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San Gregorio Magno Regola Pastorale

Ultimo Aggiornamento: 29/11/2013 09:59
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29/11/2013 09:31
 
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6 — Come bisogna ammonire sapienti e incolti


 


Diverso è il modo di ammonire i sapienti di questo mondo e gli incolti. I sapienti, bisogna ammonirli a perdere la scienza di ciò che sanno; gli incolti invece, a desiderare di sapere ciò che non sanno. Negli uni la prima cosa da distruggere è il fatto che essi si giudicano sapienti; negli altri, bisogna ormai edificare tutto ciò che si conosce della sapienza celeste, poiché in loro non c’è alcuna superbia e con ciò è come se avessero preparato i loro cuori a ricevere quell’edificio. Coi sapienti bisogna affaticarsi perché divengano più sapientemente stolti: abbandonino la sapienza stolta ed imparino la sapiente stoltezza di Dio (cf. 1 Cor. 1, 25); agli incolti invece, bisogna predicare in modo che, dalla loro apparente stoltezza si accostino più da vicino alla vera sapienza. Infatti, ai primi è detto: Se qualcuno di voi sembra sapiente in questo secolo, diventi stolto per essere sapiente (1 Cor. 3, 18); e agli altri è detto: Non molti sapienti secondo la carne (1 Cor. 1, 26). E ancora: Dio ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti (1 Cor. 1, 27). Per lo più ci vogliono ragionamenti per convertire i primi; per gli altri, molto spesso valgon meglio gli esempi. A quelli, pertanto, giova rimanere vinti nelle loro argomentazioni; per questi invece, in genere è sufficiente che conoscano azioni altrui degne di lode. Perciò il grande maestro, debitore verso i sapienti e verso gli insipienti (Rom. 1, 14), insegnando agli Ebrei, tra i quali alcuni erano sapienti e altri anche piuttosto rozzi, e parlando loro del compimento dell’Antico Testamento, superò la loro sapienza con l’argomento: Quanto è antiquato e vecchio è presso alla morte (Ebr. 8, 13). Ma poi, rendendosi conto che alcuni si potevano trascinare solamente con la forza degli esempi, aggiunse nella medesima lettera: I santi sperimentarono schemi e battiture e inoltre catene e carcere, furono lapidati, segati, sottoposti a dure prove, uccisi di spada (Ebr. 11, 36-37). E ancora: Ricordatevi dei vostri superiori che vi hanno parlato la Parola di Dio e, considerando quale fu il termine della loro esistenza, imitatene la fede (Ebr. 13, 7). E così vinceva gli uni con la forza del ragionamento; e gli altri li persuadeva ad elevarsi a una vita superiore attraverso una dolce imitazione.


 


7 — Come bisogna ammonire gli sfrontati e i timidi


 


Diverso è il modo di ammonire gli sfrontati e i timidi. I primi, infatti, nulla vale a trattenerli dal vizio della sfrontatezza se non un duro rimprovero, mentre gli altri per lo più si dispongono al meglio con una esortazione moderata. Quelli non si accorgono di fare il male se non ricevono rimproveri da più parti; a convertire i timidi, per lo più è sufficiente che il maestro gli richiami alla mente con dolcezza le loro mancanze. Gli sfrontati, li corregge meglio chi li affronta con un violento rimprovero, ma coi timidi si raggiunge un miglior risultato se si sfiora appena ciò che in essi occorre rimproverare. Perciò il Signore, rimproverando apertamente il popolo sfrontato dei Giudei, dice: La tua fronte è divenuta come quella di una donna prostituta: non hai voluto arrossire (Ger. 3, 3). E di nuovo conforta colei che si vergogna, dicendo: Ti dimenticherai della vergogna della tua adolescenza, e non ricorderai l’obbrobrio della tua vedovanza, perché sarà tuo Signore colui che ti ha fatta (Is. 54, 4-5). E Paolo sgrida apertamente anche i Galati che peccavano con sfrontatezza, dicendo: O Galati insensati, chi vi ha affascinato? (Gal. 3, 1) E ancora: Siete così stolti che dopo avere incominciato con lo spirito finite con la carne? (Gal. 3, 3). Ma le colpe dei timidi le rimprovera quasi con compassione, dicendo: Ho gioito grandemente nel Signore che finalmente sono rifioriti i vostri sentimenti verso di me, come già li avevate ma eravate presi [da altro] (Fil. 4, 10). E così, col rimprovero duro toglieva le colpe degli uni, e con parole più dolci copriva la negligenza degli altri.


 


8 — Come bisogna ammonire i presuntuosi e i pusillanimi


 


