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San Gregorio Magno Regola Pastorale

Ultimo Aggiornamento: 29/11/2013 09:59
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29/11/2013 09:20
 
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Regola pastorale

di san Gregorio Magno, Pontefice romano,

a Giovanni Vescovo della Città di Ravenna

 

Gregorio al reverendissimo e santissimo Giovanni,

fratello nell’episcopato

 

 

 

Carissimo fratello, con intenzione umile e benevola tu mi rimproveri di aver voluto sottrarmi al peso della cura pastorale cercando di nascondermi, ma perché non sembri a certuni che tale peso sia leggero, intendo scrivere in questo libro tutto quello che penso della sua gravità, affinché chi è libero da esso non vi aspiri con leggerezza, e chi vi ha aspirato con leggerezza abbia gran timore di averlo ottenuto.

La materia trattata in questo libro si divide in quattro parti, per accostare l’animo del lettore con ordinate argomentazioni, come i passi successivi di un cammino. Infatti occorre che chiunque sia chiamato al più alto grado del governo pastorale — quando gli eventi storici lo richiedono — valuti seriamente come vi giunge; e se vi giunge legittimamente consideri qual è la sua vita; e se la sua vita è buona, qual è il suo insegnamento; e se il suo insegnamento è corretto, egli deve essere quotidianamente consapevole, con ogni possibile considerazione, della propria debolezza; e così non avvenga che o la sua umiltà lo sottraggadall’accedere alla dignità o la sua condotta di vita contrasti con essa; la sua dottrina si allontani da una buona condotta di vita o la presunzione gli faccia esaltare la propria dottrina. Quindi innanzitutto sia il timore a moderare il desiderio; poi sia la condotta di vita a confermare un magistero che viene assunto da chi non lo cercava; quindi è necessario che quanto di bene si manifesta nel modo di vivere del Pastore si diffonda anche attraverso la sua parola. Resta infine che la considerazione della propria debolezza abbassi ai suoi occhi il valore di ogni opera buona che egli compie, affinché la gonfiezza dell’esaltazione non la cancelli agli occhi del Giudice occulto.

Molti però, che sono simili a me per ignoranza, mentre non sanno misurare se stessi, bramano di insegnare ciò che non hanno imparato e tanto più giudicano leggero il peso del magistero, quanto meno sanno valutarne la grandezza. Costoro si sentano biasimati fin dal principio di questo libro e poiché, indotti e precipitosi come sono, mirano ad occupare la rocca della dottrina, siano respinti dalla temerarietà della loro precipitazione fin dalla soglia del nostro discorso.

 

 

 

PARTE PRIMA

 

REQUISITI DEL PASTORE D’ANIME

 

 

1 — Gli ignoranti non osino accostarsi al magistero

 

Non c’è arte che uno possa presumere di insegnare se non dopo averla appresa attraverso uno studio attento e meditato. Quanta è dunque la temerarietà con cui gli ignoranti assumono il magistero pastorale, dal momento che il governo delle anime è l’arte delle arti. Chi non sa che le ferite dei pensieri sono più nascoste di quelle delle viscere? E tuttavia si dà spesso il caso di persone che non conoscono neppure le regole della vita spirituale ma non temono di professarsi medici dell’anima, mentre chi ignora la virtù terapeutica delle medicine si vergognerebbe di passare per medico del corpo. Ma poiché ormai per volontà di Dio ogni autorità del secolo presente si inchina con riverenza di fronte alla religione, non sono pochi coloro che dentro la Santa Chiesa aspirano alla gloria di una dignità dietro l’apparenza del governo delle anime. Aspirano a passare per maestri, bramano di superare gli altri e — come afferma la Verità — amano i primi saluti in piazza, i primi posti nelle cene, e le prime sedie nelle riunioni (cf. Mt. 23, 6-7).
Essi sono tanto più incapaci di assolvere 
degnamente all’ufficio della cura pastorale che hanno assunto in quanto sono pervenuti al magistero dell’umiltà solo con l’orgoglio; giacché nell’insegnamento perfino la lingua si confonde quando si insegna qualcosa di diverso da ciò che si è imparato. Contro costoro il Signore si lamenta per mezzo del profeta dicendo: Da sé hanno regnato, non designati da me; sono divenuti principi ed io non l’ho saputo (Os. 8, 4). Infatti, coloro che, senza il sostegno di alcuna virtù, non chiamati per vocazione divina ma accesi dalla propria cupidigia non conseguono ma rapiscono il più alto grado del governo delle anime, regnano di proprio arbitrio, non per decisione del sommo reggitore. Tuttavia, il Giudice delle coscienze mentre li eleva non li riconosce, poiché certo nel suo giudizio di condanna egli ignora coloro che pure, nella sua permissione, tollera. Perciò egli dice a certuni che vanno da lui dopo aver compiuto addirittura dei miracoli: Allontanatevi da me operatori di iniquità, non so chi siete (Lc. 13, 27). E così viene aspramente rimproverata dalla voce della Verità la ignoranza dei Pastori, quando essa dice per mezzo del profeta: Perfino i pastori non hanno saputo comprendere (Is. 56, 11). E ancora il Signore li respinge dicendo: Pur avendo in mano la legge non mi hanno conosciuto (Ger. 2, 8).

