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Gli interventi del cardinale Muller

Ultimo Aggiornamento: 19/03/2018 20:16
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06/03/2017 10:50
 
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Ascoltare la Parola di Dio – vedere il mondo alla luce della fede


Conferenza tenuta presso la Pontificia Università Gregoriana il 18 novembre 2015 in occasione del 50° anniversario della promulgazione della 
Costituzione Dogmatica Dei Verbum

Gerhard Card. Müller

 

1. La Dei Verbum e la ricezione del Concilio

Eminenze, Eccellenze, egregio Signor Rettore, Signor Decano, Signore e Signori!

Ringrazio la Facoltà Teologica della Pontificia Università Gregoriana per aver accolto lʼiniziativa della Congregazione per la Dottrina della Fede, organizzando questo congresso.

Esso sʼinserisce in una serie di eventi internazionali molto diversi tra loro, che, a partire dal50° anniversario dell'inizio del Concilio Vaticano II, celebrato nel 2012, hanno voluto ricordare il Concilio più recente della Chiesa, approfondendone la conoscenza. Cinque decenni dopo questa grande assemblea della Chiesa, grazie a convegni e simposi, siamo riusciti a riscoprire il Concilio stesso. Sicuramente vi ricordate delle raccomandazioni pronunciate da Benedetto XVI durante lʼultimo grande incontro con il clero della diocesi di Roma il 14 febbraio 2013, dove egli – attingendo alla ricchezza della sua vita e del suo lavoro teologico e parlando a braccio – tracciò le grandi linee del Concilio, incoraggiandoci a riscoprire il Concilio dei Padri, il Concilio della Chiesa e a non confondere il “concilio dei media” con il Concilio vero.

Negli ultimi cinquantʼanni tante cose, che non avevano niente a che fare con il Concilio, vennero confuse con esso, lette in chiave selettiva e interpretate, mentre per lʼermeneutica si scelsero criteri non inerenti al Concilio stesso. Alcuni brani e documenti isolati furono favoriti e citati, altri invece silenziosamente ignorati.

Avvenne tra lʼaltro, che lʼideale teorico-scientifico di un testo stilisticamente e intellettualmente uniforme di un singolo autore, fu più considerato rispetto al risultato di un lungo, spesso faticoso, ma comune sforzo del Concilio, il quale non deve cercare soltanto una comunicazione sincronica, ma vuole collocarsi anche diacronicamente allʼinterno della corrente della tradizione. Testi conciliari che portano sempre anche lʼimpronta di questo sforzo, esito di vari correnti e sviluppi, vennero diffamati da alcuni teologi come “compromessi della disonestà reciproca”, nati – così si sostenne – da una sorta di “commercio” tra le forze conservatrici e progressiste, che avrebbero tradito lo “spirito” di ciò che era invece voluto dai Padri conciliari. Questo verdetto venne emesso soprattutto in merito alla Costituzione sulla divina Rivelazione, che oggi si colloca al centro della nostra riflessione. E in verdetti del genere dilagava unʼermeneutica sbagliata e fatale.

In questo contesto vorrei ricordare unʼindicazione utile, offerta nellʼimmediato post-Concilio da Joseph Pascher, studioso della liturgia e teologo conciliare. Egli disse: “Per quanto sia interessante lo spirito di coloro che presero parte al Concilio, il ricorso a questo spirito rimane nebuloso e mancherebbe di autentico rilievo persino se fosse illuminato dallʼanalisi statistica o dallʼanalisi dellʼopinione. Lo spirito di questi uomini acquista significato teologico soltanto per il fatto di essere confluito nelle decisioni conciliari.“[ii]

Nel corso degli ultimi anni, in cui i giubilei della promulgazione dei singoli documenti conciliari hanno ricalcato la via del Concilio, tante cose si sono chiarite. Il Concilio intero e tutti suoi documenti fanno parte di questa autorità dottrinale, anche se con un carattere vincolante e dogmatico diverso. Ma negli ultimi anni si è anche visto come testi che ai tempi del Concilio rivestivano forse unʼattualità e una modernità maggiore rispetto ad altri – in modo da venire spesso usati per sostenere lʼ“ermeneutica della rottura“[iii] –, abbiano a volte perso splendore a causa delle mutate condizioni dei tempi, mentre altri documenti, considerati difficili, abbiano potuto acquistare importanza. La Dei Verbum sʼinserisce indubbiamente nella schiera di questi testi complessi ed esigenti. Questo documento porta ancora, e in modo assai evidente, le tracce del lungo dibattito nato attorno allʼacquisizione della Costituzione De fontibus Revelationis, come suonava il titolo originale. In questa sede non vogliamo soffermarci sui dettagli in merito – basti pensare agli sforzi intrapresi per arrivare a questo testo, che hanno plasmato tutto il Concilio. Forse fu proprio la drammaticità di questa maturazione a fare della Dei Verbum uno dei documenti conciliari più attuali.