Diverso è il modo di ammonire i presuntuosi e i pusillanimi. Quelli infatti, sono molto sicuri di sé e rimproverano sdegnosamente gli altri; questi invece, troppo consci della propria debolezza, per lo più si lasciano andare alla disperazione. I primi hanno una straordinaria altissima stima di tutto ciò che compiono; gli altri giudicano affatto spregevole ciò che fanno e perciò si scoraggiano e disperano. Per questo, chi deve riprendere le azioni dei presuntuosi, deve discuterle con grande sottigliezza per dimostrare loro che ciò in cui essi piacciono a se stessi, dispiacciono a Dio. È allora infatti che li correggiamo meglio, cioè quando dimostriamo loro che quel che credono di aver fatto bene è fatto male, così che proprio di dove si crede di aver raggiunto la gloria provenga un utile turbamento. Spesso però, quando proprio non si rendono conto per nulla di peccare di presunzione, si correggono più rapidamente se restano confusi per il rimprovero rivolto a un’altra colpa più manifesta scoperta in loro, così che da ciò di cui non sono in grado di difendersi riconoscano che non sostengono rettamente ciò che difendono. Perciò Paolo, rivolgendosi ai Corinzi che vedeva presuntuosamente gonfi gli uni verso gli altri dire che uno era di Paolo, l’altro di Apollo, l’altro di Cefa, l’altro di Cristo (cf. 1 Cor. 1, 12), tirò fuori quel peccato di incesto che era stato commesso presso di loro e restava impunito, dicendo: Si sente dire che si dà una fornicazione tra di voi, e una tale fornicazione quale non è ammissibile neppure fra i gentili, e cioè che uno abbia come sua la moglie di suo padre. E voi vi siete gonfiati e non avete fatto piuttosto lutto, perché fosse tolto di tra voi colui che ha commesso una tale azione (1 Cor. 5, 1-2). Come se dicesse apertamente: Perché nella vostra presunzione dite di essere di questo e di quello, voi che mostrate di non essere di nessuno per questa negligenza con cui vi siete sciolti da ogni legame? Al contrario, riconduciamo al bene i pusillanimi in modo più appropriato se ci informiamo indirettamente di qualche loro buona azione e, lodandola, li confortiamo nello stesso momento in cui li dobbiamo accusare rimproverandogliene altre; affinché la lode ricevuta sostenga la loro timidezza mentre riceve il castigo dal rimprovero della colpa. Spesso tuttavia otteniamo un risultato più utile con loro se richiamiamo anche solo ciò che hanno fatto di bene; e se hanno compiuto qualche cosa di irregolare non glielo rimproveriamo come una colpa già commessa, ma ci limitiamo a distoglierli da quella come se dovessero ancora commetterla, affinché la benevolenza manifestata accresca in loro le azioni che approviamo, mentre contro le azioni che dobbiamo rimproverare più che il rimprovero abbia maggiore efficacia presso di loro una esortazione riguardosa. Perciò il medesimo Paolo, vedendo che i Tessalonicesi fermi nella predicazione ricevuta erano turbati da un senso di paura come per una prossima fine del mondo, prima loda quanto scorge in loro di forte, e solo dopo, con caute ammonizioni, rafforza la loro debolezza. Dice infatti: Dobbiamo ringraziare sempre Dio per voi, fratelli, come è degno, perché la vostra fede aumenta e abbonda in ciascuno di voi la carità vicendevole; così che noi stessi ci gloriamo per voi nelle chiese di Dio, per la vostra pazienza e la vostra fede (2 Tess. 1, 3-4). E dopo avere premesso queste lodi lusinghiere riguardo alla loro vita, poco dopo prosegue dicendo: Vi preghiamo tuttavia, fratelli, per la venuta del nostro Signore Gesti Cristo e il nostro riunirci in Lui, che non vi lasciate smuovere troppo presto dal vostro sentire né spaventare da spirito o da discorso o da lettera come fosse stata scritta da noi, come se il giorno del Signore fosse imminente (2 Tess. 2, 1). Così, da vero maestro, fece in modo che prima si sentissero lodati per ciò che riconoscevano di sé, e quindi si sentissero esortati rispetto a ciò che dovevano seguire; affinché la lode premessa rafforzasse il loro spirito per accogliere senza turbamento la ammonizione che sarebbe seguita. E sebbene sapesse che essi erano turbati dal timore della prossima fine, non li rimproverava per questo, ma come se ignorasse addirittura la cosa, quasi non si fosse ancora data, li preveniva affinché non si turbassero. E questo perché, mentre per quel lieve cenno potevano credere che il loro maestro avesse addirittura ignorato questo aspetto in loro, temessero però sia di meritare il rimprovero sia di essere in ciò conosciuti da lui.


 


9 — Come si devono ammonire gli impazienti e i pazienti


 


Diverso è il modo di ammonire gli impazienti e i pazienti. Infatti, agli impazienti bisogna dire che trascurando di frenare la loro natura precipiteranno in molte azioni inique contro la loro stessa intenzione, perché evidentemente il furore spinge l’animo dove non desidererebbe essere trascinato e, senza che uno se ne renda conto, provoca turbamenti, di cui poi egli si duole quando ne prende coscienza. Bisogna dire pure agli impazienti che quando agiscono come folli per impulso di un moto precipitoso, a stento si rendono conto delle proprie azioni cattive solo dopo che le hanno compiute. Coloro che non contrastano per nulla le proprie emozioni, turbano anche ciò che forse avevano compiuto tranquillamente, e per un improvviso impulso distruggono tutto ciò che forse avevano costruito con lunga e provvida fatica. Per il vizio dell’impazienza si perde perfino la virtù, poiché è scritto: La carità è paziente (1 Cor. 13, 4). Pertanto, se non è paziente affatto non è carità. Anche la stessa scienza che alimenta le altre virtù è dissipata dal vizio dell’impazienza, infatti è scritto: La scienza dell’uomo si apprende attraverso la pazienza (Prov. 19, 11); per cui tanto meno uno si mostra dotto quanto meno si dimostra paziente. E neppure può compiere con verità il bene a parole, se nella vita non sa sopportare in pace i difetti altrui. Inoltre, per questo vizio dell’impazienza lo spirito resta ferito dalla colpa dell’arroganza, perché quando uno non sopporta di essere disprezzato in questo mondo, se ha qualche bene nascosto si sforza di ostentarlo, così attraverso l’impazienza è condotto all’arroganza e, per non poter sopportare il disprezzo, mettendo in mostra se stesso si gloria con l’ostentazione. Perciò sta scritto: È meglio il paziente dell’arrogante (Qo. 7, 9); poiché evidentemente il paziente preferisce sopportare qualsiasi male piuttosto di far conoscere con l’ostentazione i suoi beni nascosti. L’arrogante, al contrario, preferisce vantarsi di qualche bene, anche falsamente, pur di non dover sopportare neppure il più piccolo male.


