A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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19 ottobre 2014 Beatificazione per Paolo VI

Ultimo Aggiornamento: 16/02/2015 17:34
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10/05/2014 17:43
 
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  Paolo VI sarà proclamato Beato il 19 ottobre prossimo




Ieri pomeriggio, 9 maggio, Papa Francesco ha ricevuto in udienza privata il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ed ha autorizzato la Congregazione a promulgare i Decreti riguardanti:

- il miracolo, attribuito all'intercessione del Venerabile Servo di Dio Paolo VI (Giovanni Battista Montini), Sommo Pontefice; nato il 26 settembre 1897 a Concesio (Italia) e morto il 6 agosto 1978 a Castelgandolfo (Italia);



Nella medesima Udienza il Santo Padre ha autorizzato il Dicastero a comunicare che il rito della beatificazione del Ven. Servo di Dio Paolo VI avrà luogo, in Vaticano, il 19 ottobre 2014.




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/05/10/paolo_vi_sar%C3%A0_proclamato_beato_il_19_ottobre_prossimo/it1-798066 
del sito Radio Vaticana 







Preghiera ufficiale per ottenere grazie per intercessione di Paolo VI

Signore, la nostra povertà ci porta a chiedere il Tuo aiuto.
Lo facciamo nella certezza che il Tuo cuore di Padre è sempre pronto ad ascoltare le richieste dei Suoi figli.
Si fa voce interprete delle nostre necessità il Papa Paolo VI, il Papa del dialogo, il Papa pellegrino, il Papa della civiltà dell'amore.
È con lui, Tuo servo buono e fedele che riposa nella Tua beatitudine, che ti innalziamo la nostra supplica.
O Signore, per intercessione di Papa Paolo VI, concedi il Tuo aiuto per ottenere la grazia di……………………
Sia fatta, Signore, la tua volontà.
Amen
Pater, Ave, Gloria. 

***********
Chi ottenesse grazie è pregato di darne comunicazione alla Vicepostulazione della Causa di beatificazione
e di canonizzazione di Papa Paolo VI
via delle Grazie, 13 - 25122 BRESCIA
tel. 030 3755075 - fax 030 43323

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
DEL SOMMO PONTEFICE

NOTIFICAZIONE

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO

CAPPELLA PAPALE

 

Domenica 19 ottobre 2014, XXIX del Tempo Ordinario, alle ore 10.30, in Piazza San Pietro, il Santo Padre Francesco celebrerà la Santa Messa in occasione della chiusura dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi e presiederà il rito della beatificazione del Servo di Dio Paolo VI, papa (1897-1978).

Potranno concelebrare con il Santo Padre:

- i Cardinali e i Patriarchi, che si troveranno, alle ore 9.30, nella Cappella di San Sebastiano in Basilica, portando con sé la mitria bianca damascata;

- gli Arcivescovi e i Vescovi, muniti di apposito biglietto dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice (la richiesta deve essere inviata entro mercoledì 15 ottobre all’indirizzo: beatificazionepaolovi@gmail.com), che si troveranno, alle ore 9.15, nella Cappella di San Pio X in Basilica, portando con sé amitto, camice, cingolo e mitria bianca;

- i Sacerdoti, muniti di apposito biglietto dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice (la richiesta deve essere inviata entro mercoledì 
15 ottobre all’indirizzo: biglietti@celebra.va), che si troveranno, alle ore 9, al Braccio di Costantino, portando con sé amitto, camice, cingolo e stola bianca.

* * *

I Cardinali, i Patriarchi, gli Arcivescovi e i Vescovi e tutti coloro che, in conformità al Motu Proprio «Pontificalis Domus», compongono la Cappella Pontificia e, muniti della Notificazione, desiderano partecipare alla celebrazione liturgica senza concelebrare, indossando l’abito corale loro proprio, sono pregati di trovarsi alle ore 9.30 sul Sagrato della Basilica, per occupare il posto che verrà loro indicato.

Città del Vaticano, 11 ottobre 2014

Per mandato del Santo Padre

Mons. Guido Marini
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

 




IL TESTAMENTO DI PAOLO VI


 

Nel corso della riunione della Congregazione Generale dei Cardinali, giovedì 10 agosto 1978, è stato letto il testo delle ultime volontà di Paolo VI, testo che prima della pubblicazione è stato portato a conoscenza dei familiari. Il testamento consiste in uno scritto del 30 giugno 1965, integrato da due aggiunte, una del 1972 e un’altra del 1973. Sono in tutto quattordici pagine manoscritte.
Il primo dei tre testi è scritto su tre fogli grandi, formato lettera, ciascuno di quattro facciate. Paolo VI ha numerato la prima pagina dei tre fogli di suo pugno ed ha apposto la sua firma anche a margine della quarta facciata del foglio I.
In tutto sono undici facciate scritte. La prima aggiunta fu fatta a Castel Gandolfo e, oltre alla data, reca anche l’indicazione dell’ora: 16 settembre 1972, ore 7,30. Si tratta di due foglietti manoscritti. Il primo reca tra parentesi, in alto, accanto allo stemma pontificio l’indicazione «Note complementari al testamento 8. La seconda, intitolata « Aggiunta alle mie disposizioni testamentarie », consiste in poche righe scritte su un unico foglio il 14 luglio 1973.

Alcune note
 per il mio testamento

In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

1. Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara; e perciò con umile e serena fiducia. Avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce.

Dinanzi perciò alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza: Signore, Ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita.

Parimente sento il dovere di ringraziare e di benedire chi a me fu tramite dei doni della vita, da Te, o Signore, elargitimi: chi nella vita mi ha introdotto (oh! siano benedetti i miei degnissimi Genitori!), chi mi ha educato, benvoluto, beneficato, aiutato, circondato di buoni esempi, di cure, di affetto, di fiducia, di bontà, di cortesia, di amicizia, di fedeltà, di ossequio. Guardo con riconoscenza ai rapporti naturali e spirituali che hanno dato origine, assistenza, conforto, significato alla mia umile esistenza: quanti doni, quante cose belle ed alte, quanta speranza ho io ricevuto in questo mondo!
Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite?
Come celebrare degnamente la tua bontà, o Signore, per essere io stato inserito, appena entrato in questo mondo, nel mondo ineffabile della Chiesa cattolica?
Come per essere stato chiamato ed iniziato al Sacerdozio di Cristo? Come per aver avuto il gaudio e la missione di servire le anime, i fratelli, i giovani, i poveri, il popolo di Dio, e d’aver avuto l’immeritato onore d’essere ministro della santa Chiesa, a Roma specialmente, accanto al Papa, poi a Milano, come arcivescovo, sulla cattedra, per me troppo alta, e venerabilissima dei santi Ambrogio e Carlo, e finalmente su questa suprema e formidabile e santissima di San Pietro? In aeternum Domini misericordias cantabo.

Siano salutati e benedetti tutti quelli che io ho incontrati nel mio pellegrinaggio terreno; coloro che mi furono collaboratori, consiglieri ed amici - e tanti furono, e così buoni e generosi e cari!
benedetti coloro che accolsero il mio ministero, e che mi furono figli e fratelli in nostro Signore!

A voi, Lodovico e Francesco, fratelli di sangue e di spirito, e a voi tutti carissimi di casa mia, che nulla a me avete chiesto, né da me avuto di terreno favore, e che mi avete sempre dato esempio di virtù umane e cristiane, che mi avete capito, con tanta discrezione e cordialità, e che soprattutto mi avete aiutato a cercare nella vita presente la via verso quella futura, sia la mia pace e la mia benedizione.

Il pensiero si volge indietro e si allarga d’intorno; e ben so che non sarebbe felice questo commiato, se non avesse memoria del perdono da chiedere a quanti io avessi offeso, non servito, non abbastanza amato; e del perdono altresì che qualcuno desiderasse da me. Che la pace del Signore sia con noi.

E sento che la Chiesa mi circonda: o santa Chiesa, una e cattolica ed apostolica, ricevi col mio benedicente saluto il mio supremo atto d’amore.

A te, Roma, diocesi di San Pietro e del Vicario di Cristo, dilettissima a questo ultimo servo dei servi di Dio, la mia benedizione più paterna e più piena, affinché Tu Urbe dell’orbe, sia sempre memore della tua misteriosa vocazione, e con umana virtù e con fede cristiana sappia rispondere, per quanto sarà lunga la storia del mondo, alla tua spirituale e universale missione.

Ed a Voi tutti, venerati Fratelli nell’Episcopato, il mio cordiale e riverente saluto; sono con voi nell’unica fede, nella medesima carità, nel comune impegno apostolico, nel solidale servizio al Vangelo, per l’edificazione della Chiesa di Cristo e per la salvezza dell’intera umanità. Ai Sacerdoti tutti, ai Religiosi e alle Religiose, agli Alunni dei nostri Seminari, ai Cattolici fedeli e militanti, ai giovani, ai sofferenti, ai poveri, ai cercatori della verità e della giustizia, a tutti la benedizione del Papa, che muore.

E così, con particolare riverenza e riconoscenza ai Signori Cardinali ed a tutta la Curia romana: davanti a voi, che mi circondate più da vicino, professo solennemente la nostra Fede, dichiaro la nostra Speranza, celebro la Carità che non muore, accettando umilmente dalla divina volontà la morte che mi è destinata, invocando la grande misericordia del Signore, implorando la clemente intercessione di Maria santissima, degli Angeli e dei anti, e raccomandando l’anima mia al suffragio dei buoni.

2. Nomino la Santa Sede mio erede universale: mi obbligano a ciò dovere, gratitudine, amore. Salvo le disposizioni qui sotto indicate.

3. Sia esecutore testamentario il mio Segretario privato. Egli vorrà consigliarsi con la Segreteria di Stato e uniformarsi alle norme giuridiche vigenti e alle buone usanze ecclesiastiche.

4. Circa le cose di questo mondo: mi propongo di morire povero, e di semplificare così ogni questione al riguardo.

Per quanto riguarda cose mobili e immobili di mia personale proprietà, che ancora restassero di provenienza familiare, ne dispongano i miei Fratelli Lodovico e Francesco liberamente; li prego di qualche suffragio per l’anima mia e per quelle dei nostri Defunti. Vogliano erogare qualche elemosina a persone bisognose o ad opere buone. Tengano per sé, e diano a chi merita e desidera qualche ricordo dalle cose, o dagli oggetti religiosi, o dai libri di mia appartenenza. Distruggano note, quaderni, corrispondenza, scritti miei personali.

Delle altre cose che si possano dire mie proprie: disponga, come esecutore testamentario, il mio Segretario privato, tenendo qualche ricordo per sé, e dando alle persone più amiche qualche piccolo oggetto in memoria. Gradirei che fossero distrutti manoscritti e note di mia mano; e che della corrispondenza ricevuta, di carattere spirituale e riservato, fosse bruciato quanto non era destinato all’altrui conoscenza.

Nel caso che l’esecutore testamentario a ciò non possa provvedere, voglia assumerne incarico la Segreteria di Stato.

5. Raccomando vivamente di disporre per convenienti suffragi e per generose elemosine, per quanto è possibile.

Circa i funerali: siano pii e semplici (si tolga il catafalco ora in uso per le esequie pontificie, per sostituirvi apparato umile e decoroso).

La tomba: amerei che fosse nella vera terra, con umile segno, che indichi il luogo e inviti a cristiana pietà. Niente monumento per me.

6. E circa ciò che più conta, congedandomi dalla scena di questo mondo e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio: dovrei dire tante cose, tante.
Sullo stato della Chiesa; abbia essa ascolto a qualche nostra parola, che per lei pronunciammo con gravità e con amore.
Sul Concilio: si veda di condurlo a buon termine, e si provveda ad eseguirne fedelmente le prescrizioni. Sull’ecumenismo : si prosegua l’opera di avvicinamento con i Fratelli separati, con molta comprensione, con molta pazienza, con grande amore; ma senza deflettere dalla vera dottrina cattolica.
Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo.

Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la divina Bontà. Ancora benedico tutti. Roma specialmente, Milano e Brescia. Alla Terra santa, la Terra di Gesù, dove fui pellegrino di fede e di pace, uno speciale benedicente saluto.

E alla Chiesa, alla dilettissima Chiesa cattolica, all’umanità intera, la mia apostolica benedizione.

Poi: in manus Tuas, Domine, commendo spiritum meum.

Ego: Paulus PP. VI.

Dato a Roma, presso S. Pietro, il 30 giugno 1965, anno III del nostro Pontificato.

Note complementari 
al mio testamento

In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. 
Magnificat anima mea Dominum. Maria!

Credo. Spero. Amo.

Ringrazio quanti mi hanno fatto del bene.

Chiedo perdono a quanti io avessi non fatto del bene. A tutti io do nel Signore la pace.

Saluto il carissimo Fratello Lodovico e tutti i miei familiari e parenti e amici, e quanti hanno accolto il mio ministero. A tutti i collaboratori, grazie. Alla Segreteria di Stato particolarmente.

Benedico con speciale carità Brescia, Milano, Roma, la Chiesa intera. Quam diletta tabernacula tua, Domine!

