e, quando è fuori di casa, non va a cercarlo e non affigge in giro manifestini con la foto e la scritta “missing”. Non muove un dito, ma resta in casa in attesa, scrutando l’orizzonte; solo quando lo vede arrivare, e dunque ha la certezza del ritorno, si smuove e gli corre incontro.

Dov’è qui la misericordia? Essa si trova nel rispetto della libertà del figlio: ha messo al mondo un figlio, non un servo, dunque la misericordia sta prima di tutto nella verità del figlio, cioè nel rispetto della sua natura: avrebbe contraddetto se stesso in quanto padre se avesse ostacolato la sua libertà. Continuate a leggere la parabola, infatti, e notate come, delle belle parole che il figlio si prepara da recitare, l’unica frase che il padre non gli consente di dire è: «Trattami come uno dei tuoi salariati». Il padre della parabola, prima di tutto, è così misericordioso che lascia che il figlio vada via di casa; e possiamo pensare che egli abbia intuito le intenzioni del figlio già quando gli ha chiesto di dividere le sue sostanze.

Naturalmente, il suo ruolo di padre sta anche nell’azione educatrice che, nella parabola, non è raccontata, ma è sottintesa e presupposta e che possiamo trovare adombrata nella divisione che il padre fa delle sue sostanze: dà generosamente a ciascun figlio ciò che sarà necessario alla vita; ed è infatti il ricordo di queste sostanze che permette al figlio prodigo di ritornare in sé e di sentire il desiderio della casa paterna.

Miseria e pentimento

Qualcuno potrebbe obiettare, però, che ciò che spinge il figlio a voler tornare dal padre non è un vero pentimento, ma la constatazione del proprio stato di estrema necessità e indigenza in cui era caduto. Questa obiezione non tiene conto della concretezza del linguaggio attraverso cui Gesù vuol comunicare il pentimento e la conversione. Ma, soprattutto, non tiene conto della realtà della situazione in cui il peccato ci precipita. Noi non comprendiamo la necessità del perdono fuori la constatazione della miseria e, fuori della miseria, non abbiamo vera coscienza di peccato, perché il peccato è miseria.
Vi è un peccato dei peccati che noi continuamente commettiamo, cioè quello di sminuire la realtà del peccato e la reale drammaticità degli orrori che esso compie nella nostra vita, con la conseguente miseria in cui ci getta. Quando pecchiamo, non solo col peccato mortale, ma anche con quelli veniali, finiamo per pascolare con i porci e per desiderare il loro cibo, solo che noi non ce ne rendiamo veramente conto. Perché di tanti Santi si dice che non abbiano fatto neanche un attimo di Purgatorio? Non era forse perché avevano una coscienza vivissima di ciò che è il peccato? Altrimenti perché tanti Santi avevano il desiderio di confessarsi ogni giorno? E cos’è in fondo il Purgatorio se non quel momento in cui, lasciata la nostra condizione mondana, non ci si svela in tutta la sua realtà la verità sul peccato, sulla amicizia con Dio che esso rompe?

Questo che ho definito “peccato dei peccati” altro non è che il peccato (o bestemmia) contro lo Spirito Santo, il solo peccato che, concretamente, ci tiene lontani da Dio, perché è quello che impedisce al perdono che Dio ci offre di trasformarsi in Riconciliazione. Il peccato contro lo Spirito Santo è dunque il peccato di un cattivo pentimento e di un cattivo esame di coscienza, ossia il peccato di un pentimento parziale o assente (non fa praticamente differenza). È il peccato di una cattiva coscienza di fronte a Dio. (Su questo argomento magari ne parlerò più estesamente in un altro articolo).

Concludo questo articolo dicendo che , in fondo, ciò che dobbiamo chiedere a Dio, prima di inginocchiarci davanti al prete per ricevere il Sacramento della Penitenza, è il dono di una perfetta contrizione, di un perfetto dolore dei propri peccati.


Un sacerdote risponde

 

Mi aiuti a uscire dal tormento della convivenza omosessuale

 

Quesito

 