Pertanto, poiché quando si abbandona la pazienza va distrutto anche il resto di bene che si è compiuto, giustamente in Ezechiele si trova il precetto che sull’altare di Dio si faccia una cavità perché si conservino gli olocausti che vi stanno sopra (cf. Ez. 43, 13). Infatti se nell’altare non ci fosse la cavità i resti di quel sacrificio sarebbero dispersi dal vento. Ma che cosa dobbiamo intendere per altare di Dio se non l’anima del giusto che pone su di sé, davanti agli occhi di Lui, quanto di bene ha compiuto come sacrificio? E che cos’è la cavità dell’altare se non la pazienza dei buoni che umilia il loro spirito per sopportare le avversità e lo mostra come adagiato nel fondo di una fossa? Si faccia dunque una cavità nell’altare, affinché il vento non disperda il sacrificio che vi sta sopra; cioè, lo spirito degli eletti custodisca la pazienza per non perdere, a causa del vento dell’impazienza, anche ciò che di bene ha compiuto. Ed è giusto che quella medesima cavità, secondo quanto è descritto, sia di un solo cubito; poiché è naturale che se non si abbandona la pazienza si conserva la misura dell’unità. Per cui anche Paolo dice: Portate a vicenda i vostri pesi, e così adempirete la legge di Cristo (Gal. 6, 2). Poiché la legge di Cristo è la carità dell’unità che compiono solamente coloro i quali, anche quando portano grave peso, non trascendono. Ascoltino gli impazienti ciò che sta scritto: È meglio un paziente che un uomo forte, e chi domina il suo animo pia che un conquistatore di città (Prov. 16, 32).
Vale meno infatti una vittoria contro delle città, giacché ciò che in questo caso si sottomette è qualcosa di esterno; ma è molto di più ciò che si vince con la pazienza, poiché è l’anima che si lascia vincere da se stessa e si sottomette se stessa quando la pazienza la spinge a frenarsi dentro di sé. Ascoltino gli impazienti ciò che la Verità dice ai suoi eletti: Nella vostra pazienza possederete le vostre anime (Lc. 21, 19). Infatti siamo stati creati in modo così mirabile che lo spirito possiede l’anima e l’anima possiede il corpo; ma all’anima è rifiutato il suo diritto di possedere il corpo se essa non è prima posseduta dallo spirito. Pertanto il Signore, insegnandoci che nella pazienza possediamo noi stessi, ci ha insegnato che la pazienza è custode della nostra condizione naturale. Perciò possiamo conoscere quanto sia grande la colpa dell’impazienza se per essa perdiamo perfino il possesso di ciò che siamo. Ascoltino gli impazienti ciò che ancora dice Salomone: Lo stolto sfoga tutto il suo animo, il sapiente invèce attende e lo serba per l’avvenire (Prov. 29, 11).

Per l’impulso dell’impazienza avviene che tutto l’animo si sfoghi al di fuori, ed è naturale che l’agitazione lo riversi all’esterno poiché nessuna sapiente disciplina lo trattiene interiormente. Ma il sapiente attende e lo serba per l’avvenire. Infatti, se viene offeso non desidera vendicarsi subito, poiché anche dovendo sopportare preferisce trattenersi, tuttavia non ignora che tutto riceverà la giusta vendetta nell’ultimo giudizio. Al contrario, bisogna ammonire i pazienti a non dolersi interiormente di ciò che sopportano al di fuori, per non corrompere nell’intimo con la peste della malizia l’intensità di quel sacrificio ricco di virtù che immolano interiormente; e la colpa di questo dolore, non riconosciuta come tale dagli uomini, ma peccato di fronte all’esame divino, non divenga tanto peggiore proprio in quanto davanti agli uomini pretende di passare per virtù. Dunque bisogna dire ai pazienti che si studino di amare coloro che sono costretti a sopportare, perché se la pazienza non è accompagnata dalla carità, la virtù che ostenta non si muti nella peggiore colpa dell’odio. Perciò Paolo, dopo avere detto: La carità è paziente, aggiunge subito: La carità è benigna (1 Cor. 13, 4), volendo mostrare chiaramente che essa non cessa di amare con benignità coloro che sopporta con pazienza.

