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ATTENZIONE: testo integrale della Commissione Teologica intern. DioTrinità e gli uomini

Ultimo Aggiornamento: 21/01/2014 17:47
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21/01/2014 17:42
 
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Capitolo II
L’iniziativa di Dio nel cammino degli uomini

1. L’alleanza con Dio, destinata per tutte le genti

19. Il monoteismo in senso stretto, che rappresenta un elemento essenziale della religione di Israele fra le antiche religioni, si è in realtà definito al termine di un lungo processo storico. In termini teologici, esso si presenta come frutto di una rivelazione progressiva. Storicamente, il culto delle tribù israelite a JHWH, il Dio salvatore che fa uscire dalla schiavitù dell’Egitto, sembra aver convissuto con altre forme di culto (Jos 24, 16-24). Nel tempo, si è imposta gradualmente la forte esigenza di una “monolatria”, in corrispondenza con il “privilegio” che deve essere accordato, rispetto ad ogni altra figura divina, al culto del Dio della liberazione e della speciale alleanza con il popolo di Israele. Benché il nome di JHWH sia conosciuto e usato nel periodo precedente all’Esodo, Egli viene identificato con il “Dio personale di Israele” nella luce della connessione fra i due grandi eventi fondatori dell’identità teologica di Israele: la promessa fatta ad Abramo (Gn 12, 2-3.15) e la liberazione dell’Esodo (Es 19-20). In altri termini, Israele conosce JHWH come Salvatore del popolo prima ancora di riconoscerlo come Creatore del mondo. Il principio di quella conoscenza è la liberazione di Israele dalla schiavitù. In questo senso il Dio dell’Alleanza si aspetta, da parte del popolo che ha fatto nascere e rinascere, un rapporto esclusivo di appartenenza e di amore: “Io sarò il tuo Dio e tu sarai il mio popolo” (Es 6, 6; Ger 31, 33). L’esistenza di altri dèi, che sono propri a ciascuno degli altri popoli, non è per questo automaticamente negata. Israele, per quanto lo riguarda, è assolutamente certo che la sua esistenza, la sua salvezza, il suo futuro, dipendono esclusivamente da JHWH. “Tutti i popoli marciano ciascuno nel nome del loro dio; quanto a noi, noi marciamo soltanto nel nome di JHWH, il nostro Dio, esclusivamente e per sempre” (Mi 4, 5). Di qui l’affermarsi della coscienza di dovere riservare a JHWH un culto esclusivo. Questa esigenza è chiaramente espressa in Dt 5, 6-9: “Io sono JHWH il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla dimora della schiavitù. Tu non avrai altri dèi, al mio cospetto. Non ti farai immagini scolpite di nulla che assomigli a ciò che sta nell’alto dei cieli, o quaggiù sulla terra, o nelle acque al di sotto della terra. Tu non ti prostrerai davanti a questi dèi e non li servirai. Perché io, JHWH, il tuo Dio, sono un Dio geloso” (cf. anche Es 20, 3-5).