Caro Padre Angelo,
sono un ragazzo omosessuale di … anni, che cerca di conciliare le sue scelte di vita con una grande fede che Dio gli ha dato.
Non ho mai cercato di indorarmi la pillola dicendo a me stesso che l'amore è comunque amore, o cose di questo genere, io sono un grande peccatore, vivo con un uomo e nello stesso tempo prego molto e ho una vita spirituale intensa, questo mi provoca un'enorme sofferenza, come se in me convivessero due entità che non possono convivere, ma che non ho la forza, la volontà, il coraggio di cambiare.
Sono estremamente convinto che il percorso che porterebbe la mia persona ad un pò di pace, sia quello della castità, cosa che stando insieme ad un ragazzo e vivendo nella stessa casa, non è oggettivamente possibile, ma di fronte al fatto di andarmene e cambiare la mia vita, mi si erge di fronte un muro di dubbi, incertezze, dolori ed oggettivi impedimenti pratici, da una parte la carne, il demonio, mi tenta e mi fa cadere sempre più in basso, i lacci con cui mi tiene a sé sono per mia responsabilità, molto forti e difficili da spezzare, quindi rischio continuamente di cadere nella disperazione pensando che per me non ci sia salvezza, ma non riesco nemmeno a fare questo perchè Dio mi dona sempre la Grazia di pensare che Lui invece mi ama.
Ho un Padre spirituale che mi segue da molti anni, e occasionalmente mi confesso anche dai sacerdoti della mia parrocchia, tutti mi danno l'assoluzione e mi invitano a fare la comunione, nonostante sappiano perfettamente la mia condizione di vita, io però ho sempre il dubbio atroce di non poter fare la comunione perchè la mia condizione di convivenza è una scelta di vita, anche se la metto in dubbio e mi fa stare male, e quindi un'ipocrisia la mia Comunione, ho sempre paura di commettere sacrilegio e non mi sento mai sereno fino in fondo, questo tarlo mi divora anche nei rari momenti di pace dopo la Santa Confessione.
Cosa devo fare? Io mi vedo come in uno specchio, la mia iniquità la vedo tutta perfettamente e mi fa malissimo.
Mi aiuti Lei a capire, la prego, mi aiuti a uscire da questo tormento.
Grazie in anticipo per la risposta e per la pazienza nella lettura.

 


 

Risposta del sacerdote

 

Carissimo,
1. i sacerdoti ti assolvono perché ti vedono dispiaciuto e pentito.
In questo pentimento pare anche a me di intravedere la volontà di vivere in maniera casta.

 

2. Ma, come constati da te stesso, la convivenza di qualunque tipo costituisce un’occasione prossima di peccato. 
Nell’atto di dolore ci si propone di fuggire le occasioni prossime di peccato.
Di fatto però tu non le fuggi e hai la volontà di rimanerci dentro.

 

3. Certo la cosa migliore sarebbe quella di sciogliere la convivenza. Dice il Signore: “A che serve guadagnare il mondo intero se poi si perde la propria anima?” (Mc 8,36).
E daresti anche una bella e pubblica testimonianza di vita cristiana.
Mentre di fatto con la convivenza omosessuale dai ai fratelli nella fede e soprattutto ai ragazzi e ai giovani una controtestimonianza.

 

4. Sono convinto che gli atti sessuali fra persone dello stesso sesso non sono atti di autentico amore.
Contraddicono infatti la natura della sessualità che è intrinsecamente strutturata per incontrarsi con l’altro sesso e per una finalità obiettiva ben precisa che è quella di mettere concretamente una persona in atteggiamento di donazione e di immolazione di sé. 
Di fatto contraddicono il sapientissimo disegno del Creatore e ne costituiscono una palese perversione.
Inoltre gli atti omosessuali sono atti esplosivi di libidine che devastano interiormente una persona e ne radicano la dipendenza.
Sicché il Magistero della Chiesa nella dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Persona humana dice che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati e che, in nessun caso, possono ricevere una qualche approvazione” (n. 8).

 

5. In un altro documento (Homosexualitatis problema) il Magistero precisa ulteriormente: “Come accade per ogni altro disordine morale, l’attività omosessuale impedisce la propria realizzazione e felicità, perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio” (HP 7).
Come constata un autore di teologia morale “pochi omosessuali, forse nessuno, sono realmente in pace con la loro perversione, stando il fatto che la strada della gratificazione è instabile e incompleta e che il grado di gratificazione nella perversione è sempre limitato.
Il fatto della colpa inconscia si fa largamente luce in molti di questi individui” (K. Pesche, Teologia morale, p. 577).
Sottolineo la motivazione che porta: “stando il fatto che la strada della gratificazione è instabile e incompleta”.

 

6. La gratificazione è completa solo quando la donazione di sé è totale.
Ed è totale solo quando è aperta alla fioritura dell’amore stesso nella generazione e nell’educazione dei figli.
Proprio perché manca questa gratificazione avverti un malessere profondo che non ti lascia in pace con te stesso. Scrivi infatti: “Io mi vedo come in uno specchio, la mia iniquità la vedo tutta perfettamente e mi fa malissimo”.
Sono convinto che se per assurdo la Chiesa ti dicesse: “No, non badare a queste cose e vivi serenamente in pace la tua omosessualità” avvertiresti ugualmente la ribellione interiore della coscienza. È la ribellione della natura.

