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ATTENZIONE: testo integrale della Commissione Teologica intern. DioTrinità e gli uomini

Ultimo Aggiornamento: 21/01/2014 17:47
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21/01/2014 17:44
 
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Capitolo IV 
La fede a confronto con l’ampiezza della ragione

1. La via del dialogo e il nodo dell’ateismo

67. Il pensiero biblico del Dio unico si è provvidenzialmente incontrato con un processo di umana purificazione dell’idea del divino che, all’interno dell’antica filosofia, era orientato verso l’unificazione del divino, in un senso affine al monoteismo. E’ comprensibile che l’incontro della nascente religione cristiana con la teologia filosofica razionale sia stato colto come un’opportunità per il pensiero della fede. Un tale incontro con la filosofia era già transitato, in parte, nella tradizione giudaica. In parte attraverserà, nel tempo, anche la tradizione islamica. Nello spazio di questo confronto filosofico e interreligioso, continuato all’interno della teologia e della cultura cristiana occidentale, ha infine fatto irruzione il moderno “ateismo”, orientato in primo luogo proprio in senso “anti-cristiano”.

68. Nell’epoca antica, e fino alla contemporaneità, l’ateismo era apparso, in diverse forme, come opzione teorica di singoli pensatori, incapace di determinare un vero e proprio sistema culturale alternativo all’accettazione religiosa e filosofica del pensiero di Dio. Ora invece, per la prima volta nella storia, l’ateismo si è costituito come sistema culturale fondato sulla razionalità umana. Questo orientamento è stato culturalmente associato al rigore del procedimento razionale del sapere critico, e all’emancipazione umanistica dalla presunta alienazione religiosa. In altri termini, l’orientamento ideologico ha insediato nella cultura attuale, come se fosse un dato scientifico, l’idea che “Dio” è un’invenzione dell’uomo: immaginazione rassicurante di fronte alla paura della morte e all’impotenza del desiderio, che infine si è trasformata nel fantasma di un potere mortificante e oppressivo dal quale è necessario liberarsi. Nel solco di questo processo di decostruzione dell’idea di Dio, si orientano molte forme di agnosticismo, indifferentismo, relativismo, che denunciano come illusorio – proiettivo, e infine dispotico – ogni pensiero della qualità spirituale e del senso trascendente dell’umano. Molte forme del riduzionismo antropologico ideologicamente ricavato dalle scienze della natura, come anche le forme del laicismo politico che teorizzano la rimozione del pensiero religioso dal dialogo democratico della sfera pubblica, sono manifestazioni estreme – e non raramente intolleranti – di quell’impoverimento dell’umanesimo che accompagna il pensiero nichilistico su “Dio”.

2. Il confronto sulla verità dell’esistenza di Dio

69. In verità, la stessa teologia cristiana si è sempre confrontata criticamente con il problema della possibilità e del valore del pensiero umano su Dio: sia in rapporto alla teo-logia filosofica della cultura occidentale, sia nel confronto con le altre culture religiose del mondo. D’altra parte, la fede rimane convinta che la piena verità su Dio va infinitamente di là di quello che la ragione umana può afferrare: in questo senso, la sua rivelazione supera le possibilità della filosofia. Per questo motivo la teologia cattolica non rinuncia a cercare la sua strada nel rispetto di questa duplice istanza: quella dell’armonia della fede con i principi della ragione, da un lato, e quella del trascendimento della filosofia da parte della fede. Nel linguaggio della tradizione antica, che oggi va ben interpretato per non suscitare fraintendimento, la fede cristiana era intesa anche come “vera filosofia”. In tal modo, si voleva alludere alla sintesi, e non all’alternativa, di quei due poli: la fede cristiana superava la filosofia elaborata dall’uomo, in quanto si impegnava a onorare la coerenza della verità ricevuta nella rivelazione con la verità cercata nella filosofia. La distinzione fondamentale del cristianesimo, come opera di Dio, e della filosofia, come opera dell’uomo, rimaneva in ogni caso ben salda. E tuttavia, il carattere spiccatamente sapienziale e morale, spirituale ed esistenziale, dell’esercizio filosofico antico, favoriva la percezione di una certa analogia e la plausibilità del confronto con l’atteggiamento religioso. In ogni modo, la polarità di fede e ragione è presente sin dall’inizio della teologia cristiana. San Paolo afferma chiaramente che Dio ha manifestato la sua potenza alla nostra intelligenza nelle sue opere (al punto che il rifiuto di riconoscerle non può argomentare la sua giustificazione; cf. Rm1, 18-25). D’altro canto, appare altrettanto deciso nell’affermare che la rivelazione salvifica di Dio, incentrata nel Crocefisso, appare come follia agli occhi dell’umana sapienza: e nondimeno, essa rivela una sapienza infinitamente più profonda (cf. 1 Cor 1, 21-25).