Il Concilio Vaticano II viene spesso chiamato “Concilio sulla Chiesa”[iv]. Questo termine però, è corretto soltanto se consideriamo anche il modo in cui il Concilio parla della Chiesa. Il “primo frutto del Concilio”[v], la Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia, promulgata nel 1963 dopo un solo anno di consultazioni, descrive la Chiesa come luogo dellʼadorazione del vero Dio; anzi, la sua natura e il suo compito sta proprio nellʼassumere quella posizione adorante che onora Dio soltanto, coinvolgendo gli uomini in questo vero culto divino. Solo sotto questo aspetto la Chiesa è potuta essere oggetto del Concilio.[vi]

La genesi della Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina Rivelazione cominciò nellʼautunno del 1962, per poi protrarsi fino alla VIII sessione pubblica del 18 novembre 1965. La Costituzione sulla divina Rivelazione, già nelle sue parole introduttive, caratterizza la Chiesa programmaticamente come Chiesa che ascolta, come Chiesa in religioso ascolto della parola di Dio: “Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans…”. Commentando la Dei Verbum, Joseph Ratzinger afferma: “Il proemio (…) è una delle parti più riuscite del testo: la supremazia della Parola di Dio, il suo essere collocata distintamente al di sopra di ogni discorso degli uomini, di ogni agire della Chiesa, emerge in modo molto chiaro. La Chiesa stessa viene rappresentata nel doppio gesto dellʼascolto e della predicazione. (…) E se talvolta è potuto sembrare che il Concilio tendesse allʼautoriflessione ecclesiastica, nella quale la Chiesa gira esclusivamente su di sé, diventando proprio lei lʼoggetto centrale del suo stesso annuncio, invece di rimandare continuamente oltre se stessa, qui vediamo come lʼintera esistenza della Chiesa si apre per così dire verso lʼalto, con tutto il suo essere raccolto nel gesto dellʼascolto, che può essere la sola fonte della sua predicazione”.[vii] Anche cinquantʼanni dopo la Dei Verbum, questa visione può essere approvata senza riserve. Lʼorientamento della Chiesa verso la Parola di Dio ha fatto sì che la Dei Verbum sia divenuta un documento ecclesiologico chiave del Concilio Vaticano II.

Quale fu lʼimpatto che questa importante Costituzione ebbe negli anni successivi?

2. Alcuni momenti dellʼimpatto della Dei Verbum nella storia

Cinquantʼanni dopo, possiamo affermare senza esitazione che la Dei Verbum ebbe un impatto davvero positivo. Vorrei soffermarmi su cinque momenti che, nonostante siano ormai considerati dimensioni ovvie della dottrina della Chiesa, in verità devono la loro indiscussa presenza nella Chiesa di oggi, in gran parte proprio alla Costituzione sulla divina Rivelazione.

a. Rivelazione come “illuminazione” tramite Dio – la fede come luce

Oggi è comunemente accettato che il pensiero personalista, nella forma sviluppata soprattutto da Martin Buber e Ferdinand Ebner, poté influire anche sulla Dei Verbum. Questo influsso emerge in modo particolarmente convincente dal paragone, elaborato da René Latourelle, tra le rispettive affermazioni sulla Rivelazione, fatte dai Concili Vaticani I e II.[viii] Sono tante le formulazioni felici con cui la Dei Verbum mostra lʼevento della Rivelazione come un agire di Dio nel mondo, come un dialogare del Padre con il suo popolo e cioè – nella variante cristologica – come una conversazione tra lo sposo e la sua sposa. In tante affermazioni della Costituzione ritroviamo la convinzione della Chiesa che Dio stesso crea lʼaccesso alla sua vita; che proprio Colui che ha creato lʼuomo, tramite il dono della Torah e mediante lʼaver mandato la “Torah in persona”[ix] e cioè il logos in persona, illumina la ragione umana in modo che essa possa cercare Dio e riconoscerLo come tale. Non siamo noi a deporre in Dio qualcosa che riteniamo importante, al punto di “divinizzarlo” – come sostiene la teoria ottocentesca della “proiezione” [di Feuerbach, N.d.T.] – ma Dio stesso è il Creatore della Rivelazione.

Questa certezza attraversa la Dei Verbum come un filo rosso – non perché lʼuomo potesse riconoscere Dio da sé, ma perché Dio si è manifestato nella storia e lʼuomo è in grado di percepire questa comunicazione.

Il concetto che la Dei Verbum ha della Rivelazione rimanda – al num. 3 – alla storia del popolo di Dio come luogo dove Dio parla agli uomini, “ammaestrandoli”. Dalla prospettiva odierna può sembrare deplorevole che questo brano, in cui la Costituzione offre una sorta di teologia cristiana dellʼAntico Testamento, abbia “accorciato” la storia trascorsa tra la Creazione del mondo e la comparsa di Gesù in modo tale che alcune tappe essenziali – come per esempio il dono dei 10 Comandamenti sul monte Sinai – vengono appena accennate. Il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 [lʼautore si riferisce allʼedizione tedesca, N.d.T.] ha risposto a questa mancanza citando, alla voce sulla Rivelazione, ampi stralci della Dei Verbum – ma soffermandosi anche sul divenire del popolo di Israele, sullʼAlleanza stretta sul monte Sinai, nonché sullʼimportante contributo offerto da donne sante come Sara, Rebecca, Rachel, Miriam, Debora e Hannah – per poi riprendere il filo della Dei Verbum, parlando della Rivelazione in Gesù Cristo e citando, al num. 4, le famose parole iniziali della Lettera agli Ebrei: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente,in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio (Ebr 1,1-2)“.