Perciò il medesimo egregio maestro, esortando i discepoli alla pazienza con le parole: Ogni asprezza e ira e sdegno e clamore e ingiuria sia tolta da voi (Ef. 4, 31), come dopo averli già tutti ben disposti esteriormente, si rivolge al loro intimo e aggiunge: con ogni malizia; poiché, evidentemente, invano si toglie all’esterno lo sdegno, il clamore e l’ingiuria se nell’intimo domina la malizia madre dei vizi; e invano si incide al di fuori dei rami il male se esso si conserva nell’intimo della radice, pronto a riaffiorare moltiplicato. Perciò la Verità stessa dice: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano (Lc. 6, 27-28). Dunque è virtù davanti agli uomini sopportare i nemici, ma davanti a Dio la virtù è amarli, poiché Dio accoglie soltanto quel sacrificio che la fiamma della carità accende davanti ai suoi occhi sull’altare delle buone opere. Perciò dice ancora ad alcuni pazienti ma non caritatevoli: Perché vedi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non vedi la trave nel tuo occhio? (Mt. 7, 3), significando che il turbamento dell’impazienza è la pagliuzza, ma la malizia in cuore è la trave nell’occhio. Infatti il soffio della tentazione agita il filo di paglia, ma la malizia consumata porta la trave quasi senza scosse.
E giustamente in quel passo si prosegue: Ipocrita, getta via prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai per gettare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Mt. 7, 5), come se dicesse all’anima malvagia che si rode interiormente e all’esterno invece si mostra santa per la pazienza: prima fa’ uscire da te la tua pesante malizia e poi rimprovera agli altri la loro leggera impazienza, affinché il tollerare i peccati altrui non sia per te peggio, se non ti sforzi a vincere lo spirito di simulazione. Suole anche accadere spesso alle persone pazienti che, proprio nel momento in cui o sopportano avversità o ricevono ingiurie, non si sentano spinte da nessun risentimento e mostrino così una pazienza tale che permette loro di conservare anche l’innocenza del cuore. Ma quando, passato un po’ di tempo, richiamano alla memoria ciò che hanno dovuto sopportare, accendono in sé il fuoco del risentimento e vanno a cercare gli argomenti per vendicarsi; e con questa intima ritrattazione mutano in malizia la mansuetudine che avevano conservato nella pazienza. Allora il maestro li soccorre ben presto se gli manifesta la causa di questo mutamento. Infatti l’astuto avversario muove guerra contro due tipi di persone: uno lo accende spingendolo ad offendere per primo, l’altro lo provoca a restituire l’offesa ricevuta; mentre riesce subito vincitore sul primo che si è lasciato persuadere all’ingiuria, resta poi vinto da colui che porta tranquillamente l’offesa ricevuta. Pertanto, vincitore del primo che è riuscito a soggiogare agitando il suo animo, si erge con tutta la sua potenza contro l’altro e si irrita che questi gli resista con forza e vinca; ma poiché non poté turbarlo nell’attimo stesso in cui riceveva l’ingiuria, rinunciando per il momento alla lotta aperta e attaccando il suo pensiero con una suggestione segreta, cerca il tempo adatto per trarlo in inganno. Infatti ha perduto nel pubblico combattimento e arde di esercitare nascostamente le sue insidie. Così, nel tempo del riposo, ritorna all’animo del vincitore e gli richiama alla memoria le perdite materiali subite o le ferite delle ingiurie, e maggiorando grandemente quanto di male gli è stato inflitto glielo mostra intollerabile e gli turba la mente con tanta tristezza, che spesso l’uomo paziente, divenuto prigioniero dopo la vittoria, arrossisce di avere sopportato tranquillamente quelle offese, si duole di non averle ricambiate e cerca, se si offra l’occasione, di renderne di peggiori.

A chi dunque sono simili costoro se non a quelli che per la loro forza riescono vincitori in campo aperto, ma per la loro negligenza in seguito si lasciano fare prigionieri dentro le mura della città? A chi sono simili se non a coloro che una improvvisa e grave malattia non li strappa alla vita, ma li uccide una leggera febbre recidiva? Così bisogna ammonire le persone pazienti a fortificare il loro cuore dopo la vittoria perché il nemico battuto in aperto combattimento non mediti di insidiare le mura del pensiero; e temano maggiormente la malattia che riprende a serpeggiare più insidiosamente, perché il nemico astuto non goda poi dell’inganno con una esultanza tanto maggiore in quanto, ora calpesta i colli dei suoi vincitori che prima si ergevano contro di lui.

 

10 — Come si devono ammonire i benevoli e gli invidiosi

 

Diverso è il modo di ammonire i benevoli e gli invidiosi. Bisogna ammonire i benevoli a gioire dei beni altrui così da desiderare di farli propri. Lodino con vero amore le azioni del prossimo così da moltiplicarle anche, imitandole; perché se nella sosta della vita presente assistono alla gara altrui come devoti sostenitori ma insieme come spettatori pigri, non restino, dopo la gara, senza premio quanto pin ora, durante la gara, non hanno faticato; e, allora, non debbano guardare afflitti alle palme di coloro davanti alle cui fatiche, ora, persistono in ozio. Poiché pecchiamo gravemente se non amiamo ciò che gli altri fanno di bene, ma non traiamo motivo di ricompensa se, per quanto sta in noi, non imitiamo ciò che amiamo. Perciò alle persone benevole bisogna dire che se non si affrettano per nulla ad imitare il bene che approvano con la loro lode, a loro piace la santità delle virtù come agli stolti spettatori piace la vanità delle arti ludiche. Costoro infatti esaltano coi loro applausi le imprese di aurighi e di attori e tuttavia non desiderano essere tali quali vedono essere coloro che lodano. Li ammirano per ciò che hanno compiuto di piacevole, tuttavia evitano di piacere allo stesso modo.