70. Richiamiamo ora, per semplici cenni, gli elementi essenziali del pensiero di riferimento comune, all’interno della tradizione cattolica, a riguardo della distinzione e della correlazione fra la conoscibilità “filosofica” di Dio e l’intelligenza “teologica” della sua rivelazione. San Tommaso d’Aquino, a proposito dei ruoli rispettivi della filosofia e della teologia, ha elaborato una teoria destinata a diventare classica. Nel suo modello di soluzione, non è concepibile una vera contraddizione fra ciò che insegnano la fede e la ragione, dato che – come la verità rivelata – anche i principi della ragione vengono dall’unico Dio. Di più, san Tommaso si spinge ad affermare la necessità di una conoscenza delle creature sempre più approfondita, proprio in funzione della più rigorosa conoscenza di Dio. Una tale necessità dipende dal fatto che “l’errore nelle cose create trascina all’errore nelle cose divine”[28]. La conoscenza delle creature, naturalmente, si diversifica per rapporto al modo di accesso: in teologia esse sono conosciute nel loro legame con Dio e a partire dalla rivelazione, mentre nella filosofia esse sono conosciute per se stesse, e interrogate per rapporto alla possibilità di condurci, in se stesse, ad una certa conoscenza di Dio.

Nella linea del modello messo a punto da san Tommaso, la filosofia può accedere alla conoscenza dell’esistenza di Dio e di alcune perfezioni di Dio (come la sua unicità, la sua provvidenza, il suo carattere personale). Se pure non è in grado di conoscere ciò che deriva strettamente dalla rivelazione (come la Trinità), la filosofia può aiutare a pensare ciò che è stato ricevuto per rivelazione e confutare le obiezioni rivolte alla pensabilità della fede[29]. E’ altrettanto vero che, nell’ambito di alcune verità importanti per la vita dell’uomo, di per sé accessibili alla filosofia, la fede offre il sostegno di una più diretta conferma, più profonda certezza accessibile a un più vasto numero di persone. La fede non scaturisce comunque da una semplice conoscenza intellettuale, ma da una scelta nella quale incide l’orientamento del desiderio: questo desiderio non gioca automaticamente un ruolo di perturbazione della conoscenza intellettuale, ma di per sé la aiuta e la accompagna molto efficacemente.

71. La Costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I respingerà allo stesso modo gli eccessi del razionalismo e del fideismo, e definisce la possibilità di una conoscenza di Dio mediante la ragione, che rimanga aperta al salto qualitativo e quantitativo della rivelazione. Se pure si afferma che la conoscenza dell’esistenza di Dio mediante la ragione è possibile, ciò non significa che questo approdo sia facile. Da un lato, la responsabilità della decisione è chiesta sin da ora ad ogni uomo. Dall’altro, la sua portata esistenziale è determinata dagli orientamenti del desiderio, plasmati dalle condizioni ambientali e dal contesto culturale. L’incidenza di questi fattori, naturalmente, è un tema di discernimento necessario: non solo per la chiarificazione razionale della fede, ma anche per la comprensione critica dell’ateismo. In questo senso, prima del Concilio Vaticano II, si era già espresso Pio XII: “Le verità che riguardano Dio e le relazioni tra gli uomini e Dio trascendono del tutto l’ordine delle cose sensibili; quando poi si fanno entrare nella pratica della vita e la informano, alloro richiedono sacrificio e abnegazione. [...] Avviene che gli uomini in queste cose volentieri si persuadono che sia falso, o almeno dubbio, ciò che essi non vogliono che sia vero.”[30].

