A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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Magistero Cattolico in pillole, a piccole dosi ma indispensabile... (3)

Ultimo Aggiornamento: 24/08/2014 17:57
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31/07/2014 10:37
 
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il week-and per noi cattolici NON esiste..... la Domenica nostra Pasqua è il PRIMO GIORNO DELLA SETTIMANA  e non il "fine-settimana"....  



 







TESTI E MASSIME DI GREGORIO MAGNO PAPA

 
"<Andò a sedersi sul letamaio> (Gb 2,8). Sedersi sul letamaio significa avere di sé un sentimento vile e spregevole (In sterquilinio quippe sedere est vilia de se quempiam et abiecta sentire). Per noi, sedere sul letamaio significa riportare gli occhi dello spirito a ciò che di male abbiamo commesso, pentendoci (in sterquilinio nobis sedere est ad ea quae illicite gessimus mentis oculis paenitendo reducere), affinché, mentre vediamo davanti a noi lo sterco dei peccati, abbassiamo ogni moto di superbia che sorge nell'animo. Giace sul letamaio colui che prontamente vede la propria debolezza e non si inorgoglisce dei beni che per grazia ha ricevuto (et sese de bonis quae per gratiam perceperit, non extollit)"
 
Commento morale a Giobbe, I, III, 60. Città Nuova Editrice/1, Roma 1992, p. 295.



"Coloro che intendono raggiungere sinceramente la vetta di una vita virtuosa, quando sentono parlare delle colpe degli altri, pensano subito alle proprie e giudicano quelle degli altri tanto più rettamente quanto più deplorano sinceramente  le proprie. E, dal momento che ogni eletto si concentra sulla considerazione della propria debolezza, è giusto dire che un santo siede sempre dolente sul letamaio (dicatur recte quod vir sanctus in sterquilinio dolens sedet) come il beato Giobbe".
 
Commento morale a Giobbe, I, III, 61. Città Nuova Editrice/1, Roma 1992, p. 297.


"Giobbe significa <il Sofferente>. Egli è figura autentica del Servo sofferente descritto dal profeta (Iob...dolens veraciter per figuram dicitur), di Colui cioè che si è caricato dei nostri dolori (qui portare dolores nostros propheta attestante perhibetur)....Egli è giustamente chiamato Servo, perché non disdegnò di assumere la condizione di schiavo. E, assumendo l'umiltà della carne, non sminuì la propria maestà, perché assumendo ciò che voleva salvare e conservando ciò che era, l'umanità non sminuì la divinità né la divinità assorbì l'umanità (nec divina humanitate minuit, nec humana divinitate consupsit)".  

Commento morale a Giobbe, I, II, 42. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p.199.
E' importante tenere presente queste dichiarazioni, perfettamente omogenee alla fede professata dai padri del Concilio di Calcedonia del 451, per comprendere il seguito delle interpretazioni <allegoriche> delle quali ci arricchirà Papa Gregorio.





"La mente si affretta a trattare i passi più oscuri del testo biblico, 
perché, pur  dedicandosi diffusamente ai passi chiari, 
è giusto che si impegni a bussare anche quando la porta è chiusa" 
 
(Ad obscuriora quippe disserenda mens properat; 
et si apertis diu involvitur, 
clausa, ut dignum est, pulsare praepeditur)
 
Commento morale a Giobbe, I, III, 56. Città Nuova Editrice /1, Roma 1992, p.291.



"Viene detto ad Israele: Mi farete un altare di terra (Es 20,24). Il nostro dono è accolto da Dio, quando la nostra umiltà depone su questo altare, cioè sopra la fede nell'incarnazione del Signore, tutto ciò che si compie (Tunc quippe a Deo nostrum munus accipitur, quando in hoc altari nostra humilitas, id est super Dominicae incarnationis fidem posuerit quicquid operatur)...Coloro dunque che, in comunione con noi, credono nella vera carne del Redentore, siedono per terra come Giobbe (Qui ergo veram nobiscum incarnationem Redemptoris perhibent, quasi cum Iob terra pariter sedent)...Gli avversari però ci vogliono bene se restiamo muti, ci odiano se parliamo (Mutos nos adversarii diligunt, loquentes oderunt)".
 
