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Una Preghiera per Mario Palmaro che lascia moglie e figli nel dolore....

Ultimo Aggiornamento: 16/05/2015 10:33
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09/03/2014 23:44
 
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Vogliamo ricordarlo con un suo pensiero sulla sofferenza e sulla morte.... ringraziandolo per aver messo a nostra disposizione i suoi talenti... (cliccate sull'immagine per entrare nel Dossier dedicato ai suoi scritti)
Grazie Mario!

"Con la malattia capisci per la prima volta che il tempo della vita quaggiù è un soffio, avverti tutta l’amarezza di non averne fatto quel capolavoro di santità che Dio aveva desiderato, provi una profonda nostalgia per il bene che avresti potuto fare e per il male che avresti potuto evitare.

Guardi il crocifisso e capisci che quello è il cuore della fede: senza il Sacrificio il cattolicesimo non esiste. Allora ringrazi Dio di averti fatto cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa una madre premurosa. Dunque, la malattia è un tempo di grazia, ma spesso i vizi e le miserie che ci hanno accompagnato durante la vita rimangono, o addirittura si acuiscono.

È come se l’agonia fosse già iniziata, e si combattesse il destino della mia anima, perché nessuno è sicuro della propria salvezza. D’altra parte, la malattia mi ha fatto anche scoprire una quantità impressionante di persone che mi vogliono bene e che pregano per me, di famiglie che la sera recitano il rosario con i bambini per la mia guarigione, e non ho parole per descrivere la bellezza di questa esperienza, che è un anticipo dell’amore di Dio nell’eternità.
Il dolore più grande che provo è l’idea di dover lasciare questo mondo che mi piace così tanto, che è così bello anche se così tragico; dover lasciare tanti amici, i parenti; ma soprattutto di dover lasciare mia moglie e i miei figli che sono ancora in tenera età.
Alle volte mi immagino la mia casa, il mio studio vuoto, e la vita che in essa continua anche se io non ci sono più.
È una scena che fa male, ma estremamente realistica: mi fa capire che sono, e sono stato, un servo inutile, e che tutti i libri che ho scritto, le conferenze, gli articoli, non sono che paglia.
Ma spero nella misericordia del Signore, e nel fatto che altri raccoglieranno parte delle mie aspirazioni e delle mie battaglie, per continuare l’antico duello"

— Mario Palmaro (1968-2014)




   

 

[Modificato da Caterina63 16/05/2015 10:32]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    Ricordo di Mario Palmaro

di Alessandro Gnocchi


Articolo pubblicato sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 19 marzo 2014

                                     


 
Sorge dai secoli luminosi e profondi del medioevo quel “Dies irae, dies illa” che nella Messa tradizionale per i defunti trafigge i cuori e le menti prima della lettura del Vangelo secondo Giovanni. “Io sono la risurrezione e la vita” dice nel brano evangelico il Figlio di Dio a Marta, che piange la morte del fratello Lazzaro. “Chi crede in me, anche se fosse morto, vivrà; e chiunque vive  e crede in me non morrà in eterno. Credi tu questo? Gli rispose: Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivo, che sei venuto in questo mondo”.

La dolcezza maestosa del dialogo trascritto da San Giovanni può essere compresa solo nel contrappunto del rigore visionario in cui Tommaso da Celano descrive quel “Dies irae” che “solvet seculum in favilla: teste David cum Sibilla”, quel giorno dell’ira che dissolverà il secolo in favilla, come attesta Davide e la Sibilla. Quando il Giudice verrà nel tremore del mondo e la morte e la natura stupiranno al risorgere di ogni creatura. 

E’ questa la vera misericordia che la Chiesa ha incarico di portare al mondo: mostrare la dolcezza di un Dio intenerito davanti alla morte dell’amico di cui sarà giudice giusto e inflessibile nel giorno del giudizio. 
La Messa tradizionale dei fedeli defunti lo rammenta a ogni passo reiterando quel “requiem eternam dona eis, Domine” che vola verso il cielo da cuori e menti consci di essere solo momentaneamente su questa sponda.