20. Attraverso l’esperienza dell’Esilio, Israele comprende che JHWH, il suo Dio, gli è comunque – e dovunque – vicino. La sua presenza e la sua azione salvifica non sono limitate a un luogo determinato (la Terra promessa, o il Tempio), ma sono veramente universali. Questo ampliamento corrisponde all’emergere della dottrina della creazione. Il grande mistero, che progressivamente viene alla luce, è appunto la percezione del fatto che il Dio di Abramo e dell’Esodo è Colui che “in principio… creò il cielo e la terra” (Gn 1,1). Nell’orizzonte di quest’apertura (il Dio dei Padri e dell’Esodo è il Signore di tutto il creato) Dio è Colui che è destinato ad essere conosciuto – e riconosciuto – dai popoli della terra come il Dio della salvezza per tutti gli uomini. Israele comprende anche che JHWH non assomiglia in nulla agli dèi “delle nazioni”. Questi appaiono come dèi impotenti a dare salvezza: anche a coloro che confidano in essi: “Si illudono coloro che trasportano i loro idoli di legno, e pregano un dio che non può salvarli. [...] Chi aveva già fatto questa rivelazione, nei tempi passati, se non io stesso, JHWH? Non esiste altro Dio. Un Dio giusto e salvatore non c’è, se non io stesso. Volgetevi a me e sarete salvati, tutti i confini della terra, perché Dio sono io stesso, non ce n’è   un altro”. (Is 45, 20b-22; cfr. 1 Sam 5, 2-5; 1 Re 18, 20-40; 2 Re 18, 33-35). Al termine di questa lenta maturazione, il Deutero-Isaia può predicare un monoteismo rigoroso, che confessa l’unicità assoluta di Dio e nega conseguentemente l’esistenza degli altri dèi: “Così parla JHWH, re d’Israele, JHWH Sabaoth, il suo redentore: Io sono il primo e l’ultimo, a parte me, non c’è altro dio. [...] C’è forse un Dio, oltre a me? Non c’è altra Roccia, io non ne conosco!” (Is 44, 6.8). Baruch esorta ripetutamente il popolo a non avere paura degli idoli e a non cedere alla loro seduzione: “non avere paura, non sono dèi” (Baruch 6, 14.22.28.64). Il Libro della Sapienza completa il processo, svelando l’origine puramente umana degli idoli e dei falsi dèi: “Gli idoli non esistevano all’origine, e mai esisteranno; è la superficialità degli uomini che li ha fatti entrare nel mondo” (Sap 14, 13-14). JHWH è sempre stato, e per sempre rimarrà, l’unico e solo Dio.

21. L’unicità di Dio, creatore del mondo, guadagna il suo senso “assoluto” contestualmente all’apertura del senso “universale” della sua offerta di salvezza. Quanto più si afferma il carattere “esclusivo” del legame di Dio con l’antico Israele, eletto testimone della sua potenza e del suo amore, tanto più si accentua la destinazione “universale” della sua alleanza con la creatura. Il filo di questa destinazione della rivelazione era già intrecciato con l’antica promessa fatta ad Abramo, all’interno della quale “tutte le nazioni della terra” erano già benedette (Gn 12, 3). E risplendeva già nell’arcobaleno che sigillava simbolicamente la promessa fatta a Noè, in favore di tutte le creature della terra (Gn 9, 8). Fino a diventare il motivo dominante di una vera e propria “escatologia dell’alleanza” che apre il tempo dell’attesa. Quando il popolo testimone di Dio riceverà “un cuore nuovo” (Ger 31, 31s; Ez 16, 59), al monte del Signore “verranno molti popoli”, chiedendo al “Dio di Giacobbe” di indicare le sue vie e di accompagnare i loro cammini (Is 2, 3). La grande profezia di Israele apre infine – e ci consegna – l’orizzonte del compiuto affermarsi dell’unicità di Dio sullo scenario (messianico, escatologico, apocalittico) di una definitiva conciliazione tra gli uomini (cf. Is66, 18-21). Quando Dio sarà riconosciuto, fra tutte le genti, come il creatore potente, il giusto giudice e il salvatore misericordioso di tutti gli uomini, “un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo” (Is 2, 4). Secondo Ezechiele, nel “giorno del Signore”, tutti “gli abitanti delle città di Israele usciranno per accendere il fuoco, bruceranno armi, scudi grandi e piccoli, e archi e frecce e mazze e giavellotti e con quelle alimenteranno il fuoco per sette anni” al punto che non si dovrà più andare a prender legna nei campi e nei boschi (Ez 39, 9-10; cfr Sal 46, 8-10). Il re-messia del profeta Zaccaria, infine, che realizzerà il nome-simbolo di Gerusalemme, sarà un re di pace: “Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro, un figlio di asina. Farà sparire il carro da guerra da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni” (Zac 9, 9-10). La splendida signoria dell’unico Dio che accompagna Israele (Is 9, 1) si è aperta la strada della storia attraverso legami d’amore che hanno fatto nascere un popolo testimone come “dal niente” (Is 41, 14), mediante il quale avvolge nella sua benedizione tutti i popoli della terra (Is 65, 18-24). La grande attestazione di questa decisiva apertura si trova nel Deutero-Isaia, con la sua impressionante anticipazione del Servo di JHWH che porta la giustizia a tutti i popoli (Is42, 1-4), fino ai confini della terra (Is 49,6b). E non senza passare attraverso la prova del martirio (Is 50, 4-9; 52, 13- 53, 12).