Commento morale a Giobbe, I, III, 51. Città Nuova Editrice/1, Roma 1992, p. 287.



Alcuni "si mostrano studiosi delle Scritture
 soltanto in termini di loquacità, 
ma sono privi in cuore 
del calore della carità.
 
(Scripturarum se studiosos exhibent
 solius verbis loquacitatis, 
non autem visceribus caritatis calent)."
 
 
Commento morale a Giobbe, I, III, 45. Città Nuova Editrice, Roma 1992/I, p. 283.


"Gli eretici, che ardentemente desiderano di sapere più del necessario, cercano di essere caldi (Haeretici igitur quia ardentius appetunt sapere, quasi plusquam necesse est, student calere). La pigrizia infatti si accorda bene col torpore del freddo, mentre l'inquietudine della curiosità senza misura si accorda bene, a sua volta, col calore eccessivo. Paolo si era preoccupato perciò di temperare la mente dei fedeli mettendoli in guardia nei confronti del calore di una sapienza senza misura (ab hoc calore immoderatae sapientiae mentes fidelium Paulus temperare curaverat)...Gli eretici...desiderano avere il calore, non per vivere bene, ma per parlare con arroganza, perché si presentano come studiosi delle Scritture soltanto in termini di loquacità, senza possedere nel loro cuore il calore della carità (calorem quippe non ut bene vivant sed ut elate loquantur, habere desiderant, quia per hoc quod Scripturarum se studiosos exhibent solius verbis loquacitatis, non autem visceribus caritatis calent)...non desiderano essere dotti, ma di apparire come tali (quia enim docti, non esse sed videri, appetunt)...si accordano quando concordano in opinioni errate contro la Chiesa e così dissentono dalla verità e concordano tra loro nella falsità...Si avvicinano alla Chiesa come per consolarla, ma desiderano solo insegnarle le loro idee". 
 
Commento morale a Giobbe, I, III, 45.46. OGM, vol.1, Città Nuova Editrice, Roma 1992, p.283.




"La santa Chiesa, stabilita nell'afflizione durante tutto il tempo della sua peregrinazione, quando subisce ferite, quando soffre per la caduta dei suoi membri, deve sopportare, oltre a tutti gli altri nemici di Cristo, anche quelli che portano il nome di Cristo.
 
(Sancta itaque Ecclesia omni hoc tempore peregrinationis suae in afflictione constituta, cum vulnera sustinet, cum membrorum suorum lapsus dolet, insuper alios sub Christi nomine tolerat hostes Christi").
 
Commento morale a Giobbe, I, III, 42, Città Nuova Editrice/1, Roma 1992, p.281.



"La regola per consolare è questa: se vogliamo liberare un afflitto dalla tristezza, dobbiamo anzitutto partecipare alla sua disgrazia con il nostro cordoglio. Non può consolare un afflitto, chi non partecipa al suo dolore (dolentem namque non potest consolari qui non concordat dolori)...Il ferro non si congiunge al ferro prima che  entrambi siano resi incandescenti e immorbiditi dal fuoco...così chi giace prostrato a terra non possiamo rialzarlo se non rinunziamo alla nostra rigidità (nec iacentes erigimus, nisi a rigore nostri status inclinemur)... Chi non scende allo stesso livello di chi giace prostrato a terra, non riesce ad alzare nessuno (cui condescendere neglegit, nequaquam levat)" Commento morale a Giobbe, I, III, 20. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p.259.


"Se il silenzio non fosse, qualche volta, colpevole
 il profeta non avrebbe detto:  
Guai a me, perché ho taciuto! (Is 6,5).
 
(Si aliquando et tacere culpa non esset, 
propheta non diceret :
Vae mihi quia tacui)
 
Commento morale a Giobbe, I, III, 17. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 257.