 

7. Il Magistero dice ancora: “Quando respinge le dottrine erronee riguardanti l’omosessualità, la Chiesa non limita ma piuttosto difende la libertà e la dignità della persona, intese in modo realistico e autentico” (HP 7).
Difende la libertà”: tu avverti invece che la pratica omosessuale ti incatena.
Scrivi: “ma di fronte al fatto di andarmene e cambiare la mia vita, mi si erge di fronte un muro di dubbi, incertezze, dolori ed oggettivi impedimenti pratici, da una parte la carne, il demonio, mi tenta e mi fa cadere sempre più in basso,i lacci con cui mi tiene a sé sono per mia responsabilità, molto forti e difficili da spezzare”.

 

8. Allora proprio per difendere “la libertà e la dignità” della tua persona la strada che ti si apre è quella della castità.
La puoi percorrere facendo evolvere la convivenza omosessuale in amicizia.
Per essere amici non è necessario convivere, soprattutto se la convivenza costituisce un’insidia.

 

9. Il Signore, che ti sta vicino, ti ha già fatto capire che questa è la strada da percorrere: “Sono estremamente convinto che il percorso che porterebbe la mia persona ad un pò di pace sia quello della castità, cosa che stando insieme ad un ragazzo e vivendo nella stessa casa, non è oggettivamente possibile”.
È la strada che il Signore ha fatto intravedere a Sant’Agostino quando si trovava in una situazione di convivenza, con tanto di figlio.
Ecco la sua testimonianza nella quale per alcune versi ti puoi ritrovare pienamente: “Mi trattenevano miserie di miserie e vanità di vanità, mie antiche amicizie, che mi scuotevano la veste di carne e mormoravano piano: ‘E ci lasci? E da questo momento non saremo con te più mai? E da questo momento non ti sarà lecito questo e quello più mai?’. E quali cose mi suggerivano in quell’espressione: ‘questo e quello’, quali cose suggerivano, Dio mio! (…).
Ma da quella parte, dove tenevo rivolta la faccia e trepidavo di fare il passo, mi si mostrava la casta bellezza della continenzaserena e pudicamente lietainvitandomi con tratto onesto ad andare senza dubbi, stendendo per accogliermi ed abbracciarmi le pie mani tra una folla di buoni esempi; fanciulli e fanciulle, giovani molti e gente d’ogni età, vedove austere e vergini anziane; ed era in tutti la stessa purezza non sterile, ma feconda madre di figli della gioia a Te sposo, o Signore. E mi faceva un sorriso d’incoraggiamento come per dirmi: ‘E tu non riuscirai a fare quello che hanno fatto questi e queste? Forse che questi e queste ne hanno la forza in se stessi e non piuttosto nel Signore loro Dio?’ (…). Tale era il combattimento che si svolgeva nel mio cuore: me contro me” (s. agostino, Confessioni, VIII, 11).

 

9. “Fanciulli e fanciulle, giovani molti e gente d’ogni età, vedove austere e vergini anziane”: ebbene non puoi esserci anche tu fra questi?
Con la forza che ti viene dalla grazia di Dio e sostenuto dall’esempio e dall’aiuto celeste di tanti che nella storia cristiana hanno compiuto atti eroici di castità per amore del Signore, anche tu puoi fare questo passo.
E potrai dire con Sant’Agostino: “Che soavità subito provai nell’esser privo di quelle vane dolcezze che prima avevo paura di perdere e ora mi era gioia lasciare!
Eri Tu che le allontanavi da me, Tu vera e somma dolcezza; le allontanavi e invece loro entravi Tu più dolce di ogni voluttà non per la carne e il sangue, Tu più luminoso d’ogni luce, ma più interiore d’ogni segreto, Tu più sublime d’ogni grandezza, non per quelli, però, che sono sublimi in se stessi. 
Già il mio animo era libero dalle dolorose preoccupazioni dell’ambizione, del guadagno e dalla scabbia delle passioni, inquiete e pruriginose. Balbettavo le prime parole a Te, mia luce e ricchezza, mia salvezza, Signore Dio mio” (Ib., IX, 1).

 

10. Ti assicuro la mia preghiera perché tu possa compiere questo passo.
Sarà decisivo per la tua vita che sarà così riempita dalla presenza di Dio, di colui che è “la vera e somma dolcezza”, di colui che “più dolce di ogni voluttà non per la carne e il sangue”, “più luminoso d’ogni luce, ma più interiore d’ogni segreto”.
E sarà di grande testimonianza all’interno della comunità in chi vivi.

 

Ti auguro ogni bene e ti benedico. 
Padre Angelo

 

Un sacerdote Risponde

 

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[Modificato da Caterina63 31/07/2016 16:23]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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