Ogni mia cosa sia della Santa Sede.

Provveda il mio Segretario particolare, il caro Don Pasquale Macchi, a disporre per qualche suffragio e qualche beneficenza, e ad assegnare qualche ricordo fra libri e oggetti a me appartenuti a sé e a persone care.

Non desidero alcuna tomba speciale.

Qualche preghiera affinché Dio mi usi misericordia.

In Te, Domine, speravi. Amen, alleluia.

A tutti la mia benedizione, in nomine Domini.

PAULUS PP. VI

Castel Gandolfo, 16 settembre 1972ore 7,30.

Aggiunta 
alle mie disposizioni testamentarie

Desidero che i miei funerali siano semplicissimi e non desidero né tomba speciale, né alcun monumento. Qualche suffragio (beneficenze e preghiere).

PAULUS PP. VI

14 luglio 1973







Paolo VI, il Papa martire del Sessantotto
di Padre Piero Gheddo
10-05-2014 da La Bussola Quotidiana


Il Concilio Vaticano II aveva suscitato tanti entusiasmi e speranze, secondo quanto diceva San Giovanni XXIII: “Il Concilio sarà una nuova Pentecoste per la Chiesa”. La storia, com’è noto, è poi andata in senso diverso. Quando finisce il Vaticano II (7 dicembre 1965), Paolo VI pubblica, col Motu proprio Ecclesiae Sanctae (6 agosto 1966), le norme per applicare le decisioni conciliari alla vita quotidiana dei fedeli e di diocesi, parrocchie, istituti religiosi. Ma già nascevano convegni teologici, riviste specializzate (ad esempio Concilium) e pubblicistica ecclesiale che iniziavano la “fuga in avanti” (o indietro?) non spiegando e invitando ad applicare i documenti del Concilio, ma ipotizzando cosa volevano realmente dire i Padri conciliari. Si scriveva che “lo spirito del Concilio” superava ampiamente i testi conciliari, troppo timidi e incompleti, per colpa soprattutto delle mitica “Curia romana”. Sorgevano “profeti” che annunziavano prossimo il “Concilio Vaticano III”, che avrebbe dovuto completare il Vaticano II, ipotizzando forme nuove di vita cristiana e sacerdotale.

Nell’autunno 1967, inizia in Italia e in Occidente il “Sessantotto”, un miscuglio di grandi ideali (la pace e la giustizia nel mondo), di utopie spesso assurde (l’uguaglianza assoluta fra gli uomini e fra uomo e donna, il disarmo totale) e di comportamenti spesso violenti, che manifestavano la profonda insoddisfazione per la nostra società occidentale. Era una protesta generalizzata di giovani, specialmente studenti, contro la società in cui vivevano, bloccata dai “poteri forti” e dai detentori del potere, i “baroni” delle cattedre, i “padroni” delle industrie e tutte le autorità. Lo spirito sessantottino si è infiltrato anche nella Chiesa cattolica. A molti sembrava un movimento provvidenziale per il bene della politica, della società e della Chiesa.

Nascevano comunità di credenti, con i loro sacerdoti, che vivevano “secondo lo spirito del Concilio”, ma non obbedivano al vescovo ed erano motivo di divisione e di scandalo, amplificato dai mass media. Diminuiva la pratica religiosa, non pochi sacerdoti abbandonavano il sacerdozio, per sperimentare “un modo nuovo di essere prete”. Erano tempi di grande confusione, dubbi, incertezze: iniziava il periodo di crisi della fede e della vita cristiana di cui siamo ancor oggi spettatori addolorati.

Una certa teologia disincarnata dalla realtà minava le fondamenta dell'ideale missionario, come inteso dal Vaticano II. Si proclamavano come verità proposte che avevano qualcosa di autentico, ma diventavano, assolutizzandole, nefaste per la missione alle genti. Ad esempio:

Le giovani Chiese debbono annunziare Cristo ai loro popoli, i missionari sono superflui; nasceva una campagna di stampa per il “moratorium” delle missioni in Africa (ritirare tutti i missionari stranieri), per lasciar libere le Chiese locali. I non cristiani sono anche in Italia, la missione alle genti è qui da noi. Manchiamo di sacerdoti in Italia, perché voi missionari andate a portare Cristo in altri continenti, quando lo stiamo perdendo noi italiani? Non è importante che i popoli si convertano a Cristo, purché prendano il messaggio di amore e di pace del Vangelo. Ogni religione ha i suoi valori e tutte portano a Dio, che senso ha il “proselitismo” missionario in popoli di altre religione? Basta conversioni. Facciamo che il cristiano sia un miglior cristiano, il musulmano un miglior musulmano, un buddhista un miglior buddhista…

Il Papa martire del 1900: Paolo VI

Paolo VI era il Papa del Concilio, aveva portato avanti con grande saggezza e chiuso bene, con voti quasi unanimi dei 2.500 Padre conciliari, un evento straordinario che apriva orizzonti nuovi alla Chiesa. Uomo colto, mite, umile, che aveva capito i tempi moderni, comunicava in modo comprensibile a tutti (si leggano le sue encicliche!) e con la sua prima enciclica Ecclesiae Sanctae (1964) indicava il dialogo col mondo (dare e ricevere) come metodo di annunzio del Vangelo nei tempi moderni. Eppure, all’inizio degli anni Settanta, dopo le contestazioni violente e sprezzanti (da parte di cattolici) seguite alla Humanae Vitae (1968), che l’avevano ferito nel vivo, di fronte al marasma di quei tempi era intimidito, si sentiva mancare le forze per reagire e riportare il gregge di Cristo a vivere secondo gli orientamenti dati dal Vaticano II. E anche la Chiesa italiana, dialogante e divisa, non aiutava certo Paolo VI. Era orientata verso “il senso religioso”, mentre la società e la cultura italiana erano arate, seminate e devastate dai prepotenti e spesso violenti metodi e ideologie sessantottini. Il messianismo della rivolta studentesca sembrava dare vigore ai fermenti post-conciliari, che interpretavano il Concilio come una rottura con la Tradizione ecclesiale e una rivoluzione totale della Chiesa e della vita cristiana.

Tanto più che non pochi intellettuali e teologi, associazioni e gruppi ecclesiali, seguivano la travolgente onda culturale che portava verso il laicismo, il relativismo, l’individualismo (i “diritti individuali” ma non i “doveri”), la lettura “scientifica” della società (cioè il marxismo). Nessuno più osava dire forte e chiaro che un “mondo nuovo” è possibile, ma solo a partire da Cristo. Paolo VI lo diceva, lo ripeteva, lo proclamava ad alta voce (si vedano i numeri 26, 28, 31 della Octogesima adveniens, 1971 sul socialismo), ma era ascoltato solo dai semplici credenti e da coloro che, nelle mischie dei talk show, erano definiti “papalini” in senso negativo.

La crisi dell’ideale missionario nell’Occidente cristiano è nata nella crisi di fede che squassava la Chiesa intera. Ha preso tutti alla sprovvista e ha diviso le forze missionarie (istituti missionari, riviste, animazione missionaria, ecc.). Un esempio significativo (ne ricordo tanti!). Nell'estate 1968, come già diverse volte in precedenza, ho partecipato alla Settimana di Studi missionari a Lovanio ("Liberté des Jeunes Eglises"), organizzata dall'indimenticabile amico gesuita padre Joseph Masson, docente di Missiologia della Gregoriana. Diverse voci non di missionari sul campo, ma di studiosi, teologi, missiologi mi ferivano, perché esprimevano forti dubbi sul mandare missionari europei in altri continenti; molto meglio, si diceva, lasciare che le giovani Chiese raggiungano una loro maturità e si organizzino secondo le loro idee e culture. Ho protestato contro questa ipotesi perché avevo seguito dal di dentro il Vaticano II e testimoniavo che la totalità dei vescovi delle missioni si erano espressi in modo radicalmente opposto, chiedendo nuovi missionari. Anzi, con l’indipendenza dei loro paesi, sentivano la necessità di avere più forti legami con la sede di Pietro e le Chiese cattoliche antiche. È solo un esempio della mentalità che si era infiltrata e diffusa nella Chiesa in quel tempo post-conciliare.

La crisi della “missio ad gentes”, e quindi dell'animazione missionaria (e delle riviste e libri missionari), si è manifestata anche nella chiusura delle tre "Settimane di studi missionari" che si tenevano a Milano dal 1960 (esperienza chiusa nel 1969), a Burgos (1970) e a Lovanio (1975), che venivano da una lunga tradizione (a Lovanio dagli anni venti), per i forti contrasti e divisioni fra i teologi e gli specialisti delle missioni.




[Modificato da Caterina63 18/10/2014 12:34]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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02/10/2014 23:55
 
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Anticipiamo la prefazione del cardinale arcivescovo di Manila al volume della Emi di cui a pagina 6 offriamo in anteprima uno stralcio.

Ripercorrere i viaggi di Paolo VI — come questo libro propone — per me significa riandare con la memoria a un giorno ben preciso della mia vita.

Avevo tredici anni quando papa Montini venne nel mio paese. In quella fine di novembre del 1970 le Filippine si stavano rimettendo in piedi dopo un tifone. La visita del Papa offriva ai filippini un orizzonte luminoso verso cui guardare.

La comunità parrocchiale, la scuola, la famiglia, i mass media locali mi tenevano tutti costantemente aggiornato sull’evento che si stava avvicinando e facevano crescere in me le aspettative. Noi giovani di allora guardavamo ai preti con grande rispetto. Tremavamo con reverenza davanti a un vescovo. Mi chiedevo come mi sarei sentito trovandomi davanti il Papa! Quale emozione o quale esperienza avrebbe suscitato in me la sua presenza?

Il giorno dell’arrivo, la nostra scuola ci aveva portato ai bordi della strada da cui sarebbe passato Paolo VI giungendo a Manila dall’aeroporto. Eravamo lì ad accoglierlo sventolando le bandierine. La nostra eccitazione raggiunse il culmine quando sentimmo la sirena che anticipava l’arrivo della scorta papale. Tirando bene la schiena e il collo sgranai gli occhi per riuscire a vedere direttamente il Papa quando la sua auto sarebbe passata davanti a noi. E alla fine arrivò: un uomo vestito di bianco, un volto che irradiava pace, gioia e serenità. Vidi questa serenità. La avvertii profondamente. Ma a quel punto lui era passato. E noi tornammo a casa.

I giorni successivi furono pieni di immagini di Paolo VI rilanciate dai mezzi di comunicazione sociale. Rimasi particolarmente colpito dalla sua visita a una comunità di poveri nel distretto di Tondo, a Manila. Entrò nella baracca di una famiglia e si mescolò con persone che di solito erano rigorosamente tenute fuori dalla vista e dalla portata dei dignitari che facevano tappa nelle Filippine. Mi meravigliai anche al vedere come il Papa fosse in grado di radunare una moltitudine di persone, specialmente durante le messe e il rito dell’ordinazione di alcuni nuovi sacerdoti.

La visione di questi eventi mi fecero gustare nel Papa la presenza di Cristo, il pastore che raduna il suo gregge.

Piu tardi sarebbe arrivato il 1985, l’anno in cui mi recai alla Catholic University of America a Washington per perfezionare i miei studi in teologia. Desiderando approfondire il rinnovamento portato dal Vaticano ii, accettai la proposta avanzata dal responsabile della mia licenza e del mio dottorato di studiare il Concilio dal punto di vista di Paolo VI. Scrissi la mia tesi di licenza sul Piano per il Concilio tratteggiato dall’allora cardinale Giovanni Battista Montini. La mia dissertazione per il dottorato si concentrò in seguito sulla collegialità episcopale nel magistero e nell’azione di Papa Paolo VI. Era arrivato il mio turno di «viaggiare» nella grande mente, nel cuore e nell’anima di questo servo di Dio che ha guidato la chiesa in un momento decisivo della sua storia.

Quando avevo tredici anni non avrei mai immaginato che quello sguardo fugace lanciato a Papa Montini sarebbe stato l’inizio di una vita in cammino al servizio della Chiesa, in spirito di comunione e di dialogo. Un cammino in cui oggi mi lascio accompagnare volentieri dal beato Paolo VI.

di Luis Antonio Gokim Tagle

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Una vita umana. Paolo VI, dalla polvere all’altare

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A pochi giorni dalla sua beatificazione, omaggio ad un Papa che aveva tanto da dire al mondo e che non fu compreso. Molti lo detestarono per essere stato il Papa dell’Humanae Vitae: per lo stesso motivo oggi sentiamo di ringraziarlo, insieme alla Chiesa e all’umanità. Un ritratto

 

 

ciramidi Claudia Cirami

Per capacità di dialogo, abilità diplomatica, sensibilità moderna, non c’era nessuno più adatto di Giovanni Battista Montini a diventare Papa. Il papato era nelle sue corde fin da quando muoveva i suoi primi passi per i corridoi della Curia Romana. Con quella capacità immediata di farsi benvolere dai precedenti Pontefici, la naturale predisposizione ai rapporti umani, l’intelligenza di capire quando parlare e quando tacere, sembrava fosse nato per ruoli chiave nella Chiesa e che niente, neppure il pontificato, potesse essergli precluso. Eppure, quando salì al soglio pontificio, Paolo VI non si fece particolarmente amare dalle opposte fazioni del cattolicesimo, progressista e tradizionalista, e non riuscì ad imprimersi nell’immaginario comune del popolo cattolico. Qualche anno fa, il programma La Grande Storia di Rai Tre gli dedicò una puntata dal titolo eloquente: Il Papa dimenticato. Perché accadde?