"L'antico nemico provoca dapprima la perdita dei beni...poi sottrae i figli...finalmente colpisce anche il corpo. Siccome però non riese a ferire l'anima piagando il corpo, ricorre alla lingua della moglie:...Rimani ancora fermo nella tua integrità?. Ringrazia Dio e muori! (Gb 2,9). Con la tentazione gli ha portato via tutto, ma...molto astutamente si è riservato come aiuto la donna (omnia abstulit, tentando mulierem reliquit) perché gli dica: Rimani ancora fermo nella tua integrità?. Eva ripete così le sue parole. Infatti...che significa: Maledici Dio e muori, se non: Vivi trasgredendo il precetto?... Ma il nostro Adamo giace adesso sul letame da forte, mentre si ritrovò debole un tempo pur trovandosi in paradiso (Sed Adam noster fortis in sterquilinio iacuit, qui in paradiso quondam debilis stetit)...Così adesso il nemico viene battutto da ogni lato e sconfitto su tutti i fronti...ed è una gioia contemplare il santo che, nonostante tutti gli attacchi subìti, appare fuori assolutamente vuoto di tutto, ma pieno, dentro, di Dio (igitur sanctum virum intueri libet, foras rebus vacuum, intrinsecus Deo plenum)". 
 
Commento morale a Giobbe, I, III, 14.15. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 253.255.




"Ci sono doni dello Spirito senza i quali non si può raggiungere la vita e ci sono doni che manifestano la santità della vita per l'utilità degli altri (Alia namque sunt dona illius sine quibus ad vitam nequaquam pertingitur, alia quibus vitae sanctitas pro aliorum utilitate declaratur). La dolcezza, l'umiltà, la pazienza, la fede, la speranza, la carità sono doni dello Spirito senza i quali non si può in alcun modo raggiungere la vita. Invece la profezia, il potere di guarire, il dono delle lingue e quello di interpretarle, sono doni dello Spirito che manifestano la presenza della sua potenza per la conversione di coloro che vi assistono". 
 
Commento morale a Giobbe, I, II, 91. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 239.


"Il solido edificio della nostra anima è sostenuto dalla prudenza, dalla temperanza, dalla fortezza e dalla giustizia (mirum solidum mentis nostrae aedificium, prudentia, temperantia, fortitudo, iustitia sustinet). La casa poggia su quattro angoli, perché su queste quattro virtù si edifica la struttura di un'opera buona... Quando nel cuore sono presenti queste quattro virtù viene mitigato l'ardore dei desideri carnali. Se l'ignavia sorprende l'anima, la prudenza si raffredda...Se qualche piacere irretisce l'anima, la nostra temperanza perde di vigore...Se nel cuore s'insinua il timore la  fortezza di fronte alle avversità è tanto più debole quanto maggiore è la paura di perdere dei beni ai quali si è attaccato il cuore (eo minores contra adversa existimus quo quaedam perdere immoderatius dilecta formidamus)...Se l'amor proprio penetra nell'anima la distoglie impercettibilmente dalla rettitudine della giustizia e, nella misura in cui si trascura di donarsi interamente al Creatore, si viola il diritto della giustizia... La casa crolla quando, compromesse le virtù, la coscienza non si sente in pace (domus eruitur dum pulsatis virtutibus conscientia turbatur)".
 
Commento morale a Giobbe, I,II, 76. Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.227-229.


<Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è attaccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati: sono scampato solo io> (Gb 1,16).
"Che significano le pecore, se non l'innocenza dei pensieri? Che significano le pecore, se non la purezza di cuore dei buoni (quid per oves nisi bonorum cordium munditia designatur)?...Quando dunque la fiamma dell'invidia... irrompe contro la purezza dei nostri pensieri, il fuoco scende dal cielo sulle pecore. I pensieri della nostra mente si infiammano spesso infatti  con l'ardore della libidine, e col loro fuoco incendiano per così dire le pecore, quando turbano i nostri sentimenti con le tentazioni della lussuria (Saepe enim mundas mentis nostrae cogitationes ardore libidinis accendunt). Si chiamano fuoco di Dio, perché pur non essendo opera di Dio, tuttavia nascono col suo permesso (etsi non faciente Deo, tamen permittente, generatur). E poiché con il loro impeto improvviso travolgono la vigilanza stessa dell'anima, passano, per così dire, a fil di spada i guardiani. Uno solo tuttavia sfugge incolume, quando il discernimento che ci rimane esamina con lucidità tutto ciò che l'animo soffre e, solo, sfugge al pericolo di morte (unus incolumis fugit dum omne quod mens patitur, perseverans discretio subtiliter respicit, solaque mortis periculum evadit)". 
 