In questo articolo, il parlare di Dio viene poi affiancato dalla significativa metafora della luce, e cioè – da parte degli uomini – dal vedere. La Costituzione sulla divina Rivelazione chiama Cristo il “Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini”, e dopo la citazione del Vangelo di Giovanni, la Dei Verbum constata: chi ha visto Gesù ha visto il Padre (cfr. Gv 14,9). Con ciò si vuole affermare che la fede è conoscenza, consapevolezza. Ella è, per così dire, luminosa, splendente – e non una miscela di luce e buio. È chiara e non confusa, in modo da essere aperta alla ragione e cioè letteralmente “evidente”. Questo concetto corrisponde a quanto esposto prima: la Rivelazione non è un’arbitraria comunicazione divina, avvenuta in un determinato luogo del mondo e in un determinato tempo, privando altri popoli e culture di questo privilegio. Ella è re-velatio, nel senso che tira via un velo, qualcosa che oscura, conducendoci a una conoscenza del mondo. Il num. 3 alludeva, come abbiamo già detto, al motivo patristico della paideia di Dio.

Per descrivere questo processo possiamo ricorrere al termine “illuminismo”, termine ingiustamente “confiscato” dal razionalismo e usato contro il cristianesimo. In un certo senso, la Rivelazione è “illuminismo tramite Dio”, che, nel lungo processo riportato dalla Sacra Scrittura, attraverso una lunga catena di generazioni di fedeli e tramite la raccolta di conoscenze nell’ambiente di un semplice popolo, purificò le religioni, esortandoli al culto spirituale: logike latreia (cfr. Rm 12,1).

Che si tratti davvero di unʼ“illuminismo”, un uscire fuori dallʼoscurità, è descritto in tanti passi della Sacra Scrittura: il Libro dei Numeri racconta come il profeta Baalam vide una “stella spuntare da Giacobbe” (Num 24,17). Quest’ immagine veterotestamentaria ritorna nel racconto di Matteo sui Magi, i quali nella loro ricerca vengono guidati dalla stella, dalla luce di Betlemme. Alla fine, i discepoli di Gesù non saranno solo chiamati “sale della terra”, “città sul Monte”, ma anche “luce del mondo” (Mt 5,13 s.). Nel Vangelo di Giovanni, la promessa di Gesù suona così: “Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita“ (Gv 8,12), perché Egli stesso è “la luce del mondo” (Gv 8,12).

Essendo molto di più di una figura retorica, questa metafora ha trovato ampio riflesso nella liturgia della Chiesa: essa rispecchia lʼesperienza dei credenti di tutti i secoli. Coloro che pregano si volgono verso oriente, perché è da lì che aspettano il Signore, la vera luce: lux ex oriente. E se la celebrazione della Notte Santa è tutta incentrata sul pensiero della luce, non è per sentimentalismo, ma perché questo carattere illuminista e illuminante della rivelazione biblica è stato percepito in modo particolare dagli uomini appartenenti alle culture e alle religioni pre-cristiane, che spesso giocavano con la penombra, con ciò che è soffuso.

A questo punto bisogna forse accennare al fatto che la Dei Verbum ha avuto lʼaccortezza di elencare tra i tre modi in cui si attua la Rivelazione, non solo la dottrina e la vita della Chiesa, ma anche la liturgia: “Così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede“ (num. 8). La liturgia non è un lusso che la Chiesa si permette, finalizzato alla sua autorappresentazione, in modo da poterla plasmare a nostro piacimento, secondo le sole leggi della plausibilità e dellʼattrattiva. Anzi, la liturgia è un locus theologicus, in cui il popolo rende presente la dimensione indescrivibile della fedeltà e della presenza di Dio, al di là di quanto possa essere contenuto in una dottrina.[x] La pratica della fede, espressa nella liturgia, precede – anche storicamente – la ponderata professione di fede e ha dunque anche una certa rilevanza per la conoscenza della fede.[xi]

b. Lʼunità della Rivelazione nella Creazione e nella storia

Vorrei soffermarmi – almeno brevemente – su un secondo aspetto della teologia della Rivelazione della Dei Verbum, che descrive nellʼintero primo capitolo Iʼagire rivelatore di Dio in un’ampia visione storico-salvifica e, assumendo i migliori elementi del pensiero personalista e dialogico, supera una comprensione puramente intellettualistica della Rivelazione. Ciò che nelle poche voci del capitolo I viene sviluppato come termine della Rivelazione storico-personale, è oggi parte scontata del nucleo della teologia cattolica. Lʼunità intrinseca, nella Rivelazione e nella Creazione, dellʼ“agire divino determinato dal logos“[xii], come si afferma al num. 3 della Dei Verbum, riesce a superare definitivamente lʼestrinsecismo teologico-rivelatore. La più recente risonanza di questa visione si trova nellʼenciclica Laudato si‘ di Papa Francesco, dove egli insiste sul legame intrinseco che esiste tra natura e Rivelazione, tra Creazione e redenzione.[xiii]

c. La Scrittura come “anima della teologia”

Unʼaltra acquisizione della Dei Verbum è aver fatto sì che, nellʼambito della teologia cattolica, alla critica biblica moderna fosse accordato uno spazio legittimo che va oltre la mera accettazione dello sviluppo della teologia scientifica. Unʼacquisizione questa che risponde alla più intima natura della fede, che è una storia basata su un factum historicum. In questo modo, si è reso possibile proseguire la via imboccata da Pio XII con lʼenciclica Divino afflante Spiritu (1943), mettendo lo studio e lʼinterpretazione della Sacra Scrittura di nuovo al centro della teologia. Come afferma la Dei Verbum in accordo con Leone XIII, lo studio della Scrittura deve diventare di nuovo lʼ“anima della teologia”[xiv], conferendo forza e vivacità alla predicazione e alla catechesi. Allo stesso modo, la Costituzione sulla divina Rivelazione Dei Verbum documenta come il riconoscimento dellʼesegesi storico-critica sia stato possibile soltanto nellʼambito dellʼesegesi storico-critica della nuova idea del termine “rivelazione”.[xv]In una sorta di ricezione inter-conciliare, questo obiettivo poté già affluire nel Decreto sulla formazione sacerdotale, Optatam totius (art. 16).