22. La fede biblica dell’alleanza di Dio con l’antico Israele attesta infine la singolare scelta di Dio, creatore e Signore di ogni cosa: quella cioè di farsi conoscere da tutti gli uomini attraverso la lunga e quotidiana frequentazione di un piccolo gruppo umano, chiamato ad abitare, giorno per giorno, la via della giustizia che riconcilia l’essere umano con la vita di Dio. La fedeltà esclusiva richiesta al testimone di questa rivelazione del Dio Unico è destinata a far crescere nella storia l’adesione della mente e l’abbandono del cuore all’amore dell’unico Dio.

23. Nella sua esplorazione del mistero della Chiesa, il Concilio Vaticano II si è impegnato nell’approfondimento della relazione della Chiesa con il popolo d’Israele, attraverso l’esplicito rimando alla tradizione di Abramo quale “inizio” della rivelazione del Dio unico. La Dichiarazionesulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane, richiama “il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo”[5]. Il valore di questo singolare compimento della storia salvifica dell’antico Israele, nel suo rapporto con la storia dei popoli e dell’intera vicenda umana, è sempre stato ben presente alla coscienza cristiana. In modo esemplare, possiamo menzionare due grandi aperture: Paolo, con la sua appassionata teologia della vocazione di Israele e con la sua audace interpretazione dell’agnostos theos (il “dio ignoto”) nell’Areopago di Atene (cf. Atti 17, 28); i Padri della Chiesa, con la loro fedele custodia del senso permanente e pieno delle Scritture bibliche, e con la loro illuminata teologia dei “semi della Parola di Dio” riconoscibili nel mondo e nella storia[6]. Tale convinzione, sostenuta dalla fede biblica, non è senza riscontro nell’esperienza universale. Tutte le grandi elaborazioni del pensiero hanno incessantemente dato voce alla ricerca dell’infinito, dell’assoluto, del mistero dell’origine e dell’enigma della destinazione. Non conosciamo sino ad ora nessuna civiltà che sia nata e cresciuta al di fuori di questa caratteristica dimensione dello spirito, che è la ricerca di Dio.

2. Discernimento cristiano dell’antica rivelazione

24. La rivelazione di Dio, nella formazione dell’antico Israele, si è aperta la strada nello scenario delle tensioni, dei conflitti, degli eccessi violenti persino, che accompagnano la storia di tutti i popoli alla ricerca del loro destino storico. Quella rivelazione, d’altro canto, conosce anche tutte le intime sfumature e i toni forti dell’amore, dell’amicizia, della cura materna e persino dell’eros passionale.

25. Il discernimento appare in ogni caso necessario, anche per la teologia cristiana, a motivo del valore di rivelazione autentica che essa riconosce alle antiche Scritture bibliche. Incominciamo col ricordare che la sommaria opposizione fra un Dio maligno “dell’ira e della guerra”, e un Dio buono “dell’amore e del perdono”, assunta come chiave ermeneutica discriminante fra la rivelazione ebraica (da ripudiare) e quella evangelica (da accogliere), è stata respinta sin dagli inizi dell’era cristiana[7]. In particolare è stata respinta con ferma determinazione l’opposizione radicale fra un Dio cattivo dell’Antico Testamento e un Dio buono del Nuovo Testamento. Il rifiuto – fermo e immediato – di questo dualismo appare in certo modo persino sorprendente, considerato l’apparente vantaggio apologetico che avrebbe potuto rappresentare: sia per liberarsi dalle scomode pagine della “violenza di Dio” che fanno parte della Bibbia; sia per marcare in termini apparentemente risolutivi la differenza della “nuova religione” dal giudaismo. In effetti, è particolarmente sorprendente che questa rozza semplificazione continui ancor oggi ad essere utilizzata all’interno di certa apologetica popolare (e persino nella cultura alta).  