Sarà adatto a reggere la Barca di Cristo?

dina_bellotti,_paolo_viIn realtà, se leggiamo la cronaca del Conclave in cui fu eletto[1], pare che ci fosse più di qualche dubbio su di lui già prima della sua elezione. Di certo, Giovanni XXIII lo avrebbe voluto come successore e questo fatto, alla fine, ebbe un suo peso. Il Conclave, però, si spaccò sulla sua candidatura e si formarono due blocchi contrapposti, con i cardinali curiali che gli fecero grande opposizione.

Fu, però, proprio un cardinale di Curia, Testa, che gli aprì la strada al soglio, rompendo il protocollo rigido del Conclave con un discorso che invitava i cardinali a ricomporre la spaccatura per il bene della Chiesa. Eppure, quello stesso cardinale, convinto a procedere così su suggerimento di mons. Dell’Acqua, pare abbia detto: «aderisco per rispetto a Dell’Acqua, non perché convinto». Gli sembrava infatti che Montini fosse «incerto, dubbioso, perciò inadatto a reggere il timone» della Barca di Cristo. E si sa che questa ha bisogno di una guida salda e sicura. Ad ogni modo, il Conclave alla fine si ricompose sul suo nome e Giovanni Battista Montini divenne Paolo VI.

Paolo: quel nome che pesa.

"Quegli occhi azzurri e vitrei di Paolo, che quando volevano una cosa la voleva e basta..."

“Quegli occhi azzurri e vitrei di Paolo, che quando volevano una cosa la voleva e basta…”

«Scegliendo il nome dell’Apostolo più consapevole della sua piccolezza e della sua divina elezione, Paolo VI ha accettato sopra di sé e sopra il suo pontificato il peso di trepidazione e di lacerazione continua che questa duplice e simultanea coscienza comporta»[2]. La conciliazione di questa “duplice e simultanea coscienza” non fu semplice e, in realtà, non avvenne mai. Paolo VI risentì, forse più di altri, della consapevolezza della propria fragilità rispetto al grande compito che gli era stato affidato.

Se Paolo, l’Apostolo delle Genti, era riuscito a trasformare in propulsiva forza evangelizzatrice la sua debolezza e in un benefica coscienza di sé quell’essere scelto personalmente dal Risorto, Paolo VI, invece, sembrò spesso emotivamente sopraffatto da un peso che sapeva superiore alle sue forze, non tanto o non solo fisiche. Lo sguardo sovente malinconico, il sorriso disilluso, l’andatura che, man mano, si fece più incerta tradivano la coscienza dolente di quella “croce” che egli sentiva di portare.

La coscienza della morte imminente

Il giovane Montini,1920 circa, in un ritratto attribuito a Giacomo Balla

Il giovane Montini,1920 circa, in un ritratto attribuito a Giacomo Balla

Il filosofo e accademico francese Jean Guitton, che lo conosceva bene per una lunga frequentazione amichevole, fornisce una spiegazione supplementare di questa sua “dolenza” interiore[3]. A causa di alcuni problemi di salute avuti sin da bambino, Giovanni Battista Montini «serbò per tutta la vita il sentimento della fragilità della propria esistenza, del proprio tempo posto sotto la minaccia della fine, della possibilità di essere interrotto senza preavviso… Non aveva avuto bisogno di meditazione per rendere efficace il pensiero della morte, che trasforma la nostra percezione del tempo. Sono ancora convinto che molti atti che hanno sorpreso il pubblico si spieghino con questa precoce esperienza della morte… Quando ci si accomiatava da lui, salutava come se fosse l’ultima volta che ci si vedeva: ‘Diamoci un arrivederci escatologico’».

I “molti atti” danno la misura del tipo di coscienza della fine maturata in lui: Paolo VI non era un uomo che attendeva la morte, impiegando il suo tempo nell’indolenza. Al contrario, la coscienza di essere in un certo qual senso “atteso dalla morte” gli imponeva di conservare una serenità interiore e di essere vigile per farsi trovare evangelicamente impegnato quando il Signore lo avesse chiamato a sé.

Radicato in Cristo

Sapeva anche sorridere, ma i più lo hanno dimenticato.

Sapeva anche sorridere, ma i più lo hanno dimenticato.

La “croce” del pontificato, dunque, seppur pesante, non lo schiacciò. Forse i più lo hanno dimenticato, ma Papa Montini scrisse un esortazione apostolica sulla gioia, laGaudete in Domino, nel 1975, tre anni prima della sua morte: quasi alla fine, dunque, di un pontificato difficile, pieno di insidie e di ostacoli, di delusioni e di amarezze.

Compreso nella sua missione.

Compreso nella sua missione.

Nell’introduzione, usando il plurale maiestatis, scrive di aver sentito «la felice necessità interiore di indirizzarvi, nel corso di questo Anno di grazia, e molto opportunamente in occasione della Pentecoste, una Esortazione Apostolica il cui tema è, precisamente, la gioia cristiana, la gioia nello Spirito Santo. È come una specie di inno alla gioia divina, che noi vorremmo intonare per suscitare un’eco nel mondo intero e anzitutto nella Chiesa»[4].

La sua serenità dipendeva dal forte radicamento in Cristo. In un profilo biografico, leggiamo che la sua spiritualità era «cristocentrica, e questo divenne un elemento fondamentale anche della concezione del ministero papale. Nel discorso del 29 settembre 1963, in apertura del secondo periodo del concilio, egli si compiacque di raffigurarsi come il suo predecessore Onorio III, che nel mosaico absidale della basilica di san Paolo fuori le Mura “piccolo e quasi annichilito per terra, bacia il piede di Cristo, dalle dimensioni gigantesche…”[5]».

Tra due giganti in umanità, anche un “esperto” soccombe

Con il futuro San Giovanni Paolo II.

Con il futuro San Giovanni Paolo II.

Eppure quest’esortazione non è bastata a riabilitare la sua immagine presso la maggior parte dei fedeli. E’ sorprendente, per certi versi, come persino nella biografia ufficiale[6] sul sito della Santa Sede, in lingua inglese, si faccia cenno all’impopolarità di Paolo VI, con queste parole: «his public image suffered by comparison with his outgoing and jovial predecessor». Chi ha redatto la biografia, in poche parole, ammette che Paolo VI fu come schiacciato dal paragone con la figura di Giovanni XXIII.

Né giovò certo alla sua memoria il fatto che – dopo la brevissima parentesi di Giovanni Paolo I – il suo vero successore fu un uomo carismatico, un leader nato, quale era Giovanni Paolo II. Come compresso tra questi due giganti in umanità, lui, che pure di umanità, insieme alla Chiesa, si definiva “esperto”, soffrì la sorte di non essere considerato incisivo tra la gente. Suona perciò triste la precisazione che subito dopo leggiamo nella stessa biografia: «Coloro che lo conobbero meglio, ad ogni modo, lo descrivono come un uomo brillante, profondo spiritualmente, umile, riservato e gentile, un uomo di “infinita cortesia”» (n.d.T.). La mancanza di un carisma come quello di san Giovanni Paolo II impedì ai più di conoscere queste notevoli doti.

Il Concilio diede il primo colpo…

PaoloVI_zpsca369ab0Per quanto, tuttavia, l’umanità di Paolo VI non riuscisse a riscaldare i cuori, come con altri Papi, occorre dire che fu anche un altro il motivo per cui non riuscì a “bucare”. Ebbe un compito ingrato, in fondo: quello di essere pontefice in anni complessi, dove, all’improvviso, tutte le aperture apparvero plausibili, tutte le strade percorribili, tutti i ponti realizzabili. Non fu così, però. E il primo responsabile della mancata realizzazione di una “nuova chiesa” fu considerato Paolo VI, che s’era trovato a traghettare il Concilio Vaticano II fino alla sua conclusione. Di contro, però, nemmeno tutto il mondo tradizionalista lo amò: ancora adesso da parte di alcuni gli viene rimproverato un modo di fare troppo “dialogante” con il mondo e molti dei disastri post-conciliari sono attribuiti alla sua direzione incerta.

Papa Montini, però, non assecondò lo spirito mondano che voleva impadronirsi del Concilio e che, purtroppo, pur non riuscendoci, provocò una serie di danni. Così il post-Concilio divenne per lui un’altra tappa del «martirio montiniano… il suo fu un lavoro estenuante di intelletto e di cuore: uno sfinimento di elaborazioni per fronteggiare le correnti opposte e avverse alla Chiesa, di un mondo moderno legato alla materia e lontano dallo spirito, che al posto di Dio metteva l’uomo, in un antropocentrismo esasperato»[7].

… l’Humanae Vitae quello di grazia.

Sul trono di spine

Sul trono di spine

Fu soprattutto l’Humanae Vitae, però, a decretare la fine delle simpatie mondane e progressiste nei confronti di Papa Montini. Pubblicata nel 1968, l’enciclica, che passerà alla storia come il no della Chiesa alla contraccezione – in realtà molto più profonda e luminosa di quanto non dica questa triste etichetta – isolò sempre di più il Papa. Non entriamo qui nel merito dell’argomento trattato: sappiamo solo che quel documento, che ha permesso alla Chiesa, negli anni del postConcilio, di mantenere salda la bussola nell’ambito delle questioni morali relative alla sessualità, si rivelò una vera prova per Papa Paolo VI.

Solo per arrivare ad annusare il clima,ecco una sintesi efficace di ciò che accadde subito dopo la pubblicazione dell’enciclica: «Il mondo rimase sbigottito. In quello cattolico scoppiò la rivolta. Parroci, congregazioni, episcopati criticarono l’enciclica e il suo autore. Negli Stati Uniti i teologi la definirono “ridicola”… Il New York Times scrisse: “È tragicamente ironico che questo papa possa essere ricordato per una enciclica che può servire a rafforzare i due mali della guerra e della miseria”. Più duri ancora gli attacchi olandesi, tedeschi, belgi… Un giornale inglese arrivò a dire che “l’Humane Vitae è il Vietnam di Paolo VI”»[8].

Papa fino al Tribunale dell’Eterno

"Sono vecchio, sono stanco: ma sono Pietro". Congedo di un pontificato già "dimenticato"

“Sono vecchio, sono stanco: ma sono Pietro”.
Congedo di un pontificato già “dimenticato”

Gli ultimi anni del suo pontificato non conobbero una ripresa di consensi, nonostante il grande sforzo di Paolo VI di continuare a guidare la Chiesa, andando oltre le amarezze. «Io passo da urgenza a urgenza. Non ho mai un momento di tregua, di riposo. E questo durerà fino alla morte. Non vorrei ammalarmi come i miei predecessori. Nessuno può capire che non ho altro avvenire che l’eternità, cioè il giudizio[9]». Così Paolo VI confidava a Jean Guitton. In questa confidenza, è racchiuso il senso del ruolo papale così come egli lo percepiva: un cammino irto d’ostacoli, da percorrere in fretta, e l’attesa di un riposo che, tuttavia, sarebbe coinciso con il presentarsi davanti al Tribunale dell’Eterno.

La sua visione del papato è stata drammatica, ma al tempo stesso capace di tenerlo inchiodato al soglio pontificio fino alla fine, consapevole che l’Unico che avrebbe potuto porre un termine alla sua fatica sarebbe stato anche Colui che lo avrebbe giudicato. La morte lo colse il 6 Agosto del 1978. Nella festa del Cristo trasfigurato nella gloria, il Papa avrà finalmente disteso il passo non più malfermo e il suo sorriso, ora libero dalla malinconia, si sarà schiuso alla gioia che non conosce tramonto.

 Death of Pope Paul VI

 

 

[1] G. Zizola, Quale Papa?, Borla, Roma 1977, pp.160-171

[2] AA.VV., Il Vaticano II nella parola di Giovanni e Paolo, introduzione, Vallecchi 1967

[3] J. Guitton, Paolo VI segreto, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1985, p.33

[5] A. Acerbi, Il pontificato di Paolo VI, in (a cura di) M. Greschat – E. Guerriero, Storia dei Papi, p.899.

[6] http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/biography/documents/hf_p-vi_bio_16071997_biography_en.html

[7] C. Siccardi, Paolo VI. Il Papa della luce, Edizioni Paoline, Milano 2008, pp. 8-9.

[8] L. Bazzoli, Papa Paolo VI. Tormento e grandezza di un’anima, Rizzoli, Milano 1978, p.90

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[Modificato da Caterina63 06/10/2014 11:11]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    Riabilitiamo l’enciclica Humanae Vitae del neo beato Paolo VI 

 

Mentre ci avviciniamo alla beatificazione di Paolo VI (19 ottobre 2014), vogliamo approfondire alcuni punti della sua ultima enciclica e tanto discussa, talmente tanto che non temiamo smentite se diciamo che la maggior parte di coloro che la criticano non l’hanno mai letta.