72. Il Concilio Vaticano II richiama la messa a punto del Vaticano I[31], e assegna una specifica responsabilità agli stessi credenti, nel prodursi di quel declino del desiderio di Dio che alimenta anche l’ateismo. «In questa genesi dell’ateismo, i credenti possono avere una parte non irrilevante, nella misura in cui, per la trascuratezza della loro educazione nella fede, o a causa di ingannevoli presentazioni della dottrina, come anche a motivo delle debolezze della loro vita religiosa, morale e sociale, finiscono realmente per velare – più che rivelare – l’autentico volto di Dio e della religione»[32]. Uno dei grandi ostacoli alla credibilità della fede – soprattutto a seguito delle «guerre di religione» – è appunto la violenza religiosa: “Se volete assomigliare a Gesù Cristo, siate martiri e non carnefici”[33]. La reazione al grave equivoco che è seguito a questo genere di conflitti (pur non esclusivamente legati al dissidio religioso) è stata formulata con nettezza nella Dichiarazione sulla libertà religiosa.[34] In questo documento, il Concilio denuncia la contraddizione iscritta nel rapporto della verità con la violenza, che la critica filosofica ha vigorosamente messo in luce, e ritrova nel centro stesso dell’insegnamento evangelico il motivo di una netta presa di distanza da ogni equivoca contaminazione della logica della fede con quella del dominio. «Il Cristo, in effetti, nostro Maestro e Signore, dolce e umile di cuore, ha invitato e attratto i suoi discepoli con pazienza […] Egli ha reso testimonianza alla verità, ma non l’ha imposta con la forza a coloro che la contraddicevano. Il suo Regno, in verità, non si custodisce con la spada, ma si afferma nell’ascolto della verità e mediante la testimonianza»[35]. Il papa Giovanni Paolo II ha completato questaDichiarazione nella celebrazione del 12 marzo 2000, quando ha chiesto perdono per tutte le colpe delle quali i cristiani si sono macchiati, in qualità di membri della Chiesa[36].

3. La critica della religione e il naturalismo ateo

73. Il dibattito a riguardo dell’esistenza di Dio è oggi fortemente stimolato dal successo di pubblicazioni di esplicita propaganda dell’ateismo. I filosofi teisti – e naturalmente, i filosofi cristiani – oppongono molti argomenti. In primo luogo l’esistenza stessa del mondo che non può trovare in se stesso la ragione del suo darsi. L’evidenza dell’organizzazione che rende possibile l’esistenza e la vita del mondo, poi, sollecita innegabilmente il pensiero di un’intelligenza ordinatrice. L’evidenza dell’ordine, in verità, deve essere argomentata in modo non ideologico e deterministico, per non entrare in contraddizione con la comprensione della libertà e della casualità degli eventi; come anche – al contrario – per evitare la costruzione di un sistema della fatalità e della necessità del male. In questo ambito, in modo particolare, deve essere posta ogni attenzione per sciogliere gli innumerevoli equivoci che scaturiscono – su entrambi i fronti – dalla pura e semplice confusione dei metodi e dei linguaggi: fra il piano dell’analisi scientifica del dato e quello dell’elaborazione filosofica dell’esperienza. Non esiste però, con tutto questo, nessuna ragione che imponga di rinunciare all’esperienza dell’ammirazione e dello stupore che l’esistenza stessa delle cose e la meravigliosa organizzazione della natura suscita nella mente dell’uomo. Una volta che la pregiudiziale ideologica – sia essa forzatura della scienza, sia essa forzatura della filosofia – ceda il posto all’onestà intellettuale del sapere, questa ammirazione appare una costante dell’esperienza dello scienziato come del filosofo. Questa ammirazione è pur sempre l’effetto ripetuto della conoscenza: che si approfondisce, in entrambi i domini della ragione, trovando sempre nuove corrispondenze nella realtà. L’intelligibilità del mondo appare veramente inesauribile: e l’esperienza di quella intelligibilità conferma che la nostra spontanea fiducia nella capacità del mondo di corrispondere alla razionalità dell’uomo è ben fondata.