26. Le Sacre Scritture contengono indubbiamente pagine che rimangono anche per noi credenti molto impressionanti e molto difficili da decifrare. Qualche esempio: Dio punisce il genere umano con il diluvio (Gn 6-7) e distrugge Sodoma e Gomorra con il fuoco Gen 19. Dio infligge una serie di dure punizioni all’Egitto, che culminano con la morte dei suoi primogeniti e con l’annientamento dei suoi guerrieri (Ex 7-13). Nel periodo della conquista della Terra promessa, udiamo più volte risuonare l’ordine di sterminio (anatema) d’interi eserciti e di intere città (cf. Gs 6, 21; 8, 22-25; 1Sam 15, 3). Le forme di violenza sacrificale, nel contesto delle guerre di conquista, appaiono anche come promesse rivolte a Dio in vista del suo sostegno per la vittoria (Num 21, 1-13). Lo sterminio che segue la vittoria e la conquista è certamente una pratica sacrificale praticata anche dagli altri popoli. Come anche i sacrifici umani propiziatori, che sono presenti nella storia stessa dell’antico Israele (Lev 20, 2-5; 2Re 16, 3; 21,6). Lo attesta proprio il fatto che, nell’ultimo periodo profetico, queste pratiche, che la stessa rilettura deuteronomica denuncia come tipiche di Canaan (Deut 12, 31), sono duramente condannate (Mich 6, 6-8; Ger 19, 4-6).

27. Le forme della violenza che coinvolgono direttamente o indirettamente Dio, nelle scritture bibliche, sono un tema complesso, che va analizzato con cura già sul piano storico-letterario. La riscrittura teologica degli eventi, che mira ad accentuare la presenza e il giudizio di Dio nella storia, impiega forme di “riconfigurazione” narrativa più libere delle nostre per raccontare la rivelazione della volontà divina nei segni della storia e nei progetti del popolo. In altri casi, gli stereotipi della “prova”, della “collera” o del “giudizio” di Dio sulla fede dell’uomo enfatizzano l’appello alla conversione e alla fedeltà. Per la decifrazione teologica complessiva del tema della violenza sacranelle pagine bibliche la riflessione teologica chiama tradizionalmente in causa due criteri. Da un lato la tradizione teologica sottolinea il carattere pedagogico della rivelazione storica, che deve aprirsi strada in un contesto di recezione duro e tribale, molto diverso da quello che plasma la nostra sensibilità odierna. Dall’altro lato, essa mette in rilievo la storicità dell’elaborazione della fede attestata nelle scritture bibliche, segnalando l’evidenza di una dinamica evolutiva dei modi in cui la violenza è rappresentata e giudicata: nella prospettiva del suo progressivo superamento, dal punto di vista della fede nel Dio della creazione, dell’alleanza della salvezza. Queste linee di chiarimento contengono certamente, in termini generali, un discorso di verità. Da un lato, come lo stesso Gesù ricorda, anche gli interpreti più autorevoli della parola di Dio – a incominciare dallo stesso Mosé (Mc 10, 1-12) – rimasero inevitabilmente condizionati da un quadro antropologico e culturale profondamente intrecciato con l’ethos –per noi insopportabilmente violento– di una concezionearcaica-sacrale dell’onore e del sacrificio, del conflitto e della rappresaglia, della guerra e della conquista. Dall’altro lato, una corretta ermeneutica storica e teologica tiene necessariamente conto degli stereotipi culturali e linguistici dei racconti di rivelazione. La stessa rilettura biblica delle tradizioni, all’interno delle Scritture sacre, riconfigura e discerne il significato teologico contenuto nella storia della testimonianza, indicando chiaramente un processo di purificazione della fede nella Parola di Dio. L’opera della riconfigurazione della memoria, attraverso il lavoro redazionale e la rielaborazione retrospettiva dell’esperienza, indirizzano il senso della rivelazione alla sua sintesi compiuta. Ed è a partire da quel punto che deve esserne indicato il senso dell’intero processo. Noi stessi assimiliamo con chiarezza sempre maggiore, alla luce dell’evento di Gesù Cristo e mediante l’illuminazione che lo Spirito non cessa di offrire alla Chiesa, la differenza che deve essere riconosciuta fra l’autentica dottrina della Parola di Dio e gli stereotipi linguistici e culturali del mito, della cosmologia e dell’antropologia, dell’etica e della politica, della religiosità popolare e del senso comune, in cui – inevitabilmente – questi stereotipi trasmettono, semplificandola, la consapevolezza della presenza e dell’azione di Dio nella storia.

