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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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Benedetto XVI il più grande Doctor Ecclesiae del nostro tempo

Ultimo Aggiornamento: 07/06/2014 21:08
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Benedetto XVI e la speranza 
Chi ci aiuta a vivere


Nel mezzo di una crisi economica dai contorni devastanti per gran parte dell'umanità si registrano conflitti acuti e persistenti in diverse aree del mondo. Ultimo, denso di incognite ma non improvviso, la rappresaglia di Israele nella Striscia di Gaza. L'anno nuovo che giunge si trascinerà i tanti problemi rimasti insoluti nell'anno che se ne va. È in questo navigare a vista, nell'involuzione della speranza che blinda il cuore di tanti, che Benedetto XVI ha qualcosa di significativo da dire. In tempi difficili emerge meglio l'intensità della sua riflessione sulla fede, mai banale, mai impositiva. Egli è un Papa di pace in tempi di guerra, ossia nelle stagioni - come la nostra - in cui prevalgono le polemiche, le incomprensioni sino al ricorso alle armi invece che alla verità e ai diritti umani. 

La fede in Papa Ratzinger è, infatti, discorso sulla speranza che apre a quello sul senso di ogni esistenza. Chi ci aiuta a vivere? È la questione che percorre l'intera riflessione cristiana di Benedetto XVI. Si tratta di una domanda che egli ha posto sempre anzitutto a se stesso, ma che rivolge alla Chiesa e a ogni uomo e donna. È una prospettiva esistenziale, incarnata nella vita di ogni giorno che per tanti, troppi, è impastata di fatica. 

È dunque un dialogo sulla vita e le sue vicissitudini che il Papa intende tenere aperto con tutti. Senza segreti obiettivi o ricerca di egemonie. Se si torna a sfogliare il suo discorso di inizio pontificato, si trova una definizione impegnativa e limpida di coloro che - il successore di Pietro in testa - sono chiamati ad annunciare il vangelo: "Noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini". 
È un compito non facile dal momento che non sempre viene capito in questi termini. Occuparsi di Dio costringe a rifare i giochi in tutti i campi. È come riprendere da capo una partita a scacchi: cambiano le strategie perché c'è una illuminazione nuova. 

Ratzinger ha detto e ripetuto di voler mettere a confronto la vita di ogni giorno con Dio, presentato come un caso serio, l'unico capace di portare gioia duratura. 
Più che intransigente, Benedetto XVI appare esigente, a cominciare dalla sua Chiesa, perché il dover mettere Dio al centro le richiede conversione, negli uomini e nelle strutture. 
Ma esigente si rivela pure nel rapporto tra fede e ragione a motivo della importanza stessa del dialogo proposto. Quando il colloquio diventa impegnativo per la vita - e il dialogo tra fede e ragione lo diventa sempre - può essere comodo ogni diversivo, e perfino mettere sul banco degli imputati il proprio interlocutore. Capita pure ai papi di trovarsi pregiudizialmente accusati di ogni sorta di responsabilità. 

"Chi si occupa della vita e dell'opera di Ratzinger - si legge in proposito nella postfazione del volume Chi ci aiuta a vivere? - incontra un intelligente e saggio pensatore, i cui giudizi possono essere controversi, ma sono sempre differenziati e ben fondati. Si viene a conoscere un pastore che coglie con sensibilità le preoccupazioni e i bisogni dell'uomo di oggi e cerca di dare risposte che servono di orientamento. 
Appare un uomo di Chiesa che diagnostica con occhi limpidi i problemi della Chiesa e del mondo, si interroga sulle loro cause e cerca le possibili soluzioni. E ci si accosta a un uomo di preghiera, che nella fede fiduciosa in una sorgente che ci fa vivere, cerca di schiudere questa fonte anche ad altre persone". 

Che nel Papa sia dominante la preoccupazione per affermare una vita spirituale nella Chiesa e nel mondo appare evidente dai suoi insegnamenti. Si ricordino per tutti le due encicliche sulla carità, all'inizio del pontificato, e sulla speranza. Quest'ultima usciva al termine dello scorso anno e presentava una lettura della storia a partire dalla promessa cristiana di una vita futura. Senza questo orizzonte non si comprende neppure la Chiesa. Ripresa in mano a un anno di distanza, quell'enciclica aiuta a cogliere ciò che sta davvero a cuore a Benedetto XVI, la conversione che richiede ai credenti, le realtà divine che possono avere un'eco universale e sulle quali è sempre attuale, in ogni generazione, riannodare i pensieri di tutti. Al centro della speranza cristiana vi è Cristo, colui che nel pensiero di Ratzinger giudicherà la storia con il metro dell'amore. 
È una visione ottimistica del futuro: "Nel momento del giudizio sperimentiamo e accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male del mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia". 

Dalla grande prospettiva finale della storia l'attuale Pontefice trae la scelta di operare per la pace, considerata anticipazione del Regno di Dio. È da quello sguardo sul presente a partire dalla fine dei tempi che egli ha scelto il nome di Benedetto e predica la riconciliazione. 
c. d. c.

(L'Osservatore Romano 31 dicembre 2008)


    


I bambini e il Papa che spiega la fede


La capacità di ascolto di Benedetto XVI appare specialmente nei suoi incontri con i ragazzi e i bambini. Sa ascoltare anche gli adulti, dialogare con i dotti. Con i vescovi, al termine delle udienze generali, parla stando in piedi. Non si atteggia a maestro e professore, piuttosto racconta magnificamente le scoperte maturate nella sua ricerca culturale; sa comunicare la dottrina della fede radicandola nella vita quotidiana. 

L'anno scorso il fotografo del nostro giornale ha illustrato bene l'attitudine di Benedetto XVI all'ascolto e al rispetto cogliendolo in attesa ai piedi della scaletta che immette alla finestra del suo appartamento prospiciente piazza San Pietro. La celebre finestra dove si affaccia il Papa e che egli cede ai ragazzi dell'Azione Cattolica una volta l'anno. L'immagine coglie con straordinaria abilità l'istante in cui nella penombra Papa Ratzinger attende che la ragazza finisca di parlare dalla finestra. 
Attende il suo turno ed è felice nella sua attesa. Benedetto XVI viene definito il Papa teologo, ma a motivo della sua chiarezza e della capacità di enunciare in forme semplici concetti difficili è un grande pedagogo della fede. Perciò è capito dai ragazzini. I bambini non hanno la sensazione che sia un cattivo maestro. E non lo percepiscono neppure come un noioso professore che mortifica la loro voglia di gioia e letizia. I bambini stanano gli adulti antipatici, prepotenti, vanitosi, tediosi, inutilmente esigenti. Provano disagio, non ci stanno volentieri. Si pensi alla scuola per convincersene. 

Papa Benedetto nonostante la sua natura schiva fino alla timidezza, con i giovani riesce nel capolavoro educativo che don Bosco chiedeva agli educatori: non solo voler bene ai giovani ma far sì che i giovani si accorgano di essere amati. È piuttosto improbabile che una persona squisita nel tratto e di aperta intelligenza sia poi capace solo di dire dei no o che pensi a una Chiesa arroccata come la migliore Chiesa possibile. 

E, in realtà, Benedetto XVI è davvero diverso da come solitamente lo si dipinge in maniera sbrigativa. Lo si può anche presentare come il capro espiatorio di ogni tipo di rivendicazioni nei confronti della Chiesa, ma non si può sostenere a cuor leggero che egli, rispetto al passato recente, abbia alzato barriere con le culture, le religioni, le attese di giustizia e solidarietà. Rispetto ai suoi immediati predecessori vincolati alla realizzazione degli indirizzi conciliari, Benedetto XVI si ritiene non meno vincolato, ma chiede ancora più responsabilità a ognuno dei suoi interlocutori di ogni fede e cultura. 
L'andare in profondità comporta infatti un'assunzione di responsabilità maggiore per portare a soluzione i problemi. Benedetto XVI, per cultura e temperamento, va oltre il manierismo di facciata e punta a consolidare il percorso conciliare. Le riforme per restare al servizio della fede della Chiesa devono diventare una forma mentale del popolo di Dio. 
Sono rimasto sempre colpito da un esempio che tocca uno dei punti più caldi e dibattuti nei decenni passati nell'ambito della Chiesa cattolica. 
Ratzinger, che una disinvolta pubblicistica annovera tra gli avversari della teologia della liberazione, è lo stesso che da Papa, ad Aparecida nel cuore dell'America Latina, certifica che "l'opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà". Senza enfasi, il Papa pone così fine, in termini aperti e liberanti, a un lungo e doloroso contenzioso. 

Analoghi esempi si possono registrare su grandi tematiche dell'essere cristiani oggi, quali sono considerati il dialogo con gli ebrei e con le altre religioni. Un fronte certamente delicato nel quale Benedetto XVI ha inaugurato la stagione del consolidamento, necessaria dopo il riconoscimento di passate responsabilità di membri della Chiesa. 

Nella storia, al momento emozionante delle svolte, segue un tempo più difficile, quello di dare contenuti a queste svolte per rendere il cambiamento un patrimonio comune e condiviso. Fondando l'incontro con l'ebraismo sulla tradizione biblica, Papa Benedetto ha irrobustito in via definitiva la nuova stagione di colloquio con il popolo ebraico sancita dal concilio. La presenza di un rabbino che parla al sinodo dei vescovi, massima espressione di collegialità nella vita ordinaria della Chiesa, può forse non suscitare emozioni, ma segna una tappa storica. Come pure il dialogo approfondito con l'islam. Il recente colloquio in Vaticano dimostra che c'è sostanza oltre l'immagine affascinante della visita alla moschea di Istanbul. Il dialogo tra le religioni posto dentro il dialogo interculturale viene rafforzato e non indebolito. 

Nell'ambito civile Benedetto ha messo al centro dei rapporti internazionali il rispetto reale dei diritti umani come opera di giustizia. Ha proposto il disarmo nucleare, l'impiego delle spese degli armamenti per vincere la fame nel mondo, il diritto di cittadinanza e accoglienza al di là dell'origine e della provenienza geografica. Ha chiesto alla Chiesa e ai suoi ministri di rispettare le competenze e le responsabilità della politica, che in ogni Paese deve garantire il bene comune e la giustizia. 
Anche sui temi della bioetica, quelli più immediatamente sensibili nella pubblica opinione occidentale, Benedetto XVI ha trattato questioni e aperto domande impegnative per far maturare una comune coscienza condivisa di fedeltà a Dio e all'uomo del nostro tempo. La modernità del Papa sta nel suo saper porre interrogativi di senso alla scienza e alla coscienza. Possono apparire scomodi, a volte, ma non sono mai banali. E mostrano che i suoi occhi scrutano il futuro. 
c. d. c.
(L'Osservatore Romano 21 dicembre 2008)
 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il Papa ai sacerdoti
Nel raggio del soffio dello Spirito

di Rosino Gibellini
Teologo, Brescia

Nella conversazione di Benedetto xvi con il clero di Bolzano-Bressanone, emergono motivi della teologia e del magistero del Pontefice, che per la loro attualità meritano di essere evidenziati. 

A un seminarista di ritorno da Sydney, dove ha sperimentato il volto giovane della Chiesa, il Papa ricorda che è lo Spirito a rendere giovane la Chiesa, e istituisce il parallelo tra il secondo capitolo della Genesi (il soffio della creazione dell'uomo) e il ventesimo di Giovanni (il soffio del dono dello Spirito alla Chiesa): Dio crea e ri-crea donando la forza dello Spirito.

Si tratta di mantenersi "nel raggio del soffio dello Spirito Santo", o ancora di "passeggiare nel giardino dello Spirito", secondo l'espressione usata in Australia. Lo Spirito è la forza segreta della Chiesa, che le analisi sociologiche (pur necessarie) non riescono a decifrare nella loro limitatezza metodologica. Qui Benedetto xvi offre alcune indicazioni per una ecclesiologia pneumatologica, che va oltre le strutture e segnala la forza segreta che le anima. È lo Spirito a rendere giovane la Chiesa: egli è il dono che rende presente il futuro, e così "ci dà la fantasia e le idee creative sul come fare". Papa Ratzinger sembra dire, di ritorno da Sydney: al di là della giovinezza anagrafica vi è una giovinezza spirituale, che è offerta a tutti come dono dello Spirito. 

Ritorna inoltre il motivo del discorso di Ratisbona: la fede è lògos, e per questo può essere comunicata a tutti, ma è lògos che è amore "tale da esprimersi nella bellezza e nel bene"; un motivo che soprattutto il teologo Hans Urs von Balthasar ha sviluppato nella sua "estetica teologica". 

C'è una affermazione che merita di essere sottolineata, perché indicativa di uno dei tracciati maggiori della teologia e del magistero di Benedetto xvi: "Noi stiamo lottando per l'allargamento della ragione e quindi per una ragione aperta anche al bello". Si può qui ricordare che tra i nuovi corsi teologici introdotti recentemente nelle facoltà e istituti di scienze religiose si registrano le seguenti tematiche: teologia e cultura, teologia e letteratura, teologia e arte, teologia e musica, che documentano questo allargamento della ragione, cui il Papa fa aperta allusione. 

Si deve anche sottolineare la riproposizione di una teologia della creazione, che una troppo angusta teologia della storia della salvezza aveva sfocato. Redenzione e Creazione sono inscindibili; Dio crea ed entra nella storia: "Egli è il Dio dell'insieme e non di una sola parte". Il mandato biblico "soggiogate la terra", se inteso come mandato del Creatore, è "il compito di essere custodi della terra e di svilupparne i doni". È un mandato che appella alla responsabilità, che appunto dà la fede nel Dio della creazione: "Il consumo brutale della creazione inizia dove non c'è Dio, dove la materia è ormai soltanto materia per noi". 

Infine, tra gli altri motivi, come gli spunti per una teologia della croce vissuta nel quotidiano e i consigli per l'esercizio del ministero nel nostro tempo, si deve sottolineare l'atteggiamento pastorale consigliato nell'ammettere i bambini ai sacramenti dell'Eucaristia e della Confermazione. Se prima - venti o trent'anni fa - poteva valere la severità, ora sarebbe più prudente far valere comprensione e larghezza: "Mi sembra che sia giusto essere piuttosto larghi", attenti ai minimi segni di fede, espressi dai bambini e dalle loro famiglie. Benedetto xvi, in genere dipinto come severo, ricorda l'esempio del Signore, che "era un Signore della misericordia" e si fa promotore di una Chiesa della misericordia. Con parole e gesti capaci di aprire a fiducia il cuore dei cristiani e di quanti guardano alla Chiesa, stando sulla soglia.
(L'Osservatore Romano 13 agosto 2008)


    

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Il 12 settembre il Papa in Francia
Benedetto colui che viene
nel nome del Signore

Si apre oggi, 11 agosto, a Lourdes, nel centocinquantesimo delle apparizioni, il 135 pellegrinaggio nazionale francese, al quale partecipano delegazioni di diversi continenti e che è presieduto dal vescovo di Tarbes et Lourdes. Pubblichiamo una sua riflesisone - che esce anche su "Lourdes Magazine" - a un mese dalla visita del Papa in Francia.


di Jacques Perrier

L'elezione del cardinale Ratzinger è stata accolta in modi diversi. L'opinione comune, riprodotta con compiacimento, vedeva in lui un uomo rigido, un teorico inflessibile, estraneo alle questioni del mondo, perduto dietro i suoi principi. Coloro che l'avevano frequentato cercavano di far udire un'eco diversa: il cardinale era un uomo semplice, facilmente accessibile, che amava ascoltare, chiaro nelle sue risposte, il quale riconosceva che talvolta non c'era risposta, ed era rispettato al di là dell'ambito cattolico. Ma la loro voce stentava a farsi sentire. 

Poco prima dell'annuncio del risultato dell'elezione, mi sorpresi a dire: "Se prendesse il nome di Benedetto!". Non sapevo che l'eletto era il cardinale Ratzinger. Ancor meno conoscevo la sua stima per san Benedetto. Pensavo forse vagamente a Benedetto xv, il Papa che cercò di essere costruttore di pace durante la guerra e che, per questo, fu calunniato da entrambi gli schieramenti. Pensavo soprattutto che il Papa doveva essere un segno di benedizione per il mondo. In questo, ero fedele alla devozione di Papa Giovanni Paolo ii per la divina misericordia: lui aveva canonizzato suor Faustina, messaggera della divina misericordia, lui ne aveva istituito la festa, la seconda domenica di Pasqua, lui stesso aveva incontrato definitivamente questa divina misericordia nei primi vespri della sua festa. 

Il mondo è preoccupato per il suo avvenire. Le nostre società non sono certe della loro solidità. La nostra cultura del divertimento nasconde male un deficit di significato che può convivere con una vaga felicità. A questo mondo è importante che qualcuno dica che non è né maledetto né dimenticato ma che, al contrario, Dio lo ama e lo benedice, nonostante le sue ferite. La benedizione originaria della Genesi non è stata tolta all'uomo. Bisogna allora che "l'uomo vestito di bianco" sia un segno di benedizione: quando le religioni si lasciano coinvolgere troppo facilmente in numerosi conflitti; quando dei preti hanno commesso crimini nei confronti dei bambini, coloro che Gesù benediceva; quando è necessario rifiutare certe realizzazioni della tecnica che diverrebbero una maledizione per l'umanità! Occorreva una grande fede e molta umiltà per accettare simili sfide. 
Durante la Via crucis che aveva guidato il Venerdì santo del 2005, qualche giorno prima della morte del Papa, e poi nei discorsi prima del conclave, il cardinale Ratzinger non aveva certo dipinto di rosa la situazione spirituale della Chiesa, soprattutto in Occidente. È quindi con cognizione di causa che accettò il carico, quando sperava di potere tornare agli amati studi. 

Due beatitudini si applicano in particolare a Papa Benedetto xvi. "Beati i miti": la mitezza è forse nel suo carattere, ma ciò che è un dono naturale può anche divenire un carisma al servizio del Regno. In questo mondo di violenza, non solo terroristica, ma anche economica, persino culturale, la mitezza sull'esempio di Cristo non è forse un modo di lasciare un segno? L'altra beatitudine è quella dei costruttori di pace. Benedetto xvi ricerca l'unità. Sa che l'unità è inscindibile dalla verità. Per questo si mostra esigente nel dialogo, ecumenico e tra le religioni: è un modo di onorare i suoi interlocutori. 
Grazie forse alla sua mitezza il Papa apre le vie del dialogo con l'ortodossia. 

In Cina, cerca di riconciliare. Nella scelta di celebrare un Anno paolino mentre è convocato un sinodo sulla Parola di Dio è ragionevole leggere un'intenzione ecumenica nei confronti dei protestanti. Nella Chiesa cattolica non vorrebbe che dei fedeli vivano separati con il pretesto di un modo antico di celebrare. Ma anche qui la verità non deve essere sacrificata a favore di un'unità solo di superficie: il concilio Vaticano II deve essere correttamente interpretato, ma non può essere annullato. 

Come altri, i francesi hanno senza dubbio scoperto un po' meglio Papa Benedetto xvi grazie al viaggio negli Stati Uniti. 

Abbiamo potuto vedere con quale coraggio ha affrontato gli scandali, con che delicatezza ascoltato le vittime, con quale disinvoltura si è mosso in questa società così distante dalla sua cultura, con quale autorità amichevole ha incoraggiato i suoi fratelli vescovi, con che sobrietà liturgica ha celebrato negli stadi, con quale ampiezza di visione si è rivolto ai delegati delle Nazioni Unite, con che emozione ha partecipato al dolore, ancora vivo, della città di New York colpita dagli attentati dell'11 settembre. Durante i giorni del suo viaggio abbiamo constatato un cambiamento di tono nei commenti dei media. Benedetto xvi li ha sorpresi. 
Aspettiamoci anche noi di essere sorpresi. Potremmo, a nostra volta, sorprenderlo venendo in molti per mostrargli che lo amiamo e che siamo un solo corpo con lui, nella Chiesa.

(L'Osservatore Romano 11-12 agosto 2008)


    


  


La visita del Papa in Australia
Quando i media superano i pregiudizi

di Stefano Girola
Università di Queensland (Australia)

Quando molti anni fa gli immigrati italiani cominciarono a celebrare le feste dei santi patroni nelle strade delle città australiane, il disappunto che essi suscitarono in alcuni settori della società locale aveva una causa precisa: con le loro manifestazioni pubbliche di religiosità popolare, gli italiani sfidavano platealmente una consolidata separazione fra sacro e profano, molto radicata nella mentalità australiana, che relega la religione alla sfera strettamente privata. Si spiega anche con la persistenza di questi atteggiamenti l'ostilità verso la Giornata mondiale della gioventù (Gmg) manifestata da alcuni media australiani nelle settimane che l'hanno preceduta. 

Uno dei più importanti quotidiani nazionali, "The Sydney Morning Herald", aveva criticato ripetutamente il sostegno finanziario offerto dal Governo del Nuovo Galles del Sud all'arcidiocesi di Sydney, prevedendo inoltre conseguenze catastrofiche per il traffico cittadino e gravi problemi di ordine pubblico. 

Oltre a ciò, per alcuni media l'unico motivo di interesse nei confronti dell'imminente Gmg era se il Papa si sarebbe scusato per gli abusi sessuali commessi da alcuni membri del clero locale, analogamente a quanto Benedetto xvi aveva fatto negli Stati Uniti. L'insistenza su questo argomento aveva raggiunto il culmine sugli schermi del principale canale televisivo pubblico, l'Australian Broadcasting Corporation (Abc). Pochi giorni prima dell'arrivo del Papa, i telegiornali e il programma di approfondimento serale "Lateline" avevano rispolverato un caso di molestie sessuali commesse venticinque anni fa da un prete nei confronti di un uomo di 29 anni, arrivando a chiedere le dimissioni del cardinale George Pell per il modo in cui aveva gestito questa vicenda nel 2003. Il caso si era poi sgonfiato, ma che l'Abc abbia condotto una campagna per far dimettere l'arcivescovo di Sydney proprio alla vigilia della Gmg la dice lunga sull'atteggiamento presente in alcuni media australiani nei confronti della Chiesa cattolica. 

A Gmg conclusa, il tono prevalente nei media è invece molto positivo, sia perché le previsioni negative del "Sydney Morning Herald" sono state clamorosamente smentite, sia per le forti parole di condanna pronunciate da Benedetto xvi nei riguardi degli abusi sessuali. Proprio su queste parole si sofferma Andrew Hamilton in un articolo pubblicato da "Eureka Street", una rivista dei gesuiti: "Le scuse pronunciate dal Papa, con la sua enfasi su giustizia e compassione, hanno offerto una leadership esemplare. Se i cattolici australiani parleranno e agiranno secondo lo spirito di queste parole, i media gradualmente la smetteranno di esaminare la Chiesa cattolica solo attraverso le lenti della questione degli abusi del clero". 
Anche il quotidiano "The Australian" ha accolto positivamente le espressioni di dolore e di solidarietà per le vittime degli abusi pronunciate dal Papa nella cattedrale di Sydney. In un editoriale del 21 luglio, il giornale ha inoltre definito la Gmg "uno dei grandi successi degli inizi del xxi secolo: ben organizzata, sicura e felice". 

Per "The Australian" la Gmg ha consacrato la raggiunta maturità della Chiesa australiana, espressa simbolicamente con questo paragone: "Mentre l'Australia resta giovane in termini di eredità cristiana, le stazioni della Via crucis rappresentate nei luoghi più straordinari della città hanno creato un'esperienza religiosa commuovente e intensa come quelle suscitate dagli antichi santuari europei". Anche l'aver mostrato al mondo aspetti della cultura e dell'arte aborigena è uno dei meriti della Gmg secondo l'editoriale che si concludeva con queste parole: "Passerà molto, molto tempo prima che l'Australia veda ancora una settimana come quella della Gmg". 

Citando i dati di un sondaggio della società "Galaxi", sul quotidiano "The Daily Telegraph" Brooke Newstead e Kate Sikora hanno scritto: "È ufficiale. Sydney ha amato la Gmg. Dopo aver brontolato prima dell'evento, la maggior parte degli abitanti di Sydney ha cambiato idea". Secondo il sondaggio il 71 per cento degli intervistati ha giudicato infatti come positiva per la città la massa di pellegrini arrivati da tutto il mondo. 

Anche Neil Ormerod, docente di teologia presso l'Australian Catholic University, ha dichiarato all'"Herald Sun" che l'esito "trionfale" della Gmg ha superato le previsioni più ottimistiche: "Nonostante i miei stessi timori, l'organizzazione e l'esecuzione della Gmg sono state eccellenti. L'evento ha generato molta buona volontà e sentimenti positivi da parte dei giovani verso la Chiesa e la sua leadership. Ma solo il tempo dirà se tutto ciò si tradurrà in un cambiamento duraturo negli atteggiamenti nei confronti della Chiesa". 

Alcuni commenti suggeriscono che l'attenzione suscitata dalla Gmg e dalla visita di Benedetto xvi spingerà la Chiesa cattolica australiana a porsi in modo diverso nei confronti del resto della società: il 22 luglio Catherine Smibert ha riportato sul sitowww.catholic.org le parole pronunciate dal cardinale Pell subito dopo la partenza del Papa: "Forse nel passato noi cattolici siamo stati troppo interessati solo a noi stessi. Adesso diciamo molto chiaramente che abbiamo qualcosa da offrire al resto della popolazione australiana". 

Anche per Tony Abbott, già ministro della Sanità e cattolico praticante, la Gmg può essere un momento di svolta per la Chiesa australiana, tradizionalmente accusata di avere scarsa coscienza sociale e di essere troppo preoccupata con questioni intraecclesiali. In un articolo pubblicato dal quotidiano "The Australian" il 22 luglio, Abbot ha scritto: "Per alcuni giorni i cattolici sono emersi dal ghetto mentale nel quale molti si erano ritirati e d'ora in poi sarà improbabile che saremo ancora sulla difensiva e timidi come prima". Abbott ha visto nella Gmg anche l'occasione per ridiscutere gli atteggiamenti dei media nei confronti della religione: "Se le buone notizie sulla religione riescono a dominare le prime pagine dei giornali per un'intera settimana, forse alcuni media dovrebbero riconsiderare il modo condiscendente con il quale trattano invariabilmente le materie religiose. Almeno per una settimana, gli australiani sembrano aver accettato che la curiosità verso Dio è "incisa nelle nostre anime" come ha detto Benedetto xvi. Per una settimana, la religione è stata associata con il portare alla luce il meglio degli esseri umani". 