74. L’eliminazione di Dio, stabilita sulla base di una ragione «naturalistica», si associa oggi frequentemente alla risoluzione «biologica» della libertà umana. In questa prospettiva il nostro cervello si è costruito il pensiero di Dio per ragioni legate ad un determinato stadio evolutivo: in funzione del governo della complessità, per compensare l’inevitabilità della frustrazione, come dispositivo di neutralizzazione della morte. Con argomenti analoghi viene svuotata l’esperienza spirituale della libertà e l’intenzionalità etica della coscienza. La confutazione di questo riduzionismo, che voglia onorare l’attestazione universalmente diffusa dell’uomo morale – nel diritto e nell’arte, negli affetti e nella spiritualità – non deve limitarsi a «sovrapporre» al mondo naturale un mondo «spirituale». Non esiste, per la tradizione cristiana, un sapere della realtà «naturalmente» ateistico, al quale si può eventualmente aggiungere la convinzione di una realtà «spirituale» che non si dà in natura. Si tratta piuttosto di mostrare come, all’attestazione religiosa dell’esistenza di Dio, corrisponde un’esperienza della realtà dell’uomo altrimenti innominabile e inspiegabile. La rimozione di questa attestazione spirituale e religiosa del mondo mortifica l’intero piano della realtà in cui è sempre vissuto e vive l’essere umano. In tal senso, si può dire che la rinuncia a pensare la questione di Dio è “un’abdicazione dell’intelligenza umana che, in tal modo, rinuncia semplicemente a pensare, a cercare una soluzione ai suoi problemi”[37].

75. L’idea di Dio non è innata, nel senso di un sapere concettualmente precostituito rispetto all’esperienza dell’uomo. Eppure, la disposizione al riconoscimento di Dio porta alla coscienza una presenza che, precedendola, l’accompagna. In questa prospettiva, il senso religioso dell’uomo, così come l’esistenza effettiva delle religioni, rimangono temi essenziali per l’elaborazione culturale della dottrina cattolica su Dio e la realtà. La nozione pre-metafisica, o pre-filosofica, di Dio non è affatto irrilevante per l’intelligenza realistica dell’esperienza religiosa. Il pensiero razionale su Dio, come realtà che sta al principio e alla fine di ogni cosa, illumina quell’esperienza pre-critica, elaborandone l’orizzonte di verità[38]. La connessione fra l’esperienza religiosa universale e la dimostrazione filosofica dell’esistenza di Dio porta concretezza al pensiero che argomenta il realismo dell’Essere divino: irriducibile a idea o cosa, appunto, che si lasci costruire dalla mente o costatare dai sensi; ma non per questo riconducibile alla proiezione del soggetto o all’allucinazione del desiderio. Il diffuso fraintendimento delle celebri “vie tomistiche” in cui si articola la coerenza razionale del pensiero dell’esistenza di Dio, si è prodotto anche a motivo dell’estrapolazione intellettualistica di quel percorso dimostrativo, che ha finito per separarlo dal suo legame con quella conoscenza di Dio, pur naturale e confusa, che è propria del senso umano della vita. La potenza della realtà di Dio sollecita la ragione e suscita la libertà dell’uomo.