Commento morale a Giobbe, I, II, 74. Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.223-225.
 
Siamo di fronte ad un esempio - e ne incontreremo tanti - di interpretazione morale del testo biblico che non passa attraverso il riferimento esplicito all'<allegoria> identificata con il mistero di Cristo; ma non dobbiamo dimenticare che Gregorio ha già spiegato che Giobbe è profezia di Cristo in tutta la sua umanità, per cui nulla di ciò che avviene nell'uomo è estraneo a lui tranne, ovviamente, il peccato. 





"La madre del Redentore secondo la carne è la sinagoga, dalla quale è partito per venire a noi rivestito d'un corpo che lo rendeva visibile. Essa l'ha tenuto dentro di sé coperto col velo della lettera, trascurando di aprire gli occhi della mente all'intelligenza spirituale (hunc intra se tegmine litterae adopertum tenuit dum ad spiritalem eius intellegentiam mentis oculos aperire neglexit). Rifiutando di vedere Dio che si nascondeva nella carne del corpo umano, ha come disdegnato di considerarlo nudo nella sua divinità. Ma egli è uscito nudo dal grembo di sua madre, perché partendo dalla carne della sinagoga, è venuto ben visibile ai pagani.Ciò è stato ben simboleggiato da Giuseppe, che fuggì lasciando andare il mantello. Infatti, quando la donna adultera voleva abusare di lui, egli si salvò lasciando andare il mantello (cfr Gen39,12). La sinagoga, credendo che il Signore fosse soltanto un uomo, voleva stringerlo con un abbraccio quasi adulterino; allora egli lasciò sotto gli occhi di lei il rivestimento della lettera e si offrì allo sguardo dei pagani per far loro conoscere la potenza della sua divinità (ipse tegmen litterae eius oculis reliquit et ad cognoscendum divinitatis suae potentaim conspicuum se gentibus praebuit)...Ma forse che l'ha abbandonata del tutto?...Egli apparità manifesto anche alla sinagoga (erit ergo quando conspicuus etiam Synagogae appareat). E questo succederà senza dubbio alla fine del mondo, quando farà conoscere se stesso come Dio al resto del popolo."  
 
Commento morale a Giobbe, I, II, 59. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 215.


"Non deve stupirci che nella Sacra Scrittura Dio non riveli subito allo spirito umano la sua immutabilità. Infatti anche dopo la solenne sua risurrezione fece conoscere soltanto gradualmente  (quibusdam provectionum accessibus innotuit) l'incorruttibilità del suo corpo. Luca c'informa che dapprima inviò gli angeli a quanti lo cercavano nel sepolcro (quibusdam se in monumento quaerentibus prius)... poi... si fece riconoscere soltanto dopo una lunga conversazione al momento dello spezzare il pane (rursum...post exortationis moras cognoscendum se in panis fractione monstravit); finalmente... non soltanto si fece conoscere ma si fece anche toccare (ad extremum vero...non solum se cognoscibilem, sed etiam palpabilem praebuit). Siccome il cuore dei discepoli era ancora incerto e dubbioso di fronte a un tale mistero (quia enim infirma adhuc gestabant corda discipuli in cognitione tanti mysterii), fu necessario...che, cercando, trovassero a poco a poco qualcosa, trovando crescessero e, crescendo, possedessero con più solidità le cose conosciute (ut paulisper aliquid quaerentes invenirent, invenientes crescerent et, crescentes, cognita robustius tenerent). Non tutto d'un colpo quindi,  ma attraverso un crescendo graduale di fatti e di parole, siamo guidati un passo dopo l'altro verso l'eternità (igitur non repente sed causarum verborumque incrementis, quasi quibusdam ad aeternitatem passibus ducimur)". 
 
Commento morale a Giobbe, I,II, 35. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p.193.