28. Il senso ultimo dell’alleanza di Dio con l’antico popolo rimane la rivelazione della sua misericordia e della sua giustizia. Si pensi, ad esempio, all’ispirato ripensamento della tradizione deuteronomista circa il senso e il fraintendimento dell’alleanza con Dio, legata alla qualità della fede più che al formalismo della legge. O all’apporto della tradizione Profetica in ordine alla critica dell’auto-esaltazione dell’istituzione politico-religiosa, che mortifica il primato della fede e la ricerca della giustizia di Dio. O ancora, all’immensa rilettura dell’antica esperienza di Dio e della storia di Israele, che la tradizione della Sapienza indaga nell’ottica della “alleanza originaria” di Dio con la vita dell’uomo iscritta nella costituzione del “mondo creato”: aprono al confronto della Parola di Dio con la bellezza e con la drammatica dell’universale condizione umana.

Lungo questo asse si lascia agevolmente definire e riconoscere la centralità del messaggio biblico a riguardo del mistero dell’amore di Dio: che accetta di farsi interlocutore dell’uomo, per restituirlo alla sua libertà e rendergli apprezzabile la sua giustizia. E’ impossibile sfuggire alla potenza di Dio, e alla sua giustizia: questo ogni religione lo sa. Eppure, Dio vuole essere liberamente apprezzato e responsabilmente corrisposto: vuole essere amato nel libero dono di sé, non subito come una potenza ineluttabile del fato. Il modo con il quale l’uomo riceve la manifestazione della sua potenza e del suo amore, fa parte della rivelazione. La fede in cui è ricevuta e trasmessa parla inevitabilmente nel linguaggio e nelle immagini degli uomini, a cui è impossibile ospitare, in perfetta trasparenza, la verità ultima del legame dell’amore e della potenza in Dio. Rimane il fatto che l’originalità della Parola di Dio che ereditiamo dalle Sacre Scritture della rivelazione biblica lascia un’eredità essenziale e non equivocabile. L’ultima parola sulla verità del mistero di Dio nella storia dell’uomo deve essere lasciata alla potenza dell’amore. Il credente biblico sa di non sbagliare quando riassume così la propria fede: anche quando non è capace di decifrare puntualmente le parole e i segni.

29. L’amore della potenza, del resto, non è mai stata neppure la prima parola di Dio. È stata la parola, invece, della tentazione e del delirio di onnipotenza del primo Adamo, che rimosse l’evidenza della creazione e contaminò per sempre – ma non insuperabilmente – il linguaggio dell’umana teo-logia). San Paolo scrive: “In realtà, pur essendo uomini (en sarkì Cor 10, 3), noi non combattiamo in modo puramente umano. No, le armi della nostra battaglia non sono di origine umana (kata sarka Cor 10, 4), ma la loro potenza viene da Dio per la distruzione delle fortezze. Noi distruggiamo i ragionamenti pretenziosi e ogni potenza arrogante che si leva contro la conoscenza di Dio. Noi facciamo prigioniera ogni conoscenza per condurla a obbedire a Cristo” (2Cor 10, 3-5). In un passo come questo (e altri affini: cf. Ef 6, 10-17) è ben documentata la definitiva conquista di una svolta di linguaggio che decide l’interpretazione cristologica del conflitto che chiama in causa la religione. Questa svolta, del resto, è come prefigurata dal frutto maturo dell’antica profezia. La scena del dramma è ormai l’intera storia del peccato nel mondo: per mezzo del quale le potenze maligne che ci sovrastano oscurano la giustizia di Dio versando il sangue degli uomini e alimentando ostilità fra i popoli. La lotta per la verità di Dio, contro l’incredulità degli uomini e il peccato del mondo consiste nell’atto stesso dell’annuncio dell’amore che muta la realtà della storia mediante la testimonianza vissuta della fede. La risposta della fede alla violenza umana si scioglie così dall’equivoco di una violenza religiosa che pretende di anticipare il giudizio escatologico di Dio. In altri termini, non può diventare – senza contraddirsi gravemente— guerra di religione fra gli uomini, e violenza omicida in nome della fede.