L’attacco all’Humanae Vitae infatti, non partì da un dibattito sul testo, ma per partito preso quando si seppe che Paolo VI aveva deciso di non appoggiare quella parte della Commissione (istituita a riguardo) e che sosteneva moralmente lecita la contraccezione, aprendo le porte, inesorabilmente, alla limitazione delle nascite – con la scusa della “bomba demografica” – e a relegare il matrimonio non più al valore della vita, ma esclusivamente ai rapporti sensitivi dei coniugi.

Ci rallegriamo che, nel momento in cui scriviamo, la Francia riabilitava l’enciclica (1).

Giovanni Paolo II ha dedicato in difesa del magistero di Paolo VI – per altro in perfetta continuità con quelli di Pio XI, sancito nell’enciclica Casti Connubi, e del venerabile Pio XII nei suoi discorsi agli sposi novelli – l’Evangelium Vitae; Benedetto XVI ha fatto ben quarant’otto interventi ufficiali in difesa della vita umana e, tra i più imponenti che vogliamo riportare è quello per il 40° dell’Enciclica, che per l’occasione fu fatto proprio un Congresso internazionale ed ufficiale. (2)

Così si espresse allora Benedetto XVI:

«La possibilità di procreare una nuova vita umana è inclusa nell’integrale donazione dei coniugi. Se, infatti, ogni forma d’amore tende a diffondere la pienezza di cui vive, l’amore coniugale ha un modo proprio di comunicarsi: generare dei figli. Così esso non solo assomiglia, ma partecipa all’amore di Dio, che vuole comunicarsi chiamando alla vita le persone umane.

Escludere questa dimensione comunicativa mediante un’azione che miri ad impedire la procreazione significa negare la verità intima dell’amore sponsale, con cui si comunica il dono divino: “se non si vuole esporre all’arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato sia rivestito di autorità, è lecito infrangere” (Humanae vitae17).

È questo il nucleo essenziale dell’insegnamento che il mio venerato predecessore Paolo VI rivolse ai coniugi e che il Servo di Dio Giovanni Paolo II, a sua volta, ha ribadito in molte occasioni, illuminandone il fondamento antropologico e morale.

A distanza di 40 anni dalla pubblicazione dell’Enciclica possiamo capire meglio quanto questa luce sia decisiva per comprendere il grande “sì” che implica l’amore coniugale. In questa luce, i figli non sono più l’obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come un autentico dono, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio, sorgente prima della vita umana. Questo grande “sì” alla bellezza dell’amore comporta certamente la gratitudine, sia dei genitori nel ricevere il dono di un figlio, sia del figlio stesso nel sapere che la sua vita ha origine da un amore così grande e accogliente».

Ripetiamo:

«Se non si vuole esporre all’arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato sia rivestito di autorità, è lecito infrangere» (Humanae vitae17).

 

Già il 13 maggio del 2006 così si esprimeva Benedetto XVI nel suo primo anno di Pontificato:

«L’enciclica Humanae vitae ribadisce con chiarezza che la procreazione umana dev'essere sempre frutto dell'atto coniugale, con il suo duplice significato unitivo e procreativo (cfr n. 12). Lo esige la grandezza dell'amore coniugale secondo il progetto divino, come ho ricordato nell’enciclica Deus caritas est: “L’eros degradato a puro ‘sesso’ diventa merce, una semplice ‘cosa’ che si può comprare e vendere, anzi, l’uomo stesso diventa merce... In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano”. Grazie a Dio, non pochi, specialmente tra i giovani, vanno riscoprendo il valore della castità, che appare sempre più come sicura garanzia dell’amore autentico. Il momento storico che stiamo vivendo chiede alle famiglie cristiane di testimoniare con coraggiosa coerenza che la procreazione è frutto dell’amore. Una simile testimonianza non mancherà di stimolare i politici e i legislatori a salvaguardare i diritti della famiglia»

Lo stesso Giovanni Paolo II non volle far passare sotto silenzio il XX° anno dell’Enciclica. In un incontro specifico all’Anniversario (3), così si esprimeva:

«Nell’allocuzione del mercoledì successivo alla pubblicazione dell’enciclica lo stesso Paolo VI confidò ai fedeli i sentimenti che l’avevano guidato nell’adempimento del suo mandato apostolico. Diceva: “Il primo sentimento è stato quello d’una nostra gravissima responsabilità. Esso ci ha introdotto e sostenuto nel vivo della questione durante i quattro anni dovuti allo studio e alla elaborazione di questa enciclica. Vi confideremo che tale sentimento ci ha fatto anche non poco soffrire spiritualmente. Non mai abbiamo sentito come in questa congiuntura il peso del nostro ufficio. Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo, e abbiamo anche molto pregato. (…) Abbiamo riflettuti sugli elementi stabili della dottrina tradizionale e vigente della Chiesa, specialmente poi sopra gli insegnamenti del recente Concilio, abbiamo ponderato le conseguenze dell’una o dell’altra decisione, e non abbiamo avuto dubbio sul nostro dovere di pronunciare la nostra sentenza nei termini espressi dalla presente enciclica».

«D’altra parte Paolo VI – continua Giovanni Paolo II – nutrì sempre una profonda fiducia nella capacità degli uomini d’oggi di accogliere e di comprendere la dottrina della Chiesa sul principio della “connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo” (Humanae Vitae, 12). “Noi pensiamo – egli scriveva – che gli uomini nel nostro tempo sono particolarmente in grado di affermare il carattere profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale principio» (Humanae Vitae, 12).

In realtà, gli anni successivi all’enciclica, nonostante il persistere di critiche ingiustificate e di silenzi inaccettabili, hanno potuto mostrare con crescente chiarezza come il documento di Paolo VI fosse non solo sempre di viva attualità, ma persino ricco di un significato profetico. Una testimonianza di particolare valore è stata offerta dai vescovi nel Sinodo del 1980, che così scrivevano nella “Propositio 22”: “Questo sacro Sinodo, riunito nell’unità della fede col successore di Pietro, fermamente tiene ciò che nel Concilio Vaticano II (cf. Gaudium et Spes, 50) e, in seguito, nell’enciclica Humanae Vitae viene proposto, e in particolare che l’amore coniugale deve essere pienamente umano, esclusivo e aperto alla nuova vita” (Humanae Vitae, 11 et cf. 9 et 12). 

Io stesso poi nell’esortazione post-sinodale Familiaris Consortio ho riproposto, nel più ampio contesto della vocazione e della missione della famiglia, la prospettiva antropologica e morale della Humanae Vitae sulla trasmissione della vita umana (cf. Humanae Vitae, 28-35). Così come ho dedicato, durante le udienze del mercoledì, le ultime catechesi sull’amore umano nel piano divino a confermare e ad illuminare il principio etico fondamentale dell’enciclica di Paolo VI circa la connessione inscindibile dei significati unitivo e procreativo dell’atto coniugale, interpretato alla luce del significato sponsale del corpo umano. (...) Senza dubbio si devono riconoscere le molteplici e talvolta gravi difficoltà che in questo campo i sacerdoti e le coppie incontrano, gli uni nell’annunciare la verità intera sull’amore coniugale e le altre nel viverla. D’altra parte le difficoltà a livello morale sono il frutto e il segno di altre difficoltà più gravi che toccano i valori essenziali del matrimonio quale “intima comunità di vita e di amore coniugale” (Gaudium et Spes, 48).

La perdita di stima nei riguardi del figlio come “preziosissimo dono del matrimonio” (Gaudium et Spes, 50) e persino il rifiuto categorico di trasmettere la vita, talvolta per una malintesa concezione della procreazione responsabile, e la interpretazione del tutto soggettiva e relativistica dell’amore coniugale, spesso così diffusi nella nostra società e nella nostra cultura, sono il segno evidente dell’attuale crisi matrimoniale e familiare. Alle radici della «crisi», la esortazione Familiaris Consortio ha individuato una corruzione dell’idea e della prassi della libertà, che viene “concepita non come la capacità di realizzare la verità del progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia, ma come autonoma forza di affermazione, non di rado contro gli altri, per il proprio egoistico benessere” (Familiaris Consortio, 6). 

Più radicalmente ancora è da rilevarsi una visione immanentistica e secolaristica del matrimonio, dei suoi valori e delle sue esigenze: il rifiuto di riconoscere la sorgente divina, da cui derivano l’amore e la fecondità degli sposi, espone il matrimonio e la famiglia a dissolversi anche come esperienza umana. (...) Dio vuole che ogni famiglia diventi in Gesù Cristo una “Chiesa domestica” (cf. Lumen Gentium, 11): da questa “Chiesa in miniatura”, come ama spesso chiamare la famiglia san Giovanni Crisostomo (cf. ex. gr., S. Ioannis Chrysostomi “In Genesim”, Serm. VI, 2; VII, 1), dipende per la maggior parte il futuro della Chiesa e della sua missione evangelizzatrice. 

Anche l’avvenire d’una società più umana, perché ispirata e sostenuta dalla civiltà dell’amore e della vita, dipende in gran parte dalla «qualità» morale e spirituale del matrimonio e della famiglia, dipende dalla loro «santità». Questo è il fine supremo dell’azione pastorale della Chiesa, di cui noi Vescovi siamo i primi responsabili. Il XX anniversario della Humanae Vitae ripropone a tutti noi questo fine con la medesima urgenza apostolica di Paolo VI, che concludeva la sua enciclica rivolgendosi ai fratelli nell’episcopato con queste parole: «Con i sacerdoti vostri cooperatori e i vostri fedeli, lavorate con ardore e senza sosta alla salvaguardia e alla santità del matrimonio, perché sia sempre più vissuto in tutta la sua pienezza umana e cristiana. Considerate questa missione come una delle vostre più urgenti responsabilità nel nostro presente» (Humanae Vitae, 30).

Nel far mie queste esortazioni .... vi offro la mia benedizione apostolica”.

 

Sia Giovanni Paolo II, canonizzato di recente, che Benedetto XVI hanno fatto proprie le esortazioni e la dottrina dell’Humanae Vitae di Paolo VI, il quale a breve sarà beatificato, e nulla ci fa pensare che il Pontefice regnante, Francesco, grande estimatore di Paolo VI come da lui affermato più volte, non debba fare altrettanto, lo speriamo... e ce lo auguriamo visti i molti interventi che egli stesso ha fatto in difesa della vita e citando molte volte in diverse occasioni la Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II che è la prosecuzione della Humanae Vitae.

Perdonateci le molte e lunghe citazioni ma il problema è questo: troppi anni e troppo tempo è stato sprecato alle mille interpretazioni dell’Enciclica, che si è finito con il perdere spesso il senso vero e reale del suo contenuto. Ci chiediamo seriamente chi e in quanti, specialmente nel clero, conoscono davvero il contenuto del Documento e soprattutto la chiave di lettura che ne hanno fatto i successori di Paolo VI.

Troviamo una interessante risposta al dialogo fra Jean Guitton e Paolo VI (e dallo stesso invitato al Vaticano II), osserva Guitton:

“Faccio presente al papa un’altra obiezione: quella dell’onanismo. L’esegeta, gli dico, si chiede se Onan è rimproverato per aver sparso il seme (ciò che ha dato origine al termine onanismo) o per non aver voluto suscitare una posterità sposando la cognata.

Paolo VI risponde:

«Noi abbiamo pensato che Onan è rimproverato non solo perché non aveva sposato la cognata secondo la legge (cfr Gn.38,9-10), ma anche per il mezzo scelto. Onan avrebbe potuto uccidere la cognata: avrebbe commesso un crimine nella scelta del mezzo. Ora, noi pensiamo che il procedimento seguito da Onan non è quello buono»(4)”.

Allora vi proponiamo la lettura integrale di un intervento di Giovanni Paolo II nel quale spiegava e riassumeva – e davvero in poche righe – tutto il cuore dell’Enciclica.

Abbiate l’umiltà e la pazienza di leggere il Magistero petrino in forma integrale anziché rincorrere – troppo spesso – ad articoli apparentemente affascinanti ma ingannevoli e sopratutto autoreferenziali...

«1. Riferendoci alla dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae, cercheremo di delineare ulteriormente la vita spirituale dei coniugi.

Eccone le grandi parole: “La Chiesa, mentre insegna le esigenze inviolabili della legge divina, annunzia la salvezza e apre con i sacramenti le vie della grazia, la quale fa dell’uomo una nuova creatura, capace di corrispondere nell’amore e nella vera libertà al disegno supremo del suo Creatore e Salvatore e di trovare dolce il giogo di Cristo. Gli sposi cristiani, dunque, docili alla sua voce, ricordino che la loro vocazione cristiana iniziata col Battesimo si è ulteriormente specificata e rafforzata col sacramento del matrimonio. 