Guardando agli anni passati, possiamo constatare con gratitudine che quanto auspicato dalla Dei Verbum si è spesso realizzato. Lʼesegesi, laddove essa, nellʼambito e nel servizio della Chiesa, venga esercitata come interpretazione della Scrittura, non è riuscita soltanto a legare la teologia e la liturgia in modo più forte alle loro origini, rendendo il loro linguaggio più fresco e vivace. Ella ha anche reso accessibile a tanti fedeli la ricchezza della Sacra Scrittura, lʼumanità della Parola di Dio e la figura che essa ha preso nella storia, in modo che i fedeli venissero rinvigoriti e messi nella posizione di vivere nel nostro tempo e affrontare, con più determinazione, le tante domande poste alla fede.

d. Lʼunità della Scrittura

Infine – e questo è il quarto effetto che vorrei menzionare – la Dei Verbum ha messo nuovamente in evidenza la consapevolezza dellʼunità intrinseca della Sacra Scrittura composta da Antico e Nuovo Testamento. Il concetto dellʼunica storia della salvezza, come viene sviluppato nel proemio e nel capitolo I della Costituzione, ne ha fornito la cornice. Tutto lo sviluppo che risulta da questo può essere letto come espressione della parola di santʼAgostino, citata al num. 16: Novum Testamentum in Vetere latet et in Novo Vetus patet – “Il Nuovo Testamento è nascosto nellʼAntico, mentre lʼAntico è svelato nel Nuovo.”[xvi] Questa via indicata dal Concilio venne seguita anche dalla Pontificia Commissione Biblica, con la pronta promulgazione di importanti documenti: Lʼinterpretazione della Bibbia nella Chiesa“ nel 1993, nel 2001 fu la volta del testo cruciale Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana[xvii], per poi completare la tematica nel 2014 con un altro documento della stessa Commissione, Lʼispirazione e la verità della Bibbia. Ma la teologia della Rivelazione fu affermata anche da uno dei più importanti documenti magisteriali post-conciliari: il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992 da Giovanni Paolo II.

Se pensiamo che oggi, allʼinterno della teologia protestante, esistano – seppure sporadicamente e in modo isolato, ma comunque cosciente – nuovi tentativi assurdi di sciogliere lʼunità della Scrittura composta da Antico e Nuovo Testamento, disconoscendo – facendo diretto appello a Harnack (e cioè in fin dei conti a Marcione) – allʼAntico Testamento la dignità canonica, allora ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati ad avere la Costituzione sulla divina Rivelazione, la quale non solo ci dà una base sicura, ma fornisce anche un orientamento affidabile per lʼecclesiologia e per lʼesegesi, per il nostro rapporto con il giudaismo e le altre religioni.

e. La Rivelazione come misericordia

Prima di soffermarmi, nellʼultima parte, sulle sfide legate allʼodierna ricezione della Dei Verbum, vorrei accennare ad un ulteriore aspetto che proprio adesso, alla soglia dellʼ“Anno Santo della misericordia”, può darci un importante suggerimento.

Nella sua prima enciclica Lumen fidei, il Santo Padre aveva citato una parola di SantʼIreneo di Lione, che descrive lʼevento della Rivelazione, che coinvolse Abramo, in questo modo: “Abramo, prima di ascoltare la voce di Dio, già lo cercava nell’ardente desiderio del suo cuore e percorreva tutto il mondo, domandandosi dove fosse Dio, finché Dio ebbe pietà di colui che, solo, lo cercava nel silenzio”.[xviii]

Questa parola di SantʼIreneo non ci rivela soltanto lʼimportante rimando teologico-rivelatore al nesso tra lʼagire di Dio e lʼagire degli uomini. Ci insegna soprattutto che la divina misericordia non è soltanto un qualche isolato atto di perdono dei nostri peccati (lo è anche), ma si colloca nel più intimo della comunicazione di Dio stesso. La Rivelazione è fondamentalmente misericordia divina proprio perché non è unʼinteressante rivelazione di verità sopranaturali, ma lʼavvenimento della comunicazione tra Dio e il suo popolo.[xix] Ella è – come abbiamo già detto – lʼ“illuminazione” derivante da Dio sul mondo e sullʼuomo. Ed è per questo che “riconoscere Dio”, conoscerlo come Colui che ci offre attenzione, amore e fedeltà, costituisce unʼunità inscindibile. Rivelarsi ad un popolo volubile, nonché al cuore degli uomini in continua ricerca, è misericordia. La Rivelazione è lʼespressione della sapienza e della bontà di Dio, come dice la felicissima formula posta allʼinizio del num. 2.

Adesso però, vorrei gettare un ulteriore sguardo su alcune sfide che oggi siamo chiamati ad affrontare.