Dunque, la Verità si lamenta di non essere conosciuta da costoro e dichiara di non riconoscere il primato di chi non la conosce, giacché è certo che quanti non conoscono le cose del Signore, non sono conosciuti da lui, secondo la testimonianza di Paolo che dice: Se qualcuno poi ignora sarà ignorato (1 Cor. 14, 38). Naturalmente poi, a questa ignoranza dei Pastori corrispondono spesso i demeriti dei sudditi, perché quantunque sia tutto a loro proprio carico se i Pastori non possiedono il lume della conoscenza, tuttavia per un rigoroso giudizio accade che a causa della loro ignoranza inciampino anche coloro che li seguono. Di qui la Verità stessa dice nell’Evangelo: Se un cieco presta la sua guida a un altro cieco, cadono ambedue nella fossa (Mt. 15, 14). E il salmista, non esprimendo un desiderio del suo animo, ma nell’esercizio del suo ministero profetico, dichiara: Si oscurino i loro occhi perché non vedano, e piega sempre di più il loro dorso (Sal. 68, 24). Gli occhi sono chiaramente coloro che posti innanzi a tutti al grado sommo della dignità, hanno assunto il compito di fare da guide nel cammino; e quelli che al loro seguito aderiscono ad essi sono giustamente chiamati dorsi. Dunque, se gli occhi si oscurano, il dorso si piega: così quando coloro che guidano perdono la luce della conoscenza, quelli che seguono si curvano inevitabilmente sotto il peso dei peccati.

 

2 — Non occupino il posto del governo delle anime coloro che nel loro modo di vivere non adempiono a quanto hanno appreso con lo studio

 

Ci sono poi alcuni che investigano le regole della vita spirituale con esperta cura, ma poi calpestano con la loro condotta di vita ciò che riescono a comprendere con l’intelligenza: subito si mettono a insegnare ciò che hanno imparato con lo studio ma non con la pratica; e combattono con i loro costumi ciò che predicano con le loro parole. Così avviene che quanto il pastore cammina per terreni scoscesi il gregge che lo segue cade nel precipizio. Perciò il Signore si lamenta per mezzo del profeta contro la spregevole scienza dei Pastori, dicendo: Mentre voi bevevate acqua limpidissima, intorbidavate l’altra con i vostri piedi e le mie pecore si nutrivano di quanto voi avevate calpestato con i vostri piedi e bevevano l’acqua che i vostri piedi avevano intorbidato (Ez. 34, 18-19). I Pastori bevono acqua limpidissima quando attingono alle acque correnti della verità con retta intelligenza, ma è come intorbidare quella stessa acqua con i propri piedi il corrompere gli studi di una meditazione santa con una cattiva condotta di vita. Sono poi pecore che bevono l’acqua intorbidata dai piedi di quelli, i sudditi che non seguono le parole che ascoltano, ma imitano solo ciò che vedono, cioè gli esempi di una vita depravata. Infatti essi hanno sete di quanto viene loro detto con le parole, ma poi sono pervertiti dalle opere e allora è come se nei loro bicchieri bevessero fango perché le sorgenti si sono inquinate.