"Quando in questa vita ci tocca soffrire delle contrarietà, è necessario sottomettere di buon grado la nostra volontà a Colui che non può volere nulla di ingiusto. In ogni evento spiacevole ci consola molto sapere che nulla ci accade se non per ordine di Colui a cui non piace se non ciò che è giusto (Magna quippe est consolatio in eo quod displicet quod illo ordinante erga nos agitur, cui nonnisi iustum placet). Se dunque sappiamo che al Signore piace ciò che è giusto e che nulla possiamo soffrire senza il suo beneplacito, tutto ciò che soffriamo è giusto, ed è molto ingiusto mormorare per ciò che giustamente soffriamo (iusta sunt cuncta quae patimur et valde iniustum est, si de iusta passione murmuramus). Abbiamo inteso Giobbe difendere la propria causa con linguaggio forte contro l'avversario; ascoltiamo ora, al termine del suo discorso, benedire e lodare il Giudice in questi termini: <Sia benedetto il nome del Signore> (Gb1,21). Ecco egli riassume ogni suo retto sentimento nella benedizione del Signore. Così....con l'umiltà colpì il nemico superbo, con la pazienza atterrò il crudele (Ecce...superbum hostem humilitate percussit, crudelem patientia stravit)". 
 
Commento morale a Giobbe, I,II, 31.32. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p.191.


"La condotta licenziosa dei giovani è tenuta a freno dalla disciplina degli anziani (sciendum nobis est quia quod a minoribus voluptuose agitur maiorum disciplina cohibetur); ma se si danno ai bagordi gli anziani, il libertinaggio dei giovani non conosce più freni (cum vero maiores ipsi voluptati deserviunt nimirum minoribus lasciviae frena laxantur). Chi accetterà la regola della disciplina quando gli stessi che si assumono l'impegno di far osservare questa regola si abbandonano ai piaceri? I figli (di Giobbe) periscono mentre banchettano nella casa del fratello maggiore, perché il nemico acquista più forza contro di noi quando vede che si danno alla bella vita gli stessi incaricati della disciplina (tunc contra nos hostis vehementius vires accipit, quando et ipsos qui pro custodia disciplinae praelati sunt laetitiae servire cognoscunt)".
 
Commento morale a Giobbe, I, II, 27. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 185.



"L'antico avversario, quando non trova in noi un male di cui accusarci, cerca d'interpretare in male anche il bene (Antiquus adversarius cum quae accuset mala non invenit, ipsa ad malum inflectere bona quaerit). Quando è vinto dalle opere, esamina le nostre parole per incolparci. Se neppure nelle parole trova materia di accusa, cerca di offuscare l'intenzione del cuore (Cum de operibus vincitur ad accusandum verba nostra perscrutatur. Cum nec in verbis accusationem reperit, intentionem cordis offuscare contendit): come se le opere buone non fossero compiute con animo buono, e che perciò non debbano essere considerate buone dal Giudice divino. Vedendo che i frutti dell'albero si conservano freschi sotto il sole, cerca di inoculare il verme nella radice (Quia enim fructus arboris esse et in aestu virides conspicit, quasi vermem ponere ad radicem quaerit)".
 
Commento morale a Giobbe, I, II, 14. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 175.



"I desideri sono parole che escono dal cuore (Animarum verba ipsa sunt desideria)... Bisogna allora che le anime dei santi aderiscano a Dio nel più profondo del cuore così che, nell'aderire a Lui, trovino la pace (et sanctorum animae ita in interni secreti sinu Deo inhaereant ut inhaerendo requiescant) ...Infatti quanto più ardentemente aderiscono a Lui con lo spirito, tanto più ottengono la grazia di chiedere a Lui ciò che sanno essere conforme alla sua volontà. Da lui quindi bevono ciò di cui egli stesso le rende assetate (De ipso ergo bibunt quod ab ipso sitiunt) e così succede che, in modi a noi ancora incomprensibili, prevedono di essere saziate con ciò che bramano pregando (et modo nobis adhuc incomprehensibili in hoc quod petendo esuriunt, praesciendo satiantur)...La voce delle anime coincida perciò col desiderio che è proprio di un amante (animarum vox sit quod amantes desiderant)".
 
 
Commento morale a Giobbe, I,II, 11. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 171.