La mattina del 12 marzo 2014, al funerale di Mario Palmaro, questo legame invisibile e invincibile tra i vivi e i morti, tra questa e l’altra sponda, ha preso forma nel nitido e luminoso rigore di una Messa come si celebrava nei tempi civili. Cantata in latino, con sacerdote, diacono, suddiacono e ministranti rivolti verso Dio, secondo il rito che non si lascia violentare dai sentimenti e dai protagonismi.

Mario vi si era preparato fin dal momento in cui i tecnici della medicina, eretti dal secolo a propri sacerdoti, gli dissero di non avere scampo. Anche il secolo ha le sue liturgie, riflessi di matematiche rigorose che, a differenza di quelle celesti, non conoscono speranza. Per questo ha pensato immediatamente all’epilogo terreno, che avrebbe dovuto essere abbastanza luminoso da vincere inesorabilmente i riti mondani. 
E ha fatto di ogni giorno della sua malattia il passo di un incedere liturgico verso l’esito finale. Si è incamminato verso il sacrificio come il sacerdote in sacrestia si avvia a celebrare la Messa in cui presterà il suo corpo a Cristo sulla Croce. 
Prima con esitazione, e poi con una levità che poco aveva di terreno, ha dato ai gesti, ai pensieri, alle preghiere dei suoi ultimi due anni un tratto nitidamente rituale. Che non significa algido formalismo, ma adorazione della grandezza infinita di Dio e, dunque, docile sottomissione al suo volere. 
Per questo il suo Calvario è stato così sereno e così edificante per tutti coloro che vi hanno assistito almeno per un tratto.

Lui si preparava a morire e chi gli voleva bene si preparava ad accompagnarlo alla morte. Senza dircelo, lo abbiamo fatto dal momento in cui mi telefonò per dire che proprio non ci sarebbe stato nulla da fare, salvo un miracolo. 
Ma una cosa è prepararsi ad accompagnare il tuo più grande amico alla morte e altro è avviarsi docilmente a morire: il Signore chiede sempre al migliore il sacrificio più grande.

Impercettibilmente agli occhi del secolo e di tanti cattolici, la vita di Mario è diventata come quella di un monaco e la sua casa, per quanto affollata di telefonate, visite e affari quotidiani, si è trasformata in un piccolo cenobio. Questo padre di famiglia con moglie e quattro figli ha replicato nella sua vita quotidiana ciò che millecinquecento anni or sono si era manifestato nel genio religioso di San Benedetto. Il santo della Regola aveva disegnato un itinerario di santità che prescriveva i modi e i tempi anche del più piccolo gesto nell’orazione, nel lavoro, nel riposo, nella ricreazione conferendo loro un significato ulteriore. Nella medesima maniera, ha salvato le cose, i gesti e le parole della sua vita quotidiana dall’abbandono al secolo per farne qualche cosa di sacro, il segno che la sua casa si sarebbe regolata fino in fondo secondo il volere del Cielo.

Così ha preso a prestare alle realtà un’attenzione che non era solo di questo mondo e si palesava nella forma di un candore sempre più inattaccabile. “L’attenzione” scrive Cristina Campo “è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti, è solidamente ancorata al reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. (...) Davanti alla realtà l’immaginazione indietreggia. L’attenzione la penetra invece, direttamente come simbolo”. 

Questa attenzione al reale, divenuta quasi devozione, portava Mario a parlare anche del suo male e degli inevitabili esiti con un distacco incomprensibile ai più. Per trarne giovamento, bisognava coglierne la radice nella capacità di leggere in qualsiasi frangente della vita disegni che sono celesti e, dunque, vanno accettati. Più si avvicinava la fine e più era possibile scorgere nel suo sguardo qualche dardo che testimoniasse questo dono. “Tali lampi” dice ancora Cristina Campo “non sono se non quella scintilla (di origine e natura sempre più misteriose via via che per ogni cosa ci viene fornita una chiave) che l’attenzione sollecita e prepara: come il parafulmine il fulmine, come la preghiera il miracolo, come la ricerca di una rima l’ispirazione che proprio da quella rima potrà sgorgare”.