Bisogna dire ai benevoli che quando guardano alle azioni del prossimo rientrino nel proprio cuore e non si vantino di azioni altrui; non lodino il bene mentre rifiutano di compierlo, pöiché tanto più gravemente devono essere colpiti dall’estremo castigo coloro a cui è piaciuto ciò che non hanno voluto imitare. Bisogna ammonire gli invidiosi a valutare attentamente la cecità di coloro che vengono meno per il successo degli altri e si struggono per la gioia altrui. Quanto grande è l’infelicità di coloro che diventano peggiori perché vedono migliorare gli altri e, mentre guardano aumentare la fortuna altrui, stretti dall’afflizione in se stessi, muoiono per la peste che hanno nel loro cuore. Che cosa ci può essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione della felicità altrui rende più cattivi? Invero, se amassero i beni degli altri che non possono avere per sé, li farebbero propri. Poiché essi sono tutti stabiliti nella fede, come molte membra in un solo corpo, le quali sono certo diverse per la diversità delle funzioni, ma per il fatto stesso della loro corrispondenza reciproca diventano una cosa sola (cf. 1 Cor. 12, 12-30). Per cui avviene che il piede vede attraverso l’occhio e gli occhi camminano per mezzo dei piedi, l’ascolto delle orecchie serve alla bocca e la lingua che sta in bocca concorre con gli orecchi alla propria funzione; il ventre sostiene l’attività delle mani e le mani lavorano per il ventre. Pertanto, è dalla stessa condizione del corpo, che riceviamo ciò che dobbiamo conservare nel nostro agire. E così è troppo vergognoso non imitare ciò che siamo.
È certamente nostro ciò che amiamo negli altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è amato in noi diviene di chi l’ama. Perciò gli invidiosi misurino quanto è grande la potenza della carità che rende nostre senza fatica le opere della fatica altrui. E così bisogna dire agli invidiosi che quando non si custodiscono per nulla dall’invidia, sprofondano nella malizia antica dello scaltro nemico, perché di lui è scritto: Per l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo (Sap. 2, 24). Infatti, poiché egli aveva perduto il cielo, lo invidiò all’uomo appena creato, ed essendosi perduto lui volle accrescere la sua perdizione perdendo ancora altri. Bisogna ammonire gli invidiosi a rendersi conto di quanto siano grandi le cadute per le quali cresce la rovina sotto cui essi giacciono, poiché sé non gettano via l’invidia dal cuore precipitano in una aperta iniquità di opere. Se infatti Caino non avesse invidiato il sacrificio gradito [a Dio] del fratello, non sarebbe giunto a spegnere la sua vita. Perciò è scritto: E il Signore riguardò ad Abele e ai suoi doni; ma non riguardò a Caino e ai suoi doni. E Caino si adirò fortemente e gli cadde il volto (Gen. 4, 4). E così, l’invidia per il sacrificio fu il germe del fratricidio, ed egli tagliò via chi non sopportava fosse migliore di lui, affinché non fosse più in alcun modo. Bisogna dire agli invidiosi che mentre si consumano interiormente per questa peste essi uccidono anche ogni altra cosa buona sembrino avere dentro di sé. Perciò è scritto: La sanità del cuore è vita della carne, l’invidia è putredine delle ossa (Prov. 14, 30). Che cosa si intende per carne se non le azioni molli e deboli, e per ossa se non quelle forti? Eppure accade spesso che alcuni i quali appaiono deboli in alcune loro azioni, hanno l’innocenza del cuore e altri invece si comportino in maniera forte agli occhi degli uomini e tuttavia nei confronti del bene altrui si consumino nell’intimo, per la peste dell’invidia. Pertanto è ben detto: La sanità del cuore è vita della carne, perché se si custodisce l’innocenza del cuore, anche se l’agire esterno talvolta è debole, prima o poi si irrobustisce. E si aggiunge correttamente: L’invidia è putredine delle ossa, perché per il vizio dell’invidia, agli occhi di Dio vanno perdute anche quelle azioni che agli occhi degli uomini sembrano da forti; infatti l’imputridire delle ossa per l’invidia significa il deperire di certe cose anche forti.

 

11 — Come si devono ammonire i semplici e gli insinceri

 

Diverso è il modo di ammonire i semplici e gli insinceri.

I semplici bisogna lodarli perché si studino di non dire mai il falso, ma bisogna ammonirli che sappiano ogni tanto tacere il vero. Come il falso nuoce sempre a chi lo dice, così talvolta ad alcuni nuoce ascoltare la verità. Perciò il Signore, temperando il suo discorso col silenzio, davanti ai discepoli, dice: Ho molte cose da dirvi ma ora non potete portarle (Gv. 16, 12). Pertanto bisogna ammonire i semplici a dire la verità badando sempre all’utilità allo stesso modo che sempre utilmente evitano l’inganno. Bisogna ammonirli ad aggiungere al bene della semplicità quello della prudenza, affinché abbiano quella sicurezza che viene dalla semplicità senza perdere quell’attenzione propria della prudenza. Perciò infatti dice il dottore delle genti: Voglio che voi siate sapienti nel bene ma semplici nel male (Rom. 16, 19). Perciò la Verità stessa ammonisce i suoi eletti dicendo: Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe (Mt. 10, 16). Perché evidentemente nel cuore degli eletti l’astuzia del serpente deve rendere acuta la semplicità della colomba, e insieme la semplicità della colomba deve temperare l’astuzia del serpente, affinché essi non si lascino sedurre ad eccedere nell’esercizio della prudenza né, per la semplicità, divengano torpidi nell’uso dell’intelligenza.