4. L’impegno della ragione: il mondo creato, il Logos di Dio

76. L’ordine che si fa trovare dalla ragione, precede sempre quello che la ragione cerca di portare. E anzi, lo rende possibile. Non c’è nulla di più emozionante di questo riconoscimento, nell’avventura della conoscenza. Dopo tutto, a fronte dell’odierna «crisi ecologica», possiamo ancora riconoscerci nell’acuta osservazione di san Tommaso d’Aquino, che aveva già considerato degno del massimo stupore il misterioso ordine delle corrispondenze che stabilisce affinità riconoscibili negli elementi del creato. Le singole realtà del mondo creato non sono in grado di fissare, unicamente in base alla loro costituzione interna, le compatibilità e le coerenze dell’insieme[39]. Lo scarto fra la limitazione intrinseca alla loro auto-organizzazione, e la logica unitaria dell’insieme in cui si iscrivono, eccede la nostra capacità di decifrarne la chiave ultima. Questo scarto, e rispettivamente questa eccedenza, possono essere interpretate come un indizio del mistero della creazione di Dio: che non si lascia totalmente oscurare o annientare dall’esperienza del disordine e del male. Il male ci fa prendere coscienza precisamente della nostra incapacità di dominare e di ricomporre perfettamente il rapporto dell’universo con i suoi stessi elementi e con la nostra esistenza.

77. “Quando noi domandiamo: ‘Perché crediamo in Dio?’, la prima risposta è quella della nostra fede […] Tuttavia, questa fede in un Dio che si rivela trova sostegno nelle argomentazioni della nostra intelligenza”[40]. E’ vero, d’altro canto, che affermare l’esistenza di Dio come causa dell’Universo lascia aperte numerose questioni. Chi è questo Dio? Quale incidenza egli ha, concretamente, sulla mia vita? Che cosa vuole da me? Che cosa fa per me? I cristiani argomentano queste domande, nell’orizzonte condiviso della riflessione filosofica, anche per mostrare la coerenza dell’insegnamento della fede con l’interrogazione dell’uomo circa il senso. Questo dinamismo del nostro umano interrogare impone un approccio più rigoroso e preciso a ciò che la fede realmente pensa, elaborando le condizioni della sua umana intelligibilità. Non basta, ad esempio, affermare semplicemente che Dio è unico. Si tratta di comprendere in quale senso viene intesa questa affermazione: si deve dunque stabilire come Dio sia unico, e che cosa questo significhi per la sua relazione con il mondo e gli uomini. Il compito ecclesiale della teologia include certamente l’impegno intellettuale di questa chiarificazione.

5. Trascendenza divina e relazioni nel e con il Dio unico

78. Dio è unico: non ci sono altri dèi. E Dio è uno in se stesso: il lui non c’è divisione. In questa parte conclusiva, tracceremo le linee dell’esposizione cristiana dell’assoluta semplicità di Dio. Proprio in riferimento a tale semplicità, rettamente intesa, deve risaltare il senso cristianodell’unione di Dio con le creature alle quali ha voluto legarsi. La chiarificazione della grammatica essenziale di questa correlazione, può aiutare oggi grandemente la chiarificazione di un certo fraintendimento, filosofico e anche religioso, dovuto al sospetto che l’enfasi cristiana sull’incarnazione di Dio, come anche la relazione trinitaria nella vita di Dio, avvengano al prezzo della perdita della purezza, della trascendenza, della perfetta semplicità di Dio. La nostra affermazione fondamentale è appunto questa: la purezza dell’unicità di Dio non deve essere perduta. E tuttavia la fede cristiana nella creazione del mondo e nell’incarnazione del Figlio può essere ricevuta come una conferma e non come una ferita del pensiero dell’unità di Dio.