Il fulmine, il miracolo, l’ispirazione sgorgata da una rima si manifestavano nelle tante telefonate con cui ci sentivamo ogni giorno, in uno straziante “Oggi sono contento perché...”. “Ciao Mario, come va?”, “Oggi sono contento perché...”. Era contento per ogni cosa, ogni evento, ogni pensiero che avesse anche solo una briciola di importanza. Perché la chemioterapia lo aveva lasciato in pace un po’ di più, perché le piaghe ai piedi e alle mani lo facevano tribolare un po’ meno, perché la moglie Annamaria gli aveva preparato quel tal piatto che gli piaceva tanto. Venti giorni prima di morire, nella telefonata di rito della nove di mattina era contento perché aveva trovato un hospice che lo avrebbe seguito a casa per la terapia del dolore. “Così non devo più andare in ospedale e non disturbo Annamaria. Sono proprio contento”. Sono proprio contento: ed era la certificazione che, di lì a poco, a vista umana, sarebbe finita.

L’occhio profano non poteva vederlo e il cervello mondano non poteva comprenderlo, ma quegli “Oggi sono contento perché...” erano come i paramenti di cui il sacerdote si riveste per entrare nell’agone della Messa, come i panni ricamati che coprono le Sacre Specie. Velature che la depravazione illuminista penetrata anche dentro la Chiesa considera come un ostacolo all’intelligenza, e, invece, sono ciò che dà all’invisibile una forma capace di mostrare all’uomo ciò che altrimenti non potrebbe percepire.

E ogni giorno di questo Calvario si è trasformato in un passo consapevole, accettato e gradito verso il sacrificio. Sempre più lieve e celeste, come promette l’inizio della Messa che Mario amava ed era riuscito a portare a Monza, a due passi da casa: “Introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat iuventutem meam”. Mentre agli occhi degli uomini il suo corpo invecchiava e segnava le prove e le sofferenze, agli occhi di Dio la sua anima ringiovaniva e letificava. Ed era proprio questo contrasto a edificare chi gli stava attorno. Vederlo dal fondo della chiesa, faticosamente inginocchiato al solito banco, alcune volte, faceva pensare all’uomo che sta per cedere alle aggressioni della terra. Ma poi, quando tornava dalla comunione, negli occhi conservava ancora più ravvivato quel lampo di attenzione che non può cedere a certe brutalità del reale perché ha la chiave celeste per comprenderle e si lascia raggiungere solo dall’inevitabile.

In quei momenti, sarebbe stato percepibile anche a occhi profani che quest’uomo di quarantacinque anni si stava avviando a morire così come professava la sua fede, a morire come aveva pensato, scritto e insegnato, a morire come era vissuto. In un mondo stanco per la troppa gente che finisce per credere come vive, Mario ha voluto fino in fondo vivere come ha creduto. Questo lo ha reso sempre più giovane e lieto agli occhi di Dio e agli occhi chi ha saputo guardarlo con almeno un po’ della sua stessa fede.

Diversamente, nella sua morte si potrebbe leggere solo il capriccio di una sorte beffarda e crudele. Ma, grazie a Dio, ha ragione il cardinale Newman quando, nel sermone Sul significato dell’esistenza dice: “A mio avviso, il termine delusione è l’unico in grado di esprimere quello che proviamo di fronte alla morte dei santi di Dio. Se la nostra fede non è abbastanza viva da penetrare al di là della tomba e intuire il futuro, ci sentiamo depressi per quella che sembra essere una sconfitta della grandezza. Eppure è proprio da questo sentimento che, come per contraddizione, riusciamo ad attingere un po’ di speranza, perché se questa vita è così deludente e così incompiuta, certamente essa non è tutto”.

Questa morte e questo modo di morire sono tattile e perenne testimonianza della concretezza della vita eterna, sono sacramento della certezza che l’essenziale è invisibile agli occhi. Ma certo non possono eludere le domande sul perché proprio Mario e proprio in questo modo. Negli ultimi tempi, in vista della fine, se ne parlava, come sempre con familiare semplicità. “Mario, tutti pregano per il miracolo e anch’io spero che tu guarisca. Ma ora riesco solo a pregare perché tu possa sposare fino in fondo il volere del Signore, qualunque sia... E poi penso che, se Lui ti vorrà con Sè, lo farà per risparmiarti ciò che presto si dovrà vedere fuori e, soprattutto, dentro la Chiesa”. “Dici che sarà davvero così?”, e tremava per la sua Chiesa. “Mario, più prego e più mi convinco che, se muori, è perché il Signore ti vuole veramente bene...”.