30. Non erano dunque così lontani dal giusto senso i Padri della nostra fede quando si impegnavano – pur con qualche eccesso dell’allegoria – a interpretare,  nella “figura” degli antichi incitamenti divini alla lotta contro i nemici, la “verità” escatologica del sostegno di Dio nella lotta contro le potenze del male che insidiano la pace con Dio e fra gli uomini[8]. Mette conto, nondimeno, di completare queste riflessioni con qualche ulteriore precisazione che suggerisce anche necessari approfondimenti.

3. Praticare l’amore, custodire la giustizia

31. L’evoluzione moderna della differenza fra religione e politica – certamente propiziata dalla cultura del cristianesimo – è anche un processo di maturazione ermeneutica interno alla lettura della rivelazione. Nondimeno, l’enigmatica parola di Gesù, a proposito del Regno “che soffre violenza”, e nel quale si entra con un “atto di forza” (cf Mt 11, 12), ci ammonisce sul fatto che l’amore rimane esposto alla violenza. Dopo tutto, bisognerebbe anche prendere distanza dall’apparente ragionevolezza di una cultura che censura ogni passione per la sua giustizia come propensione alla violenza. Le parole della fede biblica che si lasciano istruire dalle metafore della “gelosia” di Dio per il suo popolo (in certo modo riprese dallo “zelo” per la casa di Dio al quale rimanda il gesto simbolico di Gesù, cf. Gv 2, 17; cf Sal 69, 9), non devono essere svuotate di ogni significato. Infine, la loro ermeneutica più emozionante si lascia cogliere all’interno della Bibbia stessa, nell’istruttivo dialogo fra Dio e Abramo (Gn 18, 18-22), che intercede per un popolo che non è neppure il suo; o fra Dio e Mosè (Es 32, 32), che respinge l’offerta di essere separato dal popolo ribelle.

32. L’amore autentico non va dunque confuso con la mancanza di coraggio, né indicato come irresponsabile ingenuità, totalmente ignara della dialettica dello Spirito e della forza. I racconti di vocazione, come quelli di Abramo, (Gen 12, 1-3) Mosé (Es 3, 1-10) e Geremia (1, 4-10), ci istruiscono nel modo più eloquente sul profilo “forte” delle storie d’amore del credente con Dio, in favore degli uomini. La dialettica dell’obbedienza e della libertà che impegna il testimone è una drammatica seria, e di alto profilo, nella logica dell’amore di Dio. Infine, molte parabole del Regno, come anche le rappresentazioni simboliche dell’escatologia neotestamentaria, ci ricordano che, se da un lato dobbiamo lasciare alla giustizia di Dio la sconfitta della violenza peccaminosa dell’uomo contro l’uomo, il giudizio e la vittoria dell’amore di Dio si presentano pur sempre nell’orizzonte di un atto della testimonianza che resiste con la forza dello Spirito all’ingiustizia della storia: confermando l’irrevocabile compimento della giustizia di Dio. E’ così che l’amore – il quale fino all’ultimo giorno apre la via della conversione e della misericordia, al prezzo della sua stessa vita – mantiene la sua promessa per il popolo delle Beatitudini sparso fra le genti. E apre, con la sua potenza, il luogo e il tempo del riscatto e della custodia di Dio per le vittime della violenza prevaricatrice (Ap 21). Il loro abbandono giudicherà i popoli (Mt 25).

33. Una giustizia di Dio senza amore risuona sempre come una condanna inevitabile per l’uomo peccatore. Lo sarebbe anche una promessa dell’amore di Dio senza la risolutiva efficacia della sua giustizia, che mette definitivamente al riparo la vittima delle potenze mondane dalla violenza che ha subito[9]. La nostra cultura è certamente nel grave rischio di una drastica separazione fra l’amore e la ragione, come anche fra l’amore e la giustizia. Questa duplice separazione si alimenta ad una retorica molto seducente, che corre il pericolo di legittimare la sopraffazione dell’altro come la tendenza perfettamente naturale dell’affermazione di sé. E induce anche, d’altra parte, una grave confusione fra la non violenza dell’amore e l’abbandono dell’altro all’ingiustizia.