Al contrario, bisogna ammonire gli insinceri a riconoscere quanto sia grave colpa la fatica di quella doppiezza, che essi sostengono. Infatti, per il timore di essere scoperti cercano sempre giustificazioni cattive e sono sempre agitati da sospetti che li rendono paurosi. Ma niente è più sicuro della purezza, a propria difesa; niente più facile a dirsi della verità. Infatti il cuore costretto a proteggere la propria falsità dura una pesante fatica, e perciò è scritto: La fatica delle loro labbra li ricoprirà (Sal. 139, 10). La fatica, che ora riempie e soddisfa, allora ricoprirà perché opprimerà con atroce retribuzione l’animo di colui che ora tira fuori d’impaccio a prezzo di una leggera inquietudine. Perciò si dice in Geremia: Hanno insegnato alla loro lingua a dire la menzogna, si sono affaticati per commettere l’iniquità (Ger. 9, 5), come se dicesse apertamente: Coloro che potevano essere amici della verità senza fatica, si affaticano per peccare e mentre rifiutano di vivere semplicemente, si adoperano con tutte le loro forze per morire. Infatti, non di rado, se sono colti in fallo, mentre rifuggono dal farsi riconoscere quali sono, si nascondono sotto il velo della falsità e si affaccendano per giustificare ciò in cui stanno peccando e che è già apertamente visibile; così che spesso colui che ha cura di correggere le loro colpe, ingannato dalle nebbie di questa aspersione di falsità, ha quasi l’impressione di aver perduto di vista ciò che ormai teneva per certo a loro riguardo. Perciò all’anima che pecca e si giustifica si dice, per mezzo del profeta che rettamente la rappresenta nella Giudea: Là ebbe la sua tana il riccio (Is. 34, 15). Col nome di riccio si indica la doppiezza di una mente impura che si difende con astuzia, e ciò chiaramente perché il riccio, nel momento in cui viene preso, mostra tutto intero il corpo e si vedono capo e piedi, ma appena è stato preso si raccoglie tutto in una palla, tira dentro i piedi, nasconde il capo e di colpo scompare tutto nella mano di chi lo tiene, mentre appena prima si mostrava tutto intero. Così certamente sono le anime insincere quando vengono sorprese nelle loro prevaricazioni.

Infatti si vede il capo del riccio perché si vede quando il peccatore incomincia ad accostarsi alla colpa; si vedono i piedi del riccio perché si conoscono le tracce del peccato commesso. E tuttavia, con l’addurre subito le sue giustificazioni, l’anima insincera tira dentro i piedi, cioè nasconde tutte le tracce della sua iniquità; sottrae il capo, perché con le sue mirabili difese dimostra di non avere neppure dato inizio a qualcosa di male, e resta come una palla in mano di chi lo tiene. Il quale improvvisamente non si ritrova più tutto quanto aveva già compreso di lui poiché ha di fronte un peccatore avvolto e chiuso nel segreto della sua coscienza; e lui stesso, che lo aveva veduto tutto intero nel coglierlo sul fatto, tratto in inganno dai raggiri di una maliziosa difesa, ancora tutto intero lo ignora. Il riccio dunque ha una tana nei reprobi, esso che raccogliendosi in se stesso nasconde le doppiezze di un animo malizioso nelle tenebre della giustificazione. Ascoltino gli insinceri ciò che è scritto: Chi cammina nella semplicità, cammina con fiducia (Prov. 10.9); poiché la semplicità dell’azione è fiducia di una grande sicurezza. Ascoltino ciò che è detto dalla bocca del sapiente: Lo Spirito Santo fugge una dottrina di falsità (Sap. 1, 5). Ascoltino ciò che ancora è offerto dalla testimonianza della Scrittura: La sua conversazione è coi semplici (Prov. 3, 32). Infatti il conversare di Dio è il rivelare i suoi misteri ai cuori degli uomini attraverso l’illuminazione della sua presenza. Pertanto si dice che conversa coi semplici perché col raggio della sua visita illumina sui misteri celesti i loro cuori che non sono oscurati da alcun’ombra di doppiezza. Il peccato delle persone doppie, poi, è un peccato speciale, perché esse ingannano gli altri con l’azione doppia e perversa e insieme si gloriano come fossero più astuti di loro; e poiché non considerano la severità della retribuzione che riceveranno, esultano miseramente del proprio danno. Ma ascoltino come sopra di loro il profeta Sofonia stenda la forza della punizione divina, dicendo: Ecco, viene il giorno del Signore, grande e terribile, giorno d’ira quel giorno, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nebbia e di turbine, giorno di suono di tromba su tutte le città fortificate e su tutti gli angoli elevati (cf. Sof. 1, 15-16; Gioe. 2, 2). Infatti, che cosa si intende per città fortificate se non gli animi sospettosi e sempre circondati di false giustificazioni, i quali ogni volta che viene rimproverata la loro colpa respingono da sé i dardi della verità? E che cosa è indicato con angoli elevati (poiché negli angoli c’è sempre una doppia parete) se non i cuori insinceri? I quali mentre fuggono la semplicità della verità, per la stessa perversità della loro doppiezza, in qualche modo si ripiegano e, quel che è peggio, per la loro stessa colpa di insincerità si esaltano nei loro pensieri come avessero raggiunto l’apice della astuzia. Dunque il giorno del Signore, pieno di vendetta e di castigo, verrà sulle città fortificate e sugli angoli elevati, perché l’ira dell’ultimo giudizio distruggerà i cuori umani chiusi dalle difese contro la verità, e scioglierà le pieghe della loro doppiezza. Allora infatti cadranno le città fortificate perché saranno condannati gli animi che non si sono lasciati penetrare da Dio. Allora crolleranno gli angoli elevati perché i cuori che si edificano, attraverso l’astuzia della falsità, saranno atterrati dalla sentenza di giustizia.