"Agli occhi altrui noi stiamo nel segreto dell'anima come dietro una parete costituita dal corpo; quando decidiamo di comunicare qualcosa di noi stessi usciamo da questo nascondiglio utilizzando la lingua come fosse una porta  per mostrarci fuori come siamo dentro (cum manifestare nosmetipsos cupimus, quasi per linguae ianuam egredimur, ut quales sumus intrinsecus ostendamus). Non è la stessa cosa per un essere spirituale, non composto di anima e corpo come noi ...Dio, per esempio, parla agli angeli santi manifestando i suoi segreti invisibili direttamente ai loro cuori, così che essi, contemplando la Verità, vi leggono tutto ciò che debbono fare (loquitur Deus ad angelos sanctos eo ipso quo eorum cordibus occulta sua invisibilia ostendat, ut quicquid agere debeant, in ipsa contemplatione veritatis legant). Le gioie della contemplazione corrispondono perciò ai precetti dati a viva voce (velut quaedam praecepta vocis sint ipsa gaudia contemplationis)...Si può dunque dire che Dio parla agli angeli manifestandosi ad essi con una visione interiore, e gli angeli parlano al Signore contemplandolo con uno sguardo che li trascende, permettendo loro di elevarsi in un trasporto di ammirazione. Avviene qualcosa di simile nei santi, per cui si può dire che altro è il modo con cui parla Dio alle anime dei santi e altro è il modo con cui i santi parlano a Dio (aliter Deus ad sanctorum animas, aliter sanctorum animae loquuntur ad Deum)". 
 
Commento morale a Giobbe, I, II, 8.9.10.11. Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.169-171.
 
C'è in queste spiegazioni di Gregorio la base stessa della tensione dei monaci medioevali a voler raggiungere la condizione angelica. Non si trattava di <disprezzo> del corpo, ma di desiderio cocente di ottenere, restando nel corpo, le stesse possibilità di comunicare con Dio che sono proprie degli angeli.


"La sacra Scrittura si presenta agli occhi della nostra mente 
come uno specchio, 
in cui contemplare il nostro volto interiore. 
Scriptura Sacra mentis oculis 
quasi quoddam speculum opponitur,
 ut interna nostra facies in ipsa videatur.
 
In esso conosciamo
 il bello e il brutto che c'è in noi; 
Ibi enim foeda ibi puchra nostra cognoscimus
 
In esso abbiamo la verifica 
del nostro progresso 
e della nostra lontananza dalla mèta
Ibi sentimus quantum proficimus
ibi a provectu quam longe distamus". 

Commento morale a Giobbe, II, 1, 1. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p.161.


"La sacra Scrittura racconta le imprese dei santi e stimola i cuori infiacchiti e deboli ad imitarli (Scriptura sacra narrat gesta sactorum et ad imitationem corda provocat infirmorum). E mentre richiama alla memoria le loro azioni vittoriose rafforza le nostre deboli membra per affrontare la lotta contro il male. Le sue parole rendono meno trepidante nel combattimento il nostro spirito, che si vede posti di fronte i trionfi di tanti valorosi. Qualche volta poi, non solo ci descrive le loro vittorie, ma ci rende note anche le loro sconfitte, affinché possiamo ricavare dalla vittoria dei forti l'esempio da imitare e dalla sconfitta di chi cade ciò che dobbiamo temere (Nonnunquam vero non solum nobis eorum virtutes asserit, sed etiam casus innotescit, ut et in victoria fortium quod imitando arripere et rursus videamus in lapsibus quod timere)". 
 
Commento morale a Giobbe, II, 1. Città Nuova editrice, Roma 1992, p.161.


Nella Scrittura viene presentato, per esempio, "Giobbe reso più grande dalla tentazione e Davide invece dalla stessa tentazione sconfitto (Ecce enim Iob describitur temptatione auctus sed David tentatione prostratus), affinché il valore degli antenati alimenti la nostra speranza e la loro caduta ci renda cauti e umili (ut et maiorum virtus spem nostram foveat et maiorum casus ad cautelam nos humilitatis accingat)... Nel primo caso l'animo di chi ascolta viene educato alla fiducia che nasce dalla speranza, nel secondo invece viene educato all'umiltà che nasce dal timore. Così non diventerà superbo per temerarietà, perché trattenuto dal timore, né diverrà disperato per paura, perché l'esempio del valore lo incoraggerà alla fiducia che nasce dalla speranza (nec temeritate superbiat quia formidine premitur, nec pressus timore desperet, quia ad spei fiduciam virtutis exemplo roboratur)".  
 