Perciò è pure scritto per mezzo del profeta: I cattivi sacerdoti sono laccio di rovina per il mio popolo (cf. Os. 5,1; 9,8). E sempre dei sacerdoti dice ancora il Signore: Sono divenuti per la casa di Israele pietra di inciampo per l’iniquità (Ez. 44, 12). In verità nessuno nuoce di più nella Chiesa di chi portando un titolo o un ordine sacro conduce una vita corrotta, giacché nessuno osa confutare un tale peccatore e la colpa si estende irresistibilmente con la forza dell’esempio quando, a causa della riverenza dovuta all’ordine sacro, il peccatore viene onorato. Ma pur essendo indegnissimi, fuggirebbero la responsabilità di una colpa così grave se valutassero con attento orecchio del cuore la sentenza della Verità che afferma: Chi avrà scandalizzato uno solo di questi piccoli che credono in me è meglio per lui che gli si appenda una macina d’asino al collo e lo si getti nel profondo del mare (Mt. 18, 6). Dove la macina d’asino significa quel faticoso ritornare su se stessi della vita del secolo, e il profondo del mare indica la condanna eterna. Pertanto, chi rivestitosi dell’apparenza della santità rovina gli altri con la parola e con l’esempio, sarebbe certo stato meglio per lui che lo avessero trascinato a morte le sue azioni terrestri quand’era nello stato laicale, piuttosto che le sue funzioni sacre lo avessero indicato agli altri — nella sua colpa — come esempio da imitare. Giacché se almeno fosse caduto da solo lo avrebbe tormentato una pena infernale comunque più tollerabile.

 

3 — Il peso del governo delle anime. Bisogna disprezzare le avversità e temere la prosperità

 

Abbiamo voluto dimostrare in breve, con quel che abbiamo detto sopra, quanto sia grave il peso del governo delle anime, perché nessuno che non sia in grado di sostenerlo osi accostarsi temerariamente ai ministeri sacri e, per la bramosia di raggiungere il luogo della massima dignità, si assuma invece la guida della perdizione. Per questo Giacomo mette piamente in guardia dicendo: Non vogliate, fratelli miei, divenire maestri in molti (Giac. 3, 1). E perciò lo stesso Mediatore fra Dio e gli uomini rifuggi dall’assumere il regno sulla terra, lui che superando la scienza e la conoscenza anche degli spiriti celesti regna nei cieli prima dei secoli. Difatti è scritto: Gesù, dunque, sapendo che sarebbero venuti per rapirlo e farlo re, fuggì di nuovo sul monte, lui solo (Gv. 6, 15). Eppure chi avrebbe potuto regnare senza colpa sugli uomini come colui che avrebbe regnato, così., sulle sue creature? Ma poiché era venuto nella carne proprio per questo, non solo per redimerci con la sua passione ma anche per ammaestrarci con la sua vita e offrirsi come esempio per quelli che lo seguivano, perciò non volle divenire re, ma si avviò spontaneamente al patibolo della croce, fuggi la gloria della somma dignità che gli veniva offerta, ricercò la pena di una morte obbrobriosa.
Ciò evidentemente perché noi sue membra imparassimo a fuggire i favori del mondo, a non temere affatto i terrori della morte, ad amare le avversità per difendere la verità, a evitare con timore la prosperità, perché questa con la gonfiezza che l’accompagna corrompe il cuore, mentre le avversità lo purificano attraverso la sofferenza. Nella prosperità l’animo si innalza, ma nell’avversità, anche se prima si fosse innalzato, si prostra. Nella prosperità l’uomo dimentica ciò che è, ma nell’avversità anche non volendolo è richiamato quasi per costrizione a ricordarsene. Nella prosperità spesso anche il bene compiuto prima si corrompe, ma nell’avversità viene cancellato ciò che di male si è commesso anche nel corso di un lungo tempo. Infatti, per lo più sotto il magistero dell’avversità il cuore è come costretto dalla disciplina, ma se poi si innalza fino al più alto grado di governo, per l’esperienza della gloria si muta ben presto fino all’esaltazione. Così Saul, che in un primo tempo era fuggito per non essere fatto re considerandosene indegno (cf. 1 Sam. 10, 22), poi come ebbe assunto la guida del regno si gonfiò, e bramoso di essere onorato davanti al popolo, per non essere rimproverato pubblicamente, rinnegò perfino colui che l’aveva unto re (cf. 1 Sam. 15, 17-30).
Così David, approvato quasi in ogni sua azione dal giudizio di Dio, appena non si senti più oppresso dalla persecuzione ruppe nella superba ferita del peccato (cf. 2 Sam. 11, 3 ss.) e divenne rigido e crudele nel volere la morte di un uomo nobile, mentre era stato molle e senza forza nel desiderio dissoluto di una donna. Lui che prima aveva saputo salvare piamente i malvagi imparò poi a desiderare l’uccisione anche dei buoni con fredda determinazione (cf. 2 Sam. 11, 15). Infatti una volta pur trovandosi nelle mani il suo persecutore non volle colpirlo, ma in seguito uccise un soldato devoto, con danno, inoltre, dell’esercito che già si trovava in difficoltà. E la colpa lo avrebbe certamente strappato e portato ben lontano dal numero degli eletti, se il castigo divino non lo avesse richiamato al perdono (cf. 2 Sam. 12).