Che un ripensamento sia iniziato può suggerirlo un editoriale del 21 luglio del "Sydney Morning Herald", così diverso nei toni da molti articoli pubblicati su questo stesso giornale prima e durante la Gmg. Secondo l'autore dell'editoriale, "durante quest'ultima settimana Sydney, probabilmente la più materialistica e mondana città australiana, è stata trasformata da un pellegrinaggio (...) La Gmg è ovviamente un festival cattolico, ma grazie alle sue dimensioni, essa ha toccato l'intera comunità, e a sua volta la comunità ha abbracciato la Gmg".

Infine, secondo questo editoriale, la Gmg ha evidenziato un'immagine diversa di Benedetto xvi, un Papa che ha offerto alla Chiesa locale un'opportunità storica di rinnovamento: "Benedetto xvi è arrivato al papato con la reputazione di studioso conservatore. La Gmg del 2008 a Sydney lo ha mostrato addolcirsi nel suo ruolo: ai suoi giovani seguaci egli ha rivelato un volto aperto ed espansivo, ed essi hanno ricambiato con affetto genuino. Le sue scuse per gli abusi sessuali del clero sembrano essere un'altra espressione di quella crescente capacità di raggiungere e di toccare i cuori dei credenti. Le sue parole offrono alla Chiesa cattolica australiana l'occasione per un nuovo inizio in questa difficile questione".
(L'Osservatore Romano 27 luglio 2008)

    

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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QUANDO BENEDETTO XVI DEDICO' LA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE DEL 1°GENNAIO 2009 CONTRO LA POVERTA'..... ma a quanto pare i Media l'hanno dimenticato....

Dedicata alla lotta alla povertà la Giornata mondiale della pace
Gli equilibri internazionali minacciati 
dall'insicurezza alimentare

di Renato Raffaele Martino Cardinale,
presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace

Il tema "Combattere la povertà, costruire la pace" scelto da Benedetto xvi per la quarantaduesima Giornata mondiale della pace - che si celebrerà il 1° gennaio 2009 - conferma che la lotta alla fame e per la sicurezza alimentare resta, in questo inizio di millennio, la questione prioritaria. È questo il cuore stesso della convivenza mondiale, con le sue mutate condizioni di interdipendenza tra i popoli, con le sue impellenti necessità di autentica giustizia e con le sue esigenze di nuovi strumenti politici ed istituzionali. 

Dal Papa viene un invito pressante a non adagiarsi sulla condizione attuale, a assumere a ogni livello impegni e comportamenti coerenti con la necessità di ridurre gli immensi squilibri che segnano tale convivenza. Senza di ciò, non c'è infatti nessuna possibilità di individuare - e tanto meno di portare a successo - linee di orientamento per la tutela della pace, per il rispetto della soggettività dei popoli e al tempo stesso per la loro collaborazione solidale. 

Il Papa invita l'umanità tutta e in primo luogo i cristiani a una riflessione sulle radici profonde della povertà materiale, ma anche e soprattutto sulla miseria spirituale che rende l'uomo indifferente alle sofferenze del prossimo. La conversione del cuore che ci è richiesta dal Vangelo è certo soprattutto individuale, ma ha una sua espressione irrinunciabile anche nei comportamenti collettivi. La dottrina sociale della Chiesa ci ricorda che giustizia e pace sono valori plurali, sempre e tanto più in quest'epoca che avrebbe strumenti e risorse per consentire di vincere la sfida posta a tutti e a ciascuno dallo scandalo della fame. 

La categoria che meglio esprime la nostra epoca è quella dell'interdipendenza, in cui si intersecano fra loro i settori della vita sociale e economica, gli interessi dei vari popoli, i diritti delle generazioni, comprese quelle ancora non nate. 
Proprio lo scandalo della fame e la questione agricola a esso collegata manifestano l'inadeguatezza degli attuali sistemi di convivenza e dei rapporti internazionali a garantire i diritti dei più deboli e a promuovere la realizzazione del bene comune. 
Del resto, è stato proprio Benedetto xvi a ricordare di recente che "povertà e malnutrizione non sono una mera fatalità" e che "le considerazioni di carattere esclusivamente tecnico o economico non devono prevalere sui doveri di giustizia verso quanti soffrono la fame" (Messaggio alla Fao del 2 giugno 2008). 

Nel sud povero del mondo, gli investimenti infrastrutturali nelle zone rurali, specialmente per quanto riguarda acqua, strade, energia e comunicazioni, hanno un ruolo fondamentale nel promuovere la crescita in agricoltura, ma appare sempre più evidente che per parlare davvero di sicurezza alimentare occorra pianificare e attuare un nuovo modello di sviluppo agricolo diverso da quello ormai dominante delle monoculture destinate ai consumi del nord ricco del mondo. 

In questo contesto, la situazione dell'Africa subsahariana si conferma la principale emergenza del mondo: proprio per quei popoli si profila infatti il fallimento degli interventi dei Millennium Development Goals ("Obiettivi di sviluppo del millennio"), che si propongono di quantomeno dimezzare entro il 2015 la tragedia sociale, economica e sanitaria delle nazioni in via di sviluppo. A sette anni dalla scadenza di tale progetto, motivi di relativo incoraggiamento non mancano, infatti, per le pur gravi condizioni di popolazioni di altre parti del mondo, mentre è proprio l'Africa subsahariana a veder continuamente accrescere la forbice con i paesi ricchi. 
Continuano intanto a diminuire gli aiuti internazionali a favore di agricoltura e sviluppo rurale proprio nel sud del mondo dove vive il quinto sottonutrito dell'umanità esposto ogni giorno alla morte per fame. Sono un miliardo le persone che sopravvivono a stento con meno di un dollaro al giorno. E per altrettante persone questo infimo reddito è appena raddoppiato. Metà della popolazione mondiale non ha abbastanza per nutrirsi. 

Pur nelle loro variazioni di anno in anno - relativamente irrilevanti, quando non peggiorative - i dati di tutti i rapporti internazionali rivelano un fatto certo: manca nel contesto mondiale una convinzione diffusa (e tutelata) della priorità dell'interesse collettivo. Di conseguenza, interdipendenza non equivale ancora a pace, proprio per il continuo affiorare di interessi contrastanti e per la tentazione perenne di ricorrere alle armi anziché alla ragione per dirimere i contrasti. Manca ancora, infatti, nel passaggio "dai molti all'uno", cioè dai popoli alla concertazione internazionale, la maturazione di un disegno planetario autenticamente condiviso in spirito di solidarietà. 

Lottare contro la miseria significa oggi anche interrogarsi e trovare risposte su come sia possibile coniugare le molte culture con una convivenza pacifica mondiale. Significa interrogarsi su come lo sviluppo di alcuni popoli pesi inesorabilmente sugli altri e su come l'ingiustizia dei rapporti finisca per diventare una minaccia per tutti. 

Da questa consapevolezza muovono coloro - per primo proprio il Papa - che cercano di individuare direttive d'impegno in favore delle scelte di pace autentica e solidale e sollecitano nei diversi consessi della comunità mondiale politiche in favore dei popoli in condizioni maggiormente critiche. E lo fanno ricordando altresì che la questione trascende il pur importante aspetto della ripartizione delle ricchezze e investe in senso lato il diritto alla vita.

(L'Osservatore Romano 9 luglio 2008)





    


      



La «Spe salvi», la Chiesa e l'Occidente

Quel di più che la storia umana non riesce a colmare


di Ernesto Galli della Loggia

Il passato e il presente; l'Occidente e la sua tradizione culturale da un lato, la modernità dall'altro: è tra questi due poli che sembra muoversi la riflessione che Benedetto xvi ha fin qui consegnato ai suoi interventi di maggior impegno, in particolare a entrambe le sue encicliche. Una riflessione il cui contenuto vero non è poi altro che il destino del cristianesimo. 
Solo se l'Occidente, infatti, l'antico teatro geografico e storico che primo accolse il messaggio proveniente da Gerusalemme per farne anima e forma della sua cultura, intenderà tutta la profondità del rapporto con le proprie origini cristiane, solo a questa condizione, sembra pensare il Papa, la religione della Croce potrà reggere la sfida lanciatale dai tempi nuovi, continuando a tenere il suo animo fermo all'antica promessa del non praevalebunt. 

Da qui la spinta a ripercorrere in qualche modo l'intero arco della vicenda cristiana, a ripercorrere le molte vie attraverso cui essa non solo ha plasmato l'Occidente dopo essersi mischiata alle sue radici classiche, ma, contrariamente a una convinzione diffusa, ha anche preparato e perfino favorito l'avvento della modernità. L'obiettivo ambiziosissimo è quello niente di meno, come si legge, di "un'autocritica dell'età moderna in dialogo col cristianesimo" nella quale peraltro "confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno", cioè, se capisco bene, di una sorta di "nuovo inizio" segnato da quello che appare il vero obiettivo di questo pontificato: la riconciliazione tra religione e modernità. 

Nel procedere in questa direzione mi sembra che il Papa operi una svolta decisiva non tanto rispetto al Concilio in quanto tale, ma certamente rispetto alla vulgata che ne è circolata largamente negli anni seguenti. Benedetto xvi, infatti, sembra porre al centro dell'attenzione - si badi bene: all'attenzione non politica, ma teologica - della Chiesa non più genericamente il "mondo", bensì l'Occidente, il problema dell'Occidente. Di conserva egli individua con sicurezza i termini teoricamente cruciali per il discorso cristiano sulla modernità non più, come aveva fatto il Vaticano ii, nella "giustizia", nella "pace" e nell'autodeterminazione individuale e collettiva, ma nella "ragione" e nella "scienza" (la seconda in specie sostanzialmente assente nella tematizzazione conciliare). 

Tutto ciò è ben visibile nell'ultima enciclica del Papa. Se con la Deus caritas est Joseph Ratzinger aveva esplorato alcuni dei mutamenti rivoluzionari introdotti dal messaggio evangelico nel mondo dell'"intimità morale", in particolare nei rapporti con l'altro, tra quei due "altri" per antonomasia che sono l'uomo e la donna, con la Spe salvi egli concentra la propria attenzione su un aspetto altrettanto decisivo di quella che Benedetto Croce chiamò la "rivoluzione cristiana" che è all'origine del mondo moderno: vale a dire il rapporto assolutamente nuovo rispetto alla dimensione del futuro che quella rivoluzione significò per le culture in cui ebbe modo di affermarsi. 

Con ciò l'analisi di Benedetto xvi prende il taglio, che in questa enciclica è propriamente suo (ma che già si affacciava in quella precedente), di una declinazione della prospettiva teologica che tende continuamente a configurarsi come filosofia della storia. Anzi meglio, per chi come chi scrive guarda queste cose dall'esterno: a porre la religione cristiana come l'origine prima della storia quale dimensione tipica del pensiero occidentale. 

Se infatti, come l'enciclica non si stanca di sottolineare facendone il proprio asse, la fede cristiana è per l'essenza speranza, cioè fede in un futuro ("i cristiani hanno un futuro"; "la loro vita non finisce nel vuoto"); se essa, come scrive icasticamente il Papa, ha "attirato dentro il presente il futuro", e lo ha fatto, egli aggiunge, avendo in mente il futuro non di questo o quel singolo ma dell'intera comunità dei credenti, ebbene come non vedere proprio in ciò, allora, la premessa per quella più generale tensione al domani e all'oltre che ha segnato così intimamente tutta quanta la nostra civiltà? Ma per l'appunto in questa tensione sta l'origine dell'idea che l'oggi prepara il domani, che il senso di quanto accade oggi è in questa preparazione, e quindi che la vicenda umana nel suo complesso possedendo una direzione, un fine possiede anche un senso, un significato. 

Sta insomma qui l'origine, per dirla con una sola parola, dell'idea di storia. E per conseguenza della frattura di cui si sostanzia la modernità: dal momento che è proprio nell'ambito della "speranza", del "futuro", del significato della storia - lungo un percorso che dall'attesa del Paradiso ha condotto all'attesa del progresso - che si è sviluppato forse il principale momento di laicizzazione della mentalità collettiva moderna. 
Lo scritto di Papa Ratzinger -mai come in questo caso assolutamente suo: a un certo punto si legge un "io sono convinto" del tutto inusuale per il testo di un'enciclica - è per una buona parte la ricognizione nel campo della storia delle idee delle cause che hanno portato all'espulsione della speranza cristiana dal mondo a opera specialmente del binomio scienza-libertà. Per ribadire naturalmente che però né la scienza, né le sempre parziali realizzazioni politiche della libertà, saranno mai in grado di soddisfare il bisogno di giustizia e di amore che si agita in ogni essere umano e che è invece la sostanza della speranza cristiana, garantita da Dio ai credenti: "solo Dio può creare la giustizia", così come solo l'amore può bilanciare la cupa "sofferenza dei secoli". 

Anche chi è privo della fede, come chi scrive, non fa fatica a convenire sull'esistenza di questo irreparabile "di più" che la storia umana priva di Dio non riuscirà mai a colmare. Ma questo accordo - che non ha né vuole avere nulla di formale, e del resto dovrebbe essere nella sostanza quasi scontato - non può mettere a tacere un'osservazione critica che investe l'insieme dell'analisi dell'enciclica, pure così convincente in molti passaggi: perché la storia dell'Occidente cristiano è andata così? Perché essa sembra concludersi con uno scacco della religione che pure l'ha così intimamente forgiata? 
La risposta sta forse in quella che a un certo punto, l'ho già ricordato, l'enciclica stessa chiama la necessaria "autocritica del cristianesimo moderno": indicazione alla quale però non viene dato alcun seguito. 

Mi domando se sia lecito aspettarsi da Benedetto xvi ciò che avremmo senz'altro chiesto al professor Ratzinger. Non lo so. Ma sono certo che se mai in un domani il Pontefice volesse far sentire la sua voce per rispondere a questo interrogativo, quella voce susciterebbe forse un'eco non destinata a spegnersi nel tempo.

(L'Osservatore Romano 31 luglio 2008)


    

       

È iniziata la visita pastorale a Santa Maria di Leuca e Brindisi
La Puglia accoglie Benedetto XVI

di Mario Ponzi

Da Santa Maria di Leuca a Brindisi come messaggero d'amore per sostenere la speranza e la fiducia nel futuro. Dal santuario mariano ai confini della terra Benedetto XVI ripercorre i primi passi dell'apostolo Pietro in terra italiana e ripropone Cristo come punto di partenza per un cammino cristiano rinnovato. È denso di significati l'incontro con le popolazioni di questo lembo estremo d'Italia. Benedetto XVI entra nel concreto della loro vicenda quotidiana proprio dal luogo che custodisce il tesoro genuino della devozione popolare, il santuario di Santa Maria de finibus terrae. Un nome significativo, e un punto di riferimento che da secoli ha segnato la storia e la vita dell'intera regione. 
C'è da credere che le migliaia di persone l'una accanto all'altra sul piazzale antistante il santuario per partecipare alla messa del Papa abbiano già sperimentato quella forza dell'amore che Benedetto XVI cerca di trasfondere nel cuore dell'uomo del terzo millennio. 

Poche ore Benedetto XVI si ferma a Leuca, ma si tratta di un momento destinato a restare a lungo nel cuore e nella memoria di un popolo che ha imparato a capire come sia possibile sconfiggere il male con la forza del bene. 
È sera quando il Papa giunge a Brindisi. La città si stringe attorno al Papa dopo un periodo di attesa durato qualche anno. Ha vissuto un momento difficile. Al Papa ne aveva parlato l'arcivescovo Rocco Talucci quando nel dicembre del 2007 lo aveva incontrato a Roma in occasione della visita ad limina dei vescovi della Puglia. In attesa soprattutto i giovani, in cerca di certezze e di conferme dall'incontro con il Pontefice. In via Lenio Flacco proprio i giovani costituiscono il tessuto vivo di quella comunità alla quale Benedetto XVI porta parole di incoraggiamento per superare le sfide che si profilano all'orizzonte. Addita loro mete, obiettivi. E i modi attraverso i quali raggiungerlo. Insegna a saper leggere i segni di rinnovamento che si intravedono, ai quali sicuramente darà l'apporto decisivo l'Università che si sta realizzando a Brindisi per cominciare a porre un freno alla fuga di laureati e diplomati che ha segnato la regione. Fiducia e incoraggiamento contagiano l'intera popolazione brindisina, pronta a ripercorrere le strade della solidarietà e della condivisione per riscoprire che la speranza cristiana non è utopia. Sentimenti sui quali la Chiesa locale ha chiamato il suo popolo a riflettere. Il Papa si immerge nella realtà della comunità ecclesiale brindisina giunta all'esordio del cammino sinodale. Si tratta infatti di una Chiesa che, procede lungo la strada del rinnovamento conciliare, senza dimenticare le sue profonde, secolari radici. 

La presenza di Benedetto XVI proprio in un momento come questo certamente risveglia l'entusiasmo di una comunità pronta a ripartire. Anche nella consapevolezza della fiducia che il Papa ripone in loro, custodi di quella porta aperta verso l'oriente, e dunque con un ruolo nel cammino verso la ricostruzione della piena unità con i "fratelli ortodossi" e nel dialogo costruttivo con le altre religioni. 

La scelta della banchina Sant'Apollinare del porto brindisino per la celebrazione della messa domenicale con il Papa è certamente significativa in questo senso, ma lo è anche per un altro aspetto: è la consacrazione del ruolo che Brindisi e i brindisini hanno avuto ed hanno nel mostrare il volto accogliente e generoso nei confronti di quanti sono costretti a lasciare la loro terra e la loro casa in cerca di una speranza di vita.

    


La visita pastorale a Santa Maria di Leuca e a Brindisi
Benedetto XVI nel Salento che chiede sviluppo

Benedetto XVI torna in Puglia. Una breve visita che riporta alla memoria la prima avvenuta a Bari il 29 maggio 2005, poche settimane dopo la sua elezione. Allora fu in occasione del congresso eucaristico nazionale e il nuovo Pontefice ebbe modo di parlare per la prima volta alla Chiesa in Italia, ma aprì indicativi orizzonti di quello che sarebbe stato il suo ministero petrino in favore dell'ecumenismo, dell'ascolto nei confronti delle chiese orientali e ortodosse e del dialogo con la cultura odierna. 
La visita a Santa Maria di Leuca e a Brindisi è un ritorno a quelle tematiche calate nel contesto di due chiese particolari, segnate da un forte impegno pastorale entro una condizione sociale difficile. Il Salento si trova nel sud e vive con la sua specificità i problemi legati al mancato sviluppo di tutto il meridione d'Italia. 
Proteso nel Mediterraneo - amano ripetere i suoi abitanti più attenti - il Salento è come un ponte che unisce l'Occidente all'Oriente, da cui sono passati nei tempi remoti i pellegrini diretti in Terra Santa, provenienti da tutta Europa, ma anche popoli che ci hanno consegnato nuove speranze e nuove idee, in una prospettiva di integrazione e di rispetto reciproco. 
Proprio a Leuca, secondo la tradizione, mise piede l'apostolo Pietro agli albori del cristianesimo in Europa. Forse per questo il Papa, prima di puntare su Brindisi, tappa originaria del suo viaggio, ha accolto con interesse l'invito a visitare il Santuario di Santa Maria de Finibus Terrae di Leuca, dove è atteso come successore dell'apostolo Pietro. 
Benedetto XVI giunge in una terra nella quale la società e l'economia locale si misurano con difficoltà e problemi legati alla congiuntura internazionale, ma anche - notano pure i due vescovi delle diocesi di Brindisi-Ostuni e Ugento - Santa Maria di Leuca - a storici ritardi non del tutto superati. 

In questa prospettiva, il consiglio provinciale di Lecce, recentemente, ha approvato all'unanimità un ordine del giorno di saluto e di accoglienza a Benedetto XVI, "segno - spiega il suo presidente Giovanni Pellegrino - di rispetto ma anche di comune interesse a costruire intorno alla visita del Papa un sentimento d'amore inequivocabile e forte. Il Salento - aggiunge Pellegrino - è terra d'accoglienza, con le sue strutture turistiche, ma anche con le tante realtà destinate ad ospitare i migranti in fuga dai loro Paesi; è una terra che ha dato il meglio di sé quando, negli anni scorsi, si è trattato di aprire le porte a uomini, donne, bambini provenienti dall'Albania e da altri Paesi in difficoltà, al punto da essere candidata al Premio Nobel per la Pace. Anche per questo nel Salento le diverse comunità straniere, presenti sul territorio, si stanno inserendo senza grandi problemi, nel rispetto reciproco, nella tolleranza e nella proficua convivenza". 

(L'Osservatore Romano 14-15 giugno 2008)



    

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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La visita di Benedetto XVI nei media statunitensi 


Ha svelato all'America 
il vero volto del Papa


di Robert Imbelli
Docente di teologia,
Boston College (Massachusetts, Stati Uniti d'America)

Il viaggio di Benedetto XVI ha scatenato negli Stati Uniti una copertura 

mediatica senza precedenti.

I giornali gli hanno dedicato pagine intere, la radio e la televisione innumerevoli ore di trasmissione e - segno dei tempi! - la visita è stata oggetto di discussione su molti forum in rete. Alcuni giornali, come il "New York Times", hanno creato speciali blog con i commenti di personaggi famosi su ogni aspetto del viaggio papale. I discorsi e le omelie sono stati resi disponibili e immessi su Internet appena pronunciati, permettendo una loro analisi immediata. In breve, la copertura mediatica è stata, come diciamo qui, negli Stati Uniti, 24/7, cioè ventiquattr'ore al giorno, per sette giorni su sette. 

Il messaggio del Papa è stato trasmesso con le parole e, cosa ancor più importante, con immagini straordinarie, in un'epoca ad esse particolarmente sensibile. Ogni mattina i quotidiani, soprattutto a Washington, a New York e a Boston, hanno pubblicato in prima pagina fotografie di Papa Benedetto, alcune delle quali di notevole qualità artistica. Inoltre, non meno di tre reti televisive hanno offerto una copertura continua di ogni evento: le celebrazioni della liturgia, il discorso alle Nazioni Unite, gli incontri individuali, da quello col Presidente degli Stati Uniti a quello col Segretario Generale delle Nazioni Unite fino a quelli con uomini e donne comuni che non sono di certo meno importanti dei leader. 

Ora descriverò alcune immagini particolarmente affascinanti e importanti che, insieme, hanno influenzato in maniera decisiva l'impressione suscitata nel cuore e nella mente del popolo americano dalla visita di Benedetto XVI. In alcuni ambienti hanno addirittura modificato il modo in cui il Papa è stato percepito e recepito. 

Le prime immagini sono quelle dell'incontro con i bambini disabili. Si è svolto nella cappella del seminario dell'arcidiocesi di New York. I più giovani erano raggruppati nella navata principale della cappella. Alcuni erano in carrozzina, altri erano sostenuti dai loro accompagnatori. Il Pontefice si è fermato davanti a ognuno di loro, lo ha abbracciato e benedetto. Le riprese televisive hanno indugiato amabilmente su questa scena di immensa tenerezza. Le immagini hanno avuto una vasta eco nella Chiesa negli Stati Uniti dove, con nostra grande vergogna, alcuni bambini hanno subito abusi da parte di sacerdoti e religiosi. Qui, invece, a imitazione del Buon Pastore, il Papa ha benedetto i piccoli e riaffermato la loro dignità. Una seconda immagine straordinariamente commovente è stata vista da milioni di americani grazie alla diretta televisiva: il Papa che prega a Ground Zero e poi saluta con grande sollecitudine i sopravvissuti e i familiari di chi ha perso la vita l'11 settembre 2001. Guardando quelle immagini è stato difficile trattenere le lacrime al ricordo della terribile distruzione di quel giorno di violenza. Ma era anche chiaro che il Papa, con la sua presenza e la sua sollecitudine, ha promosso un processo di guarigione, anche nel dolore e nella perdita. 

Non si può fare a meno di interrogarsi sulle vie misteriose del Signore grazie alle quali un uomo che, adolescente durante la seconda Guerra Mondiale e poi prigioniero degli americani, sta ora aiutando l'America a guarire le proprie ferite. 
Una terza serie di immagini riguarda la visita di Papa Ratzinger alla Park East Synagogue per porgere gli auguri per la Pasqua ebraica. L'immagine del Papa e del Rabbino della sinagoga che si scambiano doni ha riconfermato l'impegno della Chiesa cattolica per il dialogo ispirato dalla Nostra aetate del Concilio Vaticano II più efficacemente di quanto possano fare le parole. Il "New York Times" ha pubblicato in posizione preminente sulla prima pagina la foto del Papa e del Rabbino, che è stata poi diffusa in tutta la nazione. Non si potrà mai sottolineare abbastanza la buona volontà trasmessa da questa immagine. Un quarto insieme di immagini è in qualche modo paradossale perché esse non si sono viste direttamente, ma sono state evocate nella mente di molti dalla testimonianza di quanti erano presenti. Mi riferisco, ovviamente, all'incontro pieno di grazia fra il Papa e le vittime degli abusi sessuali da parte di alcuni sacerdoti. Questo incontro è stato possibile grazie agli sforzi dell'arcivescovo di Boston, il cardinale Sean O'Malley. 

Boston, come è noto, è stata il centro della crisi che ha travolto la Chiesa negli Stati Uniti. Il cardinale O'Malley, con la sua saggezza pastorale e la sua sensibilità, ha stabilito un rapporto personale con alcune delle vittime. Tre di quelle che hanno incontrato il Papa si sono espresse in modo commovente su tale incontro, sulla sollecitudine del Papa per loro e sul dolore che lo ha sopraffatto per le sofferenze da loro subite. Il loro racconto ha colpito l'immaginazione e trasformato le simpatie dell'opinione pubblica americana. 

Senza dubbio, questo incontro, non annunciato e quindi giunto come una totale sorpresa per la maggior parte delle persone, è stato un punto di svolta emozionale della visita papale. Di certo molti avevano auspicato l'incontro, alcuni avevano espresso scetticismo e altri, pochissimi in verità, si erano dimostrati addirittura contrari. Tuttavia, è stato come se questo gesto straordinario avesse dato il via a un'ondata di apprezzamento e simpatia per un uomo giunto qui non solo come Sommo Pontefice e autorevole maestro, ma anche, e soprattutto, come Pastore compassionevole del suo popolo. Nessun aspetto della visita papale è stato più commentato dai mezzi di comunicazione sociale di questo incontro con le vittime degli abusi, basato sulla preghiera e sul sostegno. 
Un ultimo insieme di immagini è quello relativo alle liturgie celebrate da Benedetto XVI. Ogni gesto e ogni espressione del volto sono stati catturati dalle telecamere e trasmessi in milioni di case. Il comportamento del Papa, la sua attenzione alle letture tratte dalle Sacre Scritture, il suo atteggiamento reverenziale nella preghiera sono stati trasmessi tramite immagini vibranti e rivelatrici come un dipinto rinascimentale. 