34. Il primato teologale dell’amore, che toglie radicalmente valore alla violenza religiosa (del quale essenzialmente parliamo qui), non è un’alternativa – anzi, è un incoraggiamento – alla ricerca di buone politiche del diritto e della giustizia (delle quali, in questa sede, non ci occupiamo[10]). La diffusione di una certa cultura radicale induce il sospetto verso ogni figura dell’autorità e della legge considerate come forme mascherate di prevaricazione, sempre inaccettabili. Il corrispettivo simmetrico a questo fondamentalismo critico è una retorica sentimentale dell’amore che si sottrae ad ogni giudizio etico e ad ogni serio impegno con la giustizia. Questa duplice semplificazione è di facile presa demagogica, e alimenta un conformismo della libertà ostile ad ogni responsabilità e ad ogni legame. Di certo, incrementa il livello di tolleranza e di rassegnazione nei confronti della violenza diffusa, che aumenta il rischio di tutti.

35. Il nostro impegno specifico, come credenti, rimane anzitutto quello di invocare lo Spirito e la forza necessari all’annuncio della giustizia dell’amore di Dio: sostenendo il risentimento dell’ingiustizia e accettando il rischio della testimonianza[11]. La fermezza dell’opposizione religiosa alla violenza deve sottrarre –proprio in quanto tale– giustificazione teologica ad ogni forma di prevaricazione. In questa fase storica, l’evidenza di questa contrapposizione diventa un fattore di primo piano per il discernimento sulla qualità dell’esperienza religiosa.

4. La fede nel Figlio, contro l’inimicizia fra gli uomini

36. La tradizione della fede biblica, secondo la sua originaria vocazione, apre l’orizzonte della salvezza di Dio per tutti gli uomini. E’ questo il tema fondamentale sul quale la fede cristiana instaura il suo dialogo con ogni epoca. Il senso autentico di questa apertura è sigillato nell’evangelo del Figlio Crocifisso che rende per sempre contraddittoria la violenza fra gli uomini “in nome di Dio”. Il cristianesimo stesso, in forza della parola e dell’azione di Dio che continuamente lo incalza, è ricondotto sempre di nuovo alla fedeltà di questo significato della vera fede nell’unico Dio. La resistenza della fede contro l’inimicizia religiosa, trova la sua forza nella testimonianza della sua sconfitta in Gesù crocifisso (1 Cor 2, 2). La storia della salvezza scaturisce dall’iniziativa di Dio per l’uomo. Dio stesso rende possibile il nostro incontro con Lui. La fede stessa fa parte del dono. Nella disposizione alla testimonianza, la fede cristiana annuncia il Signore Gesù Cristo ad ogni uomo. Di questa fede, nessuno è “padrone” (2 Cor 1, 24), e tutti i discepoli sono “servitori” (Lc17, 10). La tendenza a trasformare la grazia dell’elezione in privilegio etnico o pregiudizio settario deve essere combattuta e vinta.

37. Il cristianesimo ha esplicitato il senso universale del rapporto di riconciliazione che, nella morte di Gesù, si stabilisce fra Dio e la storia dell’uomo[12]. Tutti sono peccatori (Rom 5, 12). Tutti devono lasciarsi riconciliare con Dio (2 Cor 5, 20). Quando noi stessi eravamo “suoi nemici” (Rom5, 10) il Figlio è morto per il peccato di tutti, perché tutti fossimo liberati dal peccato (Rom 8, 32; 1Cor 15, 3).