Per esso i coniugi sono corroborati e quasi consacrati per l’adempimento fedele dei propri doveri, per l’attuazione della propria vocazione fino alla perfezione e per una testimonianza cristiana loro propria di fronte al mondo. Ad essi il Signore affida il compito di rendere visibile agli uomini la santità e la soavità della legge che unisce l’amore vicendevole degli sposi con la loro cooperazione all’amore di Dio autore della vita umana” (Pauli VI, Humanae Vitae, 25).

2. Mostrando il male morale dell’atto contraccettivo, e delineando al tempo stesso un quadro possibilmente integrale della pratica “onesta” della regolazione della fertilità, ossia della paternità e maternità responsabili, l’enciclica Humanae Vitae crea le premesse che consentono di tracciare le grandi linee della spiritualità cristiana della vocazione e della vita coniugale, e, parimente, di quella dei genitori e della famiglia. Si può anzi dire che l’enciclica presuppone l’intera tradizione di questa spiritualità, la quale affonda le radici nelle sorgenti bibliche, già in precedenza analizzate, offrendo l’occasione di riflettere nuovamente su di esse e di costruire un’adeguata sintesi. Conviene ricordare qui ciò ch’è stato detto sul rapporto organico tra la teologia del corpo e la pedagogia del corpo. Tale “teologia-pedagogia”, infatti, costituisce già di per se stessa il nucleo essenziale della spiritualità coniugale. E ciò è indicato anche dalle frasi sopraccitate dell’enciclica.

3. Certamente rileggerebbe ed interpreterebbe in modo erroneo l’enciclicaHumanae vitae colui che vedesse in essa soltanto la riduzione della “paternità e maternità responsabile” ai soli “ritmi biologici di fecondità”. L’autore dell’enciclica energicamente disapprova e contraddice ogni forma di interpretazione riduttiva (e in tal senso “parziale”), e ripropone con insistenza l’intendimento integrale. La paternità-maternità responsabile, intesa integralmente, non è altro che un’importante componente di tutta la spiritualità coniugale e familiare, di quella vocazione cioè di cui parla il testo citato della Humanae Vitae, quando afferma che i coniugi debbono attuare la “propria vocazione fino alla perfezione” (Humanae Vitae, 25). È il sacramento del matrimonio che li corrobora e quasi consacra a raggiungerla (cf. Humanae Vitae, 25). Alla luce della dottrina, espressa nell’enciclica, conviene renderci maggiormente conto di quella “forza corroborante” che è unita alla “consacrazione sui generis” del sacramento del matrimonio. Poiché l’analisi della problematica etica del documento di Paolo VI era centrata soprattutto sulla giustezza della rispettiva norma, l’abbozzo della spiritualità coniugale, che vi si trova, intende porre in rilievo proprio queste “forze” che rendono possibile l’autentica testimonianza cristiana della vita coniugale.

4. “Non intendiamo affatto nascondere le difficoltà talvolta gravi inerenti alla vita dei coniugi cristiani: per essi, come per ognuno, "è stretta la porta e angusta la via che conduce alla vita" (cf. Mt 7, 14).

Ma la speranza di questa vita deve illuminare il loro cammino, mentre coraggiosamente si sforzano di vivere con saggezza, giustizia e pietà nel tempo presente, sapendo che la figura di questo mondo passa” (Humanae Vitae, 25). Nell’enciclica, la visione della vita coniugale è, ad ogni passo, contrassegnata da realismo cristiano, ed è proprio questo che giova maggiormente a raggiungere quelle “forze” che consentono di formare la spiritualità dei coniugi e dei genitori nello spirito di un’autentica pedagogia del cuore e del corpo. La stessa coscienza “della vita futura” apre, per così dire, un ampio orizzonte ai quelle forze che debbono guidarli per la via angusta (cf. Humanae Vitae, 25) e condurli per la porta stretta della vocazione evangelica. L’enciclica dice: “Affrontino quindi gli sposi i necessari sforzi, sorretti dalla fede e dalla speranza che ‘non delude, perché l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori con lo Spirito Santo, che ci è stato dato’” (Humanae Vitae, 25).

5. Ecco la “forza” essenziale e fondamentale: l’amore innestato nel cuore (“effuso nei cuori”) dallo Spirito Santo. In seguito l’enciclica indica come i coniugi debbano implorare tale “forza” essenziale e ogni altro “aiuto divino” con la preghiera; come debbano attingere la grazia e l’amore alla sorgente sempre viva dell’Eucaristia; come debbano superare “con umile perseveranza” le proprie mancanze e i propri peccati nel sacramento della Penitenza.

Questi sono i mezzi - infallibili e indispensabili - per formare la spiritualità cristiana della vita coniugale e familiare. Con essi quella essenziale e spiritualmente creativa “forza” d’amore giunge ai cuori umani e, nello stesso tempo, ai corpi umani nella loro soggettiva mascolinità e femminilità. Questo amore, infatti, consente di costruire tutta la convivenza dei coniugi secondo quella “verità del segno”, per mezzo della quale viene costruito il matrimonio nella sua dignità sacramentale, come rivela il punto centrale dell’enciclica (cf. Humanae Vitae, 12).  (...)  Carissimi, in questo mese di ottobre consacrato alla pia pratica del santo Rosario, non tralasciate, per quanto vi è possibile, di elevare la vostra mente alla beata Vergine con la recita del Rosario. Ella, la Madre di Dio e la Madre nostra, non mancherà di presentare le vostre invocazioni e le vostre sofferenze a Gesù, nostro Redentore e nostro conforto. Infine voglio ricordare gli sposi novelli. Volentieri vi esprimo i miei voti, raccomandandovi alla celeste protezione del Signore e della Madre sua e nostra Maria Ss.ma, sotto il cui patrocinio desidero porre la vostra nascente famiglia. Vi esorto ad onorarla ed invocarla soprattutto con la recita del Rosario in famiglia. Vi accompagni la mia Benedizione». (5) 

 

Sulla medesima Discussione vi invtiamo a soffermarvi sul nostro Dossier-MATROMONIO

Sia lodato Gesù Cristo.

Sempre sia lodato.

NOTE

1) la Francia riabilita l'Humanae Vitae, articolo da La Bussola Quotidiana, vedi qui

2) Humanae Vitae: attualità, profezia di un'enciclica 3-4 ottobre 2008, Discorso del Pontefice Benedetto XVI

3) San Giovanni Paolo II ai Rappresentanti Vescovi delle Conferenze episcopali, per il XX° Anniversario dell'Humanae Vitae il 7 novembre 1988

4) da: Paolo VI Segreto di J. Guitton, pag. 97-98

5) San Giovanni Paolo II Udienza generale mercoledì 3 ottobre 1984

   





 

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Paolo VI sull'Amore coniugale, dice: " L’amore coniugale rivela massimamente la sua vera natura e nobiltà quando è considerato nella sua sorgente suprema, Dio, che è "Amore", che è il Padre " da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome ". 
Il matrimonio non è quindi effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali: è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. 
Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite. Per i battezzati, poi, il matrimonio riveste la dignità di segno sacramentale della grazia, in quanto rappresenta l’unione di Cristo e della Chiesa" (Humanae Vitae n.8).







 
 
... che poi, diciamocelo onestamente - papalepapale: a cosa serve oggi canonizzare o beatificare un Papa se poi si gettano nel cestino i loro insegnamenti come, ad esempio, la Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II o come i mille moniti lanciati da Paolo VI contro chi voleva usare il Concilio per adattarsi alla mentalità del mondo?  
Sfogliamo la enciclicam del neo Beato - domani - Paolo VI la Ecclesiam Suam e scopriamo questo monito che sembra davvero quello più calpestato dalla frangia progressista del Sinodo di oggi, leggiamo e meditiamo. 














[Modificato da Caterina63 18/10/2014 10:41]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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MEDITAZIONI DI PAOLO VI


PENSIERO ALLA MORTE*


 


Tempus resolutionis meae instat. E' giunto il tempo di sciogliere le vele (2 Tim. 4,6).


« Certus quod velox est depositio tabernaculi mei ». Sono certo che presto dovrò Lasciare questa mia tenda (2 Petr. 1,14). « Finis venit, venit finis ». La fine! Giunge la fine (Ez. 2,7).


Questa ovvia considerazione sulla precarietà della vita temporale e sull'avvicinarsi inevitabile e sempre più prossimo della sua fine si impone: Non è saggia la cecità davanti a tale immancabile sorte, davanti alla disastrosa rovina che porta con sé, davanti alla misteriosa metamorfosi che sta per compiersi nell'essere mio, davanti a ciò che si prepara.


Vedo che la considerazione prevalente si fa estremamente personale: io, chi sono? che cosa resta di me? dove vado? e perciò estremamente morale: che cosa devo fare? quali sono le mie responsabilità? e vedo anche che rispetto alla vita presente è vano avere speranze; rispetto ad essa si hanno dei doveri e delle aspettative funzionali e momentanee; le speranze sono per l'al di là.


E vedo che questa suprema considerazione non può svolgersi in un monologo soggettivo, nel solito dramma umano che al crescere della luce fa crescere l'oscurità del destino umano; deve svolgersi a dialogo con la Realtà divina, donde vengo e dove certamente vado; secondo la lucerna che Cristo ci pone in mano per il grande passaggio. Credo, o Signore.


L'ora viene. Da qualche tempo ne ho il presentimento. Più ancora che la stanchezza fisica, pronta a cedere ad ogni momento, il dramma delle mie responsabilità sembra suggerire come soluzione provvidenziale il mio esodo da questo mondo, affinché la Provvidenza possa manifestarsi e trarre la Chiesa a migliori fortune. La Provvidenza ha, sì, tanti modi d'intervenire nel gioco formidabile delle circostanze, che stringono la mia pochezza; ma quello della mia chiamata all'altra vita pare ovvio, perché altri subentri più valido e non vincolato dalle presenti difficoltà. « Servus inutilis sum ». Sono un servo inutile.


« Ambulate dum lucem habetis ». Camminate finché avete la luce (Jo. 12,35).


Ecco: mi piacerebbe, terminando, d'essere nella luce. Di solito la fine della vita temporale, se non è oscurata da infermità, ha una sua fosca chiarezza: quella delle memorie, così belle, così attraenti, così nostalgiche, e così chiare ormai per denunciare il loro passato irricuperabile e per irridere al loro disperato richiamo. Vi è la luce che svela la delusione d'una vita fondata su beni effimeri e su speranze fallaci. Vi è quella di oscuri e ormai inefficaci rimorsi. Vi e quella della saggezza che finalmente intravede la vanità delle cose e il valore delle virtù che dovevano caratterizzare il corso della vita: « vanitas vanitatum ». Vanità della vanità.

Quanto a me vorrei avere finalmente una nozione riassuntiva e sapiente sul mondo e sulla vita: penso che tale nozione dovrebbe esprimersi in riconoscenza: tutto era dono, tutto era grazia; e com'era bello il panorama attraverso il quale si è passati; troppo bello, tanto che ci si è lasciati attrarre e incantare, mentre doveva apparire segno e invito.
Ma, in ogni modo, sembra che il congedo debba esprimersi in un grande e semplice atto di riconoscenza, anzi di gratitudine: questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente; un avvenimento degno d'essere cantato in gaudio, e in gloria: la vita, la vita dell'uomo! Né meno degno d'esaltazione e di felice stupore è il quadro che circonda la vita dell'uomo: questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità. E' un panorama incantevole. Pare prodigalità senza misura.
Assale, a questo sguardo quasi retrospettivo, il rammarico di non averlo ammirato abbastanza questo quadro, dì non aver osservato quanto meritavano le meraviglie della natura, le ricchezze sorprendenti del macrocosmo e del microcosmo.
Perché non ho studiato abbastanza, esplorato, ammirato la stanza nella quale la vita si svolge?

Quale imperdonabile distrazione, quale riprovevole superficialità! Tuttavia, almeno in extremis, si deve riconoscere che quel mondo, « qui per Ipsum factus est », che è stato fatto per mezzo di Lui, è stupendo. Ti saluto e ti celebro all'ultimo istante, sì, con immensa ammirazione; e, come si diceva, con gratitudine: tutto è dono; dietro la vita, dietro la natura, l'universo, sta la Sapienza; e poi, lo dirò in questo commiato luminoso, (Tu ce lo hai rivelato, o Cristo Signore) sta l'Amore!La scena del mondo è un disegno, oggi tuttora incomprensibile per la sua maggior parte, d'un Dio Creatore, che si chiama il Padre nostro che sta nei cieli! Grazie, o Dio, grazie e gloria a Te, o Padre! In questo ultimo sguardo mi accorgo che questa scena affascinante e misteriosa è un riverbero, è un riflesso della prima ed unica Luce; è una rivelazione naturale d'una straordinaria ricchezza e bellezza, la quale doveva essere una iniziazione, un preludio, un anticipo, un invito alla visione dell'invisibile Sole, « quem nemo vidit unquam », che nessuno ha mai visto (cfr. Jo. 1,18): « unigenitus Filius, qui est in sinu Patris, Ipse enarravit », il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato. Così sia, così sia.