3. Le sfide che dobbiamo affrontare oggi

a. Premessa

Un giubileo celebrato allʼinterno della Chiesa, sia pure quello di un documento magisteriale come la Dei Verbum, non può limitarsi ad uno sguardo meramente storico sul testo. Non si tratta di tracciare una storia di successi, della quale possiamo congratularci a vicenda in occasione di qualche dotto congresso. Bisogna parlare anche delle difficoltà, perché laddove non si affrontano i problemi, non ci può essere sviluppo. Oltre alla riflessione genetica e analitica, che ha la sua giustificazione e che dobbiamo prendere come punto di partenza, siamo chiamati ad una visione teologica che cerca di leggere il testo anche alla luce del suo significato attuale.

Nel Lexikon für Theologie und Kirche del 1967, il giovano teologo tedesco Joseph Ratzinger e il futuro cardinale Alois Grillmeier SJ ci hanno dischiuso la genesi della Costituzione sulla divina Rivelazione e i suoi principali aspetti in modo dettagliato e per esperienza diretta. E con questo, il primo compito di analisi testuale è stato compiuto. Ma qual è il messaggio della Costituzione oggi, mezzo secolo dopo la sua promulgazione? Quali sono le dichiarazioni che oggi colpiscono noi e la nostra situazione, in modo particolare. Quali dichiarazioni ci interpellano, aiutandoci a comprendere la nostra condizione e a rispondere alle problematiche attuali?

b. La Dei Verbum sullo sfondo della teologia pluralista delle religioni

Oggi la fiducia nellʼaffidabilità dellʼautocomunicazione di Dio, che desidera renderci partecipi della sua vita, sembra vacillare in tanti ambiti, persino in quello teologico. Lo scetticismo verso una fede che invece di illuminare oscura, è entrato nella percezione comune di tanti nostri contemporanei. Anzi, tanti uomini del nostro tempo considerano persino lʼidea della Rivelazione obsoleta, e hanno lʼimpressione che la via concreta che questo “illuminismo” ha imboccato, nel giudaismo e nel cristianesimo, sia soltanto dannosa. La critica che la Rivelazione biblica rivolge alle religioni e ai loro dei, è ritenuta responsabile per lʼindisturbato assorbimento tecnologico della natura; la chiara professione dellʼunico vero Dio, propria del monoteismo, viene accusata di intolleranza e violenza intrinseca.

Tanti ritengono che la natura e il mandato della fede non consistano nellʼilluminare e conoscere. La fede – così credono – dovrebbe piuttosto “toccare” lʼuomo con il mistero oscuro di ciò che è trascendente. La religione non dovrebbe essere corrispondente alla ragione, ma sperimentabile come qualcosa di “vissuto”. Alla “luce della fede” – come dice lʼenciclica Lumen fidei – forse si lascia ancora qualche piccolo spazio, dove la ragione non può illuminare, oppure essa diventa una piccola luce soggettiva che brilla accanto a tante altre piccoli luci, che riescono a farci vedere soltanto una piccolissima parte della verità.[xx] Questa forma mistica di religione – o meglio: forma orientata verso lʼesperienza, come oggi potremmo dire – che rinuncia largamente ai contenuti, ai dogmi e anche ad interrogarsi sulla verità, sembra essere per tanti nostri contemporanei lʼunica manifestazione accettabile della fede. Parlare di una “Rivelazione” che si manifesta persino in una Scrittura che continua a esistere come tradizione, acquistando così un’autorità sovrapersonale, istituzionalizzata, è qualcosa che questa visione esclude.

Questo modo di pensare, diffuso soprattutto nel mondo occidentale, parte dal presupposto che Dio rimanga un mistero e che non esista religione in grado di nominarlo e mostrarlo in toto. Il giudaismo e il cristianesimo – e cioè le forme istituzionalizzate della fede biblica sin dai tempi di Abramo – vengono poi sussunti come due forme delle tante “religioni” esistenti. In questo modo, si tralasciano soprattutto le affermazioni della teologia della Rivelazione, che la Dei Verbum riporta in modo sistematico. La critica kantiana della capacità cognitiva ha indotto tanti a dedurre che nessuna religione possa possedere la verità nella sua pienezza, ma che ciascuna – cristianesimo incluso – abbia soltanto una verità distorta e parziale, guardando il tutto attraverso una sua propria lente specifica. Per questo – così si sostiene – anche tanti cristiani non ritengono più sensato evangelizzare culture straniere. Per loro unʼimpresa del genere non è altro che un deplorabile errore storico che, di conseguenza, non può costituire un mandato possibile nel nostro presente. Ma un tale modo di pensare fa sì che ogni pretesa di verità, come anche la possibilità di trovarla, debba essere abbandonata, se si vuole “dialogare” e vivere in pace con gli altri. Questa teologia pluralista delle religioni e in un certo senso con essa anche la più recente “teologia comparativa”, si sono fatte largo in tanti ambiti della teologia e della catechesi, nonché nella mentalità di tanti cristiani – soprattutto occidentali –, in modo da costituire una sfida che assume le dimensioni dellʼarianesimo. E con ciò, tutta lʼidea biblica della Rivelazione divina è messa in discussione.