Un dialogo magari incongruente a orecchi mondani. Eppure, non potevo avere dubbi su come sarebbe andata a finire da quando un nostro amico sacerdote mi confidò di avere offerto a Dio la sua vita in cambio di quella di Mario, ma senza esito, senza risposta. “Io sono un povero parroco di campagna, conto poco e non ho famiglia. Lui ha moglie, quattro bambini e sta facendo tanto bene alla Chiesa... Ma, evidentemente, il Signore ha altri disegni”.

Questa è la comunione dei santi, il vincolo tra chi si ciba dello stesso corpo e dello stesso sangue, che si alimenta della vita santa di chi abbraccia la croce. Prima di scrivere queste righe ho chiesto a quell’amico se potessi rivelarne l’offerta, senza violare la sua identità: “Naturalmente” mi ha scritto “anche se non è cosa che meriti tanto riguardo – lo dico senza finzioni – nei tempi cristiani era cosa normale”. In quei tempi cristiani che oggi, nell’epoca dello splendore mediatico, sono completamente evaporati al sole malato del mondo. 
Forse è proprio per fecondare questi tempi, così mondani anche dentro la Chiesa, che il Signore chiede il sacrificio dei suoi figli migliori, anche se si protestano servi inutili, come ha fatto in tutta sincerità Mario in uno dei suoi ultimi scritti. 

Anche Mario sapeva che sarebbe andata così, lo sapeva prima di tutti e meglio di tutti. E sentiva che il tempo andava sempre più spedito. Poi sarebbe venuto il momento supremo e solenne, ma prima avremmo dovuto salutarci con tutte le nostre famiglie. La domenica prima di quella della sua morte, ha voluto che ci fermassimo a casa sua per cena. Una serata speciale nella sua normalità. Lui seduto a tavola, al suo posto, a onorare gli ospiti oltre il possibile, senza un lamento. Solo il vezzo gentile di mettere in tavola i piatti belli perché quelli di plastica proprio non andavano. Sapevamo tutti che quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti con le famiglie al completo. Lo dicevano gli sguardi e le attenzioni discrete, che in nulla contrastavano con il discorrere lieto e sorridente di una domenica sera tra amici che si vogliono bene.

La settimana dopo, sarei stato in ginocchio accanto al suo letto a recitare le preghiere degli agonizzanti. “Proficiscere, anima christiana de hoc mundo in nomine Dei Patris omnipotentis, qui te creavit; in nomine Iesu Christi, Filii Dei vivi, qui pro te passus est, in nomine Spiritus Sancti, qui in te effusus est, in nomine gloriosae et sanctae Dei Genitricis Virginis Mariae...”. Parti anima cristiana da questo mondo in nome di Dio Padre onnipotente... di Gesù Cristo... dello Spirito Santo... della Vergine Maria... 

Nell’agonìa dolorosa e tormentata, ogni tanto riusciva a guardare chi gli stava attorno. Per chiedere aiuto e consolazione, ma sicuramente anche per elargirne, per dire che tutto si stava per compiere così come aveva desiderato e come aveva chiesto al Signore. “Libera, Domine, animam servi tui ex omnibus periculis inferni, et de laqueis poenarum, et ex omnibus tribulationibus...” Libera Signore l’anima del tuo servo da tutti i pericoli dell’inferno, dai lacci delle pene e da tutte le tribolazioni... Come liberasti Enoc ed Elia... Come liberasti Noè... Come liberasti Abramo... Come liberasti Giobbe... Come liberasti Isacco... Come liberasti Lot... E poi Mosè, Daniele, i tre fanciulli, Susanna, Davide, Pietro e Paolo, la beatissima Tecla. Non rammentare, Signore, le colpe e le ignoranze della sua gioventù... Gli si aprano i Cieli, si allietino con lui gli Angeli...”. Sembrano interminabili, le preghiere degli agonizzanti, quando si leggono nel breviario. Eppure sono un soffio quando le si recita accanto a un uomo che sta per comparire davanti al giudizio di Cristo per fargliele stringere in mano come ultimo dono. 