Ma ora, in questo tramonto rivelatore un altro pensiero, oltre quello dell'ultima luce vespertina, presagio dell'eterna aurora, occupa il mio spirito: ed è l'ansia di profittare dell'undicesima ora, la fretta di fare qualche cosa di importante prima che sia troppo tardi. Come riparare le azioni mal fatte, come ricuperare il tempo perduto, come afferrare in quest'ultima possibilità di scelta « l'unum necessarium? », la sola cosa necessaria?

Alla gratitudine succede il pentimento. Al grido di gloria verso Dio Creatore e Padre succede il grido che invoca misericordia e perdono. Che almeno questo io sappia fare: invocare la Tua bontà, e confessare con la mia colpa la Tua infinita capacità di salvare. « Kyrie eleison; Christe eleison; Kyrie eleison». Signore pietà; Cristo pietà; Signore pietà.

Qui affiora alla memoria la povera storia della mia vita, intessuta, per un verso, dall'ordito di singolari e innumerevoli benefici, derivanti da un'ineffabile bontà (è questa che spero potrò un giorno vedere ed « in eterno cantare »); e, per l'altro, attraversata da una trama di misere azioni, che si preferirebbe non ricordare, tanto sono manchevoli, imperfette, sbagliate, insipienti, ridicole. « Tu scis insipientiam meam »: Dio, Tu conosci la mia stoltezza (Ps. 68,6). Povera vita stentata, gretta, meschina, tanto tanto bisognosa di pazienza, di riparazione, d'infinita misericordia. Sempre mi pare suprema la sintesi di S. Agostino: miseria et misericordia. Miseria mia, misericordia di Dio. Ch'io possa almeno ora onorare Chi Tu sei, il Dio d'infinita bontà, invocando, accettando, celebrando la Tua dolcissima misericordia.

E poi un atto, finalmente, di buona volontà: non più guardare indietro, ma fare volentieri, semplicemente, umilmente, fortemente il dovere risultante dalle circostanze in cui mi trovo, come Tua volontà.

Fare presto. Fare tutto. Fare bene. Fare lietamente: ciò che ora Tu vuoi da me, anche se supera immensamente le mie forze e se mi chiede la vita. Finalmente, a quest'ultima ora.

Curvo il capo ed alzo lo spirito. Umilio me stesso ed esalto Te, Dio, « la cui natura è bontà » (S. Leone). Lascia che in questa ultima veglia io renda omaggio, a Te, Dio vivo e vero, che domani sarai mio giudice, e che dia a Te la lode che più ambisci, il nome che preferisci: sei Padre. Poi io penso, qui davanti alla morte, maestra della filosofia della vita, che l'avvenimento fra tutti più grande fu per me, come lo è per quanti hanno pari fortuna, l'incontro con Cristo, la Vita. Tutto qui sarebbe da rimeditare con la chiarezza rivelatrice, che la lampada della morte dà a tale incontro. «Nihil enim nobis nasci profuit, nisi redimi profuisset ». A nulla infatti ci sarebbe valso il nascere se non ci avesse servito ad essere redenti. Questa è la scoperta del preconio pasquale, e questo è il criterio di valutazione d'ogni cosa riguardante l'umana esistenza ed il suo vero ed unico destino, che non si determina se non in ordine a Cristo: « o mira circa nós tuae pietatis dignatio! », o meravigliosa pietà del tuo amore per noi! Meraviglia delle meraviglie, il mistero della nostra vita in Cristo. Qui la fede, qui la speranza, qui l'amore cantano la nascita e celebrano le esequie dell'uomo. Io credo, io spero, io amo, nel nome Tuo, o Signore.

E poi ancora mi domando: perchè hai chiamato me, perché mi hai scelto? così inetto, così renitente, così povero di mente e di cuore? Lo so: « quae stulta sunt mundi elegit Deus... ut non glorietur omnis caro in conspectu eius ». Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio (1 Cor 1, 27-28).

La mia elezione indica due cose: la mia pochezza; la Tua libertà, misericordiosa e potente. La quale non si è fermata nemmeno davanti alle mie infedeltà, alla mia miseria, alla mia capacità di tradirTi: «Deus meus, Deus meus, audebo dicere... in quodam aestasis tripudio de Te praesumendo dicam: nisi quia Deus es, iniustus esser, quia peccavimus graviter... et Tu placatus es. Nos Te provocamus ad iram, Tu autem conducis nos ad misericordiam ». Mio Dio, mio Dio, oserò dire... in un estatico tripudio di Te dirò con presunzione: se non fossi Dio, saresti ingiusto, poiché abbiamo peccato gravemente... e Tu Ti plachi. Noi Ti provochiamo all'ira, e Tu invece ci conduci alla misericordia! (PL. 40, 1150).

Ed eccomi al Tuo servizio, eccomi al Tuo amore. Eccomi in uno stato di sublimazione, che non mi consente più di ricadere nella mia psicologia istintiva di pover uomo, se non per ricordarmi la realtà del mio essere, e per reagire nella più sconfinata fiducia con la risposta, che da me è dovuta: « amen; fiat; Tu scis quia amo Te », così sia, così sia. Tu lo sai che ti voglio bene. Uno stato di tensione subentra, e fissa in un atto permanente di assoluta fedeltà la mia volontà di servizio per amore: « in finem dilexit », amò fino alla fine. « Ne permittas me separari a Te ». Non permettere che io mi separi da Te. Il tramonto della vita presente, che sognerebbe d'essere riposato e sereno, deve essere invece uno sforzo crescente di vigilia, di dedizione, di attesa. E' difficile; ma è così che la morte sigilla la meta del pellegrinaggio terreno, e fa ponte per il grande incontro con Cristo nella vita eterna. Raccolgo le ultime forze, e non recedo dal dono totale compiuto, pensando al Tuo: « consummatum est », tutto è compiuto... .

Ricordo il preannuncio fatto dal Signore a Pietro sulla morte dell'apostolo: « amen, amen dico tibi... cum... senueris, extendes manus tuas, et alius et cinget, et ducet quo tu non vis ». Hoc autem (Jesus) dixit significans qua morte(Petrus) clarificaturus esset Deum. Et, cum hoc dixisset, dicit et: « sequere me ». In verità, in verità ti dico... quando sarai vecchio, tenderai le tue mani, e un'altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: « Seguimi » (Jo. 21, 18-19).

Ti seguo; ed avverto che io non posso uscire nascostamente dalla scena di questo mondo; mille fili mi legano alla famiglia umana, mille alla comunità, ch'è la Chiesa. Questi fili si romperanno da sé; ma io non posso dimenticare che essi richiedono da me qualche supremo dovere. « Discessus pius », morte pia. Avrò davanti allo spirito la memoria del come Gesù si congedò dalla scena temporale di questo mondo. Da ricordare come Egli ebbe continua previsione e frequente annuncio della sua passione, come misurò il tempo in attesa della « sua ora », come la coscienza dei destini escatologici riempì il suo animo ed il suo insegnamento, e come dell'imminente sua morte parlò ai discepoli nei discorsi dell'ultima cena; e finalmente come volle che la sua morte fosse perennemente commemorata mediante l'istituzione del sacrificio eucaristico: « mortem Domini annuntiabitis donec veniat ». Annunzierete la morte del Signore finché Egli venga.

Un aspetto su tutti gli altri principale: « tradidit semetipsum », ha dato se stesso per me; la sua morte fu sacrificio; morì per gli altri, morì per noi. La solitudine della morte fu ripiena della presenza nostra, fu pervasa d'amore: « dilexit Ecclesiam », amò la Chiesa (ricordare « le mystère de Jésus », di Pascal). La sua morte fu rivelazione del suo amore per i suoi: « in finem dilexit », amò fino alla fine. E dell'amore umile e sconfinato diede al termine della vita temporale esempio impressionante (cfr. la lavanda dei piedi), e del suo amore fece termine di paragone e precetto finale. La sua morte fu testamento d'amore. Occorre ricordarlo.

Prego pertanto il Signore che mi dia grazia di fare della mia prossima morte dono, d'amore alla Chiesa. Potrei dire che sempre l'ho amata; fu il suo amore che mi trasse fuori dal mio gretto e selvatico egoismo e mi avviò al suo servizio; e che per essa, non per altro, mi pare d'aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse; e che io avessi la forza di dirglielo, come una confidenza del cuore, che solo all'estremo momento della vita si ha il coraggio di fare.
Vorrei finalmente comprenderla tutta nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo. Vorrei abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni Vescovo e sacerdote che l'assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla. Anche perché non la lascio, non esco da lei, ma più e meglio, con essa mi unisco e mi confondo: la morte è un progresso nella comunione dei Santi.

Qui è da ricordare la preghiera finale di Gesù (Jo. 17). Il Padre e i miei; questi sono tutti uno; nel confronto col male ch'è sulla terra e nella possibilità della loro salvezza; nella coscienza suprema che era mia missione chiamarli, rivelare loro la verità, farli figli di Dio e fratelli fra loro: amarli con l'Amore, ch'è in Dio, e che da Dio, mediante Cristo, è venuto nell'umanità e dal ministero della Chiesa, a me affidato è ad essa comunicato.

Uomini, comprendetemi; tutti vi amo nell'effusione dello Spirito Santo, ch'io, ministro, dovevo a voi partecipare. Così vi guardo, così vi saluto, così vi benedico. Tutti. E voi, a me più vicini, più cordialmente. La pace sia con voi. E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell'umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo.

Amen. Il Signore viene. Amen.

 

 


L'Osservatore Romano, edizione settimanale settimanale in lingua italiana n. 32-33, 9 agosto 1979.


 


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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Alla cerimonia di beatificazione di Paolo VI che si svolgerà la mattina di domenica 19 ottobre in Piazza San Pietro (attesi 100mila fedeli, di cui 5mila da Brescia e 500 da Concesio) come reliquia di Papa Montini sarà portata una sua maglietta insanguinata, una delle due, di lana leggera, che indossava quando a Manila, nel viaggio del 1970, fu bersaglio di un attentato da parte di uno squilibrato munito di pugnale.
Lo ha annunciato padre Antonio Marrazzo, postulatore della causa di beatificazione.

Le due magliette insanguinate dopo la morte di Paolo VI, furono donate dal segretario particolare monsignor Pasquale Macchi, una alla diocesi di Milano e una a quella di Brescia. «Noi porteremo quella di Brescia la più insanguinata - ha detto Marrazzo -. La presenteremo in una teca al Santo Padre. Dopo la cerimonia ritornerà nel duomo di Brescia per la venerazione dei fedeli». Per l’arazzo che sarà esposto sulla facciata della basilica vaticana è stata utilizzata una foto di Pepi Merisio, fotografo ufficiale di Paolo VI, che ha anche collaborato per la parte fotografica della «positio» durante la causa di beatificazione.

 

Il miracolo che lo rende beato

Il miracolo che renderà Montini «Beato» è avvenuto nel 2001 negli Stati Uniti: una madre che porta in grembo un feto al quinto mese di gravidanza viene consigliata ad abortire dai medici perché si era verificato una rottura della vescica fetale e la perdita di liquido amniotico. La diagnosi parlava infatti di gravissime malformazioni future. La mamma però rifiutò e, su suggerimento di una suora italiana che aveva conosciuto Montini si rivolse nella preghiera all’intercessione di Paolo VI. Il bimbo è nato sano (parto cesareo all’ ottavo mese) ed oggi è un adolescente. Il 12 dicembre 2013 la consulta medica della Congregazione delle cause dei santi ha certificato «il miracolo» della guarigione il 18 febbraio 2014 i teologi del dicastero vaticano hanno riconosciuto l’intercessione di Montini. Il 6 maggio 2014 la conferma definitiva da parte della plenaria dei cardinali e vescovi della Congregazione delle cause dei santi.

 

Cardinal Re: «fu Papa dei primati»

«Paolo VI è stato un papa di primati. Il primo Papa che ha preso l’aereo, il primo che si è recato in Terra Santa mentre era ancora in corso il Concilio, è il primo Papa a toccare i 5 Continenti inaugurando i "Viaggi Apostolici" ad imitazione di San Paolo nel suo andare ed evangelizzare. Per dire che il rinnovamento della Chiesa doveva avvenire andando a ricalcare le orme di Cristo», ha inoltre inaugurato l'appuntamento delle Udienze del Mercoledì, istituzionandole, ha inaugurato il primo gennaio come giornata mondiale per la Pace dando il via all'ideale delle Giornate mondiali della Gioventù realizzate poi da Giovanni Paolo II.

«Paolo VI -ha raccontato il cardinale di origini bresciane come Montini- si tolse la tiara (non quella dei Papi ma quella che gli donarono i milanesi per la sua elezione) e la mise in vendita, ad un anno dall’elezione per fare capire che i poveri devono stare al centro. Il ricavato della vendita infatti fu portato da Montini in India e donato a madre Teresa per i poveri».
Tra i primati di Montini anche l’abolizione della corte pontificia. «Fu un Papa geniale e ricco di spiritualità», ha ricordato il porporato, correggendo un aspetto che all’epoca si rimproverava a Montini. La critica è indirettamente rivolta ai suoi detrattori, quelli che accostano Paolo Vi solo alla sua enciclica Humanae Vitae (firmata nel 1968) dove diceva no ai metodi contraccettivi e all’aborto («anche se procurato per ragioni terapeutiche») e alla sterilizzazione della donna e dell’uomo.