È proprio lʼidea storico-personale della Rivelazione sviluppata nella Dei Verbum, che ci sfida a entrare in dialogo con le altre religioni e culture. Dio non ha lasciato conoscenze segrete, come informazione privilegiata, ad una parte del mondo, per far sì che unʼaltra parte dellʼumanità ne venisse invece privata. Se la Rivelazione è un attuarsi divino-umano della comunicazione, allora questa è pensabile soltanto laddove venga accolta e ascoltata. E se alla Chiesa la Dei Verbum raccomanda vivamente lo studio della Scrittura, lo fa per dischiuderci la via che la Rivelazione ha percorso nella storia – una via che si contraddistingue per il fatto che Israele, ogni volta, venne portato a prendere su di sé “il giogo della legge” in piena libertà: “Quindi [Mosè] prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!”(Es 24,7).

Questo “noi lo faremo e lo eseguiremo” è il contributo del popolo di Dio allʼevento della Rivelazione. E a causa della naturale avversione dellʼuomo contro una volontà altrui – non perché Dio fosse schizzinoso o avaro con la sua Rivelazione – questa cʼè stata soltanto in un punto nel mondo e nella storia dellʼumanità, sempre legata al factum historicum del popolo dʼIsraele e di Gesù di Nazareth, nonostante mirasse, in modo universale, alla salvezza di tutti. Nel num. 5 della Dei Verbum, i Padri conciliari hanno voluto sottolineare che la Chiesa confida nel fatto che Dio spiana la strada al suo Vangelo attraverso i tempi in modo così inequivocabile, perché lʼuomo potesse aderire alla volontà di Dio totum libere (in tutta libertà), acconsentendo volontariamente (voluntarie) alla Rivelazione che noi possiamo ascoltare. Perciò, la particolare praeparatio Evangelica, tracciata al num. 3 della Dei Verbum, è espressione della libertà che Dio concede agli uomini. Il voler ascoltare non è mai una categoria collettiva, ma implica delle decisioni personali. Ed è per questo – e qui si tratta di unʼesperienza comune ai fedeli di tutti i secoli – che la Rivelazione non è frammentaria e nebulosa, ma chiara e udibile, e comunque viene sempre veramente accolta soltanto da pochi.

Credo che a questo punto si possa trarre un bilancio intermedio: negli anni Sessanta le affermazioni del primo capitolo sulla Rivelazione si potevano ancora ritenere una cornice ermeneutica utile per sondare lo spazio che il Concilio volle dedicare alla Sacra Scrittura e allo studio di essa. In questo modo, la Dei Verbum ha davvero avuto un effetto positivo sulla Chiesa. Ma forse è solo oggi, alla luce della teologia pluralista delle religioni, che si può riconoscere lʼampio significato della Costituzione sulla divina Rivelazione, soprattutto il contributo offerto dalla teologia della Rivelazione. E poi diventa anche chiaro che lo sforzo intrapreso dai Padri conciliari nel nome della Rivelazione e la sua trasmissione non era invano.

c. La questione delle “realtà della vita” come locus theologicus secondo la Dei Verbum num. 8

Come ultimo punto vorrei trattare brevemente una seconda questione, che a mio parere costituisce una sfida per la teologia e per il magistero, e che merita di essere contemplata alla luce della Dei Verbum.

Il cristianesimo non è una religione del Libro, come si ama definirlo, ma Rivelazione divina nella storia del popolo che Egli ha scelto a questo scopo. Per questa ragione, il principio della sola scriptura non è mai stato sufficiente per trovare una misura per una vita di fede. La teologia cattolica invece ha coniato la formula “Scrittura e tradizione”, che, essendo fondamentalmente niente di nuovo, significava soltanto lʼapplicazione di quel principio che fece parlare già nel giudaismo di una tradizione scritta e di una tradizione orale.

Il malinteso, però, secondo il quale la tradizione sarebbe un’autonoma, seconda fonte diconoscenze rivelate nascoste alla Scrittura, è riuscito a protrarsi fin dallʼera post-tridentina per giungere dritto nel cuore del dibattito sulla De fontibus Revelationis e ha costituto la maggiore causa delle difficoltà emerse nellʼaula conciliare negli anni 1962 e 1963. La tradizione non è una fonte autonoma, ma un’istanza che dà prova della Rivelazione, e cioè lʼeco che la Rivelazione di Dio trova nella vita dei credenti, i quali, nella Chiesa che ascolta, si affidano completamente alla Parola rivelata, accogliendo la Parola della Scrittura “non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale Parola di Dio” (cfr. 1 Tess 2,13). La tradizione è espressione della conoscenza della Chiesa, che Dio ha definitivamente comunicato in Gesù Cristo; che Egli ha anzitutto comunicato se stesso in modo definitivo e allo stesso tempo comprensibile agli uomini; e che comunque la via del comprendere non finisce – una via per cui vale la promessa di Gesù, che lo Spirito avrebbe introdotto i discepoli nella pienezza della verità, avallando la presenza del Risorto “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (cfr. Mt 28,20).

E qui emerge ciò che oggi si chiama “realtà della vita” e che si vorrebbe elevare a locus theologicus. Oggi la tradizione della Chiesa – anche quella che ha conosciuto un vivido progresso – viene spesso e volentieri compresa come “principio generale” e “dottrina astratta”, oppure caratterizzata come “ideale” irraggiungibile, che non avrebbe alcuna “capacità di connessione con le odierne costellazioni mondane“ e perciò nessuna rilevanza per lʼuomo nella sua situazione concreta.

Come metro dellʼesistenza cristiana non vale più la misura della Rivelazione e dellʼamore divino, ma la dimensione biografica dellʼesistenza storica e terrena di uomini limitati e peccatori. In questo contesto, si rimanda spesso e volentieri alla Dei Verbum, num. 8, che in merito alla trasmissione della Rivelazione dice: “Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità.”