L'effetto di queste immagini meravigliose si può definire soltanto come mistagogico. Il Papa è chiaramente rivolto al Signore e incarna nella sua persona il messaggio che porta: Cristo è la nostra speranza. 

Dunque Benedetto XVI ha fatto il suo ingresso nell'agorà americana. Le sue parole e i suoi gesti sono stati registrati e osservati. Le immagini trasmesse hanno persuasivamente cancellato la caricatura del severo custode della disciplina, del professore cerebrale e hanno rivelato il volto del sacerdote e del Pastore compassionevole, dell'umile Successore di Pietro. Benedetto ha conquistato il cuore di milioni di persone. 
Ora la sfida che la Chiesa negli Stati Uniti deve affrontare consiste nel valutare i preziosi insegnamenti che ci ha lasciato. Come dobbiamo testimoniare in maniera convincente l'arricchimento reciproco della ragione e della fede, il vincolo indissolubile fra verità e libertà, l'integrazione creativa di visione religiosa e presenza pubblica? Inoltre, quanto siamo pronti a impegnarci nuovamente nella sequela di Gesù Cristo, con gioia e coraggio in qualità di membri del suo Corpo, la Chiesa, che è semper purificanda, ma che resta la sposa sempre amata di Cristo?

(L'Osservatore Romano 23 aprile 2008)

    


     




Le mani nelle mani
Il Papa incontra le vittime di abusi sessuali


di Federico Lombardi

Benedetto XVI non si è limitato a parlare del tema drammatico degli abusi sessuali compiuti da sacerdoti, ma ha anche voluto compiere un gesto significativo da molti atteso ma pur sempre difficile e delicato: incontrare personalmente alcune delle vittime. 
Giovedì pomeriggio, infatti, prima di lasciare la nunziatura per gli altri incontri previsti dal programma ufficiale, il Papa si è recato nella cappella dove si trovava ad attenderlo un piccolo gruppo di persone, vittime di abusi sessuali da parte di esponenti del clero, accompagnato dal cardinale arcivescovo di Boston, Sean Patrick O'Malley, e da un sacerdote e una signora responsabili delle attività di cura spirituale e psicologica per tali situazioni nell'arcidiocesi. 
L'incontro, molto semplice, è iniziato alle 16.15 ed è stato introdotto da un momento di preghiera comune guidato dall'arcivescovo che ha poi brevemente spiegato il significato spirituale dell'incontro. Le parole del Santo Padre, ispirate non solo al profondo dolore per i fatti avvenuti, ma anche all'incoraggiamento e alla speranza, hanno creato un clima di grande confidenza spirituale così che i singoli presenti si sono poi avvicinati a lui, a uno a uno, esprimendogli i loro racconti, i loro sentimenti, la loro gratitudine per la sua comprensione e anche la ritrovata fiducia di unirsi spiritualmente con lui e con la Chiesa. 
Per ognuno il Santo Padre ha trovato ancora una parola di conforto, tenendo strette le mani dei suoi interlocutori, assicurando le sue preghiere per le loro intenzioni, per le loro famiglie e per tutte le vittime di abusi sessuali. Infine la benedizione. 
Il cardinale O'Malley ha anche voluto consegnare al Santo Padre un libro contenente i nomi di circa 1500 persone (i nomi soli, non accompagnati dal cognome), vittime di abusi sessuali nel corso dei decenni passati perché li ricordasse nella sua preghiera. 
Poco più di venti minuti di commozione intensissima per tutti i presenti. Ma un lungo passo nel cammino di risanamento spirituale e di purificazione della Chiesa. Dalla pagina del dolore e della vergogna si passa così alla pagina della speranza. La Chiesa in America e tutta la Chiesa saranno molte grate al Papa di questo suo aiuto così determinato e spiritualmente efficace. 
In soli tre giorni, dopo le parole nella conversazione con i giornalisti in aereo, le considerazioni rivolte ai vescovi e l'importante passaggio dell'omelia nella grande messa al Nationals stadium, il Santo Padre ha anche voluto fare questo gesto che, attraverso le poche persone fisicamente presenti, in realtà ne ha raggiunte moltissime proprio con un messaggio concreto di speranza cristiana, secondo il tema di questo viaggio: Cristo è la nostra speranza.

(L'Osservatore Romano 19 aprile 2008)


    

       


In una conferenza del 1990 

Quando Ratzinger difese Galileo alla Sapienza

Giorgio Israel
Professore ordinario di Matematiche complementari 
Università di Roma La Sapienza

È sorprendente che quanti hanno scelto come motto la celebre frase attribuita a Voltaire - "mi batterò fino alla morte perché tu possa dire il contrario di quel che penso" - si oppongano a che il Papa tenga un discorso all'università di Roma La Sapienza.
È tanto più sorprendente in quanto le università italiane sono ormai un luogo aperto ad ogni tipo di intervento ed è inspiegabile che al Papa soltanto sia riservato un divieto d'ingresso. Che cosa di tanto grave ha spinto a mettere da parte la tolleranza volterriana? Lo ha spiegato Marcello Cini nella lettera dello scorso novembre in cui ha condannato l'invito fatto dal rettore Renato Guarini a Benedetto XVI. 

Quel che gli appare "pericoloso" è che il Papa tenti di aprire un discorso tra fede e ragione, di ristabilire una relazione fra le tradizioni giudaico-cristiana ed ellenistica, di non volere che scienza e fede siano separate da un'impenetrabile parete stagna. Per Cini questo programma è intollerabile perché sarebbe in realtà dettato dall'intento perverso, che Benedetto XVI coltiverebbe fin da quando era "capo del Sant'Uffizio", di "mettere in riga la scienza" e ricondurla entro "la pseudo-razionalità dei dogmi della religione". Inoltre, secondo Cini, egli avrebbe anche prodotto l'effetto nefasto di suscitare veementi reazioni nel mondo islamico. Dubitiamo però che Cini chiederebbe a un rappresentante religioso musulmano di pronunziare un mea culpa per la persecuzione di Averroè prima di mettere piede alla Sapienza. Siamo anzi certi che lo accoglierebbe a braccia aperte in nome dei principi del dialogo e della tolleranza. 

L'opposizione alla visita del Papa non è quindi motivata da un principio astratto e tradizionale di laicità. L'opposizione è di carattere ideologico e ha come bersaglio specifico Benedetto XVI in quanto si permette di parlare di scienza e dei rapporti tra scienza e fede, anziché limitarsi a parlare di fede. 

Anche la lettera contro la visita firmata da un gruppo di fisici è ispirata da un sentimento di fastidio per la persona stessa del Papa, presentato come un ostinato nemico di Galileo. Essi gli rimproverano di aver ripreso - in una conferenza tenuta proprio alla Sapienza il 15 febbraio 1990 (cfr J. Ratzinger, Wendezeit für Europa? Diagnosen und Prognosen zur Lage von Kirche und Welt, Einsiedeln-Freiburg, Johannes Verlag, 1991, pp. 59 e 71) - una frase del filosofo della scienza Paul Feyerabend: "All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto". 

Non si sono preoccupati però di leggere per intero e attentamente quel discorso. Esso aveva come tema la crisi di fiducia nella scienza in sé stessa e ne dava come esempio il mutare di atteggiamento sul caso Galileo. Se nel Settecento Galileo è l'emblema dell'oscurantismo medioevale della Chiesa, nel Novecento l'atteggiamento cambia e si sottolinea come Galileo non avesse fornito prove convincenti del sistema eliocentrico, fino all'affermazione di Feyerabend - definito dall'allora cardinale Ratzinger come un "filosofo agnostico-scettico" - e a quella di Carl Friedrich von Weizsäcker che addirittura stabilisce una linea diretta tra Galileo e la bomba atomica. 

Queste citazioni non venivano usate dal cardinale Ratzinger per cercare rivalse e imbastire giustificazioni: "Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità". Esse piuttosto venivano addotte come prova di quanto "il dubbio della modernità su se stessa abbia attinto oggi la scienza e la tecnica". 

In altri termini, il discorso del 1990 può ben essere considerato, per chi lo legga con un minimo di attenzione, come una difesa della razionalità galileiana contro lo scetticismo e il relativismo della cultura postmoderna. Del resto chi conosca un minimo i recenti interventi del Papa sull'argomento sa bene come egli consideri con "ammirazione" la celebre affermazione di Galileo che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico. 
Come è potuto accadere che dei docenti universitari siano incorsi in un simile infortunio? Un docente dovrebbe considerare come una sconfitta professionale l'aver trasmesso un simile modello di lettura disattenta, superficiale e omissiva che conduce a un vero e proprio travisamento. Ma temo che qui il rigore intellettuale interessi poco e che l'intenzione sia quella di menar fendenti ad ogni costo. 
Né c'entra la laicità, categoria estranea ai comportamenti di alcuni dei firmatari, che non hanno mai speso una sola parola contro l'integralismo islamico o contro la negazione della Shoah. Come ha detto bene Giuseppe Caldarola, emerge qui "una parte di cultura laica che non ha argomenti e demonizza, non discute come la vera cultura laica, ma crea mostri". Pertanto, ripetiamo con lui che "la minaccia contro il Papa è un evento drammatico, culturalmente e civilmente".


(L'Osservatore Romano 16 gennaio 2008)

    

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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QUANDO BENEDETTO PARLAVA DI CREATO E 

DI REVISIONE DELLE COSCIENZE..... 

i Media hanno dimenticato tutto?



Una chiave di lettura per il summit sul clima 
Dal Papa un messaggio a Copenaghen


di Franco Prodi 
Una chiave di lettura per Copenaghen. Il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della pace 2010 è uscito quest'anno in singolare coincidenza con la Conferenza sui cambiamenti climatici conclusasi oggi nella capitale danese. Ed è un testo che si fa apprezzare per la comunicativa immediata, per la fusione di etica e concretezza economica, per la disinvoltura con la quale si spinge fino a suggerimenti economici e pratici, soprattutto per l'insistenza sulla centralità dell'uomo nel creato che ne costituisce il filo conduttore. Autorevoli commentatori si sono già cimentati sul messaggio papale contestualmente alla pubblicazione. Ma è utile provare a rileggerlo ora alla luce dell'esito finale del summit di Copenaghen. 
È percepibile, anzitutto, il forte contrasto fra il pacato dipanarsi del testo pontificio e la concitazione delle immagini della immensa sala con i grandi della terra che faticosamente cercano di produrre un documento condiviso. Una fatica che traspare dalla bozza del testo finale, nell'imbarazzo di dovere ricorrere all'ennesimo rinvio degli impegni di riduzione delle emissioni, con il tentativo dei Paesi ricchi di compensare con trasferimenti finanziari ai Paesi più poveri il debito contratto con l'uso trasbordante delle risorse energetiche. 

C'è poi un impegno quasi rodomontesco di "tenere sotto i due gradi il riscaldamento globale", come se l'obiettivo fosse alla portata grazie alla deterministica relazione di causa ed effetto tra sforzi da compiere e risultati attesi. Nessuno, al contrario, è stato sfiorato dal dubbio che si tratti di un obiettivo raggiungibile senza sforzo attraverso il naturale evolversi di un sistema così complesso e lontano dall'essere pienamente conosciuto. 
Per fortuna il messaggio del Papa viene a dire che "la crisi ecologica non può essere valutata separatamente dalle questioni a essa collegate, essendo fortemente connessa al concetto stesso di sviluppo e alla visione dell'uomo e delle sue relazioni con i suoi simili e con il creato". Chiede di operare nientemeno che "una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo". Parla inoltre di distorsioni dell'economia e dei suoi fini, di disfunzioni da correggere. 

Ma la visione certamente originale del messaggio è che la noncuranza dell'uomo verso il creato, il saccheggio dei beni naturali, si ritorce contro lui stesso. Viene stabilito un nesso causale fra la tendenza auto distruttiva dell'uomo moderno e la sua crisi culturale e morale, che si esprime nella noncuranza verso il creato. Il Pontefice arriva a responsabilizzare i Governi per questa crisi dilagante, perché non forniscono "progetti politici lungimiranti". 
La barriera dell'utopia viene addirittura scavalcata quando il messaggio addita l'enorme responsabilità delle decisioni economiche, con le loro conseguenze di carattere morale. L'attività economica deve rispettare l'ambiente dimostrando di considerare i costi di questo rispetto. Ne scaturisce un invito alla lotta al degrado e alla promozione dello sviluppo integrale come corollario a una dimensione più ampia della solidarietà internazionale vista come condizione culturale prima che come relazione unilaterale di stampo filantropico. 

Da meditare poi, da parte di quanti operano nella ricerca e nell'innovazione ambientali, l'invito a vedere nella lotta al degrado e nella formazione dello sviluppo umano integrale anche delle opportunità scientifiche. Per essi c'è anche la gradita sorpresa di esplicite indicazioni per lo sviluppo del solare, la gestione dell'acqua e delle foreste, l'uso di tecniche agricole rispettose dell'ambiente, la gestione dei rifiuti. 
In questa visione verrebbe quasi a cadere il concetto stesso di povertà, superato da una solidarietà a dimensione mondiale. L'imperativo della custodia del creato viene a migliorare l'interiorità dell'uomo ed è fattore di felicità. Esso conduce naturalmente alla pace perché aiuta a risolvere le sottocrisi nelle quali si manifesta la supercrisi ecologica. Il metodo della "sobrietà e solidarietà" vince lo sfruttamento indiscriminato che limita la disponibilità futura delle risorse. La connessione fra morale ed economia spinge il Papa a raccomandare norme giuridiche definite anche di compatibilità fra proprietà privata e destinazione universale dei beni. 

Dalla raccomandazione di stili di vita che privilegino beni immateriali (il vero, il bello, il buono) segue la promessa di reciprocità: "Nel prenderci cura del creato, noi constatiamo - assicura Benedetto XVI - che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi". 

Ecco quindi la strada che il messaggio del Papa indica ai partecipanti al Summit di Copenaghen: la necessità di frenare il degrado ambientale deve essere basata sulla convergenza di intenti più che sulla controversa contabilità delle emissioni. Un cammino ancora molto lungo, ma che può contare sulla guida del messaggio cristiano e del suo umanesimo. 
In Italia, intanto, l'esperto mostra in televisione il contenuto dello stomaco dei capodogli spiaggiati in questi giorni sul Gargano: sacchetti di plastica, reti da pesca, oggetti fra i più disparati. Il grande animale perde l'orientamento e soffoca per i prodotti dell'uomo. Un'immagine emblematica che scuote dall'indifferenza per il creato e chiama a stili di vita diversi e a una nuova concezione di sviluppo.

(L'Osservatore Romano 20 dicembre 2009)


 


Benedetto XVI e l'attenzione al creato 
«Viva il Papa, viva lo scoiattolo!»


di Lucetta Scaraffia 
Quando ho assistito in televisione all'arrivo del grande abete che troneggerà, carico di addobbi natalizi, al centro di piazza San Pietro nei giorni di Natale, mi sono domandata se, nel suo grande tronco, c'è qualche tana dove dorme - o meglio dormiva - uno scoiattolo. Perché questa è la trama della storia per ragazzi e adulti che, con profondità e ironia, ha raccontato Susanna Tamaro nel suo ultimo libro, Il grande albero (Salani), illustrato da Giulia Orecchia. 

Anche se parla di alberi e di animali, e il mondo è raccontato dal loro punto di vista, immaginando una loro coscienza e una capacità di comunicazione, non è un libro di facile propaganda ecologica, ma un artificio letterario poetico per farci riflettere sul rapporto freddo e irresponsabile, da padroni lontani, che intratteniamo con la natura. In un intreccio di tempi che si intersecano pur nella loro grande diversità - quello secolare della vita degli alberi, il tempo breve della vita degli animali selvatici e quello della vita umana - la personalità dell'abete, che con i secoli acquista conoscenza e saggezza, si dipana con tempi quasi musicali. 
Siamo pronti quindi anche noi lettori a vivere come dramma l'evento che ne segna il destino: arrivano esseri umani armati di motoseghe che lo tagliano e lo trasportano fino a piazza San Pietro. Ma il piccolo scoiattolo Crik, inconsapevole testimone del dramma, non si arrende, combatte per la vita dell'albero e in questa battaglia per ottenere un miracolo salverà anche la sua vita. 

Con un piccione come aiutante, riesce ad arrivare davanti al Papa proprio mentre questi celebra la messa di Natale, sfuggendo al servizio di sicurezza, pronto ad abbatterlo perché sospetta che anche questo piccolo animale possa essere un messaggero dei terroristi. Ci riesce perché il Papa lancia un segnale di sospensione e, nello stupore generale, si accinge ad ascoltare quello che gli vuole comunicare lo scoiattolo: naturalmente, tutto succede in diretta televisiva, fra commenti cattivi e increduli di chi pensa sia un segno di pazzia del vecchio Papa, ed è pronto a indignarsi: "Qualcuno lo deve fermare, ne va del nostro prestigio. Siamo in mondovisione!". 

Ma il Papa non demorde, e anzi parla di alberi e di scoiattoli nella sua omelia, in cui propone i grandi alberi, le cattedrali verdi, come esempio: "E se non affondiamo le radici nella terra, come facciamo ad alzare lo sguardo verso il cielo?". Fra il giubilo dei presenti, che inneggiano "Viva il Papa, viva lo scoiattolo!" si avvicina all'albero, e lo abbraccia: "La corteccia era ruvida contro la sua guancia. Il profumo della resina era il profumo della sua giovinezza. Quante volte, passeggiando sui monti Tatra, l'Altissimo gli aveva parlato con il mormorio delle fronde, in quegli istanti sembrava che il tempo abbracciasse già l'eternità". 
E poi benedice Crik, "umile creatura infiammata dall'amore". Il giorno successivo, un enorme camion riporterà il grande abete e lo scoiattolo alla foresta dove, ricongiunto alle sue radici, l'albero riprenderà a vivere. 

Non sappiamo se nel gigantesco abete portato per questo Natale c'è uno scoiattolo, sappiamo però che, se ci fosse, anche Benedetto XVI, come il Giovanni Paolo II immaginato dalla Tamaro, saprebbe ascoltarlo. Papa Ratzinger, infatti, è ben noto per l'attenzione che sa prodigare al creato e alle sue creature, e per di più ha sempre confessato uno speciale amore verso i gatti, come racconta un altro grazioso libretto, uscito qualche tempo fa con prefazione di Georg Gänswein, Joseph e Chico (Edizioni Messaggero). Qui è un gatto, Chico, che racconta la sua lunga amicizia con il Papa, che gli ha detto molte cose di sé, e quindi sa comunicare nello speciale linguaggio dei gatti. 

È anche con libri come questi che si può sensibilizzare i lettori sui temi ambientali, e si può far capire come la Chiesa abbia a cuore il benessere non solo degli esseri umani, ma anche del mondo, animale e vegetale, che Dio ci ha affidato.



(L'Osservatore Romano 11 dicembre 2009)



PAPA: DON GEORG, GLI VOGLIONO BENE ANCHE I PESCI DELLO STAGNO 

Salvatore Izzo 

(AGI) - CdV, 11 dic. 

"Ogni volta quando il Papa termina la sua preghiera con un canto mariano davanti alla Madonnina, i pesci si riuniscono alla sponda del laghetto e aspettano un gesto generoso del Santo Padre". E Benedetto XVI prende da un cestino "che una mano invisibile ha preparato" pezzetti di pane, con i quali sfama i pesci (due pesciolini rossi e due grandi carpe). 

"Che gioia e che vivacita' quando arriva nell’acqua il gradito dono!”. 
Sono parole di monsignor Georg Gaenswein, che e' stato festeggiato questo pomeriggio da numerosi curiali e amici in occasione della presentazione del libro "Il mistero di un piccolo stagno" in cui la pittrice russa Natalia Tzarkova, racconta una splendida favola per bambini attraverso i suoi disegni acquerellati e dai colori vivi. 

Lo stagno, ovviamente, e' quello del Giardino della Madonnina, situato all’interno dei Giardini delle Ville Pontificie di Castel Gandolfo. E la storia e' quella di un pesciolino che attende il Papa, una vicenda tenerissima che ha commosso monsignor Gaenswein, segretario particolare del Papa e da poco anche prefetto della Casa Pontificia, fino a convincerlo a scriverne la prefazione, nella quale confida che il Giardino della Madonnina e' uno dei posti privilegiati per la preghiera di Benedetto XVI.
Il protagonista del libro presentato oggi pomeriggio da don Georg e' Bianco, un pesciolino rosso chiamato cosi' proprio in onore del Pontefice. 
Una mattina si sveglia presto e coglie nell'acqua il riflesso della statua della Madonna, che il suo pesce papa' gli spiega chiamarsi "Signora delle Grazie". E poi si emoziona all'arrivo del Papa, che prima snocciola il rosario, e poi getta dei pezzetti di pane. Comincia cosi' l'attesa, ogni giorno, l'emozione di vedere di nuovo quella figura avvicinarsi. 
Ma ogni tanto il Papa cambia il percorso della sua passeggiata, ogni tanto parte e poi torna. E poi a un certo punto, se ne va piu' a lungo del solito, resta a Roma per i lunghi mesi dell'inverno. Bianco ovviamente non lo sa, il suo mondo e' lo stagno. Non dorme, si consuma nell'attesa del ritorno della figura vestita di bianco. Ed ecco che arriva un gatto, l'animale che Benedetto XVI ama piu' di tutti. Questi non prova a mangiare i pesci, non infila le zampe nell'acqua per attaccarli. Beve un po' di acqua dello stagno, e fa a Bianco una importante rivelazione. 

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"E' un libro - commenta il sito cattolico Korazym.org - da leggere, ma anche e soprattutto da guardare (l'autrice e' considerata una delle massime eredi della scuola delle arti figurative russe). E magari da leggere ad alta voce ai piu' piccoli. Per raccontare loro la vita semplice del Papa, lontana dai clamori dei riflettori. Una vita fatta di preghiera e, perche' no, di un po' di tempo passato davanti a un piccolo stagno a dar da mangiare ai pesci rossi". 
"Non e' un segreto - ha sottolineato da parte sua il neo arcivescovo Gaenswein - che il nostro Papa ama le creature e piu' sono piccole piu' le ama. Con questo pesciolino rosso ha avuto un contatto molto intenso e poi alla fine quale animale riesce a consolare il pesciolino rosso? E' un animale che in modo particolare sta a cuore al nostro Santo Padre". "Chi legge queste trenta pagine - ha aggiunto don Georg riferendosi al libro della pittrice russa che ha accettato di presentare - lo si puo' fare in venti minuti, legge una volta, una seconda una terza volta e poi comincia a capire che il messaggio non e' neanche cio' che si legge ma il messaggio e' tra le righe. 

Davanti ad un pubblico di prelati, amici e giornalisti, don Georg ha raccontato questa sera anche qualcosa della sua esperienza di vice parroco in un piccolo paese della Foresta Nera, dove 28 anni fa era stato vice parroco: "un impegno importante - ha detto - che diventava anche un impegno di cuore, anzi una cosa che mi sta molto a cuore, era la vita pastorale per i bambini e la confessione che devo fare e' la seguente: non e' mai facile preparare una omelia, qualche volta si riesce meglio, qualche volta di meno, dipende da diverse cose. Ma preparare una omelia per i bambini e' massacrante perche' i piccoli non ti perdonano niente: le lacune logiche ti fanno cadere nella trappola, la superficialita' te le fanno capire subito e non ti perdonano se tu non sei sincero. Se sei sincero ti perdonano tutto, ma se non sei sincero hai perso una volta per tutte. E il bello di preparare e anche di tenere l’omelia per i bambini e' che non si predica soltanto per i bambini, ma anche per gli adulti e non mai visto gli adulti cosi' attenti come quando sono presenti alla messa per i bambini". 
 
 

senza dimenticare che Ratzinger è davvero amante dei GATTI.... 

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Un merlo bianco nei giardini del Papa


di Francesco M. Valiante 


Avesse dato retta al Merlo bianco, oggi Pinocchio sarebbe un altro. Magari un attempato signore in pensione dopo un'onesta vita trascorsa tra famiglia e lavoro. Poco o niente da raccontare ai nipotini:  una fanciullezza tranquilla, spensierata, mai un giorno di scuola marinato, sempre alla larga dai pasticci e dai guai. Solo quello strano ricordo di un lungo naso di legno, retaggio di vecchi incubi infantili presto svaniti. 

E dire che l'avvertimento del volatile non difettava di buon senso:  "Non dar retta - gli aveva gridato - ai consigli dei cattivi compagni se no, te ne pentirai". La penna accorta di Carlo Collodi glielo aveva fatto incontrare proprio sul cammino che dal teatro dei burattini portava alla casa di Geppetto. Un'ancora di salvezza a metà strada tra la rovina e la redenzione. Ma non c'era stato niente da fare. Anche perché a tacitare la già esitante coscienza  di Pinocchio ci aveva pensato il  Gatto, che con un balzo si era avventato sull'uccello divorandolo in un sol boccone prima che potesse proferire altro.
 
Diciamo la verità:  a nessun bambino verrebbe in mente di rimpiangere il povero animaletto. Chi può immaginare un libro di fiabe orfano delle peripezie del burattino più famoso del mondo? Destino ingrato, quello del giudizioso volatile. E di tutti quei consiglieri saggi e assennati che diventano sempre più rari compagni di strada lungo i sentieri della vita. Proprio come i merli bianchi. 

Che poi, a dispetto della simbologia popolare, tanto rari non sono, stando alle acquisizioni della scienza ornitologica. "Aberrazioni cromatiche" le chiamano gli studiosi, con un'espressione che, in verità, sembra evocare terrificanti alchimie genetiche piuttosto che innocenti scherzi della natura. Pare sia tutta una questione di pigmenti:  nel caso dei merli le melanine, agenti responsabili della colorazione scura del piumaggio. 


Quando sono del tutto assenti si parla di albinismo, quando sono prodotte in quantità minime si è in presenza di leucismo. 

Merli albini e merli leucistici - discendenti dell'illustre ma sfortunato progenitore finito tra le grinfie del gatto di Pinocchio - non sono così insoliti da osservare, assicurano gli esperti. Anche in un angolo verde del tutto particolare come i Giardini Vaticani. Ce n'è un esemplare nella zona del giardino alla francese, alle spalle della Grotta di Lourdes, che non di rado si concede all'osservazione dei bird-watcher più fortunati nella cerchia delle Mura leonine. Tra i quali lo stesso Benedetto XVI e uno dei suoi segretari, monsignor Alfred Xuereb, che lo hanno notato durante la quotidiana preghiera del rosario recitato passeggiando lungo i viali. 