 

12 — Come si devono ammonire i sani e i malati

 

Diverso è il modo di ammonire i sani e i malati. Bisogna ammonire i sani a esercitare la salute del corpo a vantaggio della salute dello spirito perché, se piegano ad un uso malizioso la grazia della buona salute che hanno ricevuto, proprio per questo dono non diventino peggiori e meritino poi supplizi tanto più gravi quanto più ora essi non temono di usare male dei più larghi beni di Dio. Bisogna ammonire i sani che non disprezzino l’occasione di una salute da meritare per l’eternità, poiché è scritto: Ecco, ora è il tempo gradito, ecco ora il tempo della salvezza (2 Cor. 6, 2). Bisogna ammonirli che, se non vogliono piacere a Dio quando possono, può accadere che non lo possano quando lo vorranno troppo tardi. Da ciò infatti viene che poi la Sapienza abbandona coloro che prima ha chiamato a lungo nel loro rifiuto, dicendo: Vi ho chiamato e avete detto di no; ho teso la mia mano e nessuno ha guardato; avete disprezzato ogni mio consiglio e avete trascurato i miei rimproveri; anch’io riderò nella vostra fine e vi schernirò quando vi accadrà ciò che temevate (Prov. 1, 24 ss.). E ancora:Allora mi invocheranno e non ascolterò; si leveranno la mattina e non mi troveranno (Prov. 1, 28). Pertanto, quando si disprezzala salute del corpo ricevuta per operare il bene, ci si rende conto di quale grande dono fosse, quando la si è perduta; e alla fine si cerca senza frutto ciò che, concesso al momento adatto, non è stato utilmente posseduto. Perciò è ben detto ancora, per mezzo di Salomone: Non consegnare ad altri il tuo onore e i tuoi anni al crudele, perché non si riempiano gli stranieri con la tua forza e il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui, e negli ultimi giorni tu pianga, quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo (Prov. 5, 9 ss.). Chi sono infatti gli stranieri, per noi, se non gli spiriti maligni separati dalla sorte della patria celeste? E qual è il nostro onore se non l’essere creati a immagine e somiglianza del nostro Creatore, nonostante che siamo fatti di corpo e di fango? O chi altri è il crudele se non quell’angelo apostata, il quale con la sua superbia colpi se stesso con la pena di morte e, ormai perduto, non volle risparmiare la morte al genere umano? E così, consegna il suo onore agli stranieri colui che, fatto a immagine e somiglianza di Dio, amministra il tempo della sua vita coi piaceri che sono propri degli spiriti maligni. Consegna i suoi anni al crudele, chi dissipa il tempo di vita ricevuto, secondo la volontà dell’avversario signore del male.

E qui bene si aggiunge: Perché non si riempiano gli stranieri della tua forza, e il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui. Infatti chiunque si affatica, con la forza del corpo che ha ricevuto e la sapienza della mente che gli è stata assegnata, non a esercitare la virtù, ma a soddisfare i vizi, non accresce la propria casa con le sue forze, ma certamente — praticando sia la lussuria sia la superbia così da accrescere, con l’aggiunta di se stesso, il numero dei perduti — moltiplica le dimore degli stranieri, cioè le azioni degli spiriti immondi. E poi opportunamente si aggiunge: E tu pianga, negli ultimi giorni, quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo. Spesso, infatti, la salute del corpo che si è ricevuta viene dissipata coi vizi; ma quando improvvisamente è sottratta, quando la carne viene afflitta da tormenti, quando l’anima già è incalzata ad uscire, si ricerca, quasi per vivere bene, quella salute perduta che si è goduta a lungo, male. E allora si lamentano gli uomini di non aver voluto servire Dio, quando ormai non possono più servire, per rimediare ai danni della propria negligenza. Per cui altrove è detto: Quando li uccideva, allora lo cercavano (Sal. 77, 34). Al contrario, bisogna ammonire i malati a sentirsi tanto più figli di Dio quanto più li castigano i colpi della correzione. Infatti, se Egli non avesse disposto di dare l’eredità a coloro che corregge, non si curerebbe di istruirli attraverso le sofferenze. Perciò il Signore dice a Giovanni per mezzo dell’angelo: Io rimprovero e castigo quelli che amo (Ap. 3, 19). Perciò ancora è scritto: Figlio mio, non trascurare la correzione del Signore, non stancarti di essere rimproverato da lui. Poiché Dio castiga chi ama e colpisce ogni figlio che accoglie (Ebr. 12, 5-6). Perciò il salmista dice: Molte sono le tribolazioni dei giusti, ma da tutte li ha liberati il Signore (Sal. 33, 20). Perciò pure il santo Giobbe dice, gridando nel dolore: Se sarò giusto non leverò la testa, sazio di tribolazione e di miseria (Giob. 10, 15). Bisogna dire ai malati che, se credono che sia loro la patria celeste, è necessario che patiscano fatiche in questa come in terra straniera. È per questo infatti che, per essere poste senza rumore di martelli nella costruzione del tempio del Signore, le pietre vennero squadrate di fuori; per significare cioè che ora noi siamo percossi dalle sferze di fuori, per essere poi posti dentro, nel tempio di Dio, senza i colpi della correzione, affinché tutto ciò che in noi è superfluo ora, lo tagli via la battitura, e allora, nell’edificio, ci tenga uniti la sola concordia della carità.