 

4 — L’occupazione del governo delle anime per lo più dissipa l’unità dello spirito

 

Spesso le cure assunte col governo delle anime disperdono il cuore in diverse direzioni così che ci si ritrova incapaci di affrontare problemi singoli perché la mente confusa è divisa in molte occupazioni. Perciò un sapiente avvertito ammonisce: Figlio non applicarti a molte attività (Sir. 11, 10). E ciò per dire che la mente divisa in diverse operazioni non può raccogliersi pienamente nella considerazione esigente di ciascuna; e mentre è trascinata al di fuori da una cura prepotente, si svuota di quella unità dello spirito prodotta dall’intimo timore: diviene sollecita nella disposizione di cose esteriori, e ignara solamente di sé, sa pensare a molte cose ma non conosce se stessa. Infatti, quando si immerge più del necessario in occupazioni esterne è come se, distratta lungo un viaggio, si dimenticasse della meta cui era diretta e così, noncurante di attendere all’esame di se stessa, non considera neppure quali danni riceve da ciò e ignora l’entità del suo peccato. In effetti Ezechia non credette di peccare quando mostrò agli ospiti stranieri i depositi dei profumi (cf. 2 Re 20, 13), ma per questa azione che egli aveva stimato lecita dovette portare l’ira del Giudice nella condanna per i suoi discendenti (cf. Is. 39, 4-8). Accade spesso che molte azioni per sé lecite e tali che, quando sono compiute, riscuotono l’ammirazione dei sudditi, provochino però una esaltazione dell’animo anche nel solo pensiero, e questa, quantunque non si manifesti all’esterno con azioni inique, attira su di sé l’ira senza riserve del Giudice.

Poiché è nell’intimo colui che giudica ed è l’intimo che è giudicato; e quando pecchiamo nel cuore ciò che compiamo in noi resta nascosto agli uomini ma il Giudice stesso è testimone del nostro peccato. Infatti il re di Babilonia non peccò di superbia solamente quando giunse a pronunciare parole superbe, poiché egli udì dalla bocca del profeta la sentenza della sua condanna quando ancora non si era esaltato con le sue parole (cf. Dan. 4, 16 ss.). Egli poi, in precedenza, aveva lavato la sua colpa quando aveva riconosciuto onnipotente il Dio che aveva offeso, predicandolo a tutte le genti che aveva sottomesse (cf. Dan. 3, 98-100); ma in seguito esaltato per l’affermazione del suo potere, compiaciuto di aver compiuto grandi cose, si antepose a tutti nel suo pensiero, e quindi si inorgoglì al punto di esclamare: Non è questa la grande Babilonia che io ho edificato come cosa del mio regno, merito della mia forza, gloria della mia maestà? (Dan. 4, 27) Furono certamente queste parole che dovettero sostenere apertamente la vendetta di quell’ira che l’intima esaltazione aveva acceso.
Infatti il severo Giudice aveva veduto già da prima ciò che invisibilmente era in lui e che rimproverò poi pubblicamente con la punizione: lo trasformò in animale irrazionale, lo separò dal consorzio umano, lo associò per la sua mente sconvolta alle bestie della campagna, affinché per un giudizio evidentemente severo e tuttavia giusto, finisse col non essere più un uomo colui che si era stimato grande al di sopra degli uomini (cf. Dan. 4, 28-30). Così, proponendo questi esempi, non intendiamo disapprovare il potere in sé, ma difendere la debolezza del cuore dalla brama di raggiungerlo, affinché gli imperfetti non osino impadronirsi della massima dignità del governo delle anime, né coloro che vacillano sul terreno piano si arrischino a porre il piede sul precipizio.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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