38. Il credente cristiano, nel custodire la fede in questa rivelazione, accetta egli stesso di entrare nel mistero del Corpo di Cristo: in cui l’inimicizia fra gli uomini è combattuta e vinta nel sacrificio di sé. Il discepolo deve essere pronto a onorare la sua chiamata compiendo “ciò che manca alla passione del Cristo, in favore del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24). Di lì, infatti, dalla pienezza dell’unico Dio in quell’unico Corpo, la Chiesa prende la sua via, la sua verità, la sua vita. Nella morte di Gesù Cristo viene definitivamente in chiaro che la lotta non è fra i popoli: per la supremazia di una etnia sull’altra, di una cultura sull’altra, di una religione sull’altra. La nostra lotta, infatti, non è “contro creature fatte di carne e sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano le regioni celesti” (Ef 6, 12). E opportunamente l’Apostolo conclude: “State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace” (6, 14-15). Il popolo testimone si forma da ogni nazione, nella fede in Gesù Cristo: ossia, secondo lo Spirito, e non secondo la carne. Nella ekklesia tou theou Dio ha ormai fatto “dei due” – il popolo dell’alleanza e le nazioni della terra – “un popolo solo”. D’ora in avanti, chi è unito a Dio in Gesù Cristo, non è separato da niente. Nella sua carne, per mezzo della croce, Gesù ha distrutto in se stesso ogni separazione dell’uomo da Dio. In tal modo, ha fatto crollare il muro dell’inimicizia fra gli eredi della promessa di Dio e tutti coloro ai quali la promessa di salvezza è destinata, grazie al Cristo di Dio crocefisso (cf. Ef 2, 14-16). Su questo punto, che è cruciale per il rapporto fra monoteismo e messianismo, la traduzione paolina della pratica e della predicazione di Gesù è trasparente. L’accesso alla salvezza dell’unico Dio non patisce più eccezione di persona secondo la carne (la provenienza, la cultura, la storia).

39. Nel solco di questa rivelazione, il cristianesimo tiene ferma la sua convinzione della possibilità per ogni uomo di incontrare Dio[13]. In virtù dell’evento di Gesù Cristo, ogni uomo che crede nella giustizia di Dio e pratica la giustizia fra gli uomini può trovare salvezza, a qualsiasi popolo o nazione appartenga (Atti 10, 34-36). Il discepolo di Cristo – la Chiesa – consegna l’amicizia di Dio che si è rivelata nella carne del Figlio a chiunque desideri adorare Dio in spirito e verità. 

40. Rimane il fatto che l’impensabile eccedenza cristologica dell’alleanza di Dio con l’uomo, che giunge all’incarnazione di Dio in un uomo, per amore dell’uomo, appare anche come un eccesso della grazia difficile da accogliere, all’interno di un pensiero alto e rigoroso della trascendenza di Dio. Noi stessi, con lo sguardo fisso a Gesù e in umile frequentazione della testimonianza dei discepoli, dobbiamo ogni giorno intercettare la voce del Padre e l’istruzione dello Spirito: per esserne sostenuti nella confessione dell’inaudita verità di Gesù come Signore della storia e Figlio eterno (cf. Mt 17, 5). Senza ferire in alcun modo il pensiero dell’unità e dell’unicità di Dio, che le tradizioni religiose cresciute nel solco della fede di Abramo intendono giustamente custodire .

41. L’apertura del pensiero trinitario di Dio, nel quale si dispiega la rivelazione dell’intimità del Figlio con il Padre, che si comunica a noi nello Spirito, può in molti modi essere fraintesa come un degrado virtualmente politeistico dell’unicità di Dio. Non solo l’Ebraismo, ma soprattutto l’Islam incalza da vicino questo fraintendimento ritenendolo in certo modo insuperabile. In modo simile, avanzano questa riserva molte filosofie religiose, seriamente impegnate con il pensiero dell’assoluto divino. Lungi dal sottovalutare la serietà di questo rischio, la teologia cristiana non ignora di aver attinto nozioni essenziali, per un autentico pensiero dell’essere divino, da una tradizione filosofica che si è mostrata particolarmente ospitale per la concezione della trascendenza e dell’unità (unicità) di Dio radicalmente presupposta dalla tradizione del “monoteismo” biblico. Così come la teologia cristiana può a sua volta ricordare che la formazione della dottrina su Dio, nei primi secoli dell’era cristiana, fu particolarmente impegnata proprio nell’approfondito e scrupoloso esame dei possibili fraintendimenti del pensiero “trinitario”: precisamente allo scopo di escludere la corruzione della fede nell’unità/unicità di Dio.

42. L’incarnazione del Figlio e la missione dello Spirito rivelano il mistero ultimo dell’unità di Dio come amore. Nella relazione Dio “non si perde”, precisamente perché Dio “si trova” nella relazione. Il chiarimento della confessione cristiana del Dio unico, reso particolarmente necessario nel contesto dell’odierna discussione con le idee filosofiche su Dio e le tradizioni religiose del monoteismo, suggerisce pertanto il seguito della nostra riflessione.




 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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