Bisogna ammonire i malati a considerare la durezza dei colpi con cui vengono castigati i figli carnali, e solamente in vista di eredità terrene. E perché allora ci è pesante la pena della correzione divina, per la quale si riceve una eredità che non andrà mai perduta e si evitano supplizi che dureranno sempre? Perciò infatti dice Paolo: Del resto, noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri secondo la carne, e rispettavamo; non obbediremo molto di pia al padre degli spiriti e vivremo? Quelli invero ci educavano secondo la loro volontà e per un tempo breve, ma questo ci educa per ciò che è utile a ricevere la sua santificazione (Ebr. 12, 9-10). Bisogna ammonire i malati a considerare quanta salute del cuore sia la sofferenza del corpo, la quale richiama la mente alla conoscenza di sé e restituisce il ricordo della propria debolezza, che spesso la salute rigetta; e così lo spirito, portato fuori di sé a gonfiarsi di orgoglio, si ricorda a quale condizione è soggetto proprio per quella carne colpita che deve sostenere. E ciò è rettamente rappresentato da Balaam (se effettivamente avesse voluto seguire obbediente la voce di Dio) proprio in quell’essere ritardato nel suo cammino. Infatti Balaam vuole giungere alla mèta che si è prefisso ma l’animale che egli guida ostacola il suo desiderio (cf. Num. 22, 23 ss.). In effetti, l’asina trattenuta dalla proibizione dell’angelo vede ciò che lo spirito dell’uomo non riesce a vedere, poiché spesso la carne resa tarda dalla sofferenza, con la percossa che patisce indica Dio allo spirito, mentre lo stesso spirito che governa la carne non lo vedeva; e così la carne [sofferente] trattiene l’ansietà dello spirito di colui che brama di progredire in questo modo, come di chi sta percorrendo un cammino, finché gli illumina l’invisibile che gli si oppone. Per ciò anche, per mezzo di Pietro, è ben detto: Ricevette la correzione della sua follia: un muto giumento parlando con voce umana impedì la stoltezza del profeta (2 Pt. 2, 15). E avviene che un uomo folle sia corretto da un giumento muto, quando una mente esaltata, si ricorda per l’afflizione della carne di quel bene dell’umiltà che avrebbe dovuto custodire. Ma Balaam non ottenne il dono di questa correzione proprio perché, andando per maledire, mutò le parole ma non la mente.
Bisogna ammonire i malati a considerare quale grande dono sia la sofferenza del corpo, che scioglie i peccati commessi e impedisce quelli che si sarebbero potuti compiere e, prodotta da piaghe esterne, infligge ferite di penitenza all’animo colpito.
Perciò è scritto: Il livido della ferita porta via il male, e così le piaghe nei recessi del ventre (Prov. 20, 30). Infatti il livido della ferita porta via il male perché il dolore delle percosse scioglie i pensieri e le azioni inique. Con la parola ventre si suole intendere la mente perché, come il ventre consuma i cibi, la mente meditando scioglie le preoccupazioni. E che la mente sia detta ventre, lo insegna il proverbio: Lo spirito dell’uomo è lampada del Signore, che scruta tutti i recessi del ventre (Prov. 20, 27); come se dicesse: l’illuminazione del soffio divino, quando viene nella mente dell’uomo, illuminandola, la mostra a se stessa, essa che prima della venuta dello Spirito Santo poteva portare pensieri cattivi e non sapeva pensare. Pertanto, il livido della ferita porta via il male e così pure le piaghe nei recessi del ventre, perché quando siamo percossi all’esterno, veniamo richiamati, silenziosi e afflitti, al ricordo dei nostri peccati, e riportiamo davanti ai nostri occhi tutto quanto abbiamo compiuto di male; e ciò che patiamo di fuori ci procura maggiormente dolore nell’intimo per ciò che abbiamo fatto. Quindi avviene che più abbondantemente che le ferite aperte del corpo, ci lavi la piaga nascosta del ventre, perché la ferita nascosta del dolore sana la malizia del cattivo operare. Bisogna ammonire gli ammalati a conservare la virtù della pazienza, a considerare incessantemente quanto grandi mali il nostro Redentore sopportò da coloro che aveva creato. Egli sostenne i tanto volgari oltraggi della derisione e degli schemi, lui che rapisce ogni giorno le anime dei prigionieri dalla mano dell’antico nemico, ricevette gli schiaffi degli insultatori; lui che ci lava con l’acqua della salvezza non ritrasse la faccia dagli sputi dei perfidi; lui che con la sua intercessione ci libera dagli eterni supplizi, tollerò in silenzio le battiture; lui che ci assegna eterni onori tra i cori degli angeli, sopportò i pugni; lui che ci salva dalle punture dei peccati, non rifiutò di sottoporre il capo alle spine; lui che ci inebria in eterno di dolcezza, ricevette l’amarezza del fiele nella sua sete; lui — che pure essendo uguale al Padre per la divinità, lo adorò per noi — adorato per irrisione, tacque; lui che prepara la vita ai morti, essendo lui stesso la vita, giunse fino a morire. Perché allora si giudica crudele che l’uomo sopporti castighi di Dio in cambio dei suoi mali, quando Dio ha sopportato mali tanto grandi dagli uomini in cambio dei suoi beni? O chi può esserci che, sano di mente, sia ingrato per essere stato colpito, se colui che visse in questo mondo, senza peccato, non se ne andò da questo mondo senza castigo?

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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