79. I grandi pensatori cristiani, a confronto con varie dottrine filosofiche e religiose, hanno vigorosamente sottolineato che Dio non presenta i diversi tipi di composizione che troviamo nelle cose create. Tutto ciò che è in Dio, è Dio stesso. Come sant’Agostino l’ha formulato nel contesto della fede trinitaria, Dio “ciò che ha lo è” (quod habet hoc est)[41]. Il riconoscimento della semplicità di Dio, nel cristianesimo, non è dunque il semplice sostrato di una tradizione filosofica: è il frutto del pensiero rigoroso dell’unicità e dell’unità del Dio Trinità. La semplicità di Dio rende comprensibile il senso autentico della dottrina trinitaria. Nella Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino, la semplicità è il primo degli attributi divini che viene considerato: da esso dipende la coerenza di tutti gli altri attributi di Dio e la corretta intelligenza dello stesso mistero trinitario. Prolungando l’affermazione agostiniana, san Tommaso spiega che non soltanto Dio “è ciò che ha”, ma afferma che “ciò che” Dio è (la sua “natura” o “essenza”) si identifica alla sua esistenza (il suo atto d’essere)[42]. In questo senso, non esiste categoria, né concetto, che possa abbracciare allo stesso modo, o come in un’unica realtà, Dio e le creature: Dio non è contenuto in un “genere” che lo metterebbe allo stesso livello delle creature. Di qui viene, propriamente, il pensiero irrinunciabile dell’incomprensibilità radicale di Dio, insieme con la necessità (e la possibilità) di ricorrere all’analogia per parlare di Dio, senza violare la sua incomparabile singolarità rispetto ad ogni altro possibile termine di conoscenza. D’altra parte, rimane ben fermo il fatto che, quando Dio agisce (creazione, provvidenza, salvezza) non entra in composizione con il mondo.  Dio rimane essenzialmente distinto da tutto ciò che non è Dio, ed è senza alcuna divisione in se stesso.

80. La fede trinitaria non altera quest’unità di Dio, piuttosto ne manifesta l’impensabile e insondabile profondità. Il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo sono il Dio “uno”, perché essi “sono” la medesima essenza (o sostanza) divina. In questo senso la fede cristiana professa propriamente una “Trinità consustanziale”[43]. La ricchezza e la profondità dell’unità trinitaria sono state espresse in modo efficace dalla nozione di “pericoresi”, che Giovanni Damasceno ha sviluppato, cogliendone la prospettiva nella parola del Signore: “Io sono nel Padre, e il Padre è in me” (Gv 14, 10-11). La pericoresi delle tre ipostasi, ossia le persone divine intese da Tommaso d’Aquino come “relazioni sussistenti”, mette in rilievo la loro perfetta consustanzialità insieme con la loro distinzione personale. Dunque le tre persone sono “un solo Dio” e non “tre dèi”. Una infatti è l’essenza, una la divinità, una l’eternità di Dio. Su questa base, possono essere meglio definite anche le relazioni che Dio intrattiene con il mondo: “il Padre e il Figlio amano se stessi e noi per lo Spirito Santo”[44]. Dio non è “chiuso in se stesso”: al contrario proprio a partire del suo essere comunione si dispone alla creazione del mondo, all’esercizio della sua provvidenza, all’intimità della sua presenza nelle creature. La sua creatura è il suo interlocutore per puro amore, non per forza.

81. Il monoteismo biblico è la radice di questa prospettiva, in quanto ci mette “di fronte” a un Dio che si rivela, con saggezza e amore, che parla e ascolta, che invia i suoi messaggeri e i suoi profeti, che si presenta “di persona” nell’incarnazione del Figlio e nell’invio dello Spirito Santo. La tradizione biblica afferma che Dio ha creato tutte le cose nella sua saggezza e nel suo amore (Pr 3, 19; Sap 7, 22 ; 11, 24-26). Riconoscendo che Dio ha creato tutte le cose nella sua Sapienza, si afferma che Dio non ha prodotto il mondo per una necessità di natura. Allo stesso modo, quando diciamo che Dio ha creato per amore, intendiamo affermare che Dio non ha creato il mondo e l’uomo per qualche ragione estranea alla sua intenzione. Egli l’ha fatto, invece, per comunicare la sua bontà: ossia, con affezione del tutto libera e gratuita. Potrebbe, questo Dio, essere ostile agli uomini? L’onnipotenza di Dio è una minaccia per l’autonomia dell’uomo? Il sospetto suggerito dal serpente dell’origine, secondo il racconto biblico (cf. Gn 3, 4-5), è insidioso ma privo di fondamento. La fede nell’onnipotenza di Dio, che resiste al male, è proprio ciò che ci protegge da questi fantasmi angosciosi e persecutori. «Di tutti hai misericordia, perché tutto tu puoi» (Sap 11, 21-23). Nella bella formula liturgica «Vi benedica Dio onnipotente» tutto questo è già detto, con la semplicità dell’essenziale. 