A mio parere, la visione che contrappone la dottrina della Chiesa, la sua tradizione e la verità vissuta dagli uomini del nostro tempo, quasi fossero delle alternative reciproche, è errata. La Dei Verbum ci indica unʼaltra direzione. Vorrei sviluppare questo pensiero in modo più approfondito.

Il Libro dellʼEsodo ci dà la bella notizia che Mosè, nel momento dellʼesodo dallʼEgitto, avrebbe portato con sé anche le ossa del patriarca Giuseppe (cfr. Es 13,19). Questo, nella tradizione più tarda, venne interpretato nel senso che Israele sarebbe giunto nella Terra Promessa con due arche: lʼarca della Torah – le tavole della legge, che Dio aveva dato a Mosè sul monte Sinai – e lʼarca con le ossa di Giuseppe. Fu dunque inteso nel senso che la mera dottrina non sarebbe stata sufficiente per indurre il popolo allʼobbedienza, ma che ci sarebbe voluta anche la testimonianza vissuta. La Chiesa ha sempre tenuto vivo questo pensiero con la venerazione dei santi che sono un “Vangelo vissuto.”

Che cosa significa questo? Le indicazioni ci dicono che la “realtà della vita” per noi rilevante non è una qualsiasi realtà che ha a che fare con la vita; non è compito della statistica o dellʼopinione riportata dalla stampa, ma si tratta della realtà della vita in obbedienza alla fede pienamente realizzata e vissuta (cfr. Rm 1,5), oppure – cristologicamente parlando – della sequela di Cristo. È vero: bisogna prendere sul serio le biografie degli uomini con i loro progressi, le loro crepe. Poiché anche noi cristiani non dobbiamo farci un’immagine illusoria della nostra vita. Dobbiamo affrontare la nostra realtà. E non lo facciamo fabbricando di essa una norma su come Dio dovrebbe vedere noi e il mondo, ma confrontando la nostra debole, fragile vita con il disegno divino, collocandola allʼinterno della “luce della fede” che nonostante non sappia tutto, sa illuminare tutto.

La “consapevolezza interiore che viene dallʼesperienza spirituale” è una vita nel popolo di Dio e con esso, nella Chiesa e in cammino con essa. Il “progresso” nella Chiesa e la crescita della tradizione della Chiesa, di cui parla la Dei Verbum, non sono escrescenze che accompagnano le nostre mutate abitudini di vita e le nostre opinioni, capaci di incontrare il consenso della maggioranza. Il loro significato è piuttosto quello di “una crescita nella comprensione della realtà originaria”[xxi]. È qui che emerge lʼeffetto di un punto debole della Costituzione sulla divina Rivelazione, che è già stato sollevato da ambiti differenti, nel corso della discussione conciliare: alla questione circa i criteri per una tradizione autentica viene dato troppo poco spazio. Il “progresso” della tradizione di cui parla la Dei Verbum può avverarsi soltanto in una vita che ha come misura la Scrittura e la sua realtà di vita.

Credo che di questo concetto fondamentale, di come dovrebbe essere una vita di fede, non esista definizione più azzeccata di quella esposta nella regola per una “Vita comune” di Dietrich Bonhoeffer, il teologo protestante morto per mano degli sgherri nazisti nel 1945, quando ormai il loro regime era giunto al tramonto. In un passo di questo libricino, Bonhoeffer parla dellʼeffetto della comune lettura quotidiana della Scrittura, che – cito – ci “colloca nel bel mezzo della storia sacra di Dio sulla terra”[xxii]. E poi continua:

“Non è importante che Dio è spettatore e che partecipa alla nostra vita odierna, ma che siamo noi ascoltatori attenti e partecipanti dellʼagire di Dio nella storia sacra, della storia di Cristo sulla terra; e soltanto se ci rendiamo partecipi di questo, Dio è con noi anche nellʼoggi. Qui avviene un’inversione totale. Non è nella nostra vita che lʼaiuto e la presenza di Dio si devono ancora dimostrare, ma è nella vita di Gesù Cristo che per noi si sono dimostrati lʼaiuto e la presenza di Dio. (… ) Che Gesù Cristo è morto, è più importante che io morirò; e che Gesù Cristo è risuscitato dai morti, è la sola ragione della speranza che anchʼio sarò risuscitato nel giorno del Giudizio. La nostra salvezza è ʹal di fuori di noi stessiʼ (extra nos) – non la trovo nella storia della mia vita, ma soltanto nella storia di Gesù Cristo.“[xxiii]

Questo testo insolito, che ha trovato conferma nel martirio di colui che lo ha scritto, ci dà forse unʼintuizione del significato che la Rivelazione potrebbe avere per lʼuomo di oggi. Chi ha oggi il coraggio di dirci che una “teologia della biografia” non è lʼapprovazione delle nostre fattive condizioni di vita, ma soprattutto un inserimento nella biografia di Gesù, nel suo annuncio del Regno di Dio e nel suo movimento di raccoglimento? Che la norma non è la storia della nostra vita, ma la storia della vita di Gesù Cristo, che abbraccia noi tutti?