Fortuna che nessuno dei due ha propensioni venatorie, verrebbe da dire. Fatto sta che il prelato, incoraggiato anche dal Papa, si è messo di impegno con l'intenzione di "catturarlo". Ma per farlo è bastata una macchina fotografica dotata di un potente obiettivo. Che unita a una buona dose di pazienza e a uno spirito di osservazione non comune gli ha consentito il giorno seguente, al termine di un appostamento neanche tanto lungo, di immortalare in una serie di splendidi scatti (pubblicati in questa pagina) il volatile. Del tutto ignaro - soprattutto dopo la cattiva sorte capitata al suo più celebre avo - di essere divenuto oggetto nientedimeno che dell'attenzione del Romano Pontefice.
 
I suoi "colleghi" neri - una delle colonie più numerose tra le specie di uccelli che affollano i Giardini Vaticani - non se ne avranno certo a male. Anche perché, a dare ascolto a un'altra leggenda, quell'esemplare dal piumaggio candido custodirebbe in realtà le sembianze della loro originaria bellezza. Altro che pigmenti e melanine. Pare infatti che un tempo tutti i merli fossero bianchi. La loro attuale colorazione corvina sarebbe legata al freddo rigido delle ultime tre giornate di gennaio - da qui l'espressione "i giorni della merla" - che avrebbe costretto appunto una merla intirizzita a rifugiarsi con i piccoli all'interno di un comignolo. Dal quale sarebbero poi usciti ricoperti di fuliggine. E perciò, da allora, completamente neri. Dev'essere per questo che un altro acuto osservatore naturalista come il romanziere francese Jules Renard ha scritto:  "Il merlo bianco esiste; il merlo nero non ne è che l'ombra". C'è da scommettere che cominci a pensarlo anche il Papa.



(L'Osservatore Romano - 11 dicembre 2009)
 
    


A metà dell'Anno sacerdotale
Realtà e metodo dell'Incarnazione

di Mauro Piacenza
Arcivescovo titolare di Vittoriana
Segretario della Congregazione per il clero

Lettera di indizione dell'Anno Sacerdotale in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney (16 giugno 2009)
[Cinese semplificato, Cinese tradizionale, Croato, Francese,Inglese, Italiano, Neerlandese, Polacco, Portoghese,Spagnolo, Tedesco]

Sono trascorsi sei mesi dall'inizio dell'Anno sacerdotale, che è stato inaugurato da Benedetto XVI lo scorso 19 giugno 2009 e che, silenziosamente ma con efficacia, prosegue il proprio cammino nella Chiesa in tutto il mondo, vedendo la semina e già qualche fioritura, che lascia sperare buoni frutti. A metà di questo anno, il solo bilancio in sintonia con il vero spirito dell'indizione di tale provvida iniziativa è quello che riguarda la conversione di ciascuno, soprattutto in ordine alla focalizzazione dell'identità sacerdotale e all'immedesimazione con tale identità, che tanto determina del ministero che ci è affidato, sia come realtà accolta dalla grazia sacramentale dell'ordinazione, sia come metodo prima esistenziale e poi di evangelizzazione.
In questi giorni, già nella novena di Natale, siamo chiamati a fare memoria del mistero dell'Incarnazione del Verbo, il Dio con noi; mistero che eccede la nostra capacità di comprensione e la nostra stessa attesa di salvezza: se partecipiamo, come sacerdoti, all'anelito umano universale alla salvezza ed alla rivelazione, intese anche come compimento e accoglienza del significato pieno dell'esistenza, non di meno il modo scelto da Dio per rivelarsi oltrepassa ogni possibile aspettativa umana, e abbraccia, dilatandola enormemente, la stessa capacità umana di domanda.

Contempliamo, in questi giorni così densi di attività, cioè di servizio di fede ai fratelli, il mistero straordinario dell'Incarnazione, non limitandoci a concepirlo come, appunto, mistero, ma andando al fondo di ciò che la fede, da sempre, ci dice: il mistero è ciò che, una volta incontrato e compreso, non è esauribile dalla nostra intelligenza.
Quello che, probabilmente con maggiore efficacia, possiamo tradurre in esperienza esistenziale e in modo di servizio pastorale è il metodo inaugurato nel mondo dall'Incarnazione del Verbo. Dio non ha scelto di inviarci un libro, non si è rivelato in visioni strane ed incomprensibili, non ha imposto regole morali. Dio si è fatto uomo! Ha scelto di entrare nella storia, nella carne, condividendo dal di dentro l'esperienza della sua creatura, di quella che egli stesso ha posto a custodia di tutto il creato, costituendola quale unico punto di autocoscienza del cosmo.

Il nostro ministero sacerdotale, soprattutto in questo tempo che vede tanti fratelli avvicinarsi a noi, per le ragioni talvolta più diverse, deve essere, almeno come tentativo e desiderio, esattamente questo: aiutare quanti incontriamo a fare l'esperienza di un Dio vicino, implicato realmente con la pasta umana e, nel contempo, proprio perché implicato, capace di innalzare, elevare la miseria e la debolezza umana, alle altezze più inattese, alla stessa sua vita divina. La preghiera, il concepirsi del sacerdote come incessante preghiera per l'umanità tutta, il vivere la propria esistenza come offerta totale al Signore, nella radicalità del celibato e nella fedeltà all'ininterrotta tradizione della Chiesa, sono elementi costitutivi della possibilità stessa di condurre i fratelli al Signore: essi guarderanno colui a cui noi guardiamo, ameranno chi noi amiamo.

Potremo fare ciò, ben lo sappiamo, soltanto se, innanzitutto per noi, l'Incarnazione non sarà soltanto una verità di fede imparata, ma diverrà esperienza quotidiana e concreta di ogni giorno, nella certezza di una compagnia guidata, la Chiesa, che è garanzia, proprio attraverso la sua struttura sacramentale, così splendidamente umana, del permanere e dell'agire del Signore tra noi. Per noi infatti il Verbo si è fatto carne, per noi in Gesù di Nazareth Signore e Cristo abita corporalmente la pienezza della divinità, per noi l'Incarnazione è anche il metodo, il cammino con il quale il Signore ha deciso di raggiungerci e ci raggiunge adesso.
Sia questo metodo, l'unico direttamente divino e quindi certamente efficace, ad animare ogni scelta missionaria e ogni gesto sacramentale. Sia l'Incarnazione la vera misura della nostra pastorale, in un difficile, ma irrinunciabile equilibrio tra umano e divino, sempre ricordando che l'uomo Gesù non è mai esistito separato dal Logos eterno e che quindi la legittima distinzione tra umano e divino, lungi dal giustificare ingenui sociologismi da un lato o fughe spiritualistiche dall'altro, ci chiama costantemente a quella unità, in se stessa unica e irripetibile, ma spiritualmente desiderabile e ripresentabile, che è l'equilibrio e la prossimità dell'esperienza del Dio con noi.

Potrebbe essere questo il frutto buono che a metà dell'Anno sacerdotale domandiamo al Signore: una conversione autentica, un rinnovamento spirituale, che sia anche conversione di metodo, sia nel concepire la Chiesa come il reale proseguimento dell'Incarnazione, nel permanere del triplice ministero di annuncio, salvezza e guida di Cristo stesso, sia nel vivere il sacerdozio ministeriale come autentica possibilità, innanzitutto per gli stessi sacerdoti e poi per tutto il popolo di Dio, di fare esperienza della vicinanza del mistero. In definitiva, siamo ministri dell'Assoluto; nelle nostre mani il pane e il vino divengono corpo e sangue di Cristo, per la nostra assoluzione i peccatori vengono riconciliati con il Padre e con la Chiesa: chi più del sacerdote può rendersi conto di cosa significhi, come realtà e come metodo, l'Incarnazione del Verbo?

(L'Osservatore Romano 19 dicembre 2009)

 

[Modificato da Caterina63 07/06/2014 11:16]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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07/06/2014 11:17
 
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«Caritas in veritate» 

Paolo VI, Benedetto XVI e la matrice della dottrina sociale



di Robert P. Imbelli 
La Caritas in veritate ha suscitato grande attenzione per le sue conseguenze sulle questioni finanziarie in un momento di crisi economica. Senza negare l'importanza di queste considerazioni, è essenziale non ignorare le sfide strettamente teologiche poste dall'enciclica. Secondo il Papa, infatti, gli interessi economici non possono essere separati da ciò che in definitiva è più importante per l'umanità: l'economia divina della salvezza. 

La prima caratteristica dell'enciclica è il richiamo al fondamento della dottrina sociale della Chiesa, ovvero l'annuncio di Gesù Cristo. Una conseguenza dell'orientamento cristologico del testo è che questa dottrina è radicata nel Vangelo e non nella legge naturale. Non si vuole certo escludere l'appello alla legge naturale, tipico della riflessione cattolica sul sociale. Esistono infatti alcuni contesti specifici dove esso è opportuno e perfino necessario, ma il desiderio di trovare un terreno comune per tutte le persone di buona volontà può involontariamente sradicare la legge naturale dal fertile suolo che solo può nutrirla e sostenerla. 

In altre parole, la legge naturale è una "astrazione" ottenuta partendo da un linguaggio cattolico di gran lunga più esaustivo e profondo, che esprime una visione dell'umanità e del mondo: quell'umanesimo integrale, tanto caro a Paolo VI e ora confermato da Benedetto XVI. Infatti, a meno che non venga invocato e utilizzato questo più ricco linguaggio cattolico, come fa il Papa in tutta la Caritas in veritate, si rischia di ridurre la religione all'etica, al rapporto personale, alla fraternità e alla promozione di una causa (per quanto giusta e desiderabile possa essere). 

Una seconda caratteristica dell'enciclica è la necessità di fare ricorso a una visione integrale dell'uomo, come già nella Populorum progressio. Questo "vero umanesimo integrale" (n. 78) è una veste senza cuciture che intesse l'individuale e il sociale, il corpo e l'anima, l'interesse per la città terrena e la speranza nella città celeste. È degno di nota che Benedetto XVI riunisca in una visione globale testi magisteriali di Paolo VI troppo spesso trascurati dai cattolici: cioè la Populorum progressio, l'Humanae vitae e l'Evangelii nuntiandi, documenti che, insieme, rendono vigorosa testimonianza di una visione, aperta alla speranza, dell'essere umano e del suo destino. 

Questa visione dell'uomo, tradizionalmente cattolica, è radicata in definitiva nella cristologia. La convinzione di Benedetto XVI riflette fedelmente l'insegnamento della Gaudium et spes, la quale afferma che "solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" (n. 22). 

L'enciclica lancia quindi una sfida ulteriore al pensiero e all'azione dei cattolici. Si tratta della necessità di promuovere una ricezione integrale del Vaticano ii e delle quattro Costituzioni conciliari: ognuna, infatti, illumina le altre. I sostenitori della Gaudium et spes e del suo interesse sociale devono svilupparne i fondamenti alla luce della Dei verbum. 
A loro volta, i fautori della riforma liturgica, cominciata con la Sacrosanctum concilium, devono considerare il culto della Chiesa associato intimamente alla testimonianza richiesta dalla Lumen gentium sulla Chiesa "sacramento di salvezza" per tutto il mondo. 

In un discorso nell'anniversario del crollo della Lehman Brothers, il presidente degli Stati Uniti ha detto che "è stato un fallimento della responsabilità". Naturalmente, nel caso di Wall Street Barack Obama non poteva usare la parola conversione. Il Papa invece può dire a gran voce quello che i politici possono soltanto sussurrare. Il necessario cambiamento strutturale non può sostituire la conversione autentica del cuore e della mente. 

Ma siccome la conversione è un imperativo permanente, la dottrina sociale della Chiesa è completa solo quando è incarnata in una spiritualità che nutre il suo impegno per la carità nella verità. Questa spiritualità "pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono" e promuove la realizzazione della "gratuità presente nella sua vita in molteplici forme" (n. 34), e per i cattolici è sempre radicata nell'Eucaristia. Insomma, la dottrina sociale deriva e dipende dalla matrice liturgica ed ecclesiale e dalle sue affermazioni dogmatiche. 

Qualcuno potrebbe obiettare: una simile lettura dell'enciclica non impedisce il dialogo con altre tradizioni e non rivela un atteggiamento settario? Credo di no. Può invece spronare quanti condividono le proposte e i valori della Caritas in veritate a considerare la base delle proprie convinzioni. In questo modo, il dialogo non potrà che essere più profondo(cfr. n. 55).

(L'Osservatore Romano 8 novembre 2009)



    




"Caritas in veritate" 

L'enciclica della fraternità universale


di Rosino Gibellini 
La Caritas in veritate si potrebbe definire l'enciclica della fraternità universale perché questa è la categoria teologica centrale nel discorso complesso di Benedetto XVI sulla realtà sociale del nostro mondo in via di globalizzazione. Il Papa si inserisce nella dottrina sociale della Chiesa con una modalità particolare, espressa, appunto, dalla categoria della fraternità universale. È stato osservato che Giovanni Paolo II parlava spesso di socialità, un tema che Benedetto XVI riconduce alla sua fonte teologica, e cioè la fraternità. Il terzo capitolo dell'enciclica (n. 34-42) s'intitola Fraternità, sviluppo economico e società civile e si può considerare il centro teologico del testo papale. 

Il concetto di fraternità è caro alla teologia di Joseph Ratzinger, che vi aveva dedicato il corso viennese del 1958, quando il giovane teologo era agli inizi della sua docenza nel seminario filosofico-teologico di Frisinga. Il corso sarà poi pubblicato nel 1960 (quando Ratzinger era già arrivato all'università di Bonn), con il titolo Die christliche Brüderlichkeit (München, 1960; nuova edizione, München, Kösel-Verlag, 2006; traduzione italiana, Roma, 1962; nuova traduzione, Brescia, Queriniana, 2005). La fraternità cristiana - si spiega in quel testo - è quella interna alla Chiesa: è "la reciproca fraternità dei cristiani" che invocano Dio, confidenzialmente, come Abba ("Padre nostro"), come Gesù ci ha insegnato. Ed è una fraternità aperta, perché la Chiesa è sempre - citando von Balthasar - "uno spazio aperto e un concetto dinamico"; essa "è infatti il movimento di penetrazione del regno di Dio nel mondo, nel senso di una totalità escatologica" (La fraternità cristiana, p. 100). 
La fraternità cristiana traccia anche dei confini, pone una dualità tra Chiesa e non chiesa. Ma "la comunità cristiana fraterna non è contro, bensì a favore del tutto" ed "è chiaro che l'opera di Gesù non mira propriamente alla parte, bensì al tutto, all'unità dell'umanità" (ivi, p. 94). La fraternità cristiana non è riducibile a filantropia, non è assimilabile al cosmopolitismo stoico o illuminista, ma è espressione di "vero universalismo", perché è posta "al servizio del tutto", tramite agàpe ("amore") e diakonìa ("servizio"). 

Nel testo richiamato è bene evidenziata la differenza tra fraternità universale nell'illuminismo e nel cristianesimo. È vero che l'illuminismo ha ampliato il concetto di fratello, parlando di fraternità universale sulla base della comune natura umana. Ma una fraternità così estesa può diventare irrealistica e vaga espressione di umanitarismo, come evidenziano le parole del pur grande inno alla gioia di Schiller: "Abbracciatevi, moltitudini". La fraternità cristiana, invece, si apre all'altro, e si fa fraternità universale appunto nell'agàpe e nella diakonìa, abbattendo così, nella concretezza della vita, ogni barriera. È il tema ripreso nell'enciclica. 

Nella Caritas in veritate si afferma infatti che la vera fraternità, operante oltre ogni barriera e confine, nasce dal dono, la cui logica è introdotta nel tessuto economico, sociale e politico: "La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-amore. Nell'affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone a essa in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio gratuità come espressione di fraternità" (n. 34). 

Secondo il Papa, nel tempo della globalizzazione in cui ormai l'umanità è entrata, e in cui essa diventa "sempre più interconnessa" (n. 42), gli esseri umani hanno bisogno come singoli e come comunità di un criterio etico fondamentale. Questo criterio è una categoria teologica, quella della fraternità universale, che ci fa considerare membri della stessa "famiglia umana". Se si volesse citare una sola affermazione dell'enciclica, per andare al centro della visione che essa propone, si potrebbe scegliere questa: "La globalizzazione è fenomeno multidimensionale o polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell'unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere e orientare la globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione" (n. 42). 

È questa la parte più strettamente teologica, sul cui registro sono da leggere le indicazioni concrete di etica sociale ed economica contenute nell'enciclica, che insieme propone come chiave di lettura la visione della "fraternità universale" e la logica conseguente della "relazionalità" e della "condivisione" come criterio fondamentale e come orientamento "teologico". Per essere "capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie al servizio di un vero umanesimo integrale" (n. 78).

(L'Osservatore Romano 1 novembre 2009)



    




«Caritas in veritate»   Oltre la dottrina sociale


di Brian Griffiths of Fforestfach
Vicepresidente di Goldman Sachs International 
I sostenitori del liberismo economico hanno accolto tiepidamente l'enciclica Caritas in veritate. Essi riconoscono il suo positivo sostegno al profitto, all'economia di mercato, alla globalizzazione, alla tecnologia e al commercio internazionale. Alcuni la considerano tuttavia un miscuglio di cose buone e cattive, perché esorta a maggiori aiuti internazionali, al rafforzamento del potere dei sindacati e alla gestione della globalizzazione da parte di istituzioni internazionali. Altri ritengono che sia un passo indietro rispetto alla Centesimus annus, perché non incensa gli imprenditori e la cultura imprenditoriale. Altri argomentano che, essendo le questioni sociali ed economiche divenute così complesse, il tempo delle encicliche papali che propugnano la dottrina sociale della Chiesa è ormai finito. 

Dissento con forza. Questa enciclica è un documento straordinariamente incisivo. Ha posto con fermezza nell'agenda internazionale la fede cristiana quale visione del mondo. Affronta tutte le questioni chiave del nostro tempo - la crisi finanziaria, la povertà globale, l'ambiente, la globalizzazione, la tecnologia - e dimostra che la fede cristiana può offrire una prospettiva unica su ognuna di esse. Non mi viene in mente nessun altro scritto di un singolo cristiano né un testo di un'altra Chiesa che possa avere il suo impatto.  

La grande forza dell'enciclica è la sua teologia. Attinge alle profonde riflessioni sull'insegnamento cristiano che Benedetto XVI ha elaborato in oltre sei decenni e dimostra l'importanza della fede cristiana oggi. Per esempio, riconosce che l'ambiente è un dono di Dio all'umanità e che noi ne siamo amministratori, ma, nello stesso tempo, rifiuta il panteismo e l'idea che la natura sia un intoccabile tabù. Afferma che il lavoro ha una dignità innata, derivante dal nostro essere creature di Dio, ma che è violata dalla crescente disoccupazione prodotta dalla crisi. L'economia di mercato crea prosperità, ma quando viene meno la fiducia, come ora a causa della crisi, la coesione sociale è minata. 

La teologia dell'enciclica è soprattutto cristocentrica. La vita di Gesù è, infatti, l'esempio supremo di "amore pieno di verità". Riecheggiando Paolo VI, Benedetto XVI afferma che la vita "in Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo" e che la fede cristiana, occupandosi dello sviluppo, non conta "su privilegi o posizioni di potere e neppure sui meriti dei cristiani, ma solo su Cristo... il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo". Mentre leggevo l'enciclica per la terza volta ho cominciato a capire che le sue intuizioni teologiche sono così profonde da dover essere letta non solo sul piano intellettuale, come formulazione di dottrina sociale, ma anche in maniera meditativa, perché offre una visione profonda della persona umana. 

La Caritas in veritate porta la sua più grande sfida a una visione dominante del mondo, ispirata al liberismo economico e al libertarismo filosofico, che hanno elevato ad assoluto la libertà personale. L'enciclica respinge categoricamente la visione che la vita economica sia autonoma e che possa essere indipendente dalla morale. L'attuale crisi finanziaria è in parte il crollo di un sistema visto meccanicamente, ma è anche la continua rappresentazione di un dramma morale. La vita economica è composta da individui con una coscienza morale e responsabilità personali che hanno bisogno di una bussola morale che li guidi. 

Di conseguenza essa non può essere concepita come qualcosa di impersonale e amorale, come un ordine spontaneo che lasciato a se stesso produrrà il bene comune. Per questo, la difesa del libero mercato da parte di economisti laici quali Friedrich Hayek e Milton Friedman è viziata dalla loro visione imperfetta della persona umana e dalla loro limitata comprensione del fondamento morale dei mercati. 

L'enciclica è un argomento a favore dell'umanesimo cristiano. La persona umana che ha dignità, merita giustizia e porta l'immagine divina deve stare sempre al centro della vita economica. Il banco di prova di qualsiasi riforma è dunque il suo impatto sulle persone, sui loro rapporti e sulle loro comunità. Per questo l'enciclica non suggerisce un sistema economico alternativo al capitalismo. Sostiene, infatti, qualcosa di infinitamente più radicale: un'economia di mercato globale, pervasa di carità e di giustizia, rispettosa della verità del mondo creato da Dio e delle persone che ne portano l'immagine. "Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l'appello del bene comune". 

L'enciclica considera questo un progetto realistico e non un ideale impossibile. La crisi finanziaria ha creato un bivio per tutti noi, per le istituzioni finanziarie in cui lavoriamo e le società in cui viviamo. La Caritas in veritate è un'esortazione rivolta ai cristiani a rinnovare la propria visione di ciò che è possibile, a viverla con l'aiuto di Dio e, così facendo, a servire il mondo con amore.

(L'Osservatore Romano 24 ottobre 2009)


    


La visita del Papa alla diocesi di Viterbo 

Da Agostino a Bonaventura



Il desiderio di visitare Viterbo e Bagnoregio - è il sedicesimo incontro con una diocesi italiana - Benedetto XVI l'ha portato sempre con sé. Per via di san Bonaventura, il Dottore serafico, figura capitale nella sua formazione culturale. Quando nel 2007 Papa Ratzinger si inginocchiò a Pavia ai piedi delle spoglie mortali di sant'Agostino, un altro dei suoi fari nel personale itinerario teologico, era facile prevedere che, presto o tardi, sarebbe andato a visitare Bagnoregio, patria di Bonaventura, eminente seguace di Agostino. 
Il grande Padre africano, il teologo francescano e Tommaso d'Aquino formano tre direttori di orchestra che interpretano con diversa sensibilità la stessa sinfonia. Sommi maestri che hanno cercato di capire il rapporto tra fede e ragione, tra fede e storia; in altri termini, quale rapporto ci possa essere tra Dio e l'uomo, tra la realtà invisibile e quella visibile e come cambi il senso della vita personale e sociale aprendo la propria anima e il proprio intelletto alla contemplazione di Dio. 

La filosofia - scriveva san Bonaventura - è una via per arrivare alle altre scienze, ma chi si vuole fermare cade nelle tenebre. Andare oltre la conoscenza di ragione aprendosi, almeno come interrogativo plausibile, alla conoscenza della fede ha rappresentato un filo costante nella riflessione dei Padri della Chiesa. E per san Bonaventura Cristo rimane la via di tutte le scienze. 

Sprazzi di vita di Joseph Ratzinger, prima che diventasse Papa, aiutano a capire la genesi lontana dell'odierna visita pastorale a Viterbo e Bagnoregio. 
Il 13 novembre 2000 il cardinale Ratzinger si presentò alla Pontificia Accademia delle scienze di cui era divenuto membro, richiamando brevemente la sua formazione teologica, determinata dal movimento biblico, liturgico ed ecumenico. E mise a fuoco due figure eminenti, Agostino e Bonaventura, sulle quali si era concentrato negli studi prima della "meravigliosa opportunità di presenziare al concilio Vaticano ii come esperto". Un tempo "molto gratificante della mia vita - ricordava Ratzinger - nel quale mi fu possibile essere parte di tale riunione, non solo tra vescovi e teologi, ma anche tra continenti, culture diverse e distinte scuole di pensiero e di spiritualità nella Chiesa". 

È sotto gli occhi di tutti come i temi cari ai Padri della Chiesa siano quelli prediletti dal magistero ordinario di Benedetto XVI e come egli, proprio passando attraverso la scuola del concilio, sappia dare eco al linguaggio patristico rivitalizzandolo nel mondo globalizzato e ipertecnico di oggi. 

Una direzione di marcia che, dal primo incontro con Agostino e Bonaventura, ha poi sempre mantenuto. Non arroccandosi, ma dialogando con le scienze moderne, convinto che la ricerca della verità senza pregiudizi porti a una maggiore comprensione umana e a un'apertura alla trascendenza. 

Sulla scia dei Padri, Benedetto XVI non tiene per sé l'elaborazione teologica e l'esperienza cristiana conseguente, ma le condivide con i fedeli e anche con quanti semplicemente si interrogano sul senso del vivere e del morire, amare e sperare. Il vescovo di Viterbo, Lorenzo Chiarinelli, ha invitato il Papa in una città - che in tempi ormai remoti fu sede pontificia - per confermare la Chiesa diocesana nella fede. E questo significa dare più spazio nella vita quotidiana allo Spirito, leggere la storia con gli occhi di Dio, cominciando cioè dalla fine, quando tutte le cose si ritroveranno purificate e pacificate. 

La sensibilità del Papa per la spiritualità - vista come primario impegno della Chiesa, concretata nell'anno di riflessione sulla Parola di Dio nell'anniversario paolino e, ora, con un anno sacerdotale per tornare alle radici del ministero pastorale - non è un'espressione di timore della vita che ferve nella città secolare, ma mostra la sua convinzione che solo una vita animata dalle ragioni e dall'esperienza della fede cristiana possa dare credibilità alla Chiesa e alla sua predicazione su Dio. Di Lui non si può fare a meno perché egli è più intimo a noi di quanto non lo siamo a noi stessi. Difficile, pure volendo, accantonarlo e isolarlo, dal momento che Dio non è avversario dell'uomo. Come insegna Bonaventura e come ripete in molti modi Benedetto XVI.


(L'Osservatore Romano 6 settembre 2009)

    
[Modificato da Caterina63 07/06/2014 11:18]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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07/06/2014 11:20
 
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«Caritas in veritate» 
Come un lampo nel malessere della società

di Xavier Darcos
Membro dell'Institut - Ministro francese del Lavoro, delle relazioni sociali, della solidarietà e della città

Rivolgendosi a un mondo disorientato, non egualitario e traumatizzato dagli spasmi di una crisi globale, l'enciclica Caritas in veritate arriva al momento opportuno, come un lampo che squarcia nubi nere. Essa permette a Benedetto XVI di precisare di nuovo la dottrina della Chiesa di fronte alle realtà sociali di questo tempo, che si lascia andare alle leggi ciniche del profitto e a un'interdipendenza economica senza regole. Essa viene ad annunciare che altre strade sono possibili e necessarie. Essa attinge, alla fonte del messaggio cristiano, la speranza di orientamenti e di soluzioni innovatrici. 