82. Dio, creando l’uomo a sua immagine e somiglianza, intelligente e libero, l’ha costituito come interlocutore e alleato nel compimento della creazione. Dio instaura una relazione nella quale l’uomo è convocato nella dignità del suo essere singolare e libero. A questo Dio personale l’uomo può rivolgersi personalmente. La creatura umana, perciò, viene costituita nella facoltà di riconoscere e di amare Dio in virtù della sua personale capacità di amare e di essere amato, e non semplicemente perché costretto a subire la legge dispotica dell’essere più forte, o la pulsione di assoggettamento dell’essere inferiore. Nulla a che fare con la schiavitù del sacro primordiale (le forze ingovernabili della natura) e l’assoggettamento alle divinità mitiche (le potenze dispotiche della politica). I credenti devono essere capaci di tenere ben ferma e di illustrare adeguatamente questa radicale differenza, che gli accusatori post-moderni dell’unità e unicità del divino troppo facilmente ignorano.

83. L’elaborazione coerente della radicale semplicità dell’essere divino illumina la profondità della relazione che coinvolge Dio e l’uomo secondo la rivelazione. Esplicitiamo brevemente, esemplificando. Nella sua pura e semplice perfezione, Dio non deve entrare in competizione con le creature. Al contrario, nella sua bontà e sapienza, Dio ha dato alle creature la “dignità di essere causa” (dignitas causalitatis)[45]: Egli rende partecipe la creatura della sua sconfinata capacità di far-essere[46]. Dio – questa è la spiegazione – dona alle creature l’esistenza, la potenza di agire, e l’azione stessa (“È Dio, infatti, che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni” Fil 2, 13). Dio agisce perciò in tutto l’agire delle sue creature, ma non agisce come una causa tra le altre. Nella formulazione classica, Dio agisce come “causa prima” e trascendente. Le creature esercitano l’azione che è loro propria – nel caso dell’uomo, un’azione intelligente e libera – come “cause seconde”, associate all’azione di Dio[47].

84. La fecondità di questo modello integrato – filosofico e teologico – di chiarificazione della fede nel Dio rivelato appare particolarmente efficace anche nell’ambito di temi che toccano direttamente aspetti fondamentali dell’esperienza religiosa, come ad esempio quello della preghiera che “chiede a Dio”. La preghiera, sotto quest’aspetto, appare una realizzazione alta e suggestiva di questa struttura fondamentale del rapporto fra Dio e l’uomo, nell’ambito di una disposizione affettiva particolarmente intensa del legame. La preghiera appare, infatti, come una realizzazione eminente della “dignità dell’essere-causa” che ci è stata donata da Dio. La preghiera che noi rivolgiamo a Dio non ha evidentemente lo scopo di “informarlo” su una nostra necessità o desiderio di bene che Egli “ignora”; né, d’altra parte, può immaginarsi di “forzare” la Sua volontà di bene, con il proposito di farla cambiare. La verità è che la nostra preghiera, proprio in quanto affonda le sue radici nella nostra fede nell’amore di Dio, può ben essere compresa come una collaborazione reale all’azione dell’amore di Dio che realizza il bene: in noi, per noi, e con noi. In altri termini “Noi preghiamo per impetrare quanto Dio ha disposto che venga compiuto per le preghiere”[48].




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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