Commento morale a Giobbe, II,1. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p.161.



<Chi è costei che sale dal deserto come una colonna di fumo, esalando profumo di mirra e d'incenso e d'ogni polvere aromatica?> (Ct 3,6). La santa Chiesa sale come una colonna di profumo, perché ogni giorno progredisce nella rettitudine dell'incenso interiore che le virtù della sua vita esalano (Sancta quippe Ecclesia sicut fumi virgula ex aromatibus ascendit, quia ex vitae suae virtutibus in interni cotidie incensi rectitudinem proficit). Senza disperdersi in vani pensieri, nel segreto del cuore si tottopone ad una rigorosa disciplina (sese intra arcana cordis in rigoris virga constringit). Non smettendo mai di ripensare e analizzare le sue azioni (dum recogitare semper ac retractare non desinit), col pensiero riduce in polvere la mirra e l'incenso delle sue opere...il che vuol dire che dobbiamo compiere con perseveranza sino alla fine ogni cosa buona che intraprendiamo. Perciò le cose cominciate bene devono essere continuate ogni giorno (bene igitur coepta cunctis diebus agenda sunt). Così mentre si combatte per respingere il male, si tiene in pugno, grazie alla costanza, la vittoria del bene". 
 
Commento morale a Giobbe, I,1,55.56. Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.157-159.




"Spesso ad un'opera cominciata bene, si accompagna l'ira (Saepe se bene inchoatae nostrae iustitiae ex latere ira subiungit) che, turbando l'animo oltre misura con lo zelo della rettitudine, ferisce in modo grave la salute della pace interiore. Spesso succede anche che alla gravità si accompagni la tristezza del cuore (Saepe gravitatem cordis quasi subiuncta ex latere tristitia sequitur) che copre con la nube dell'afflizione ogni opera iniziata con buona intenzione. Respingere quest'ultima è qualche volta tanto più difficile quanto più essa mostra di voler conferire all'animo una nota di maggiore serietà. Spesso infine all'opera buona si accompagna una smodata letizia (Saepe se bono operi laetitia immoderata subiungit) che, spingendo l'animo a rallegrarsi più di quanto conviene (cumque plus mentem quam decet hilarescere exigit), elimina del tutto dall'azione buona ogni serietà".  
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 53. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 153.



"Spesso quando un'opera buona ha successo e procura la lode degli uomini,
ha il potere di mutare l'intenzione di chi la compie.
(Saepe bono operi dum laus humana obviat, 
mentem operantis immutat)
 
La lode infatti, anche se non cercata, fa piacere
(Quae laus, quamvis quaesita non fuerat, 
tamen oblata delectat). 
 
E così succede che, mentre chi opera bene si abbandona a questo piacere,
svanisce del tutto dentro di lui la motivazione originaria
(Cuius delectatione dum mens bene operantis resolvitur
ab omni intentionis intimae vigore dissipatur)".


Commento morale a Giobbe, I, 1, 53. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 153.



"Bisogna sapere che l'antico avversario...cerca di corrompere agli occhi del Giudice interiore ciò che si compie rettamente agli occhi degli uomini in tre modi (Sciendum est quod bona nostra tribus modis antiquus hostis insequitur): Qualche volta inquina nell'opera buona l'intenzione (intentionem polluit) affinché ciò che si traduce in azione non risulti né puro né nitido a motivo di questa sorgente inquinata...qualche volta interferisce nel corso dell'azione stessa (in ipsa actione se quasi in itinere opponit)...qualche volta infine tende il laccio all'opera buona al compimento dell'azione stessa (opus bonum in fine actionis illaqueat). E comunque quanto più simula di essersi allontanato dalla casa del cuore o dallo svolgimento dell'azione, tanto più astutamente aspetta di rovinare il compimento dell'azione, e quanto più è riuscito  a rendere incauto uno allontanandosi, tanto più duro e inguaribile è il colpo con cui improvvisamente lo trafigge (et quo incautum quemque quasi recedendo reddiderit, eo illum repentino nonnumquam vulnere durius insanabiliusque transfigit)".
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 51. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 151.
 
Gregorio è davvero un profondo conoscitore della dinamica comune ad ogni agire umano.









[Modificato da Caterina63 04/08/2014 10:07]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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