Poi, poco dopo le dieci di sera, Annamaria ci ha invitato a intonargli il “Salve Regina” “che a lui piace tanto”. Con la mamma di Mario e due vicine di casa lo abbiamo cantato con la certezza che il Cielo ormai fosse aperto. “... O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria”. 
Non c’è stato il tempo di avviare il “Gloria Patri” ed è stato l’ultimo respiro, proprio come fu per Gilbert Keith Chesterton, dopo il canto dolcissimo levato da padre McNabb.

Tutto questo per dire come muore un cristiano.





[Modificato da Caterina63 16/05/2015 10:33]
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23/03/2014 18:19
 
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  Papa Francesco sapeva che quel suo censore, laureato in giurisprudenza alla Statale di Milano con una tesi sull'aborto procurato, docente di filosofia teoretica, etica e bioetica al Pontificio ateneo Regina Apostolorum e di filosofia del diritto all'Università Europea di Roma, era gravemente malato, senza speranza, da quasi due anni. E lo scorso 1° novembre, festa di Ognissanti, intorno alle 18 gli telefonò nella sua casa di Monza, senza passare per il centralino del Vaticano. «Sono Papa Francesco», si presentò. «La riconosco dalla voce, Santo Padre», rispose con candore la moglie, «attenda un attimo». Non disponendo di un cordless, la signora andò a chiamare il marito, che giaceva nel letto. «So che sta male, professore, e prego per lei», si sentì confortare Palmaro, dopo aver raggiunto con fatica la cornetta. «Mario fu molto rincuorato dalla chiamata», racconta Gnocchi. «Al momento del congedo, disse a Francesco: “Santità, forse lei saprà che le ho dedicato alcuni rilievi assai severi. Voglio però confermarle che la mia fedeltà al successore di Pietro resta intatta”. Il Pontefice gli rispose: “Penso che abbia scritto per amore verso la Chiesa. E comunque le critiche fanno bene”».

Adesso guardi, a pagina 35, il capitolo iniziale dell'ultimo libro, con quell'intestazione assai più assertiva del titolo, «Questo Papa non ci piace», e quella firma commerciale, «di Gnocchi & Palmaro», e potresti scambiarlo per un copione farsesco alla Garinei & Giovannini o per un pamphlet ingiurioso. Invece la poco premiata ditta Gnocchi & Palmaro, ben nota ai lettori del Giornale, è stata un'autentica fucina di libri - una ventina - sempre molto documentati, rigorosissimi, dettati soltanto da ardore apologetico nella difesa della Chiesa, della tradizione, della dottrina e della morale, in una parola di quello che un tempo si definiva «depositum fidei».

Gnocchi, 54 anni, bergamasco di Villa d'Adda, sposato, tre figli, è giornalista professionista dal 1992. All'anulare sinistro porta, unito alla fede nuziale, un rosario d'oro di forma circolare; un altro rosario da frate trappista, con i grani di legno che sembrano chicchi di caffè, il teschio ai piedi della croce e otto medagliette sacre ciondolanti, lo tiene nella tasca dei pantaloni. Laureato in filosofia alla Cattolica, ha scritto come free-lance per Gente e Oggi prima d'essere assunto a Historia e poi a Tv Sorrisi e Canzoni. Oggi lavora per i periodici Mondadori. È considerato il maggior studioso di Giovannino Guareschi, al quale ha dedicato cinque saggi, oltre a due antologie scritte in collaborazione con Palmaro. «L'amicizia con Mario nacque proprio da una recensione che dedicò nel 1995, sul Cittadino di Monza, al mio primo saggio sull'inventore di don Camillo e Peppone».

  L'intervista

Perché è innamorato di Guareschi?
«Don Camillo fu l'unico libro che mio padre, un operaio, mi regalò. Avevo 14 anni. Non ho più smesso di leggerlo».

Com'è approdato al giornalismo?
«Avrei voluto fare il ricercatore, ma l'università non garantiva il pane. Cominciai a collaborare al Candido, il settimanale fondato da Guareschi. Due colleghi, Maurizio Cabona e Alberto Pasolini Zanelli, mi trovarono un posto nella segreteria di redazione del Giornale diretto da Indro Montanelli. Era il 1987».