Benedetto XVI celebra la carità, virtù cardinale della fede, slancio dell'anima verso l'altro, "via maestra della dottrina sociale della Chiesa". Egli si colloca dunque nel solco di luce della Rerum novarum di Leone XIII e della Populorum progressio di Paolo VI. Il Papa recupera prima di tutto il fondamento del cristianesimo - l'amore, la condivisione e la giustizia - per trovarvi rimedio alle tattiche egoiste del ciascuno per sé. Ricorda che il Vangelo apre un cammino verso una società di libertà e di eguaglianza. Poiché "un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali". 

Giovanni Paolo II aveva colpito l'opinione pubblica per la lotta dello Spirito, che egli incarnò, contro il marxismo sovietico e staliniano. Ma egli criticò anche le derive del capitalismo generalizzato e anomico. Con lo stesso slancio, Benedetto XVI fa un bilancio severo delle derive criminali della mondializzazione, dovute a una finanza fondata sul guadagno immediato di pochi. Le sue analisi sono precise, documentate e di ampio respiro. Esse dimostrano l'alienazione di un'umanità devastata da una diseguaglianza insopportabile tra gli esseri, le società e le nazioni. 

Tale bilancio, reso più cupo dalla crisi attuale, esige una ridefinizione dello sviluppo che non si saprebbe ridurre a una semplice crescita economica continua. Il Papa ne stigmatizza, nelle loro diverse forme visibili, gli evidenti fallimenti: esclusione, marginalizzazione, miseria e disprezzo dei diritti umani fondamentali. Il processo di sviluppo ha bisogno di una guida: la verità. "L'amore nella verità", è "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera". Altrimenti, "l'agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società". 

Apriamo gli occhi: il progresso vorace, fondato su risorse materiali e speculative, ha fallito. Il mondo sta divorando se stesso, come Chrònos che divora i suoi figli. La Chiesa propone un'altra scelta: uno "sviluppo integrale", che assicura un'emancipazione umanistica condivisa. Poiché la crescita è un beneficio, la mondializzazione non genera necessariamente una catastrofe, la tecnica non è in sé perversa, ma queste forze brute devono essere subordinate a un'etica. In questo mondo scombussolato, le esperienze più promettenti hanno cominciato a stabilire nuove relazioni tra gli uomini. 
Benedetto XVI chiede di generalizzare tali tentativi, di esplorare le vie del dono, della gratuità, della ripartizione. Condanna la vacuità di un relativismo cieco che priva gli uomini di un senso alla loro vita collettiva. Egli biasima così i due pericoli che minacciano la cultura: un eclettismo dove ogni cosa vale l'altra, senza riferimenti né gerarchie, e una uniformizzazione degli stili di vita.
  

Di fronte al fallimento dell'avere e al caos dell'essere, Benedetto XVI reclama una nuova alleanza tra fede e ragione, tra la luce divina e l'intelligenza umana. Anche se "non ha soluzioni tecniche da offrire", la Chiesa ha "una missione di verità da compiere" in vista di una "società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione". 

Poiché, se si va al di là delle apparenze, le cause del sottosviluppo non sono prima di tutto di ordine fisico. Esse risiedono più che altro nella mancanza di fratellanza tra gli uomini e i popoli: "La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli". Il Papa lancia un appello perché questa crisi ci obblighi a riconsiderare il nostro itinerario, poiché, mentre la ricchezza mondiale cresce, le disparità aumentano. Tale magma, erodendo i valori, porta a disprezzare la vita nelle sue specificità, a scoraggiare la natalità, a opprimere la libertà religiosa, a terrorizzare la spiritualità, a frenare la fiducia e l'espansione. Si tratta semplicemente di far sì che gli uomini prendano coscienza di essere parte di una sola famiglia, il che esige il ritorno a dei valori inusitati: il dono, il rifiuto del mercato come legame di dominazione, l'abbandono del consumismo edonista, la ridistribuzione, la cooperazione e così via. 

Il pensiero del Papa scorge l'incubo di un'umanità inebriata dalla pretesa prometeica di "potersi "ri-creare" avvalendosi dei prodigi della tecnologia", quali la clonazione, la manipolazione genetica, l'eugenismo. La fonte di queste devianze resta la stessa: la disumanizzazione. Poiché, ovunque noi viviamo e a qualsiasi grado di responsabilità ci collochiamo, ciascuno di noi può riconciliarsi con l'amore e il perdono, la rinuncia al superfluo, l'accoglienza del prossimo, la giustizia e la pace. Tale condotta dipende dall'esigenza morale. Essa è divenuta una condizione di sopravvivenza. 

La lettura di questa enciclica, pervasa di un fervore spirituale magnifico, non dà l'impressione di una meditazione astratta o di una preghiera. Raramente un Papa ha toccato da così vicino la realtà per analizzarne a fondo i mali e per proporre, con pragmatismo e lucidità, gli antidoti più utili. Che il suo messaggio possa essere compreso!  

(L'Osservatore Romano 3-4 agosto 2009)

   


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In un libro di Benedetto XVI 
Coscienza e verità

di Lucetta Scaraffia 

Non è certo una novità che il Papa intervenga per rendere più chiara ai fedeli la comprensione dei problemi del tempo in cui vivono, ma possiamo dire senza timore di esagerare che nessuno l'ha fatto con l'acutezza e la profondità di Benedetto XVI. Al punto che i suoi scritti dedicati alla lettura critica del presente sono ormai considerati dei classici che possono - e dovrebbero - interessare quanti vogliano capire meglio l'epoca in cui vivono, e non solo i cattolici. 
Proprio per questo sono particolarmente illuminanti i saggi raccolti in un libro da poco pubblicato in Italia (Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, L'elogio della coscienza. 

La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 175, euro 13,50). Con il consueto stile limpido e semplice, di quella semplicità che raggiunge solo il pensiero sedimentato e profondo, l'autore vi affronta i principali problemi teorici del nostro tempo, denunciandone i limiti e le manipolazioni, e proponendo una risposta chiara, tratta dal tesoro della tradizione cristiana. Tutti gli scritti ruotano intorno a due questioni intimamente legate: la coscienza e la verità, entrambe cancellate dalla cultura contemporanea, che le sostituisce con la soggettività e il relativismo, pensando di garantire in questo modo la libertà individuale, unico vero feticcio moderno. 

Nel primo saggio, L'elogio della coscienza, viene chiarito un tema complesso e mistificato, quello cioè del ruolo della coscienza. In una cultura che tende a contrapporre una "morale della coscienza" a una "morale dell'autorità", slegando il problema della coscienza da quello della verità, l'unica garanzia di libertà appare essere la giustificazione della soggettività, mentre l'autorità sembra "restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà". Qui tocchiamo il punto veramente critico della modernità: "L'idea della verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso" che però, in apparenza esaltato, viene invece privato di ogni direzione. In un mondo senza punti fissi di riferimento, senza verità, non ci sono più direzioni. 
La rinuncia ad ammettere che, per l'essere umano, sia possibile conoscere la verità conduce al disinteresse per i contenuti, per dare la preminenza alla tecnica, alla formalità. Un esempio chiaro in questo senso è quello dell'arte: oggi "ciò che l'opera esprime è del tutto indifferente: l'unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale". 

Vivendo in una società che influenza e condiziona gli individui, è difficile sentire quella che veniva considerata "la voce della coscienza", cioè "la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all'interno del soggetto stesso". Anche se la via alla verità e al bene è stata abbandonata perché ardua, scomoda, considerata troppo difficile da seguire, non per questo dobbiamo rinunciarvi: "dissolveremmo il cristianesimo in un moralismo se non fosse chiaro un annuncio che supera il nostro proprio fare". 

In queste condizioni, la stessa verità del bene diventa inattingibile, perché l'unico riferimento per ciascuno è ciò che egli può da solo concepire come bene, rinunciando così a quel minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati tramite convenzioni sociali, sui quali soli si può fondare l'esistenza di ogni comunità politica. In sostanza, dove Dio scompare, "scompare anche la dignità assoluta della persona umana", e la dignità di ognuno non viene più a dipendere dal solo fatto di esistere, per essere stato voluto e creato da Dio. Ecco perché "la radice ultima dell'odio e di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita di Dio". 
Benedetto XVI rivela una delle sue preoccupazioni principali, che ha varie volte ripetuta: il timore che la nozione moderna di democrazia non sappia emanciparsi dall'opzione relativista, in un mondo in cui il relativismo appare come l'unica garanzia della libertà. Mentre il Papa sa bene e ripete senza sosta che "un fondamento di verità - di verità in senso morale - appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia". E non dobbiamo dimenticare che, di fatto, "tutti gli stati hanno attinto le evidenze morali razionali - permettendo loro di dispiegare i propri effetti - dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti". 

Di frequente Benedetto XVI ritorna sul tema della ricerca della verità: "Se Dio è la verità, se la verità è il vero "sacro", la rinuncia alla verità diventa una fuga da Dio". Persino quando avviene all'interno di una confessione religiosa perché - denuncia il Papa - esiste anche un "positivismo fideista" che "ha paura di perdere Dio nell'esporsi alla verità delle creature". La verità è il presupposto fondamentale di ogni morale, ma se invece il criterio dell'utilità o del risultato, sostenuto da correnti di teoria politica affermate, prende il posto della verità, il mondo si frantuma in tante parzialità, perché l'utilità dipende sempre dal punto di vista del soggetto che agisce. 

Cosa significa allora fare il teologo, in questa situazione culturale? E come si può pensare una nuova evangelizzazione? A queste domande rispondono in modo inedito ed esauriente gli ultimi saggi di un volume che si rivela fondamentale per comprendere il mondo di oggi, e per vivervi da cristiano. Peccato che l'editore a cui si deve l'ammirevole iniziativa di avere raccolto questi testi li abbia pubblicati senza precisare quando sono stati scritti, se dal cardinale Ratzinger o dal Papa. Come se per il lettore questa precisazione fosse irrilevante.

(L'Osservatore Romano 14 giugno 2009)


    


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Per una fede consapevole 
Ritorno a Montecassino


L'ultima volta di Joseph Ratzinger a Montecassino fu per cinque giorni, nel febbraio del 2000. L'occasione per il futuro Papa di maturare - come egli scrisse di suo pugno, ricordando una lunga intervista poi pubblicata in un libro dal titolo Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio - "un piccolo tentativo di introduzione nella fede per l'uomo d'oggi". 
Il ritorno di Benedetto XVI a Montecassino, oggi non si discosta da quel disegno che rimane l'unico, vero segreto per leggere nella giusta luce il suo pontificato. 

Egli torna a una delle più antiche fonti della spiritualità benedettina radicata nella sua formazione cristiana e spiega l'insistenza con la quale richiama i cristiani a una fede consapevole, se vogliono davvero concorrere a risvegliare la capacità culturale delle società europee in una fase di cambiamento dagli esiti imprevedibili.

Come al tempo di Benedetto - il padre del monachesimo occidentale - la società ereditata dall'impero romano era messa alla prova dai nuovi popoli venuti da fuori e non sempre amichevolmente, così anche oggi l'Europa si trova a dover fare i conti con decine di migliaia di immigrati sospinti dal bisogno. La ricomposizione del tessuto umano, che le migrazioni richiedono di realizzare nel tempo, trova nell'esempio benedettino un paradigma di metodo ancora efficace. Fin dalle elementari, ai bambini delle terre di san Benedetto, restava impressa la figura di Totila, re dei goti che depone la spada ai piedi del patriarca Benedetto. Per quale ragione - ci si potrebbe chiedere - un re, in quel momento vittorioso, si inginocchia davanti a un uomo inerme in un territorio calpestato da combattenti contrapposti? Era la saggia prospettiva di ricostruzione del tessuto sociale e religioso uscito frammentato dalle invasioni che dava credito a san Benedetto. Ed era la sua vita cristiana spesa per gli altri alla luce dell'esortazione di "niente anteporre all'amore di Cristo" indicata quale regola di vita dei nuovi monaci. 

Benedetto XVI è strettamente collegato con lo stile benedettino e con la visione cristiana del santo fondatore di Montecassino. Ne ha scelto il nome, si è impegnato da subito per la comprensione tra i popoli e le religioni, ha chiesto alla Chiesa una conversione sincera verso una fede vissuta: nulla anteporre a Dio. Con la semplice motivazione dell'amore. Convertirsi per amore a un Dio che ama e vuole farsi percepire quale Dio d'amore anche nel XXI secolo. 
Il Pontefice che intende armonizzare fede e ragione, preghiera e lavoro, così da intercettare la ricerca dell'assoluto presente anche fuori dei recinti religiosi, pensa di riuscirvi convertendo anzitutto i cristiani al primato dell'amore di Dio. L'attivismo dei credenti senza un'anima spirituale resterà, infatti, sterile. 

La forza della testimonianza cristiana, un tempo affidata al fiorente monachesimo, è minore per le ridotte dimensioni della vita consacrata. In linea con la Chiesa del concilio il Papa chiede perciò a ogni cristiano di farsi carico del vangelo nella vita ordinaria. L'incontro con i fedeli di Montecassino e di tutto il Cassinate è ispirato da questa visione. Poiché è mosso da tale spirito di colloquio con tutti per consolidare la pace, Benedetto XVI può essere ormai annoverato tra quei profeti disarmati di un mondo più fraterno e solidale per il quale tantissime persone si adoperano e spendono la vita.

(L'Osservatore Romano 24 maggio 2009)



    



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Alla vigilia del viaggio in Terra Santa 
Un sogno di Papa Benedetto


Pubblichiamo un articolo uscito su "La Croix" del 2-3 maggio 2009. L'autore, religioso dei frati minori, insegna allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. 


L'orologio di piazza San Pietro aveva battuto le undici. La luce soffusa dalla finestra del Palazzo apostolico si era appena spenta. Papa Benedetto andava finalmente a riposarsi un po', dopo una giornata trascorsa a preparare il suo viaggio in Terra Santa. Un cielo stellato scintillava sulla Città eterna. Sul colonnato del Bernini le statue dei santi continuavano a vegliare sulla città. La vastità della piazza che si disegnava con le sue ombre dava l'impressione di condurre a ben altro che al più piccolo Stato del mondo: là batteva il cuore della cristianità. 

All'improvviso una stella più brillante delle altre s'illuminò. Guardai quell'apparizione con occhi spalancati dalla meraviglia. Era una stella cadente? No, perché illuminava una per una le statue del colonnato. Probabilmente un nuovo asteroide, che era appena apparso nel cielo di Roma. Curiosamente le statue si animavano e cominciavano a parlarsi (gli adulti non mi crederanno: si credono più importanti dei cedri del Libano; quindi consiglio loro di non leggere il seguito, poiché potrebbero sentirsi a disagio). 

Francesco d'Assisi prese la parola. Le altre statue si voltarono verso di lui per ascoltarlo. Un mormorio, come un cinguettio di uccelli, percorse la piazza in ogni senso: "Il Santo Padre ha deciso di visitare la Terra Santa dove i miei figli operano in mezzo a tante difficoltà da otto secoli. Oggi ha preparato questo viaggio nei minimi dettagli. Ho cercato di sussurrare al suo orecchio ciò che doveva dire e ciò che doveva tacere. L'Oriente è un vulcano in piena attività. "Gli uomini dimenticano di spazzare il camino dei vulcani" diceva il Piccolo Principe". 

Santa Chiara l'interpellò: "Anche le mie figlie sono presenti in Terra Santa, Francesco. Tu sai che fu privilegio di una donna essere la prima testimone della resurrezione di Cristo. La preghiera delle mie figlie l'illuminerà più dei consigli dei tuoi figli. - Hai ragione, Chiara. Esse dovranno pregare molto perché la visita di Papa Benedetto si svolga bene e rechi frutto. La loro presenza silenziosa, e quella delle altre contemplative, è più preziosa dei tanti lavori dei miei figli. Sì, Papa Benedetto ha deciso di visitare i Luoghi santi e i cristiani coraggiosi che con il loro Patriarca si sacrificano e vivono in mezzo ai musulmani e agli ebrei. È questo il vero dialogo tra le religioni di ogni giorno di cui la Chiesa ha tanto bisogno".

Antonio, il santo di Padova, si voltò verso Francesco. "Padre Francesco, tu che hai avuto il merito di vivere la Passione di Cristo portando le sue stimmate, sai quanto il Santo Padre soffre in questo momento. La stampa si è scatenata contro di lui come mai prima d'ora. Il nuovo sport degli uomini politici in Europa consiste nello sparare sul Papa. - 
Sì, frate Antonio, riprese san Francesco, tutto deve essere subordinato allo spirito della santa preghiera, che manca tanto in questa Europa, scossa dalla crisi economica e che trova nel Papa un capro espiatorio". 

San Domenico intervenne: "I miei figli sono anch'essi presenti nel paese di Gesù. Ma dove va la Chiesa? Essa deve parlare di eternità mentre si vorrebbe che sposasse le cause del nostro tempo. Oggi è al centro, persino tra i suoi fedeli, di un dibattito tanto importante quanto appassionato. I miei figli a Gerusalemme, grazie al lavoro meraviglioso realizzato a prezzo dell'obbedienza da fratel Joseph-Marie Lagrange, continuano a ricordare al mondo l'importanza della Parola di Dio. Il Sinodo, lo scorso anno, ha d'altronde voluto rimettere nuovamente la parola di Gesù al centro della vita cristiana".

San Benedetto si girò verso san Francesco: "Il Santo Padre, prendendo il mio nome, ha voluto mettersi sotto la mia protezione. I miei figli e le mie figlie danno una testimonianza meravigliosa in Terra Santa. Insegnano ai cristiani a pregare e a lavorare. Ricordano l'urgenza di celebrare la nuova liturgia nei Luoghi santi". 

Prima che Francesco avesse il tempo di rispondere, sant'Ignazio di Loyola intervenne: "Anche i miei figli insegnano le Sacre Scritture. Hanno avuto per lungo tempo il privilegio di essere i soli a farlo, prima che i tuoi reclamassero tale diritto. Sosteniamo questo Papa della tolleranza, paladino del dialogo fra le religioni: egli è andato in Turchia, deve fare il viaggio a Gerusalemme. Non è Giovanni Paolo II, protagonista dell'attualità, ma non è nemmeno l'oscurantista che si vorrebbe denigrare. Alcuni anticlericali non accettano più che l'autorità morale del Papa sussista mentre quella dei capi di Stato non esiste più. È l'ultimo bastione dell'autorità che la stampa intende combattere e distruggere. Ma la Chiesa è costruita sulla roccia. Non abbiamo nulla da temere. I miei figli hanno sempre difeso il Santo Padre...". 

Francesco intervenne: "Fratelli miei, se continuiamo a conversare tutta la notte, sveglieremo il Santo Padre che fatica a prendere sonno! La nostra preghiera silenziosa l'accompagnerà e farà tacere le critiche infondate dei giornalisti. Don Bosco mi ricorderà che anche i suoi figli sono attivi in Terra Santa e hanno difeso Pio XII che ha salvato tanti ebrei... Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno avuto il coraggio di visitare i Luoghi santi e di portare parole di speranza al piccolo gregge di cristiani che è lì testimone vivente della morte e della resurrezione di Cristo. Benedetto XVI seguirà i loro passi e porterà anche lui un messaggio di pace a questo Oriente lacerato dall'odio e dalla guerra. Ricorderà che non vi sarà pace senza riconciliazione né riconciliazione senza perdono. Isacco e Ismaele si rallegreranno nel vedere il Papa invitare i loro figli al dialogo, affinché il padre Abramo possa gioire nel vedere il giorno del Signore". 

La notte scura ripiombò sulla città. Le statue del colonnato del Bernini tornarono di pietra e il Papa comprese che il suo sogno stava per diventare realtà.

(L'Osservatore Romano 6 maggio 2009)

    


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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Benedetto XVI pensa a cristiani di nuovo conio


Benedetto XVI è un Papa che innova. Ma prima di rinnovare curia, strutture, piani pastorali, punta a innovare la mentalità e il cuore dei cristiani. Pensa a una riforma che parte da dentro poiché se il cuore non arde per Dio, sono solo apparenza tutti i cambiamenti esteriori. E mentre all'interno egli spinge per questo cambio di mentalità, nei confronti dell'esterno, la città secolare, egli propone una reciproca e diversa attenzione: rispetto pieno, distinzione e dialogo aperto a tutto campo, modulandolo sulla ragione. 

Una ragione che anzitutto è chiamata a ricuperare la ragionevolezza del problema di Dio, senza il quale non si può cogliere neppure la natura della Chiesa, che va pensata e giudicata entro criteri religiosi e non secondo categorie economiche e politiche. Benedetto XVI sa bene che è in primo piano la credibilità della Chiesa e perciò punta tutte le carte a renderla - in ogni sua espressione - credibile discepola del Vangelo. 
Si comprende così anche l'insistenza del Papa sui temi della fede, della speranza e della carità che sono i segni distintivi dei cristiani, coloro cioè che si fidano di Dio e che perciò amano sempre, anche quando non se ne avrebbe voglia. 

Sono i cristiani di nuovo conio a cui pensa Benedetto XVI. Aperti, non paurosi ma neppure tracotanti; miti come il loro fondatore, gente che vive spendendosi per gli altri, interessata a creare unità, che propone la propria fede senza imporla. Quando il Papa invita a leggere il concilio Vaticano ii con l'ermeneutica della riforma pone un tema centrale, una possibile piattaforma di unità che garantisce l'aggiornamento con ogni sua esigenza, senza rinnegare la parte buona del patrimonio secolare della storia cristiana, meglio noto come la grande tradizione cattolica. I cattolici, progressisti o conservatori che si vogliano definire, ne sono ugualmente figli. 

Ma per Papa Ratzinger la riforma va presa sul serio, non solo a parole. Perciò incalza e scomoda tutti perché sollecita a cambiare radicalmente il modo di pensare cristiano, passando da un pensiero animato dai saperi secolari, a un pensiero che si fa guidare anzitutto dal sapere biblico e teologico. Se Dio rappresenta il centro nella mente dei credenti, la fedeltà a lui esprime la misura per valutare la rispondenza delle istituzioni religiose alla missione di annunciare il Vangelo. E se egli legge il concilio nell'ottica della riforma, significa che tale riforma è necessaria e che non è ancora compiuta. Per questo occorre guardare piuttosto al presente e al futuro per essere buoni ascoltatori di Dio più di quanto siamo stati nel passato. 

Può sembrare un paradosso che un Papa chieda ai fedeli di fidarsi maggiormente di Dio sopra ogni altra cosa, ma non lo è, perché il Dio con il quale egli chiede di aprire il colloquio non è un Dio generico, un idolo creato da noi, ma un Dio che "benché spesso nascosto, esiste, è vicino, ci aiuta e ci accompagna". È il Dio di Gesù Cristo che - in quanto volto umano di Dio - è diventato spartiacque della storia. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno, anzitutto, di un colloquio nuovo con Cristo se non vuole affidare le sue sorti a garanzie mondane. Più la Chiesa si rende discepola del Vangelo - sostiene il Papa - e più è libera e anche capace di farsi percepire amica dell'uomo. Pur dicendo verità scomode. 

Il messaggio del Papa per la prossima giornata mondiale di preghiera per le vocazioni è uno specchio fedele del suo modo di vedere la Chiesa in rapporto a Dio e alla storia. 

Il tema scelto è la fiducia nell'iniziativa di Dio e la risposta umana nella libertà. Pure per risolvere un problema quale le vocazioni al sacerdozio che oggi è davvero urgente. Ma prima di ogni altro rimedio a una crisi tuttora grave specialmente in occidente il Papa si affida all'iniziativa di Dio: "Dobbiamo pregare perché l'intero popolo cristiano cresca nella fiducia in Dio". E se chiede di farlo vuol dire che i cristiani non danno l'impressione di fidarsi abbastanza di Dio. La fede di cui il Papa parla volentieri non è solo credere che Dio esiste, ma anche fidarci di Dio, tirando le conclusioni di questa fiducia. La storia viene vista come un "intreccio d'amore tra l'iniziativa divina e la risposta umana" che resta libera. Il fare che ne discende, pure nei periodi di crisi dell'umanità come l'attuale, ha la stessa qualità con cui si riesce a vivere questo intreccio d'amore. 


Se può allora apparire un paradosso Benedetto XVI che invita i cristiani e i giovani chiamati alla vita sacerdotale o consacrata a fidarsi di Dio, altrettanto paradossale appare la difficoltà a riconoscere il Papa quale amico prezioso del tempo presente.

(L'Osservatore Romano 1 aprile 2009)




    


Chiesa e aids   -  La cifra della verità


di Lucetta Scaraffia

Certamente la cifra della missione di Benedetto XVI è la verità. E lo è per tutto, anche per il problema dell'aids e dei preservativi, un tema scottante che - si poteva facilmente immaginare - sarebbe stato toccato nel corso del suo viaggio in Africa. In mezzo alle polemiche suscitate dalle sue parole, uno dei più prestigiosi quotidiani europei, il britannico "Daily Telegraph", ha avuto il coraggio di scrivere che, sul tema dei preservativi, il Papa ha ragione.

"Certo l'aids - si legge nell'articolo - pone il tema della fragilità umana e da questo punto di vista tutti dobbiamo interrogarci su come alleviare le sofferenze. Ma il Papa è chiamato a parlare della verità dell'uomo. È il suo mestiere: guai se non lo facesse". 

Il problema dell'aids si è presentato subito, da quando la malattia si è manifestata negli Stati Uniti nei primi anni Ottanta, non solo dal punto di vista medico, ma anche da quello culturale: lo scoppio dell'epidemia colse di sorpresa una società che credeva di avere sconfitto tutte le malattie infettive, e fin dall'inizio ha toccato un ambito, quello dei rapporti sessuali, che era appena stato "liberato" dalla rivoluzione appunto sessuale. Con una malattia che metteva in discussione il "progresso" appena raggiunto e che si diffondeva rapidamente grazie anche a quella ondata di cosmopolitismo che si stava realizzando con i nuovi veloci mezzi di trasporto. 