La Dei Verbum è attuale, perché parla di questa “inversione” – soprattutto nella parte in cui tratta la teologia della Rivelazione. Le nostre biografie – siano pure piene di crepe e vacillanti – possono essere il materiale con cui Dio continua a scrivere la sua storia, a costruire il suo Regno. Anzi: saranno le generazioni a venire a dimostrare come “cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse”. La vera realtà della vita è che siamo chiamati a partecipare a questa storia, a portarla avanti, affinché possa rendere trasparente tutto ciò che accade nel mondo, illuminando la nostra vita.

4. Conclusione

Alla fine della Dei Verbum, nel num. 26, i Padri conciliari hanno espresso il desiderio che “il tesoro della Rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre di più il cuore degli uomini“. Nonostante il fatto che non bisogna ignorare il fatto che i documenti ecclesiali non hanno più lo stesso impatto che avevano invece in altre epoche e che sono rapidamente dimenticati[xxiv], a cinquantʼanni dalla promulgazione della Dei Verbum è legittimo sperare che anche la Costituzione sulla divina Rivelazione, con l’aiuto dello Spirito Santo, continui a contribuire alla manifestazione del tesoro della Rivelazione.


 Cfr. M. Seckler, Über den Kompromiss in Sachen der Lehre, in: M. Seckler u. a. (curatore), Begegnung. Beiträge zu einer Hermeneutik des theologischen Gesprächs, Graz – Wien – Köln 1972, 45-75; 56; cfr. anche P. Eicher, Offenbarung. Prinzip neuzeitlicher Theologie, München 1977, 484; sul tutto: cfr. A. Buckenmaier, „Schrift und Tradition“ seit dem Vatikanum II. Vorgeschichte und Rezeption (Konfessionskundliche und kontroverstheologische Studien LXII), Paderborn 1996, 247-251.

[ii] J. Pascher, Der „Geist des Konzils“ in der Liturgiekonstitution des Zweiten Vatikanums, in: H. Fleckenstein u. a. (curatore), Ortskirche – Weltkirche (FS J. Döpfner), Würzburg 1973, 357-370; 358.

[iii] Cfr. Benedetto XVI, Discorso al Sacro Collegio e alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005, in: AAS 98 (2006), 40-53; 46.

[iv] Cfr. K. Rahner / H. Vorgrimler, Kleines Konzilskompendium, Freiburg 292002, 25.

[v] Come suona il titolo del libro di B. Fischer (curatore), Die erste Frucht des Konzils, Freiburg – Basel – Wien 1964 .

[vi] La liturgia, così sostiene la Sacrosanctum Concilium, “ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina” (num. 2). Tramite questa caratterizzazione della liturgia, che descrive anche la natura e il mandato della Chiesa, la Costituzione stessa contribuisce ad un’ecclesiologia approfondita.

[vii] J. Ratzinger, Einleitung und Kommentar zum Prooemium, zu Kapitel I, II und VI der Offenbarungskonstitution „Dei Verbum“, in: LThK2 Ergänzungsband II, 504-528; 504 (JRGS 7/1, 715-791; 732).

[viii] Cfr. R. Latourelle, La Révélation et sa transmission selon la constitution "Dei Verbum“, in: Gr 47 (1966), 1-40;

[ix] J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret: Prima Parte, Milano 2007, 137.

[x] Cfr. R. Voderholzer, Dogmatik im Geist des Konzils. Die Dynamisierung der Lehre von den Loci theologici durch die Offenbarungskonstitution „Dei Verbum“, in: TThZ 115 (2006), 149-166.

[xi] Cfr. G. L. Müller, Die Liturgie als Quelle des Glaubens, in: ders., Mit der Kirche denken. Bausteine und Skizzen zu einer Ekklesiologie der Gegenwart, Würzburg 2001, 55-62.

[xii] J. Ratzinger, Einleitung und Kommentar 508 (JRGS 7/1, 736).

[xiii] Cfr. Papa Francesco, enciclica Laudato si' sulla cura della casa comune, in part. num. 84 s.

[xiv] Cfr. Leone XIII., enc. Providentissimus Deus, 18 novembre 1893: AAS 26 (1893-94) 283; L. Leloir, La Sainte Écriture, âme de toute la théologie, in: Seminarium 18 (1966), 880-892.

[xv] Cfr. G. L. Müller, Art. Exegese: V. Exegese und Systematische Theologie, in: LThK3 vol. 3, 1101-1103.

[xvi] Sant`Agostino, Quæst. in Hept. 2, 73: PL 34, 623.

[xvii] Contiene la significativa introduzione dell`allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger, in: Päpstliche Bibelkommission, Das jüdische Volk und seine Heilige Schrift in der christlichen Bibel (24 maggio 2001) (VAS 152), Bonn 2001, 3-8.

[xviii] Ireneo di Lione, Demonstratio apostolicae praedicationis 24; SC 406, 117; cit. in: Papa Francesco, enciclica Lumen fidei, num. 35.

[xix] Cfr. G. L. Müller, Art. Exegese V, 1102.

[xx] Cfr. Papa Francesco, enciclica Lumen fidei, num. 3.

[xxi] J. Ratzinger, Einleitung und Kommentar 521 (JRGS 7/1, 760).

[xxii] Bonhoeffer, Gemeinsames Leben, München 1976, 43.

[xxiii] Bonhoeffer, 43s.; sottolineature dell´autore.

[xxiv] Cfr. Papa Francesco, Lettera Apostolica Evangelii gaudium sullʼannuncio del Vangelo nel mondo odierno (2013), num. 25.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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