Paolo VI: ispirata a lui la musica liturgica della Beatificazione

Le musiche della Beatificazione di Paolo VI ispirate alla sua figura

17/10/2014

Per il giorno della Beatificazione di Paolo VI, la liturgia avrà anche una veste musicale d’eccezione. Una compagine ispirata all’esperienza di vita di Papa Montini e soprattutto l’Inno ufficiale “In nomine Domini”. La musica è del direttore della Cappella Musicale Pontifica "Sistina", don Massimo Palombella, e il testo del gesuita padre Eugenio Costa. Ma in che modo la figura del Pontefice vivrà in questa musica? Gabriella Ceraso lo ha chiesto allo stessodon Massimo  Palombella:

R. – L’inno scritto per la Beatificazione di Paolo VI è, fondamentalmente, un inno a Cristo dove si rende grazie attraverso la vita di Paolo VI. Il cuore dell’inno è dato dal testo del ritornello – "Christus, lumen gentium! Christus in Ecclesia! Mittat nos ad gentes!" – che in tre incisi scritti per una grande assemblea, sintetizza tutta la vita di Paolo VI: con al centro Cristo e con “l’essere mandati alle genti” . Le tre strofe poi che compongono l’inno, scritte in una maniera pluriarticolata da padre Eugenio Costa – in una maniera veramente intelligente e speciale – permettono un intervento della Schola Cantorum, un intervento del solista, intercalato con un intervento assembleare, dove l’assemblea interviene dicendo, “In nomine Domini”, che è il motto di Paolo VI. Le strofe che tratteggiano la personalità di Paolo VI, e quindi anche nella scrittura musicale, sono delicate e raffinate perché l’uomo è tale: è grande perché delicato e raffinato.

D. – Quindi, vocazione personale, azione di pastore e irradiamento di questa figura tutt’oggi nella Chiesa. È questo Paolo VI attraverso questa musica?

R. – Sì, decisamente. "A noi oggi parli ancora”, recita la terza strofa, perché effettivamente tutto quello che noi stiamo facendo, nell’attuazione del Concilio Vaticano II, è la riforma liturgica. Abbiamo ancora come punto di riferimento quello che Paolo VI intuì e cominciò ad attuare, ma è un cammino che è solo all’inizio. A noi il compito di essere fedeli al mandato del Concilio.

D. – Anche nella compagine musicale che parteciperà e animerà la giornata di domenica c’è qualcosa di Paolo VI. In che modo?

R. – Due grosse presenze. La prima è il coro del Duomo di Milano: il cardinale Montini fu arcivescovo di Miliano e proprio in quegli anni ci fu un grande studio, un grande approfondimento di tutto il canto ambrosiano. Quindi, il coro del Duomo di Milano canterà insieme alla Cappella Musicale Pontificia “Sistina”. Con questa particolarità, che anche durante la celebrazione eucaristica ci sarà un’inserzione ambrosiana, il canto dopo il Vangelo. E poi, ci sarà la presenza di un coro della diocesi di Brescia – circa 60 persone – che si uniranno a un coro inglese, che verrà per l’occasione, e al normale coro guida che canta nelle celebrazioni per un totale di circa 270 persone, che faranno il cosiddetto “coro guida”, cioè il coro che fa la parte dell’assemblea. Mentre il Pontificio Istituto di Musica Sacra parteciperà cantando tutte le parti gregoriane della celebrazione, in risposta alla polifonia della Cappella Sistina e del coro del Duomo di Milano.

D. – Quindi, la musica per comunicare cosa di questa figura così complessa, così bella e ricca?

R. – Per comunicare, fondamentalmente, che il dialogo con la modernità, la ricerca e lo studio sono il veicolo dell’evangelizzazione e anche questa interazione di soggetti celebranti, di diverse "schole cantorum", di strumenti musicali fa parte, in fin dei conti, di quella grande intuizione ecclesiologica che sta dietro e a tutta la riforma liturgica che ha chiesto il Concilio Vaticano II.

D. – E quindi  Paolo VI…

R. –  Paolo VI, ovviamente.


SOLENNE RITO DELL' INCORONAZIONE

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

Piazza San Pietro
Domenica, 30 giugno 1963

  

Ea quae, in hac memorabili hora, Nostris obiciuntur oculis, tam sollemnia, tam magnifica, tam significantia sunt, ut iis non commoveri animus Noster non possit vehementer, utque idcirco iis magis silentium requiri quam verba, magis tacitam meditationem, quam orationem postulari videantur.

At verba officium imperat: sicut enim clementissimus Deus erga Nos suam et misericordiam et bonitatem publice patere iussit, ita aequum est, a Nobis in eum proficisci publicam gratiarum actionem; ac sicut gratulatio, observantia, fides sive privatorum hominum sive populorum maioribus quasi theatris propositae sunt, ita decet non obscura esse memoris animi Nostri testimonia. 

Atque primum omnium, licet tremefacti, arcana Dei consilia veneramur, qui exiguis viribus Nostris imponere voluit immensum, etsi summi pretii, onus: hoc est catholicam Ecclesiam, qua nihil profecto in terrarum orbe maius, nihil sanctius. Est enim a Christo Deo condita, ab eoque sanguine redempta; est eius Sponsa immaculata et dilectissima; est parens et nutrix omnium gentium, quae Christo nomen dederunt eique fideliter adhaeserunt; est postremo lumen et spes populorum, qui ubique terrarum sunt. 

Praeterea Deus huiusmodi Ecclesiam Nobis eo consilio concredidit, non modo ut eam sanctam et ubertate florentem servemus, sed etiam - quemadmodum Christus cuilibet Vicario suo mandavit semper - ut cogitationes, curas vitamque ipsam, si opus sit, in eo collocemus, ut eius virtus, eius lux, eius divitiae - divina prorsus et infinita - latiusque in homines dimanent. 

Onus igitur iniunctum est Nobis gravissimum, cui scilicet succumberemus, nisi persuasio subiret animum, hinc Deum saepe, ut clarius sua pateat potestas et gloria, ad grandia patranda opera seligere instrumenta, quae homini videantur infirmiora, illinc eundem sapientissima providentiae suae ratione, pro aucta necessitate, maiorem etiam facere suae misericordiae opem. Quod idem sensit sanctissima Christi Genetrix Maria, cum cecinit:Magnificat anima mea Dominum . . . quia respexit humilitatem ancillae suae... qui fecit mihi magna qui potens est (Luc. 2, 46-49). 

Quam ob rem de viribus Nostris penitus diffisi, benignissimi Dei imploramus auxilium, adhibita primum Deiparae Virginis deprecatione. Cui enim Ecclesia magis tordi esse putemus, quam Christi Matri, quae Ecclesiae adfuit praesens, non tantum cum nasceretur e scisso Filii sui pectore, et cum impluente desuper Spiritu Paracleto Hierosolymis veluti inauguraretur, sed etiam per consequentium saeculorum decursum certanti, maerenti, progredienti omni tempore astitit? 

Opem deinde a Petro Apostolo petimus, cuius muneri, etsi meritis longe impares, succedimus. Ipse, qui, quamquam aliquando vacillavit, firmitatem tamen Petrae Christo precante consecutus est, pariterque summae potestatis claves a divino Magistro accepit, ne omittat - precamur - suae tutelae umbra Nos tegere. 

Ad Paulum postremo confugimus, a quo nomen, auspicii et praesidii causa, ascivimus Nobis. Qui Christum Iesum maxime dilexit; qui ut Christi Evangelium ad gentes universas perferretur maximopere optavit et contendit; qui pro Christe nomine suam profudit vitam, is de caelo exemplar et patronus omne tempus aetatis Nobis esse velit.

 

Quindi Sua Santità prosegue in varie altre lingue. 

Italiano

Questo rito, straordinariamente solenne ed espressivo, aggiunge al suo significato religioso un altro significato, quello propriamente apostolico. 

Noi sappiamo di salire sulla Cattedra di S. Pietro e di assumere un ufficio altissimo e formidabile; e vincendo la paralizzante trepidazione, propria alla nostra pochezza, per entrare, sempre con l’aiuto divino, nella franca coscienza della nostra posizione nella Chiesa e nel mondo, lasciamo che risuonino nel nostro spirito le parole dell’Apostolo, di cui a Nostro conforto abbiamo voluto assumere il nome: spectaculum facti sumus mundo et angelis et hominibus (1 Cor. 4, 9) «siamo fatti spettacolo al mondo, agli Angeli e agli uomini»; e guardiamo a voi, eminenti sodali del Sacro Collegio, a voi, Venerabili Fratelli tutti nell’Episcopato, a voi, diletti figli sacerdoti, religiosi e religiose, a voi, uomini e donne, fedeli tutti, popolo di Dio, membra del Corpo mistico di Cristo: genus electum, regale sacerdotium gens sancta, populus adquisitionis (1 Petr. 2, 9); guardiamo alla Chiesa; a questa Chiesa romana, che presiede alla carità (S. Ignatii Ant. ad Rom. prol.) di tutta la Chiesa di Dio sulla terra, una, santa, cattolica ed apostolica. 

Ed è al cospetto di tutta la Chiesa che Noi, tremanti e fidenti, accettiamo le chiavi del regno dei cieli, pesanti e potenti, salutari e misteriose, che Cristo ha confidate al Pescatore di Galilea, fatto Principe degli Apostoli, e che sono ora a Noi tramandate. 

Questo rito parla con voce clamorosa dell’autorità conferita a Pietro e quindi a chi gli è successore. Noi sappiamo che questa autorità, tanto da Noi stessi temuta e venerata, Ci investe, e Ci rende Maestro e Pastore, con somma pienezza, della Chiesa romana e della Chiesa universale. Urbi et Orbi irradia ora il Nostro divino mandato. Ma appunto perché siamo sollevati alla sommità della scala gerarchica della potestà, che opera nella Chiesa militante, Ci sentiamo nello stesso tempo posti nell’infimo ufficio di servo dei servi di Dio. L’autorità e la responsabilità sono così meravigliosamente congiunte, la dignità con l’umiltà, il diritto col dovere, la potestà con l’amore. Non dimentichiamo l’ammonimento di Cristo, del Quale siamo fatti Vicario: «Colui ch’è maggiore fra voi diventi come il minore, e colui che presiede come chi è incaricato del servizio» (Luc. 22, 26). Perciò Noi abbiamo coscienza, in questo momento, di assumere un impegno, sacro, solenne e gravissimo: quello di continuare nel tempo e di dilatare sulla terra la missione di Cristo. 

Lo assumiamo di fronte alla storia della Chiesa che fu, derivata con vitale coerenza da Lui, Nostro Signore Gesù Cristo, che le diede origine e forma, e che vivo e misterioso con amore la fiancheggia nei secoli. Lo assumiamo di fronte alla storia della Chiesa che sarà, e che non altro attende da Noi, se non la perfetta fedeltà alla iniziale missione evangelica e alla tradizione autentica che ne scaturì. Lo assumiamo di fronte alla storia presente della Chiesa, di cui già conosciamo e sempre meglio Ci studieremo di conoscere le strutture, le vicende, le ricchezze, i bisogni, e di cui avvertiamo, quasi voci che Ci chiamano, la vitalità erompente, le sofferenze gravissime, l’ansia comunitaria e la fiorente spiritualità. 

Noi riprenderemo con somma riverenza l’opera dei Nostri Predecessori: difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano la integrità e ne velano la bellezza; Noi cercheremo di conservare e di accrescere la virtù pastorale della Chiesa, che la presenta, libera e povera, nell’atteggiamento che le è proprio di madre e di maestra, amorosissima ai figli fedeli, rispettosa, comprensiva, paziente, ma cordialmente invitante a quelli che ancora tali non sono. 

Riprenderemo, come già annunciammo, la celebrazione del Concilio ecumenico; e chiediamo a Dio che questo grande avvenimento confermi nella Chiesa la fede, ne rinfranchi le energie morali, ne ringiovanisca e ne adatti ai bisogni dei tempi le forme, e così la presenti ai fratelli cristiani, separati dalla sua perfetta unità, da rendere loro attraente, facile e gaudiosa la sincera ricomposizione, nella verità e nella carità, al corpo mistico dell’unica Chiesa cattolica. 

E avremo in una parola, con l’aiuto di Dio, cuore per tutti: Ci basti, in questo momento, ricordare, fra tutti, i figli sofferenti per l’oppressione alla libertà loro dovuta, e per l’infermità delle membra e dello spirito.

****

Verbis votisque tuis, cuncta fausta bene ominantibus, faveat Christus Iesus, cuius praesentissimo nec defuturo auxilio hac trepida hora unice confìdimus.

Pietatis significatione suaviter tacti, quam peracto Coronationis Nostrae ritu nuper exprompsisti, nomine quoque Purpuratorum Patrum Cardinalium, animum perquam gratum tibi Sodalibusque tuis declaramus, qui tot tantaque benevolentiae officia immeritis Nobis ad hunc diem praestitistis. Gratias pariter universae laetanti Ecclesiae iterum iterumque ex imo pectore agimus, cuius fidei, spei caritatisque documentis ingenti afficimur solacio.