Fu subito chiaro che quella patologia era frutto di una modernità avanzata e di una profonda trasformazione dei costumi, e che forse la lotta per prevenirla avrebbe dovuto tenere presente anche tali aspetti. Invece, nel mondo occidentale, le campagne di prevenzione sono state basate esclusivamente sull'uso del preservativo, dando per scontato l'obbligo di non esercitare alcuna interferenza sui comportamenti delle persone. Il "progresso" non si doveva mettere in discussione; neppure in Africa, dove era evidente - e dove tuttora è evidente, se solo si leggessero con onestà i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità sulla diffusione dell'aids - che la distribuzione di preservativi non serve da sola ad arginare l'epidemia. 

Il preservativo, in Africa, non è usato nel modo "perfetto" - l'unico che garantisce il 96 per cento di difesa dall'infezione - ma nel modo "tipico", e cioè con un utilizzo non continuato e non appropriato, che offre solo un 87 per cento di difesa, e per di più dà una sicurezza che può essere pericolosa nel mettersi in rapporto con gli altri: come si sa, l'aids non si trasmette solo attraverso il rapporto sessuale, ma anche per via ematica; basta quindi un'abrasione, un po' di sangue, per aprire la possibilità di contagio. Bisogna anche ricordare, come è scritto sulle puntigliose istruzioni d'uso delle scatole di preservativi, che questi si possono danneggiare facilmente con il caldo - sono di lattice! - e se vengono toccati con mani non lisce, come quelle di coloro che fanno lavori manuali. Ma le industrie farmaceutiche, tanto precise nel segnalare questi pericoli, sono poi le stesse che appoggiano la leggenda secondo cui la diffusione dei preservativi può salvare la popolazione africana dall'epidemia: e si può facilmente immaginare che ogni idea per diffonderne l'uso sia accolta con vero giubilo dai loro uffici commerciali. 

L'unico Paese dell'Africa che ha ottenuto risultati buoni nella lotta all'epidemia è l'Uganda, con il metodo Abc, in cui A sta per astinenza, B per fedeltà e C per condom, un metodo certo non del tutto aderente alle indicazioni della Chiesa. Persino la rivista "Science" ha riconosciuto nel 2004 che la parte più riuscita del programma è stata il cambiamento di comportamento sessuale, con una riduzione del 60 per cento delle persone che dichiaravano di avere avuto più rapporti sessuali e l'aumento della percentuale dei giovani fra i 15 e i 19 anni che si astenevano dal sesso, tanto da scrivere: "Questi dati suggeriscono che la riduzione del numero dei partner sessuali e l'astinenza fra i giovani non sposati anziché l'uso del condom sono stati i fattori rilevanti nella riduzione dell'incidenza all'Hiv". 

Molti Paesi occidentali non vogliono riconoscere la verità delle parole dette da Benedetto XVI sia per motivi economici - i preservativi costano, mentre l'astinenza e la fedeltà sono ovviamente gratuite - sia perché temono che dare ragione alla Chiesa su un punto centrale del comportamento sessuale possa significare un passo indietro in quella fruizione del sesso puramente edonistica e ricreativa che è considerata un'importante acquisizione della nostra epoca. 
Il preservativo viene esaltato al di là delle sue effettive capacità di arrestare l'aids perché permette alla modernità di continuare a credere in se stessa e nei suoi principi, e perché sembra ristabilire il controllo della situazione senza cambiare niente. È proprio perché toccano questo punto nevralgico, questa menzogna ideologica, che le parole del Papa sono state tanto criticate. Ma Benedetto XVI, che lo sapeva benissimo, è rimasto fedele alla sua missione, quella di dire la verità.


(L'Osservatore Romano 22 marzo 2009)



    



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La lettera di Benedetto XVI   -  Il senso della Chiesa


Camillo Ruini
Cardinale vicario generale emerito di Roma 

Un'autentica novitàchiamerei così la lettera che Benedetto XVI ha scritto ai "Confratelli nel ministero episcopale" sulla remissione della scomunica ai quattro vescovi consacrati da monsignor Lefebvre nel 1988. 

Novità che si manifesta anzitutto nel carattere fortemente personale di questa lettera, che pure è rivolta a tutti i vescovi della Chiesa cattolica e di fatto, essendo stata resa pubblica, anche a tutti i fedeli: una comunicazione personale che supera i limiti dell'ufficialità e si offre al lettore in maniera trasparente, consentendogli di entrare, per così dire, nell'animo del Papa e di prender parte dal di dentro alla sua sollecitudine pastorale, alle motivazioni fondamentali che guidano le sue scelte e anche all'atteggiamento interiore con cui egli vive il suo ministero. 

In questa medesima chiave, la lettera non nasconde certo le difficoltà del momento e le loro cause immediate, anzi le sottolinea, ma per andare più in profondità, alle radici spirituali, culturali ed ecclesiali di quegli ostacoli che rendono faticoso il cammino della Chiesa e che richiedono a ciascuno di noi conversione e rinnovamento. Se vogliamo trovare per questa lettera qualche analogia dobbiamo pensare ad alcune lettere che, soprattutto nei primi secoli del cristianesimo, vescovi di grandi sedi - in particolare i vescovi di Roma - hanno inviato ai loro Confratelli sui problemi allora più preoccupanti. 

Benedetto XVI ha chiarito con quella precisione di pensiero che gli è propria il significato positivo e i limiti del provvedimento di remissione della scomunica: sarebbe inutile pertanto ritornare su ciò che è perfettamente chiaro nella sua lettera. Assai utile può essere invece riflettere - per farle intimamente nostre - sulle grandi priorità del suo pontificato, che egli aveva evidenziato fin dall'inizio e che ripresenta e approfondisce con sofferta e vorrei dire drammatica convinzione in questa lettera.

La prima priorità è confermare nella fede i fratelli: in concreto, in questo nostro tempo, "la priorità che sta al di sopra di tutto è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio", a quel Dio che si è pienamente manifestato in Gesù Cristo. Guardando ai nostri fratelli in umanità, e guardando anche dentro alla Chiesa e anzitutto dentro a noi stessi, possiamo renderci conto che questa è davvero, nella concretezza della vita e della storia, la questione decisiva: una questione spesso ignorata o rimossa, o ritenuta ormai superata, ma in realtà la questione da cui tutto dipende, la sola chiave che può aprire al pensiero dell'uomo tutto il suo spazio legittimo e necessario e può offrire al cuore dell'uomo una solida speranza. 

Dentro alla suprema priorità di Dio trova immediatamente posto la priorità dell'amore e della comunione tra noi: in concreto la priorità dell'unità dei credenti in Cristo e la priorità della pace tra tutti gli uomini. Di qui la sofferenza che Benedetto XVI non nasconde di fronte all'inclinazione a "mordersi e divorarsi a vicenda", purtroppo oggi presente tra noi come fu presente tra i Galati a cui scriveva san Paolo. 
Tocchiamo qui un nervo scoperto del cattolicesimo degli ultimi secoli, un punto di fragilità e di sofferenza di cui dobbiamo diventare più e meglio consapevoli. 
Mi riferisco all'indebolirsi, e a volte praticamente all'estinguersi, del senso di appartenenza ecclesiale, della gioia cioè e della gratitudine di far parte della Chiesa cattolica. Non si tratta di qualcosa di secondario e di accessorio, che dovrebbe giustamente lasciare il passo di fronte alla nostra libertà individuale e al nostro rapporto personale con Dio, o anche a tante altre appartenenze che appaiono più concrete e più gratificanti. 

Occorre invece ricostruire dentro di noi quella convinzione di fede che ha caratterizzato il cristianesimo fin dal suo inizio, secondo la quale il senso della Chiesa è parte essenziale della nostra appartenenza a Cristo. Hanno qui la loro radice l'accoglienza del magistero della Chiesa e lo sforzo di conformare la nostra vita ai suoi insegnamenti, ma anche un atteggiamento che abbraccia la sfera dei sentimenti e che si traduce spontaneamente nell'affetto per coloro che nella fede ci sono padri e fratelli. Se questi sentimenti saranno vivi in noi resteremo lontani da quel gusto amaro di cogliere in fallo il nostro presunto avversario, che in realtà è nostro fratello, che purtroppo affiora in molte parole, gesti o silenzi, come la lettera del Papa, con onestà e sofferenza, ci aiuta a comprendere.

(L'Osservatore Romano 14 2009)




    


L'importanza di Dio


Riconoscere l'importanza di Dio anche nella storia presente del mondo non è senza conseguenze. Può suscitare qualche stupore l'insistenza di Benedetto XVI sulla centralità di Dio nella vita dei credenti. E si pensa che la proposta rivolta anche ai non credenti a vivere come se Dio ci fosse resti una formula sterile e vuota. Ma non è così. A partire da una coscienza di sé che ciascuno sviluppa trovandosi a operare in una prospettiva di Dio presente anziché assente dall'esistenza degli uomini. 

Comunemente si pensa o si teme che la presenza di Dio possa ridimensionare la libertà e la creatività umane. Ma coloro che predicano un Dio che avrebbe paura della libertà umana, predicano un idolo estraneo al Dio biblico proposto da Ratzinger come degno di fede. Egli ha sempre parlato finora di un Dio che è amore. E allora il suo ragionare sulla vita facendo posto a Dio ha come conseguenza che la vita vissuta e proposta dai cristiani è una vita caratterizzata dall'amore. 

Può dunque accadere, e accade, che la predicazione del Papa chieda anzitutto alla Chiesa un grande esame di coscienza. I non credenti trovano ragionevole e perfino amabile la fede cristiana solamente se vedono cristiani contenti della loro fede e coerenti con il comandamento dell'amore. Un altro Papa intellettuale, Paolo VI, ripeteva convinto che la nostra età ha bisogno di testimoni piuttosto che di maestri. E i testimoni non si pongono anzitutto come giudici degli altri. Pensano di pagare di persona anche quando subiscono violenza perché non rendono male per male. La Chiesa è credibile alla sola condizione di far rivivere nella sua vita l'insegnamento di Gesù. Anche sui punti delicati del vivere e del morire che di frequente creano frizione tra chi crede e chi non crede, più che la disputa vale l'esempio. 

Può accadere che presentando i discepoli di Gesù come il popolo della vita, lo si faccia con intenti polemici nei confronti di ogni altra posizione sul fine della vita o sul valore della vita considerata meno degna. I cristiani sono certamente il popolo della vita, ma in una forma particolare. Essi condividono ugualmente con tutti il sudore della fronte e il dolore che accompagna l'esistenza di ogni donna e ogni uomo. Come Benedetto XVI insegna, bisogna indirizzare la ricerca sul vero bene dell'uomo e nel confronto testimoniare quale sia questo bene. 

La visione cristiana sulla vita ha una prospettiva ampia, che va oltre la morte. I cristiani credono infatti nella risurrezione a opera di Dio. Questa è una conseguenza della fede che non deriva da pura capacità umana. E allora il loro parlare del vivere e del morire si amplia avendo gli occhi fissati alla vita oltre questa vita terrena. Conviene così ragionare dei grandi temi della vita e della morte senza arroganza e senza animosità. Alla Chiesa, a motivo della sua fede, è richiesto di dare ragione della propria fede e non dei pensieri puramente umani dei cristiani. 

Pensare il vivere e il morire da una prospettiva di risurrezione, può anche non interessare quanti non credono, ma essi potranno convenire che una tale prospettiva aiuta e non impedisce di considerare ancor più fortemente la dignità di ogni persona umana, e questa dignità deve restare a fondamento del diritto e dell'etica. 
L'uomo come misura di tutte le cose è un'attenzione con la quale il cristiano può consentire, anzi nella difesa dell'uomo i cristiani non sono secondi ad alcuno perché sono chiamati a farsi prossimo con tutti. Ci sono però delle cose reali che non si possono misurare e qui si apre la questione di Dio e della sua importanza. 

Benedetto XVI più volte ha suggerito anche un metodo per il parlarsi e l'ascoltarsi tra fede e ragione: l'umiltà e la speranza. La capacità di ragionare con umiltà comporta la considerazione vera e sincera delle ragioni degli altri. Quello che i cristiani propongono in più non è un frutto della loro mente di cui andare orgogliosi, ma dono divino offerto per la salvezza di tutti. 
La speranza spinge a guardare il nostro presente alla luce del futuro che Dio ha preparato per ogni uomo e ogni donna che vive nella giustizia e nell'amore. Il Papa, accanto all'espressione "popolo della vita", ama mettere anche quella che definisce la Chiesa "popolo della speranza". Il quale anzi riuscirà a essere popolo della vita che unisce nella misura in cui sarà popolo della speranza, aperto cioè al futuro di Dio nel quale si perviene nella libertà. 

La vita senza speranza può bloccarsi. Per l'uomo senza speranza anche Dio è superfluo. La speranza richiede coscienze formate che sanno scegliere nella libertà. Dio è amico della libertà. Infatti ha creato l'uomo libero. E gli ha dato una sola legge e una sola misura, quella di amare. La Chiesa ha il compito immenso di essere segno di gente che ama. 

Benedetto XVI invita laici e cattolici a fare un percorso ragionevole sapendosi valorizzare a vicenda invece che annientarsi a vicenda. Ed è un compagno di viaggio più che un ostacolo per la modernità oggi scossa dalla bufera della crisi.


(L'Osservatore Romano 11 marzo 2009)


    


Aspettando l'enciclica sociale


La crisi internazionale che in crescendo attanaglia uomini, donne e famiglie dei Paesi ricchi e poveri e semina sgomento, chiedendo a ciascuno una nuova lettura della storia, è una prova del nove anche per misurare lo spessore del magistero di Benedetto XVI. Le luci crepuscolari che si sono addensate sull'occidente sono un contesto che favorisce una lettura serena, libera da pregiudizi ideologici, dell'azione del Pontefice che si va dispiegando sempre meglio facendo apparire frettolose, quando non fatue, le letture schematiche. 

Il Papa ha un pensiero per uscire dalla crisi. Non nel senso di ricette economiche specifiche capaci di ripristinare l'ordinato flusso nel rapporto capitale e lavoro, finanze e bisogni di famiglie e imprese. Ma perché da questa crisi non si esce senza una speranza che sia più credibile di quella che viene solo dai mercati e dalle teorie economiche. Per farcela occorre ricuperare ragioni per vivere. La depressione economica si supera se si vince la depressione ideale e l'appassirsi della speranza. 

È a questo crocevia tra il cuore e la capacità programmatica delle risorse che si pone la parola di Papa Ratzinger. Dove è un bene per tutti dialogare con le sue sollecitazioni intellettuali e religiose, e dove può apparire ragionevole e plausibile la saggezza cristiana che egli chiede di far entrare con rinnovata cittadinanza nella società degli uomini d'oggi. C'è attesa per l'annunciata enciclica sociale di Benedetto XVI. Ma è lo stesso Papa a non voler essere preso come un oracolo. Egli preferisce un ritorno alla ragione perché senza questo ritorno diventa difficile anche valutare e apprezzare la serietà della proposta cristiana. 

Il messaggio per la Giornata mondiale della gioventù è un esempio concreto di quale spirito potrebbe animare la prossima enciclica. Tanto da pensare che per coglierne il senso in profondità potrebbe essere utile rileggere l'enciclica, Spe salvi, che mostra in maniera solare come il ragionare del Pontefice porti sempre alle ultime conseguenze ogni umana ricerca.
Benedetto XVI vorrebbe altrettanto che i grandi principi di amore, distintivi dell'essere cristiani, fossero portati alle conseguenze. Chiede di prendere sul serio il Vangelo. Rivitalizza con questa fonte il senso di appartenere alla Chiesa che definisce "la grande famiglia dei cristiani". I cristiani autentici non sono mai tristi nonostante le difficoltà e le prove perché essi sanno che Cristo è un vivente. I cristiani sono parte del "popolo della speranza" formato da profeti e santi di tutti i tempi che hanno seguito l'esempio di Abramo che si fidò di Dio contro ogni speranza. 

L'intento del Papa è quello di trovare un modo convincente per incoraggiare l'attuale generazione a fidarsi di Dio. E a tenerlo presente in ogni scelta di vita personale e collettiva. 
Non si nega autonomia alla politica, alla scienza, alla tecnica, all'economia e a ogni altra risorsa materiale quando si dice che da sole "non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo". Il Papa ricorda semplicemente che da sole non bastano a risolvere ogni genere di problema. È il nostro cuore infatti a voler sapere un di più e, se questo manca, continuiamo a vivere nello scontento pure in mezzo all'abbondanza di benessere. 

Benedetto XVI è un Papa giusto per un tempo di crisi perché sa confortare e indica un ragionevole percorso per uscirne fuori insieme anziché ciascuno per sé. Prima ancora che si delineassero i disastri bancari che hanno scoperchiato la voragine economica rischiosa per tutti, il Papa ha posto due grandi questioni: quella dell'amore e subito dopo quella della speranza, "centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell'epoca contemporanea". 
Infine, l'affidare a un messaggio destinato ai giovani, la riflessione su così grandi questioni di comune interesse, rimane un segnale di metodo per quanti sono coinvolti nel compito di educare.


(L'Osservatore Romano 5 marzo 2009)





    

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Benedetto XVI ai parroci di Roma   -   La fede personalizzata


L'incontro con i parroci di Roma conferma che Benedetto XVI è un Papa disarmato, umanissimo, per nulla arroccato come sbrigativamente si persiste talora a presentarlo. 

All'appuntamento quaresimale con i suoi preti, il Papa parla a braccio, ossia improvvisa le risposte, si sottopone a una specie di esame utile per capire davvero dove batte il suo cuore, dove va la sua mente, senza schermi e filtri protettivi. Non ci sono mediazioni che possano far pensare a un pensiero addomesticato. Papa Benedetto si mostra in tutta sincerità anche negli incontri con i giovani o quando gli si chiede di rispondere a domande. 

È stato così anche questa volta. Dal taccuino del cronista si ricava una scaletta dell'incontro che dipana uno scambio progressivo di riflessioni sulla fede nel nostro tempo all'interno di contesti di vita concreti. 
"Non direi che qui parla un oracolo, al quale voi chiedete" mette subito in chiaro il Pontefice. Il vescovo di Roma non teme di rilevare "il limite" delle sue risposte, ma allo stesso tempo riesce a dimostrare la "semplicità della verità" cristiana rivestita con parole che la gente capisce. "Non viviamo sulla luna. Sono un uomo di questo tempo se io vivo sinceramente la mia fede nella cultura di oggi". Non predica, spiega, attento agli uomini di oggi. "Non posso dare ricette" per situazioni diverse, ma poi sul taccuino leggo che l'annuncio cristiano ha bisogno di parola e testimonianza. I cristiani vengono definiti dal Papa persone di "vita giusta", fermenti di giustizia. La fede si apprende poco per volta, facendo esperienza. Batte molto sulla conoscenza e l'esperienza personale di Dio rivelato in Gesù. Il sapere teologico non basta. 

E poi il parlare di Dio viene inserito da Ratzinger all'interno della vita concreta, storica della gente. Oggi - egli osserva - è tempo di crisi economica, grave, causata da errori, avarizia ed egoismi. Occorre fare una denuncia ragionevole e ragionata della crisi. Senza superficialità. Serve competenza nell'analisi, ma anche conversione dei cuori: senza giusti la giustizia non si realizza. Occorre educare le persone alla giustizia. I preti devono insegnare la grande arte di come essere uomini e lo possono fare solo se sanno vivere il mistero racchiuso nella preghiera e nei sacramenti. Anche le pratiche devozionali, argomento su cui non di rado accadono dispute e perfino rotture tra i fedeli, trovano una puntualizzazione equilibrata: "Non sono cose necessarie, ma cresciute nella ricchezza della meditazione del mistero" cioè delle possibilità per avvicinarsi a Cristo, unica luce. 

È una forza tranquilla Benedetto XVI, abituato a cogliere l'essenziale e a puntare sull'essenziale su cui convergere, lasciando ampi spazi di libertà. Nel medesimo tempo egli può sembrare paradossale: nelle sue parole troviamo toni e indicazioni che si percepiscono nel vero spessore solo se si esce dagli schemi. Joseph Ratzinger è sempre stato un teologo libero, difficilmente catalogabile negli schemi semplificati di progressismo e conservazione. Interessato e fedele a scrutare le convergenze tra fede e ragione considerate in profondità. 

Si pensa di frequente che sia un Papa poco mediatico. Secondo certi parametri può essere. Eppure, mentre rifugge da toni polemici, sempre egli riesce a porre ai media grandi questioni da cui non si può prescindere. Costringe a guardarsi dentro, a investigare senza contentarsi delle apparenze. 
Non ci sono categorie politiche nel suo pensare la Chiesa. Lo ha ripetuto da ultimo anche questa volta ai parroci parlando di Maria, la madre di Gesù, presentata come "donna dell'ascolto". La Chiesa pensata e proposta costantemente quale comunità di donne e uomini in ascolto attivo della Parola di Dio, Parola che trasforma il mondo. 

(L'Osservatore Romano 28 febbraio 2009)
Benedetto XVI e il discorso al Corpo diplomatico 

Il tempo della responsabilità


Tra i catastrofisti del nostro tempo è sempre più difficile collocare Papa Ratzinger e dopo il suo discorso al Corpo diplomatico anche i più prevenuti nei confronti del vescovo di Roma possono farsene una ragione. 

L'incontro di inizio anno con la diplomazia mondiale per il Papa non è mai frutto di improvvisazione o circostanza di pura cortesia. Esso rispecchia invece le attenzioni primarie che alimentano l'azione della Santa Sede al servizio della pace e dell'evangelizzazione e svelano il senso del magistero sociale della Chiesa cattolica: è dunque una lettura ben ponderata degli eventi. 

Passando in rassegna le tante situazioni di sofferenza nelle varie aree del mondo, Benedetto XVI ha scelto di guardare in avanti, privilegiando il punto di vista educativo come via che può aprire nuovi percorsi alla politica e all'economia ormai in grave affanno e sempre meno capaci di lenire disagi di vita quotidiana.


Dopo il discorso ai diplomatici si coglie con più evidenza che la lettera inviata nel gennaio 2008 da Benedetto XVI alla diocesi e alla città di Roma sull'emergenza educativa non è stata un intermezzo. Conteneva, invece, una indicazione strategica per frenare una deriva che in tanti lamentano. L'educazione si regge, infatti, sulla credibilità degli educatori e sull'ascolto dei giovani i quali, con propri linguaggi, lasciano intravedere agli adulti quanto nella società e nelle istituzioni non funziona o ha perduto il senso originario. 


Prima che alla società civile e politica, il Papa sta applicando a sé e alla sua Chiesa questo metodo di ascolto, da cui scaturisce la capacità di proporre quei valori che servono anche in ambito economico a "costruire una nuova fiducia" nella vita di ogni giorno. 
"Ciò - ha detto agli ambasciatori - può essere realizzato solo attraverso l'attuazione di un'etica basata sulla dignità innata della persona umana. So quanto ciò sia impegnativo, ma non è un'utopia! Oggi più di ieri, il nostro futuro è in gioco, così come il destino stesso del nostro pianeta e dei suoi abitanti, in primo luogo delle giovani generazioni che ereditano un sistema economico e un tessuto sociale fortemente compromessi. Sì, signore e signori, se vogliamo lottare contro la povertà, dobbiamo investire soprattutto nei giovani, educandoli a un ideale di vera fraternità". 

In altri termini, per il Papa è venuto il tempo della responsabilità, della lettura degli eventi non come frutto di una cieca casualità ma come risultato di scelte umane. Il punto di vista educativo permette alla politica e all'economia di rigenerarsi perché le libera dagli interessi di parte e le costringe a interrogarsi sulla bontà delle scelte proposte. 
Uno dei più gravi disagi del pianeta - rileva Benedetto XVI - è il numero eccessivo di poveri dovuti allo squilibrio delle risorse.La povertà, di conseguenza, si combatte "se l'umanità è resa più fraterna tramite valori e ideali condivisi, fondati sulla dignità della persona, sulla libertà unita alla responsabilità, sul riconoscimento effettivo del posto di Dio nella vita dell'uomo". 

Anche la pace diventa possibile se c'è solidarietà tra gli uomini. Dal momento che la pace viene siglata e garantita dai leader delle nazioni, è una conseguenza logica che soltanto dirigenti convinti e mossi dalla solidarietà tra tutti gli uomini saranno in grado di perseguire davvero la pace. 

Nonostante gli sforzi di tanti, la pace nel mondo è lontana. A questa osservazione quasi ovvia il Papa ne aggiunge altre due, terribilmente impegnative: per costruire la pace, occorre ridare speranza ai poveri, combattendo la fame e il degrado ambientale. Dal punto di vista educativo ciò esige un rovesciamento di priorità nell'agenda sociale mondiale. "È noto - ha obiettato in questi giorni a un convegno su sistema educativo preventivo e i diritti umani don Pascual Chávez, nono successore di don Bosco - che gli interessi economici fissano le priorità della società materialista e che la pubblicità, l'incitamento al consumo, è la bacchetta magica usata dall'insaziabile avidità delle multinazionali. Solo le società aggressive e competitive sussistono e questo stile è entrato anche negli enti e nelle associazioni educative. Cosa fare allora?". Occorre che la proposta educativa sia capace di generare cultura e di porre la società in "stato di educazione". 

Benedetto XVI ha cominciato a dare risposte, che aiutano a consolidare il tempo della responsabilità, relegando nel passato prossimo quell'era di "profonda irresponsabilità" denunciata anche dal presidente eletto degli Stati Uniti.


(L'Osservatore Romano 10 gennaio 2009)




    



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Il Papa agli universitari

Non un dio generico, ma Dio vivo e vero


di FRANCESCO VENTORINO

Li ha sfidati, il Papa, quegli universitari romani che stavano ad ascoltarlo nella basilica Vaticana il 15 dicembre. Parlando dell'attesa di Dio, propria dell'Avvento, ha domandato: "L'invito all'attesa di Dio è proprio fuori tempo?". E ancora: "Cosa significa per me il Natale; è davvero importante per la mia esistenza, per la costruzione della società?".

Interrogativi non retorici. 
Ma Benedetto XVI ha fatto notare subito che ogni tentativo di costruire il mondo senza o contro Dio, e al seguito di ideologie pretenziose, ha finito per ritorcersi contro l'uomo stesso e la sua dignità profonda, fino a fargli perdere la speranza in una edificazione positiva entro la storia, nonché la stima e l'amore verso se stesso.

Ha scritto Giacomo Leopardi nello Zibaldone: "L'uomo che non si interessa a se stesso, non è capace di interessarsi a nulla, perché nulla può interessare l'uomo se non in relazione a se stesso. L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono agli altri".