In che modo si definirebbe?
«Cattolico tradizionalista. Partecipo alla messa tridentina che si celebra la domenica alle 9 nella chiesa di Santa Maria della Neve a Bergamo. Non provengo da una famiglia bigotta. A 8 anni feci le prove per diventare chierichetto, ma resistetti solo due settimane».

Che cosa non la convince di Papa Francesco?
«Il consenso generale di cui gode. Il Vangelo insegna: “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi”. Luca 6, 26. Mi allarma l'assoluta omogeneità con i mass media, ai quali è sensibilissimo. Crede di servirsene, invece lo usano in chiave mondana. Ormai è costretto a dire solo ciò che s'aspettano da lui».

Che altro?
«Ha demolito lo spirito della liturgia. Porta una croce pettorale che “deve” sembrare povera. In realtà è d'argento, non di ferro. Ma pare fatta apposta per attirare l'attenzione sulla persona che la indossa, più che su Colui che vi è appeso. Anche quell'incomprensibile decisione di abitare nella Casa Santa Marta, anziché nel Palazzo apostolico... È come se rimproverasse ai predecessori d'essere stati fuori posto».

Dice che là si sarebbe sentito solo.
«Ma il Papa è solo! L'uomo più solo che esista al mondo. Dei precedenti pontefici percepivo che erano diversi da me. In Francesco non colgo il senso del sacro».

«La Chiesa è un ospedale da campo dopo una battaglia», ha spiegato, non una fortezza. «È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti».
«Come dire che al malato non va imposta nessuna terapia. Invece io penso che la medicina per chi è lontano da Cristo sia molto amara. È l'aspetto forse più inquietante del suo magistero: far credere che vi sia un'alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia. Ma il Padreterno è prima di tutto giusto nel distribuire premio e castigo. Se fosse solo buono, non avremmo motivo di migliorarci. Quando poi il Papa in un'intervista a Eugenio Scalfari arriva a dire “io credo in Dio, non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico”, è arduo per L'Osservatore Romano o Avvenire dare la colpa a una frase estrapolata dal contesto».

Perché avrà invitato a pranzo proprio Scalfari?
«Qualche consigliere gli avrà fatto credere che La Repubblica era il pulpito perfetto per farsi ascoltare dai non credenti. Ma quella su Dio che non sarebbe cattolico è un'affermazione che acquista valore dottrinale anche se raccolta da un giornalista, perché nel mondo secolarizzato di oggi un'intervista conta assai più di un'enciclica, forma le coscienze. Il cattolico medio è ignorante, pensa che il Papa sia infallibile sempre, anche quando non parla ex cathedra. Ecco, Francesco ha trasformato un quotidiano laicista in cattedra, dando ragione a Marshall McLuhan, secondo il quale il mezzo è il messaggio. La stampa s'è erta a cathedra e veicola il verbo pontificio che più le fa comodo».

In meno di sei mesi Francesco ha dato interviste anche alla Civiltà cattolica, alla Stampa, al Corriere della Sera, alla radio argentina Bajo Flores.
«Dovrebbe parlare meno. Il silenzio è eloquente. Giovanni Paolo II evangelizzò di più con la sua muta agonia che non con tutti i viaggi apostolici. So di molti atei che si sono convertiti nel vederlo inchiodato alla croce della sofferenza».

Dall'intervista che Leone XIII concesse nel 1892 a Caroline Rémy del Figaro a quella che Paolo VI rilasciò nel 1965 ad Alberto Cavallari del Corriere, trascorsero 73 anni. Ora non passa mese senza un'uscita pubblica.
«Quando lavoravo a Historia, un collega propose: “Dovremmo intervistare il Papa”. Il caporedattore Gian Piero Piazza, un non credente, lo zittì: “Il Papa non concede interviste perché è un re”. Aveva colto in pieno la maestà del ruolo».

Ma a un cattolico è consentito criticare il Sommo Pontefice?
«È addirittura un obbligo sancito per i laici dal canone 212, paragrafo 3, del codice di diritto canonico: “In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli”. Non creda che sia stato facile, per Palmaro e per me, dire a nostro padre che cosa pensassimo di lui».