Dum almam Urbem nocturnae excipiunt umbrae, hodierni eventus nequaquam obscuraturae fulgorem, a vobis, Venerabiles Fratres Nostri, atque ab universis filiis, quotquot habemus in Christo, id unum petimus, id oramus, quod iani Decessor Noster S. Leo Magnus poposcit : « Iuvate votis, quem desideriis expetistis, ut et Spiritus gratiae maneat in me... : ut omnibus diebus vitae meae, in omnipotentis Dei servitium, et ad vestra paratus obsequia, cum fiducia possim Dominum deprecari: Pater sancte, conserva eos in nomine tuo, quos dedisti mihi (Io. 17, 11; s. Leonis I, Sermo I; ML 54, 142).

Ac reciprocante caritatis affectu, supernae largitatis dona vobis precamur, atque benevolentiae Nostrae testem Apostolicam Benedictionem peramanter dilargimur.

   





[Modificato da Caterina63 18/10/2014 15:08]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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(Statua dedicata a Paolo VI fuori dell'Aula - Paolo VI - per le Udienze del Mercoledì)

                   



SANTA MESSA 
PER LA CONCLUSIONE DEL SINODO STRAORDINARIO SULLA FAMIGLIA 
E BEATIFICAZIONE DEL SERVO DI DIO PAPA PAOLO VI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Domenica, 19 ottobre 2014

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Abbiamo appena ascoltato una delle frasi più celebri di tutto il Vangelo: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).

Alla provocazione dei farisei che, per così dire, volevano fargli l’esame di religione e condurlo in errore, Gesù risponde con questa frase ironica e geniale. È una risposta ad effetto che il Signore consegna a tutti coloro che si pongono problemi di coscienza, soprattutto quando entrano in gioco le loro convenienze, le loro ricchezze, il loro prestigio, il loro potere e la loro fama. E questo succede in ogni tempo, da sempre.

L’accento di Gesù ricade certamente sulla seconda parte della frase: «E (rendete) a Dio quello che è di Dio». Questo significa riconoscere e professare - di fronte a qualunque tipo di potere - che Dio solo è il Signore dell'uomo, e non c’è alcun altro. Questa è la novità perenne da riscoprire ogni giorno, vincendo il timore che spesso proviamo di fronte alle sorprese di Dio.

Lui non ha paura delle novità! Per questo, continuamente ci sorprende, aprendoci e conducendoci a vie impensate. Lui ci rinnova, cioè ci fa “nuovi” continuamente. Un cristiano che vive il Vangelo è “la novità di Dio” nella Chiesa e nel Mondo. E Dio ama tanto questa “novità”! «Dare a Dio quello che è di Dio», significa aprirsi alla Sua volontà e dedicare a Lui la nostra vita e cooperare al suo Regno di misericordia, di amore e di pace.

Qui sta la nostra vera forza, il fermento che la fa lievitare e il sale che dà sapore ad ogni sforzo umano contro il pessimismo prevalente che ci propone il mondo. Qui sta la nostra speranza perché la speranza in Dio non è quindi una fuga dalla realtà, non è un alibi: è restituire operosamente a Dio quello che Gli appartiene. È per questo che il cristiano guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere pienamente la vita - con i piedi ben piantati sulla terra - e rispondere, con coraggio, alle innumerevoli sfide nuove.

Lo abbiamo visto in questi giorni durante il Sinodo straordinario dei Vescovi – “Sinodo” significa «camminare insieme». E infatti, pastori e laici di ogni parte del mondo hanno portato qui a Roma la voce delle loro Chiese particolari per aiutare le famiglie di oggi a camminare sulla via del Vangelo, con lo sguardo fisso su Gesù. È stata una grande esperienza nella quale abbiamo vissuto lasinodalità e la collegialità, e abbiamo sentito la forza dello Spirito Santo che guida e rinnova sempre la Chiesa chiamata, senza indugio, a prendersi cura delle ferite che sanguinano e a riaccendere la speranza per tanta gente senza speranza.

Per il dono di questo Sinodo e per lo spirito costruttivo offerto da tutti, con l’Apostolo Paolo: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere» (1Ts 1,2). E lo Spirito Santo che in questi giorni operosi ci ha donato di lavorare generosamente con vera libertà e umile creatività, accompagni ancora il cammino che, nelle Chiese di tutta la terra, ci prepara al Sinodo Ordinario dei Vescovi del prossimo ottobre 2015. Abbiamo seminato e continueremo a seminare con pazienza e perseveranza, nella certezza che è il Signore a far crescere quanto abbiamo seminato (cfr 1Cor 3,6).

In questo giorno della beatificazione di Papa Paolo VI mi ritornano alla mente le sue parole, con le quali istituiva il Sinodo dei Vescovi: «scrutando attentamente i segni dei tempi, cerchiamo di adattare le vie ed i metodi ... alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società» (Lett. ap. Motu proprio Apostolica sollicitudo).

Nei confronti di questo grande Papa, di questo coraggioso cristiano, di questo instancabile apostolo, davanti a Dio oggi non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera ed importante: grazie! Grazie nostro caro e amato Papa Paolo VI! Grazie per la tua umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa!

Nelle sue annotazioni personali, il grande timoniere del Concilio, all’indomani della chiusura dell’Assise conciliare, scrisse: «Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, e non altri, la guida e la salva» (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, pp. 120-121). In questa umiltà risplende la grandezza del Beato Paolo VI che, mentre si profilava una società secolarizzata e ostile, ha saputo condurre con saggezza lungimirante - e talvolta in solitudine - il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore.

Paolo VI ha saputo davvero dare a Dio quello che è di Dio dedicando tutta la propria vita all’«impegno sacro, solenne e gravissimo: quello di continuare nel tempo e di dilatare sulla terra la missione di Cristo» (Omelia nel Rito di IncoronazioneInsegnamenti I, (1963), 26),  amando la Chiesa e guidando la Chiesa perché fosse «nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza» (Lett. enc. Ecclesiam SuamPrologo).

    

NGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 19 ottobre 2014

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Cari fratelli e sorelle,

al termine di questa solenne celebrazione, desidero salutare i pellegrini provenienti dall’Italia e da vari Paesi, con un deferente pensiero per le Delegazioni ufficiali. In particolare, saluto i fedeli delle diocesi di Brescia, Milano e Roma, legate in modo significativo alla vita e al ministero di Papa Montini. Tutti ringrazio per la presenza ed esorto a seguire fedelmente gli insegnamenti e l’esempio del nuovo Beato.

Egli è stato uno strenuo sostenitore della missione ad gentes; ne è testimonianza soprattutto l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi con la quale ha inteso risvegliare lo slancio e l’impegno per la missione della Chiesa. Questa Esortazione è ancora attuale, conserva tutta la sua attualità! È significativo considerare questo aspetto del Pontificato di Paolo VI, proprio oggi che si celebra la Giornata Missionaria Mondiale.

Prima di invocare tutti insieme la Madonna con la preghiera dell’Angelus, mi piace sottolineare la profonda devozione mariana del Beato Paolo VI. A questo Pontefice il popolo cristiano sarà sempre grato per l’Esortazione apostolica Marialis cultus e per aver proclamato Maria “Madre della Chiesa”, in occasione della chiusura della terza sessione del Concilio Vaticano II.

Maria, Regina dei Santi e Madre della Chiesa, ci aiuti a realizzare fedelmente nella nostra vita la volontà del Signore, così come ha fatto il nuovo Beato.

Angelus…….




 












 

[Modificato da Caterina63 19/10/2014 16:04]
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[SM=g1740733] Paolo VI Discorso dimenticato AMATE IL PAPA


"Siamo nella Chiesa, apparteniamo alla Chiesa; siamo battezzati, siamo Figli di Cristo, abbiamo la stessa fede, bene: chi appartiene a questa società che si chiama, oggi, il popolo di Dio, che si chiama la comunità cristiana, ebbene deve sapere che questa Comunità è organizzata e non può vivere senza l'innervazione di una organizzazione precisa e potente che si chiama la Gerarchia.
Figlioli miei è la Gerarchia che vi sta parlando, e il Vicario di Cristo che oggi è davanti a voi vi dice questo: che non siamo fatti tanto per comandare quanto per servire.
Posso domandarvi, Figlioli carissimi, questa grazia che voi certamente non mi rifiutate: amate il Papa.
Amate il Papa perchè senza alcun suo merito e senza certamente alcuna sua ricerca gli è capitata questa strana, singolare vocazione di rappresentare Nostro Signore.
Non guardate a Noi, guardate al Signore di cui rappresentiamo..
Siamo al vostro servizio fratelli!"

SOSTA DI PAOLO VI
AD ANAGNI «CITTÀ PAPALE»

Giovedì, 1° settembre 1966

Il Santo Padre, sostando ad Anagni, insiste sul concetto fondamentale di questa visita e non dimenticabile giornata: la continuità della Chiesa, nella sua storia, nei suoi insegnamenti, della sua missione quaggiù.

Paolo VI si è soffermato sull’ininterrotto collegamento degli avvenimenti della Chiesa, che sembrano vincere le distanze del tempo, e sulla necessità che i cristiani si facciano sempre guidare dalla sapienza e dall’amore della Chiesa madre. Sono stato a venerare la memoria del grande e santo Pontefice Celestino - ha soggiunto il Santo Padre - ma non si può rievocare la memoria di questi senza ricordare anche quella del suo successore Papa Bonifacio che fu tanto diverso da lui, formidabile nella sua azione per la Chiesa e che ha dato con la sua presenza e la sua opera celebrità immortale a questa città.

Noi non stiamo qui - ha proseguito il Santo Padre - per avanzare rivendicazioni o tessere panegirici, né commemorazioni, ma unicamente per cogliere l’aspetto più caratteristico dell’opera di questo Pontefice. Nessuno ebbe, forse, più di lui tanti nemici, nessuno, come lui, fu tanto bersagliato, calunniato e perfino oltraggiato. Perché? - si è chiesto Paolo VI -.
Perché al di là di certi atteggiamenti della sua personalità, della sua politica, del suo carattere, egli è stato il Papa che più degli altri ha affermato l’Autorità del Romano Pontefice, la continuità che ad esso deriva dall’aver ereditato il potere che Cristo aveva dato a Pietro e in Pietro a tutti i successori. Egli svolse il suo mandato apostolico con forme di autentica luce. Bonifacio VIII - ha osservato il Sommo Pontefice - ha fatto quello che oggi si vorrebbe fare senza forse riuscirci: quello che oggi si chiama «la scala dei valori».
Perché Bonifacio VIII ha avuto l’intrepida forza di affermare la formula della più piena e solenne autorità pontificia, il concetto - che fu, poi, dagli altri Papi meglio definito - dell’esistenza dei due poteri, uno spirituale, l’altro temporale, entrambi sovrani nel loro ordine, salvo che nella loro applicazione nella vita umana: i valori dello spirito devono condizionare gli altri valori umani.

La lezione di questo Papa è il senso dell’appartenenza alla Chiesa, la comprensione degli obblighi di lealtà alla gerarchia per ogni cattolico, dal momento che appartiene a una società organizzata.
La gerarchia, ha detto ancora il Santo Padre, è la causa efficiente, il principio di vita della Chiesa. Dio - ha proseguito - non ci ha lasciato camminare come pecore senza guida, ma ha incaricato qualcuno di organizzare il suo Corpo Mistico. Perciò alla gerarchia dobbiamo obbedienza, una obbedienza, capita, professata, meditata, non come schiavi o vinti, ma come figli che la reclamano, l’amano, la servono. Posso domandarvi - ha esclamato, a questo punto, il Papa, suscitando come risposta un fervido e prolungatissimo applauso - la grazia che voi non vi rifiutate di amare il Papa? «Amate il Papa», al quale senza suo merito o ricerca è affidata la singolare missione di rappresentare il Signore davanti alla Chiesa universale e che non ha altra aspirazione se non quella di salvare, di farvi felici, perché la sua autorità è un servizio: il servizio del Servo dei servi di Dio.

Accennando agli avvenimenti storici vissuti dalla Cattedrale di Anagni da dove partirono le più gravi scomuniche contro re e imperatori e dove ebbe inizio lo scisma d’Occidente, l’Augusto Pontefice esprime l’augurio di pace, di fraternità, di amore; ed il voto che da questo stesso luogo parta il fraterno invito a quanti sono ancora divisi dalla Chiesa perché sia ritrovata e raggiunta l’unità e si faccia un solo ovile sotto un solo pastore. Perché questo avvenga - ha concluso il Papa - voi dovete essere come lampade luminose nel cielo della Chiesa, esempio di carità e di rinnovamento spirituale come vuole il Concilio.

www.cooperatoresveritatis.gomilio.com/it/paolo-vi-discorso-dimenticato-amate...





[SM=g1740717]


[SM=g1740738]

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16/02/2015 17:34
 
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  IN QUESTO LINK DI AGENZIA SIR altro materiale per capire davvero chi era Montini
















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