All'uomo d'oggi manca questo amore. Egli infatti ha smarrito la ragione per cui amare se stesso. Ed è disperatamente attaccato a ciò che fa e a ciò che possiede: da questo cerca di trarre il proprio valore, il valore della propria vita, perché non si ama e non si stima per ciò che egli è. "L'attaccarsi a quel che si fa come luogo di consistenza - diceva don Luigi Giussani nel 1984 agli universitari - è l'espressione della mancanza di consistenza di sé come affezione. L'impeto affettivo non logora mai la persona, ma aumenta nella sua espressività man mano che avanza. Ciò che logora è l'impeto di possesso".

Ma quando l'uomo impara ad amarsi? Solo quando è oggetto di un grande amore. "Nell'esperienza di un grande amore - ha scritto Romano Guardini - tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito. L'elemento personale a cui in ultima analisi intende l'amore e che rappresenta ciò che di più alto c'è fra le realtà che il mondo abbraccia, penetra e determina ogni altra forma: spazio e paesaggio, pietre, alberi, animali". Come suggeriscono queste parole dell'Essenza del cristianesimo, l'uomo coglie il valore di se stesso e di tutto il mondo quando fa l'esperienza di essere amato.

Per questo il delitto più grande contro l'umanità è la sistematica negazione di Dio come mistero di carità, da cui sgorga tutto ciò che è, da cui in particolare fluisce quell'essere singolare che è l'uomo libero, creato e amato per se stesso, in vista soltanto della sua stessa realizzazione, della sua felicità, e non in funzione di altro. Consumata questa negazione, l'uomo ha iniziato da capo, come nell'oscurità dei tempi antichi, a concepirsi come figlio del niente, del caso o della necessità naturale, finendo per perdere la stima verso se stesso e con essa la capacità di voler bene all'altro.

Il fatto che oggi si rifiuti persino il legame coniugale nasce da una doppia disistima: "Può un altro amare me per tutta la vita? E merita forse l'altro un amore fedele?". A buon diritto san Paolo aveva affermato: "Chi ama la propria moglie ama se stesso" (Efesini, 5, 28). Il matrimonio, soprattutto quello cristiano, risulta così una sorta di rivincita sull'apparente inutilità della vita e sulla ostentata affermazione della nullità dell'uomo.

L'essere è carità. Se ne fai l'esperienza almeno per un istante, non puoi più trascurare questo punto di vista. Purché ci sia chi te lo rammenti con la sua compagnia. E in definitiva, questo è lo scopo di ogni autentica compagnia umana: l'esaltazione dell'uomo, la promozione del suo desiderio di amare e di generare. Credo che si siano sentiti compresi quegli universitari a cui il Papa ha detto: "Non abbiamo bisogno di un dio generico, indefinito, ma del Dio vivo e vero, che apra l'orizzonte del futuro dell'uomo a una prospettiva di ferma e sicura speranza, una speranza ricca di eternità e che permetta di affrontare con coraggio il presente in tutti i suoi aspetti"!

Non basta più, dunque, un vago senso religioso o una qualunque nozione che noi possiamo farci di Dio. Ciò che occorre è l'annunzio del Dio cristiano, un Dio che si fa bambino per l'uomo: "Nella grotta di Betlemme la solitudine dell'uomo è vinta, la nostra esistenza non è più abbandonata alle forze impersonali dei processi naturali e storici, la nostra casa può essere costruita sulla roccia: noi possiamo progettare la nostra storia, la storia dell'umanità non nell'utopia ma nella certezza che il Dio di Gesù Cristo è presente e ci accompagna". Solo l'esperienza di una novità, dell'incontro con questo Dio, può ridare all'uomo il senso vero di se stesso e della storia, e la speranza in un compimento.

(L'Osservatore Romano 21 dicembre 2011)




    







Nei discorsi di Benedetto XVI in Germania

Antidoti contro la disumanità


di FERDINADO CANCELLI

I discorsi di Benedetto XVI si prestano sempre a una lettura su molti piani e offrono spunti concreti a chi si trova ad affrontare la sfera della sofferenza umana e le problematiche bioetiche a essa connesse. Non hanno fatto eccezione gli interventi durante il viaggio in Germania, in particolare quelli al Bundestag e al convento degli agostiniani di Erfurt durante la celebrazione ecumenica.



"Solo chi conosce Dio, conosce l'uomo" ha ribadito il Papa citando Romano Guardini per ricordare come "senza la conoscenza di Dio l'uomo diventa manipolabile" e come la fede debba "concretizzarsi nel nostro comune impegno per l'uomo": saremo giudicati "secondo come ci siamo comportati nei confronti (...) dei più piccoli". Il compito che Benedetto XVI ha delineato ancora una volta con fermezza consiste nel "difendere la dignità inviolabile dell'uomo dal concepimento fino alla morte, nelle questioni della diagnosi pre-impiantatoria fino all'eutanasia".

Questa proposta del Papa, chiara ai nostri occhi, poggia sulle basi evidenziate il giorno precedente al Bundestag in un discorso storico e articolato. Due sono gli elementi che aiutano concretamente chiunque voglia guardare all'uomo senza lo scuro filtro di un riduttivismo che "comprende la natura in modo puramente funzionale": secondo Benedetto XVI bisogna ricostruire un ponte e inaugurare una nuova ecologia.

All'inizio degli anni settanta del secolo scorso la bioetica veniva al mondo proprio con l'immagine del "ponte": un oncologo, Van Rensselaer Potter, la vedeva infatti in una celebre opera come bridge to the future ("ponte verso il futuro"), un ponte tra "dati biologici" e "valori etici" (biological facts ed ethical values). Negli anni successivi ci si accorse però di come quel ponte nulla avrebbe messo in comunicazione se non fosse passato per l'immagine di uomo, di natura umana, che ognuno di noi, nello svolgere il proprio lavoro e nella vita, non dovrebbe mai perdere. Il Papa ci aiuta in un certo senso a ricostruire quel ponte in modo corretto ricordandoci che solo passando attraverso una natura umana non più compresa "in modo puramente funzionale" le due rive dell'uomo e dell'ethos torneranno a essere unite.

D'altra parte, partendo dal dato oggettivo che "l'uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé" e che "l'uomo non crea se stesso", Benedetto XVI ci invita a fare nostro lo stesso zelo del movimento ecologista comparso in Germania anch'esso negli anni settanta del Novecento. Questa volta però - dice il Papa - la natura da rispettare e da non manipolare è, accanto a quella di terra, acqua e aria, quella della persona umana. Ricostruire un ponte e diventare fautori dell'ecologia dell'uomo mediante uno sguardo nuovo sulla natura umana alla luce della vera ragione che non rinuncia a guardare in alto: semplici, saggi antidoti contro la disumanità proposti da chi, umilmente, lavora davvero sodo nella vigna del Signore.

(L'Osservatore Romano 30 settembre 2011)



    

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/06/2014 11:24
 
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"Le questioni etiche e morali non sono monopolio della Chiesa, ma sono patrimonio comune di ogni civiltà che con queste progredisce.
Ogni uomo e donna deve farsi carico della legge naturale, difenderla da ogni aggressione, farla propria e viverla come stile di vita.
Cari giovani, non abbiate paura di difendere ciò che davvero vi rende grandi e liberi.
La Chiesa è con voi.
Il Papa è con voi.
Dio vi benedica..."
(Benedetto XVI)



    
 
Pubblichiamo - da Zenit -  di seguito il discorso pronunciato in Normandia dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 4 giugno 2004 in occasione delle celebrazioni per il 60° anniversario dello sbarco alleato.



* * *


Quando, il 5 giugno 1944, iniziò lo sbarco delle truppe alleate nella Francia occupata dalla Wermacht, l’evento rappresentò per il mondo intero, compresa una gran parte dei tedeschi, un segnale di speranza: la speranza che in Europa presto sarebbero arrivate la pace e la libertà. 

Che cos’era accaduto? Un criminale con i suoi accoliti era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l’uno nell’altra e viceversa. Questo perché un regime diretto da un criminale esercitava anche le funzioni classiche dello Stato e dei suoi ordinamenti, così che aveva facoltà, in un certo senso, di esigere di diritto l’obbedienza dei cittadini e il loro rispetto nei confronti dell’autorità dello Stato (Rm 12, 1 e seg.) ma nello stesso tempo utilizzava gli strumenti del diritto come mezzi per i suoi scopi criminali. 

Lo stesso Stato di diritto, che in parte continuava a funzionare nelle sue forme abituali all’interno della vita quotidiana, era diventato una potenza che distruggeva il diritto: la perversione degli ordinamenti, che dovevano servire la giustizia e contemporaneamente consolidavano e rendevano impenetrabile il dominio dell’iniquità, si traduceva in un dominio esteso e profondo della menzogna, tale da oscurare le coscienze. 

Al servizio di questo dominio della menzogna stava un regime di paura, nel quale nessuno poteva fidarsi dell’altro perché tutti in qualche modo dovevano proteggersi sotto la maschera della menzogna. Così fu di fatto necessario che il mondo intero intervenisse a spezzare il cerchio dell’azione criminale, perché fossero ristabiliti la libertà e il diritto. Oggi noi siamo grati al fatto che questo sia avvenuto, e a esser grati non sono soltanto i Paesi occupati dalle truppe tedesche. Noi stessi, i tedeschi, siamo grati perché, con l’aiuto di quell’impegno, abbiamo recuperato la libertà e il diritto. 

Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto. Il che non ci esenta in alcun modo dal porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti. 

Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa.

Ex Jugoslavia e Ruanda: l’arsenale dell’inimicizia 

In Europa, a partire dalla fine delle ostilità, nel maggio 1945, ci è stato dato di vivere un periodo di pace lungo come non mai in tutto il corso della storia del continente. Questo in gran parte per merito della prima generazione di politici che hanno operato nel dopoguerra Churchill, Adenauer, Schumann, De Gasperi. 

A loro dobbiamo ancor oggi gratitudine, e dobbiamo essere grati che a guidare in maniera determinante la loro politica non fu un’idea di rivalsa, o di vendetta, o di umiliazione dei vinti ma il dovere di garantire a tutti un diritto; che in luogo della concorrenza fu introdotta la collaborazione, lo scambio di doni offerti e accettati, la mutua conoscenza e l’amicizia nel cuore di una diversità nella quale ciascuna nazione conserva la sua identità e la conserva nella comune responsabilità nei confronti del diritto, in luogo della precedente perversione del diritto. 

Il centro motore di quella politica di pace fu il legame fra l’agire politico e la morale. Il discrimine interno a qualsiasi politica è costituito dai valori morali che noi non inventiamo: essi esistono e sono gli stessi per tutti gli uomini. Diciamolo apertamente: quegli uomini politici hanno fondato la loro idea morale dello Stato, della pace e della responsabilità sulla loro fede cristiana, che aveva superato la prova dell’illuminismo e si era ampiamente purificata nel confronto con la distorsione del diritto e della morale operata dal Partito. 

Essi non volevano costruire uno Stato confessionale bensì uno Stato che prendesse forma attraverso l’etica. A ciò si aggiunge in verità il fatto che l’Europa era divisa da una frontiera che non attraversava soltanto il nostro continente bensì il mondo intero. Una grande parte dell’Europa centrale e dell’Europa orientale si trovava sotto il dominio di un’ideologia che passava attraverso il Partito e sottometteva lo Stato al Partito, trasformandolo esso stesso in partito. 

Anche qui ne derivava un dominio della menzogna. Dopo il crollo di queste dittature, sono emersi con chiarezza i disastri economici, ideologici e spirituali da esse generati. Nei Balcani si è arrivati a conflitti armati nei quali senza alcun dubbio tutto il peso storico del passato produceva per parte sua ulteriori esplosioni di violenza. Ma sottolineare il carattere criminale di quei regimi ed essere felici che siano stati rovesciati non ci esime dal chiederci perché, alla maggior parte dei popoli africani e asiatici, a quei Paesi che erano detti “non allineati”, il regime dell’Est appariva più morale e più realizzabile come modello rispetto all’ordinamento politico e giuridico dell’Occidente. E’ un sintomo, questo, di alcune deficienze nella nostra struttura, deficienze sulle quali dobbiamo riflettere.

Se è vero che l’Europa ha conosciuto dopo il 1945 un periodo di pace, a parte l’eccezione costituita dai conflitti nei Balcani, tuttavia la situazione del mondo nel suo insieme è stata tutt’altro che pacifica. Dalla Corea al Vietnam, all’India, al Pakistan, dal Bangladesh all’Algeria, al Congo, al Biafra e alla Nigeria fino agli antagonismi del Sudan, del Ruanda e del Burundi, dell’Etiopia, della Somalia, del Mozambico, dell’Angola, della Liberia, fino all’Afghanistan e alla Cecenia, sotto i nostri occhi si dispiega un arco ampio e sanguinoso di conflitti bellici ai quali vanno aggiunti i combattimenti in Terra santa e in Iraq. 

Non c’è modo qui di precisare più in profondità la natura di ciascuna di queste guerre le cui ferite continuano a sanguinare. Ma vorrei chiarire un po’ meglio due fenomeni in qualche modo nuovi, nei quali prende evidenza la minaccia specifica del nostro tempo, e dunque anche i compiti specifici di una ricerca della pace. 

Il primo fenomeno consiste nel fatto che l’ordine giuridico sembra esplodere, e con esso la capacità di coabitazione tra comunità differenti. Un esempio tipico di tracollo della forza del diritto e di conseguente trionfo del caos e dell’anarchia mi sembra essere evidente in Somalia, ma anche la Liberia offre un esempio di come una società si disgreghi dall’interno quando l’autorità dello Stato non è in grado di presentarsi come istanza credibile di pace e di libertà e ciascuno è indotto a difendere il suo diritto da sé e con la forza. 

Abbiamo assistito a qualcosa di simile anche in Europa, in seguito alla deflagrazione dello Stato jugoslavo unitario. Popolazioni che, nonostante le forti tensioni interne, per generazioni hanno vissuto insieme pacificamente si sono improvvisamente levate le une contro le altre con una crudeltà inaudita. Si è trattato di un crollo spirituale: le barriere protettive preesistenti non hanno retto al crearsi di una nuova situazione e l’arsenale di inimicizia e di violenza che era annidato nel profondo delle anime, trattenuto fino a quel momento dalla forza del diritto e dalla storia comune, è esploso senza freni. Come è stato possibile? E come è stato possibile che, improvvisamente, in Ruanda, la coabitazione tra hutu e tutsi precipitasse in un’ostilità sanguinosa da ambo le parti?

Le cause di questo crollo del diritto e della capacità di riconciliazione sono certamente molteplici. Possiamo evocarne diverse: il cinismo dell’ideologia aveva oscurato le coscienze, le promesse di quell’ideologia giustificavano ogni mezzo apparentemente idoneo a realizzarle e così avevano abolito la nozione stessa del diritto, quando non la distinzione tra bene e male. 

Accanto al cinismo delle ideologie, e spesso in stretta connessione, opera poi il cinismo degli interessi e dei grandi mercati, lo sfruttamento senza limiti delle risorse della terra. Anche così, in nome del profitto, il bene viene messo da parte e il potere sostituisce il diritto. Anche così la forza dell’ethos si dissolve dall’interno, con la conseguenza finale che lo stesso profitto ne risulta distrutto.

E’ a questo punto che un grande compito si impone ai cristiani della nostra epoca: noi dobbiamo per primi imparare a volerci riconciliare gli uni con gli altri e a fare di tutto perché sia la coscienza a dominare, invece di lasciarsi schiacciare dall’ideologia e dall’interesse. 

Nei Balcani soprattutto (ma lo stesso vale per l’Irlanda) il compito dell’autentico ecumenismo dovrebbe consistere nel ricercare insieme la pace di Cristo, nell’offrirla gli uni agli altri e anche nel considerare la capacità di fare la pace come un autentico criterio di verità.

La nuova guerra mondiale: il terrorismo 

L’altro fenomeno che oggi sommamente ci opprime è il terrorismo. E’ diventato col tempo una sorta di nuova guerra mondiale: una guerra senza un fronte fisso, che può colpire ovunque e non conosce distinzione tra combattenti e popolazione civile, tra colpevoli e innocenti. 

Dato che il terrorismo, ma anche la criminalità organizzata ordinaria - la cui rete si rafforza e si estende ogni giorno di più - possono trovare l’accesso alle armi nucleari e a quelle biologiche, il pericolo che ci minaccia è smisurato: finché questo potenziale distruttivo era sotto il controllo esclusivo delle grandi potenze si poteva sempre sperare che la ragione e la consapevolezza della minaccia che il loro uso rappresentava per la popolazione e per lo Stato ne escludessero l’utilizzo. In effetti, nonostante tutte le tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra l’Est e l’Ovest, una guerra su larga scala grazie a Dio ci è stata risparmiata. 

Ma le organizzazioni terroriste e quelle criminali non hanno niente a che vedere con quel tipo di ragione, dato che uno dei pilastri del terrore poggia sulla disponibilità all’autodistruzione, un’autodistruzione trasfigurata in martirio e tradotta in promessa.

Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza. 

Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti. 

Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza. 

Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’ “occhio per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo. 

E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suol dire, dall’altra parte della barricata. 

Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche.

Ma nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’Occidente e l’Islam. 

E tuttavia, che cos’è l’Occidente? E che cos’è l’Islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e Islam. C’è chi tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione. 

Il fanatismo non è solo quello religioso 

E’ vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Kung, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono. 

Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione - sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera. 

Guardiamo le cose più da vicino: Dio, o la divinità, possono essere trasformati nell’assolutizzazione di una determinata potenza, di un determinato interesse. Se l’immagine di Dio diventa talmente faziosa da identificare l’assolutezza di Dio con una comunità particolare o con certe sue aree di interesse, ciò distrugge il diritto e la morale: il bene, in questo quadro, è ciò che sta al servizio della mia potenza, e la differenza tra bene e male svanisce. 

La morale e il diritto diventano di parte. E tutto questo peggiora ulteriormente quando la volontà di impegnarsi per fini particolaristici si carica di tutto il peso del fanatismo religioso, e diventa così totalmente cieca e brutale. Assistiamo a qualcosa del genere nel caso dei terroristi e della loro ideologia del martirio, un’ideologia che per la verità in certi casi particolari può essere semplicemente un’espressione di disperazione di fronte all’ingiustizia del mondo. 

Del resto anche fra noi, nelle sette presenti nel mondo occidentale, troviamo esempi di un irrazionalismo e di una deviazione della dimensione religiosa che mostrano come possa diventare pericolosa una religione quando perde il suo centro d’orientamento.

Ma esiste anche la patologia della ragione interamente separata da Dio. L’abbiamo vista nelle ideologie totalitarie che avevano negato ogni legame con Dio e intendevano così costruire l’uomo nuovo, il mondo nuovo. Hitler merita indubbiamente la qualifica di irrazionalista. I grandi profeti e i realizzatori del marxismo non sono meno segnati dalla pretesa di costruire il mondo animati unicamente dalla ragione. Forse l’espressione più drammatica di questa patologia della ragione si incarna in Pol Pot: è in lui che si è manifestata con un’evidenza totale la crudeltà di una simile “ricostruzione” del mondo. 

Ma è lo stesso sviluppo spirituale dell’Occidente a tendere sempre di più verso patologie distruttive della ragione. In fondo la bomba atomica - con la quale la ragione, invece di essere forza costruttiva, intendeva rafforzarsi attraverso la capacità di distruzione - non era già un superamento dei limiti? 

E quando, attraverso la ricerca del codice genetico, la ragione si impossessa delle radici della vita, essa tende sempre più a non vedere nell’uomo un dono del Creatore (o della “natura”) e a trasformarlo in un prodotto. L’uomo viene “fatto”, e ciò che si può fare si può anche disfare. La dignità umana scompare. E dove mai troveranno più un fondamento i diritti dell’uomo? Come potrà ancora sussistere il rispetto per l’uomo anche quando è vinto, debole, sofferente, handicappato? In questo quadro la nozione di ragione si appiattisce sempre di più. E’ ovvio che, se la realtà è unicamente il prodotto di processi meccanici, come tale non comporta nessuna morale. 
Il bene in sé, che stava tanto a cuore ancora a Kant, non esiste più. Ed è proprio su queste basi che hanno agito di fatto le dittature ideologiche: in una determinata situazione può darsi che sia bene uccidere degli innocenti, se questo serve alla costruzione del futuro mondo della ragione. In ogni modo la loro dignità assoluta non esiste più. 

Sull’etica un invito ai non credenti 

La ragione malata e la religione manipolata finiscono con l’incontrarsi nel medesimo esito. Ogni riconoscimento di valori ultimativi, ogni asserzione di verità da parte della ragione finisce con l’apparire alla ragione malata come fondamentalismo. E non resta altro che la dissoluzione, la decostruzione, come da tempo ci insegna Jacques Derrida, che ha “decostruito” l’ospitalità, la democrazia, lo Stato e infine anche la nozione di terrorismo, per ritrovarsi poi atterrito dagli avvenimenti dell’11 settembre. Una ragione che sappia riconoscere solo se stessa e ciò che è empiricamente certo si paralizza e si autodistrugge.

Se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi noi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. Il filosofo polacco Leszek Kolakowski, partendo dall’esperienza di una società agnostica atea, ha mostrato in maniera convincente che, in assenza di un punto di riferimento assoluto, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza ed è ineluttabilmente in balia delle forze del male. 

Come cristiani siamo oggi chiamati non certo a porre limiti alla ragione o ad opporci ad essa, ma a rifiutarci di ridurla a una ragione del fare e a lottare a sostegno della sua capacità di cogliere il bene e il buono, il sacro e il santo. Solo una ragione che si mantenga aperta a Dio una ragione che non esilia la morale nella sfera soggettiva e non la riduce a puro calcolo - può evitare la manipolazione della nozione di Dio e le malattie della religione, e può offrire qualche terapia.

E’ qui che si evidenzia la grande sfida che i cristiani d’oggi dovrebbero accettare. Il loro compito, il nostro compito consiste nel condurre la ragione a funzionare integralmente, non solo nel campo della tecnica e dello sviluppo materiale del mondo ma anche e prima di tutto in quanto facoltà di verità, promovendone la capacità di riconoscere il bene, il quale è condizione del diritto e con ciò anche presupposto della pace nel mondo. 

E’ specifico compito nostro, di cristiani del tempo presente, quello di inserire la nozione di Dio nella lotta per la difesa dell’uomo. Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica. 

Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia. 

La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall’interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini. 

In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze. Questo carattere secolare, “laico” dello Stato include nella sua essenza quell’equilibrio tra ragione e religione che ho cercato di illustrare in precedenza. 

Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che vorrebbe stabilire qualcosa come uno “Stato della pura ragione”, uno Stato separato dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest’ultimo risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici. 

Se gli Stati d’Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato, anche se laico, ha il diritto e persino l’obbligo di trovare sostegno nelle radici morali che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.

Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le origini e le armonizza con l’insieme della sua vita. Ma per far sì che simili convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace e eserciti la sua forza interiore di persuasione nell’insieme della società. 

Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hübner, che illustrano limpidamente questo intento: “Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio, tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben vedere, si alimenta naturalmente”. E’ un fatto: se non siamo fedeli alla memoria del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non troveremo la strada della pace.

[La traduzione dal francese, non rivista dall’autore, è stata pubblicata su “Vita e Pensiero” n. 5 (settembre-ottobre) 2004]
(14 Luglio 2005)


 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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venerdì 1 novembre 2013

Eppure eravamo stati avvertiti

 
Le "profezie razionali" del cardinale
Joseph Ratzinger
 
di Marco Sambruna
 
 
Joseph Ratzinger - Benedetto XVI

A parte l'oggettiva pochezza del vivere contemporaneo dominato dalla claustrofobia mentale più ottusa, ciò che preoccupa i credenti oggi è il destino della Chiesa. Non solo della Chiesa istituzionale, ma anche da intendersi come comunità dei credenti.
La certezza è che la terza rivoluzione industriale figlia del post moderno abbia finito di distruggere ciò che le prime due avevano minato ossia la vecchia cultura religioso - contadina improvvisamente scomparsa, diceva Pier Paolo pasolini, dopo secoli, se non millenni.
Sul piano esistenziale essere travolti dal post moderno fondamentalmente ateo o nella migliore delle ipotesi agnostico, significa essere preda di uno strano sentimento di disperazione. invano ci si affanna a cogliere qualche residuo di umanità in una società ormai dominata dal cinismo, dal pragmatismo becero dove il sentimento religioso è stato progressivamente sostituito dal "senso del sacro" tanto caro agli psicologi, poi dalla "morale" come ultimo bastione difensivo dei residui cattolici spazzata via, infine dall' "etica laica" tanto strombazzata dai laicisti militanti che parla un curioso italiano "tecnico" mutuato dal diritto simile al modo di esprimersi di un questurino di provincia degli anni Cinquanta.
Alla disperazione si accompagna la sfiducia e l'orrenda sensazione di essere minacciati da un imminente pericolo dai contorni indefiniti.

Eppure eravamo stati avvertiti: autentici profeti laici come Pasolini, Martin Heidegger, Sergio Quinzio, perfino Marx ci avevavo avvertito, ma il loro appello è restato inascoltato.

Idem riguardo gli avvertimenti da parte di uomini di chiesa: Gregorio XVI col la "Mirari vos", Pio IX col "Sillabo" e Pio X la "Pascendi gregis" avevano messo in guardia contro le insidie del liberalismo borghese. E' noto come Pio XII avesse in animo di indire un Concilio, ma cambiò idea quando si rese conto che le idee della Nouvelle Theologie di matrice liberale minacciavano di infettare le decisioni conciliari. 
Romano Guardini paventava con preoccupazione l'avvento di una specie di dittatura tecnico/burocratica mentre il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova e per due volte a un passo dall'elezione papale, denunciava con forza la deriva post conciliare.
Perfino Paolo VI era angosciato dal pericolo che negli anni post conciliari il cattolicesimo fosse stravolto dallo spirito liberal borghese, per tacere delle posizioni fortemente critiche nei confronti dell'ottimismo ecumenico di Marcel Lefebvre e, più recentemente, quelle del defunto vescovo di Como mons. Alessandro Maggiolini.

Non esistono quindi solo le profezie di mistici e veggenti, ma anche le precognizioni razionali di menti illuminate, la cui ragione limpida e cristallina ha colto il pericolo profilarsi all'orizzonte.
Sotto questo aspetto sono state riscoperte recentemente le "profezie razionali" del cardinal Joseph Ratzinger prima che diventasse Papa, quando ancora era un illustre teologo prima e prefetto della "Congregazione per la dottrina della fede", poi.
 

LE "PROFEZIE" DI JOSEPH RATZINGER.