E nemmeno conveniente.
«Mi ha turbato il modo in cui padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, ci ha cacciati dopo 10 anni di interventi trasmessi gratis et amore Dei. Non erano neppure passate 24 ore dalla sepoltura di Mario quando l'ho sentito infierire via etere, vantandosi del “bel repulisti” compiuto fra i conduttori: “Qualcuno ho dovuto farlo scendere dalla cattedra e metterlo su un semplice seggiolino”. Fra tanti denigratori, nessuno, neppure un prete, ha presupposto la nostra buona fede. Siamo stati inondati di mail e telefonate d'insulti, ci hanno cancellato le conferenze già fissate in giro per l'Italia. Non potendo demolire gli argomenti, sono state demolite le persone».

Sa che cosa diceva Nello Vian, amico di Paolo VI e padre di Giovanni Maria Vian, quando il futuro direttore dell'Osservatore Romano da giovane osava avanzare qualche timida critica a un pontefice in carica? «Il Papa è il Papa e tu sei un furfante!».
«Si vede che conosceva bene suo figlio. Battuta a parte, capisco l'argomento: il Papa ha sempre ragione. Vorrei tanto che fosse così. Ma bisognerebbe andare a rileggersi la profezia, tanto cara a padre Fanzaga, che la Madonna fece nel 1846 ai ragazzi francesi di La Salette, là dove dice che “Roma perderà la fede”».

Come mai le gerarchie sono sempre pronte a bastonare i difensori della tradizione e a rincorrere gli atei?
«Me lo chiedo anch'io. Ho visto Giovanni Zenone, editore di molti dei libri che ho scritto con Palmaro, relegato al ruolo di bidello e poi estromesso dall'insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, che dialogava in pubblico con Margherita Hack, ha giustificato la rimozione con presunte “carenze pedagogiche e didattiche”. Eppure Zenone, sposato, 6 figli, laureato, ha più titoli di tutti i suoi colleghi, è assiduo ai sacramenti, e tre mesi dopo il provvedimento ha ricevuto in Vaticano il premio Giuseppe Sciacca dalle mani del cardinale Darío Castrillón Hoyos con questa motivazione: “Docente di straordinaria perizia e qualità pedagogiche, ha dato impulso alla diffusione di una sana cultura teologica e storica, scevra da compromessi ideologici e unicamente orientata a superiori finalità spirituali nel rispetto della verità oggettiva, secondo il perenne insegnamento del magistero della Chiesa”».

Ma lei che cosa si aspettava da un pontefice nato e vissuto in un Paese dove il 70% dei minori vive nell'indigenza e ogni 5 minuti una ragazza madre fra i 13 e i 17 anni partorisce un bimbo concepito per caso?
«Chi diventa Papa, non è più lui: è il vicario di Cristo sulla terra, non l'arcivescovo di Buenos Aires. Anche se si chiama Francesco, dovrebbe tenere ben presente che i diseredati non sono più buoni per il solo fatto d'aver fame. La miseria non rende migliori. È il primo insegnamento che don Camillo impartisce a don Chichì, curato progressista: “La povertà è una disgrazia, non un merito”».

(694. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it









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Centinaia di fedeli alla Messa promossa dal CNSP in suffragio di Mario Palmaro


 



Erano davvero tanti (si stimano in almeno 300, forse anche più) i fedeli accorsi domenica nella bella basilica paleocristiana di San Giorgio in Velabro, a Roma, per la S. Messa celebrata nella forma straordinaria del rito romano da mons. Marco Agostini dopo la conclusione della Marcia per la Vita, che anche quest’anno ha riunito a Roma decine di migliaia di manifestanti pro-life provenienti da tutta Italia ed anche dall’estero.

 

Ed anche quest’anno la S. Messa è stata promossa dal Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum (CNSP), per offrire ai partecipanti alla Marcia la possibilità di santificare la domenica ricordando nella preghiera Mario Palmaro (in cui suffragio è stato applicato il Sacrificio), vero ed esemplare campione dell’impegno per la vita senza compromessi, alla cui opera è legata anche la diffusione della liturgia tradizionale in Italia. Le offerte raccolte durante la celebrazione sono state devolute all’Associazione San Giuseppe, costituita per sostenere la famiglia dello scrittore, dopo la sua prematura scomparsa il 9 marzo 2014.

 



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