 
Recentemente  "Vatican insider" ha pubblicato un interessante articolo sulle profezie dimenticate di Joseph Ratzinger. 
Il futuro Papa in una serie di cinque conferenze alla radio bavarese in quel lontano 1969 rilasciava una serie di dichiarazioni che, lette oggi, assumono i contenuti di una vera e propria profezia. Egli infatti era propenso a credere che per la Chiesa si stesse avvicinando una sorta di Getsemani, un' epoca di grave travaglio e crisi da cui sarebbe uscita pesantemente ridimensionata.
 
Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. 
Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. 
Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti, sarà un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata. A quel punto gli uomini scopriranno di abitare un mondo di indescrivibile solitudine e avendo perso di vista Dio, avvertiranno l’orrore della loro povertà. 
(fonte  "Vatican Insider")
Insomma "l'apostasia silenziosa" che avrebbe ridotto il popolo dei fedeli cattolici a pochi sparuti gruppi preconizzata da Giovanni Paolo II già era prefigurata dal giovane teologo Joseph Ratzinger.
Ma non è finita qui.
Nel 1997 il giornalista tedesco Peter Seewald conduce una lunga intervista col cardinale Ratzinger che sarà pubblicata nel libro "Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo". Nel libro Joseph Ratzinger ribadisce il suo pensiero con ancora maggior evidenza: la Chiesa Cattolica è destinata ad arrivare alle soglie dell'estinzione. Solo un piccolo gregge sopravviverà ignorato tanto dalla politica quanto dalla cultura finchè il mondo, prostrato dal senso di disperazione che deriva da un indicibile solitudine si rivolgerà nuovamente a quel manipolo di credenti per cercare una risposta che dia senso e spessore alla vita.
Come abbiamo già detto anche la Chiesa assumerà altre forme, sarà meno simile a una società di massa e sarà sempre più una chiesa di minoranza, vivrà in piccoli gruppi di persone veramente convinte e credenti, e che agiscono di conseguenza.
("Il sale della terra, pag. 251) 
Ma una Chiesa ridotta a sparuta minoranza non solo deve fare i conti con un numero esiguo di fedeli, ma anche con una drammatica diminuzione di sacerdoti consacrati. Joseph Ratzinger sembra allora delineare la possibilità di un incremento di prerogative del sacerdozio universale (cioè di tutti i battezzati) di contro a un ridimensionamento del ruolo del sacerdozio ministeriale (cioè dei preti secolari e ordini religiosi). In altre parole anche i semplici laici credenti potrebbero somministrare i sacramenti. 
Allora, avevo previsto (nel 1969), se così si può dire, che la Chiesa si sarebbe ridotta di dimensioni, che un giorno sarebbe diventata Chiesa di minoranza e che non avrebbe più potuto esistere nei grandi spazi e nelle organizzazioni che aveva in passato, ma avrebbe dovuto trovare una sistemazione più modesta. A tal proposito avevo anche pensato che, accanto ai sacerdoti ordinati in giovane età, si sarebbero anche potuti scegliere degli uomini dotati di grande esperienza, provenienti dal mondo del lavoro, o che, comunque si sarebbero potute istituire forme diverse di ministero. Penso ancora che la Chiesa si debba lentamente adattare a una situazione minoritaria, a una posizione diversa nella società.
("Il sale della terra, pag. 288) 
Quale modello di vita immagina Joseph Ratzinger per le future, sparute, comunità cristiane?
Domanda: Quale sarà il volto nuovo della Chiesa alternativo alla Chiesa del popolo, ormai non più attuabile in grandi aree d'Europa? Che forma devono avere queste comunità attive? Dobbiamo immaginare dei kibbutz cristiani in Germania?
Risposta: Perchè no? Lo si vedrà. Sarebbe sbagliato anzi presuntuoso progettare adesso un modello più o meno definito della Chiesa di domani, che sarà, più chiaramente di oggi, la Chiesa di una minoranza.
("Il sale della terra, pag. 299) 

E L'ECUMENISMO ? 

Tuttavia resta un dubbio: ma l'idea di cattolicità ridotta ai minimi termini non contrasta con l'idea di ecumenismo? Ossia in una prospettiva di dialogo interconfessionale diretta all'unità dei cristiani, la massa dei fedeli dovrebbe aumentare e non diminuire. Eppure l'idea delle grandi masse cristiane frutto del dialogo e del crollo del muro di Berlino aveva affascinato Giovanni Paolo II. Lo stesso Papa vedeva nel nuovo ordine mondiale una straordinaria opportunità per il cristianesimo, era convinto che il dialogo col mondo avrebbe prodotto una nuova primavera cristiana. Insomma l'ecumenismo era una priorità nell'agenda del Pontefice. Si è più volte insistito da parte di alcuni osservatori cattolici sul fatto che ci fosse perfetta continuità fra il pontificato di Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI. Tuttavia a leggere le dichiarazioni dell'allora cardinale Ratzinger pare proprio che egli riponesse ben poche o nulle speranze nel dialogo ecumenico.

D'altra parte è lo stesso Joseph Ratzinger a sottolineare l'importanza dell'ecumenismo per Giovanni Paolo II.
 
Il mettersi in cammino dell'Ecumene nel Vaticano II è già un segno di avvicinamento a una nuova unità. Per questo il Papa (Giovanni Paolo II) è pieno di speranza che i millenni abbiano la loro fisionomia; che tutti i crolli di questo secolo e le sue lacrime, come egli dice, vengano alla fine raccolti e trasformati in un nuovo inizio. L'unità dell'umanità, l'unità delle religioni e l'unità dei cristiani dovrebbero essere ancora perseguite, così che possa davvero iniziare una nuova epoca più positiva. (...) l'instancabilità con cui di fatto il Papa si muove, deriva proprio dalla forza di questa sua straordinaria prospettiva. Il compimento (dell'unità) non è poi nelle nostre mani, ma in quelle di Dio. Al momento non lo vedo ancora avvicinarsi.
("Il sale della terra, pag. 268-269)
Questo il pensiero che il cardinale Ratzinger attribuisce a Giovanni Paolo II. Vediamo ora cosa pensa lui, il futuro Benedetto XVI, dell'ecumenismo diretto all'unità dei cristiani.
Non oso pensare a un'unità di cristiani pienamente compiuta all'interno della storia. Vediamo anzi che, contemporaneamente agli sforzi che si compiono per arrivare all'unità, avvengono continuamente ulteriori frammentazioni. Non solo continuano a formarsi nuove sette, tra le quali anche sette sincretistiche con grandi componenti pagane e non cristiane, ma. anzi aumentano le divisioni anche all'interno delle Chiese: tanto in quelle riformate (...), quanto nell'ortodossia. Anche nella stessa Chiesa cattolica esistono profonde spaccature. cosicchè talvolta si ha letteralmente la sensazione che in essa convivano due chiese l'una accanto all'altra. Si devono vedere entrambi gli aspetti, sia l'avvicinarsi di cristiani separati, sia il contemporaneo nascere di spaccature interne. Ci si dovrebbe cautelare da speranze utopistiche. (...) Sarebbe già un risultato se non si verificassero ulteriori fratture e se comprendessimo che anche nella separazione siamo uniti in molte cose. Non credo si arriverà molto rapidamente a grandi "unioni confessionali".
Insomma, sembra dire Joseph Ratzinger, non facciamoci troppe illusioni circa i frutti del dialogo ecumenico. E' molto probabile, diciamo noi, che si risolva in un colossale fallimento. 
D'altra parte giungere all'unità dei cristiani e financo di tutte le religioni per la Chiesa cattolica sarebbe facilissimo: basterebbe abolire il papato per unirsi agli ortodossi, abolire la gerarchia ecclesiale e l'intermediazione della Madonna per unirsi ai protestanti e magari ridurre il Vangelo a un episodio simbolico cui bisogna dare una lettura allegorica per ottenere anche l'applauso dei cosiddeti "cattolici adulti" o "atei devoti".
 
Il problema non è l'ecumenismo in se, ma l'ecumenismo a partire dalla non negoziabilità dei fondamenti della fede cattolica.
Del resto è stato proprio Benedetto XVI a dire che se dovesse ottenere l'applauso incondizionato del mondo dovrebbe seriamente porsi il problema se sta proponendo il Vangelo nella sua integrità.


Il post si può replicare citando l'autore e la fonte http://nuovareligione.blogspot.it/


 

[Modificato da Caterina63 07/06/2014 14:40]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  Prof. Ratzinger (1970): Rimango nella Chiesa perché considero la fede, realizzabile solo in essa e comunque mai contro di essa, una necessità per l’uomo, anzi per il mondo, che vive di essa anche se non la condivide. Infatti dove non c’è più Dio - e un Dio che tace non è Dio – non c’è più nemmeno la verità che precede il mondo e l’uomo (da "Perchè siamo ancora nella Chiesa")


 



Grazie al preziosissimo lavoro della nostra instancabile ed indispensabile Gemma leggiamo la terza parte della conferenza tenuta dall'allora professor Ratzinger il 4 giugno 1970. Sono parole quantomai attuali.
Clicca qui per leggere la prima parte della conferenza e qui per la seconda.
Grazie davvero a Gemma per questo regalo :-)

R.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli 2008

PERCHE’ SONO ANCORA NELLA CHIESA 

Perchè rimango nella Chiesa

In queste considerazioni è già data la risposta di principio alla domanda che ci siamo posti: sono nella Chiesa perché credo che, ora come prima e a prescindere da noi, dietro la “nostra Chiesa” vive la “ Sua Chiesa”, e che io non posso stare vicino a Lui se non rimanendo vicino e dentro la Sua Chiesa. Sono nella Chiesa perché, nonostante tutto, credo che nel profondo essa non sia nostra, bensì proprio “Sua”.

In termini molto concreti: malgrado tutte le sue debolezze umane, è la Chiesa che ci dà Gesù Cristo e solo grazie a essa noi possiamo riceverlo come una realtà viva, potente, che mi sfida e mi arricchisce qui e ora. Henri De Lubac ha espresso così questa circostanza: “Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la Chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo? […] Gesù è per noi una persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua Chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non sarebbero stati sepolti non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza vitale, l’efficacia del vangelo e della fede nella sua divina persona? […] “Senza la Chiesa Cristo dovrebbe darsi alla fuga , disgregarsi, scomparire. E che cosa sarebbe l’umanità se si togliesse Cristo?”. Questa ammissione elementare deve essere posta all’inizio: per quanto ci sia o ci sia stata infedeltà nella Chiesa, per quanto sia vero che essa ha costantemente bisogno di misurarsi su Gesù Cristo, non vi è alcuna contrapposizione definitiva tra Cristo e la Chiesa. 

E’ attraverso la Chiesa che egli rimane vivo, superando la distanza della storia, ci parla oggi, ci è oggi vicino come nostro maestro e Signore , come nostro fratello che ci rende fratelli. Soltanto la Chiesa, dandoci Gesù Cristo, rendendolo vivo e presente nel mondo, facendolo rinascere continuamente nella fede e nelle preghiere degli uomini, dà all’umanità una luce, un sostegno e un criterio, senza i quali il mondo non sarebbe più concepibile. 

Chi vuole la presenza di Gesù Cristo nell’umanità, non la può trovare contro la Chiesa, ma solo in essa.
In questo modo è chiarito anche il punto successivo. Io sono nella Chiesa per gli stessi motivi per i quali sono cristiano; poiché non si può credere da soli. Si può avere fede solo in comunione con gli altri. La fede è, per sua natura, una forza che unisce. Il suo archetipo è l’evento della Pentecoste, il miracolo di comprensione che accadde tra uomini che per provenienza e storia erano estranei gli uni agli altri. La fede o è ecclesiale o non esiste. Bisogna inoltre aggiungere che, così come non è possibile credere da soli, ma soltanto in comunione con gli altri, nello stesso modo non è possibile credere per propria iniziativa o invenzione, ma solo se vengo reso capace di credere, il che non è in mio potere, non viene dalla mia forza, ma mi precede.

Una fede che fosse un’invenzione personale sarebbe una contraddizione in termini, poiché potrebbe garantirmi e dirmi solo ciò che io già sono oppure so, ma non potrebbe superare i limiti del mio io. Perciò anche una Chiesa, una comunità che si creasse da sola, che si fondasse solo sulla propria grazia, sarebbe una contraddizione in termini. La fede esige una comunità che abbia autorità e che sia superiore a me, non una mia creazione, che sia lo strumento dei miei stessi desideri.

Tutto ciò si può formulare anche da un punto di vista più storico: o questo Gesù fu più che un uomo, con un potere assoluto superiore a un prodotto del proprio arbitrio, e quindi fu capace di tramandarsi attraverso i secoli; oppure egli non ebbe tale potere non potè neppure lasciarlo in eredità. In quest’ultimo caso sarei abbandonato alle mie personali ricostruzioni e quindi egli non sarebbe niente di più che una qualsiasi altra grande figura di fondatore, di cui si rinnova la presenza col pensiero. Ma se egli è qualcosa di più, allora non dipende dalle mie ricostruzioni e anche oggi vale il potere che egli ha lasciato in eredità.

Ma torniamo al punto precedente: si può essere cristiani solo nella Chiesa, non accanto a essa

E non temiamo di porci ancora una volta in piena obiettività una domanda alquanto patetica: che cosa sarebbe il mondo senza Cristo? Senza un Dio che parli e che conosca gli uomini, e che quindi possa essere conosciuto dall’uomo? Sappiamo molto bene qual è la risposta oggi, se il tentativo di creare un mondo simile viene praticato con tanta accanita ostinazione: un esperimento assurdo, senza criterio. Per quanto il cristianesimo possa aver fallito concretamente nella sua storia (e lo ha fatto sempre in modo sconcertante), i criteri della giustizia e dell’amore sono tuttavia arrivati a noi, persino contro la loro volontà, dal messaggio custodito in esso, contro la Chiesa stessa, eppure mai senza la forza silenziosa di ciò che in essa è depositato.

In altre parole: rimango nella Chiesa perché considero la fede, realizzabile solo in essa e comunque mai contro di essa, una necessità per l’uomo, anzi per il mondo, che vive di essa anche se non la condivide. Infatti dove non c’è più Dio - e un Dio che tace non è Dio – non c’è più nemmeno la verità che precede il mondo e l’uomo

E in un mondo senza verità non si può vivere a lungo; là dove si rinuncia alla verità, si continua a vivere in silenzio solo perché essa non si è ancora veramente spenta, così come se si spegnesse il sole, la sua luce rimarrebbe ancora per qualche tempo e potrebbe ingannare sulla notte dei mondi, che in realtà sarebbe già cominciata.

Si può esprimere lo stesso concetto ancora da un altro punto di vista: rimango nella Chiesa perché solo la fede della Chiesa redime l’uomo. Può sembrare un’affermazione molto tradizionale e dogmatica, irreale, ma è intesa in modo del tutto obiettivo e realistico. Nel nostro mondo di costrizioni e frustrazioni il desiderio di redenzione è riemerso con una forza primordiale. Gli sforzi di Freud e di Jung non sono altro che tentativi di dare redenzione agli irredenti. Partendo da altre premesse, Marcuse, Adorno, Habermas continuano a loro modo a cercare e ad annunciare la redenzione. 

Sullo sfondo sta Marx e anche il suo è un problema di redenzione. Quanto più l’uomo diventa libero, illuminato, potente, tanto più lo tormenta il desiderio di redenzione, tanto più si ritrova non libero. Agli sforzi di Marx, di Freud e Marcuse è comune la ricerca della redenzione, l’aspirazione a un mondo senza sofferenza, malattia e povertà. 

Un mondo libero dalla tirannia, dalla sofferenza, dall’ingiustizia è diventato il grande ideale della nostra generazione; a questa promessa mirano le ribellioni violente dei giovani, mentre il risentimento dei vecchi imperversa perché essa non è ancora realizzata ed esistono ancora la tirannia, l’ingiustizia, la sofferenza. 

La lotta contro la sofferenza e l’ingiustizia nel mondo è in realtà un impulso assolutamente cristiano, ma l’idea che si possa creare un mondo senza dolore e il desiderio di ottenerlo subito con le riforme sociali, con l’abolizione del potere e dell’ordinamento giuridico sono un’eresia, una profonda incomprensione della natura dell’uomo. In questo mondo la sofferenza non deriva in verità solo dalla disparità di ricchezza e potere e la sofferenza non è l’unico fastidio di cui l’uomo dovrebbe liberarsi: chi lo pensa deve rifugiarsi nel mondo illusorio della droga, finendo solo per essere ancora più distrutto e in contrasto con la realtà. L’uomo ritrova se stesso, la propria verità, la propria gioia e felicità soltanto sopportando se stesso e liberandosi dalla tirannide del proprio egoismo. La crisi della nostra epoca dipende dal fatto che ci si vuole convincere che sia possibile diventare persona senza il dominio di se stessi, senza la pazienza della rinuncia e lo sforzo del superamento; che non è necessario il sacrificio di mantenere gli impegni presi né la fatica per soffrire con pazienza la tensione tra ciò che si dovrebbe essere e quello che si è in realtà. 
Un uomo che venga privato della fatica e condotto nel paese della cuccagna dei suoi sogni perde se stesso, smarrisce la sua vera natura.
In realtà l’uomo non viene redento se non attraverso la croce, con l’accettazione della sofferenza di se stesso e del mondo, che insieme alla sofferenza di Dio è diventata il luogo del significato che libera. Solo così, in questa accettazione, l’uomo diventa libero. 

Tutte le altre offerte, più facili e comode, falliranno e si dimostreranno illusorie. La speranza del cristianesimo, l’occasione della fede dipende in ultima istanza molto semplicemente dal fatto che esso dice la verità. 
La chance della fede è la chance della verità, che può essere offuscata e calpestata, ma non può soccombere.
Veniamo all’ultimo punto. Un uomo vede sempre soltanto nella misura in cui egli ama. Certo esiste anche la chiaroveggenza della negazione e dell’odio. 
Ma questi possono vedere solo ciò che è loro conforme: gli aspetti negativi. Possono così preservare l’amore da una cecità nella quale esso finge di non vedere i propri limiti e pericoli, ma non sono in grado di costruire. Senza una certa quantità di amore non si trova nulla. Chi non si inoltra almeno per un po’ nell’esperimento della fede, chi non accetta di fare esperienza della Chiesa, chi non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell’amore, finisce soltanto per arrabbiarsi. 

Il rischio dell’amore è il presupposto per giungere alla fede. Chi lo ha osato, non ha bisogno di nascondersi nessuno dei lati oscuri della Chiesa, ma scopre che essa non si riduce di certo solo a questi, perché si accorge che accanto alla storia della Chiesa degli scandali, c’è anche quella della forza liberatrice della fede, che si è mantenuta feconda nei secoli in personaggi meravigliosi come Agostino, Francesco d’Assisi, il domenicano Las Casas con la sua appassionata battaglia per gli indios, Vincenzo De Paoli, Giovanni XXIII. 
Chi affronta questo rischio trova che la Chiesa ha proiettato nella storia un fascio di luce tale da non poter essere ignorato . Anche l’arte che è nata sotto l’impulso del suo messaggio, e che ancora oggi ci si mostra in opere impareggiabili, diventa una testimonianza di verità: ciò che è stato in grado di esprimersi a simili livelli non può essere soltanto tenebre. La bellezza delle grandi cattedrali, la bellezza della musica che si è sviluppata nell’ambito della fede, la dignità della liturgia della Chiesa, la stessa realtà della festa, che non si può fare da soli ma si può solo accogliere, il ciclo dell’anno liturgico, nel quale convivono l’ieri e l’oggi, il tempo e l’eternità – tutto questo non è a mio avviso una insignificante casualità.

La bellezza è lo splendore del vero, ha detto Tommaso d’Aquino, e l’offesa del bello è l’autoironia della verità perduta – si potrebbe aggiungere. Le espressioni nelle quali la fede è stata in grado di tradursi nella storia sono testimonianza della verità che è in essa.

Non vorrei tralasciare un’ulteriore osservazione, anche se può sembrare che indulga molto nel soggettivo. Se si tengono aperti gli occhi, anche oggi è possibile di certo incontrare persone che sono testimonianza vivente della forza liberatrice della fede cristiana. 
E non è una vergogna essere e rimanere cristiani anche grazie a questi uomini che, dandoci esempio di un cristianesimo autentico, con le loro vite lo hanno reso ai nostri occhi degno di amore e di fede. In fin dei conti l’uomo si illude quando vuole fare di sé una sorta di soggetto trascendentale, che considera valido solo ciò che non è casuale. E’ certamente doveroso riflettere su tali esperienze, esaminare il loro grado di responsabilità, parificarle e dal loro un nuovo contenuto. 

Ma anche in questo necessario processo di oggettivazione non risulta forse come una prova rilevante a favore del cristianesimo il fatto che esso rende gli uomini più umani, legandoli a Dio? L’elemento più soggettivo non è qui anche un dato del tutto oggettivo, del quale non dobbiamo più vergognarci di fronte a nessuno?
Ancora un’osservazione in chiusura. Quando, come abbiamo fatto qui, si afferma che senza l’amore non si può vedere nulla e che quindi si deve amare anche la Chiesa, per poterla riconoscere, oggi molti diventano inquieti. 
L’amore non è forse il contrario della critica? E non è in fondo il pretesto dei potenti che vogliono eliminare la critica e vogliono mantenere lo status quo a loro favore? Si giova di più agli uomini tranquillizzandoli e abbellendo la realtà, oppure intervenendo in loro favore continuamente contro la perdurante ingiustizia e contro l’oppressione delle strutture? Si tratta di questioni molto ampie, che non possono essere indagate qui nello specifico. 
Ma una cosa dovrebbe essere ben chiara: il vero amore non è né statico né acritico. L’unica possibilità di cambiare in positivo un altro uomo è quella di amarlo e aiutarlo quindi a cambiare lentamente, da ciò che egli è a ciò che egli può essere.

Lo stesso vale per la Chiesa

Guardiamo alla storia più recente: nel rinnovamento liturgico e teologico della prima metà di questo secolo è maturato un vero movimento di riforma, che ha portato cambiamenti positivi. 
Ciò fu possibile soltanto perché vi furono uomini che amarono la Chiesa in modo vigile, con spirito “critico”, e furono pronti a soffrire per essa. 
Se oggi non riusciamo più in nulla, è solo perché tutti siamo troppo preoccupati di affermare solo noi stessi

Rimanere in una Chiesa che avesse bisogno di essere fatta da noi per diventare degna di essere abitata non ha senso; è una contraddizione in termini. Rimanere nella Chiesa perché essa è in sé degna di rimanere nel mondo, perché essa è in sé degna di essere amata e di un amore che la porti sempre a trasformarsi di nuovo in ciò che deve essere veramente – questo è il cammino che anche oggi viene indicato dalla responsabilità della fede. 

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli





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  discorso integrale al IX Meeting per l'amicizia tra i popoli

Rimini, 1 settembre 1990
card. J. Ratzinger 

Una compagnia sempre riformanda



Lo scontento verso la Chiesa

Non c'e bisogno di molta immaginazione per indovinare che la compagnia, di cui voglio qui parlare, è la Chiesa. Forse si è evitato di menzionare nel titolo il termine "Chiesa" solo perché esso provoca spontaneamente, nella maggior parte degli uomini di oggi, reazioni di difesa. Essi pensano: «di Chiesa, ne abbiamo già sentito parlare fin troppo e per lo più non si e trattato di niente di piacevole». La parola e la realtà della Chiesa sono cadute in discredito. E perciò anche una simile riforma permanente non sembra poter cambiare qualcosa. O forse il problema è solamente che finora non è stato scoperto quel tipo di riforma che potrebbe fare della Chiesa una compagnia che valga davvero la pena di essere vissuta?

Ma chiediamoci innanzitutto: perché la Chiesa riesce sgradita a cosi tante persone, e addirittura anche a credenti, anche a persone che fino a ieri potevano essere annoverate tra le piu fedeli o che, pur tra sofferenze, lo sono in qualche modo ancor oggi? I motivi sono tra loro molto diversi, anzi opposti, a seconda delle posizioni. Alcuni soffrono perché la Chiesa si e troppo adeguata ai parametri del mondo d'oggi; altri sono infastiditi perché ne resta ancora troppo estranea.

Per la maggior parte della gente la scontentezza nei confronti della Chiesa comincia col fatto che essa e un'istituzione come  tante altre, e che come tale limita la mia liberta. La sete di liberta e la forma in cui oggi si esprimono il desiderio di liberazione e la percezione di non essere liberi, di essere alienati.

L'invocazione di liberta aspira ad un'esistenza che non sia limitata da ciò che e già dato e che mi ostacola nel mio pieno sviluppo, presentandomi dal di fuori la strada che io dovrei percorrere. Ma dappertutto andiamo a sbattere contro barriere e blocchi stradali di questo genere, che ci Fermano. impedendoci di andare oltre. Gli sbarramenti, che la Chiesa innalza, si presentano quindi come doppiamente pesant'i, poiché penetrano fin nella sfera più personale e più intima. Le norme di vita della Chiesa sono infatti ben di più che una specie di regole del traffico affinché la convivenza umana eviti il più possibile gli scontri. Essi riguardano il mio cammino interiore, e mi dicono come devo comprendere e configurare la mia libertà. Essi esigono da me decisioni, che non si possono prendere senza il dolore della rinuncia. Non si vuol forse negarci i frutti più belli del giardino della vita?

Non è forse vero che con la ristrettezza di così tanti comandi e divieti ci viene sbarrata la strada di un orizzonte aperto? E il pensiero, non viene forse ostacolato nella sua grandezza, come pure la volontà? Non deve forse la liberazione essere necessariamente l'uscita da una simile tutela spirituale? E l'unica vera riforma non sarebbe forse quella di respingere tutto ciò? Ma allora cosa rimane ancora di questa compagnia?

L'amarezza contro la Chiesa ha però anche un motivo specifico. Infatti, in mezzo ad un mondo governato da dura disciplina e da inesorabili costrizioni si leva verso la Chiesa ancora e sempre una silenziosa speranza: essa  potrebbe rappresentare in tutto ciò come una piccola isola di vita migliore, una piccola oasi di liberta. in cui di tanto in tanto ci si può ritirare.

L'ira contro la Chiesa o la delusione nei suoi confronti hanno perciò un carattere particolare, poiché silenziosamente ci si attende da essa di più che da altre istituzioni mondane. In essa si dovrebbe realizzare il sogno di un mondo migliore. Quanto meno si vorrebbe assaporare in essa il gusto della liberta, dell'essere liberati: quell'uscir fuori dalla caverna, di cui parla Gregorio Magno, ricollegandosi a Platone.

Tuttavia dal momento che la Chiesa nel suo aspetto concreto si è talmente allontanata da simili sogni, assumendo anch'essa il sapore di una istituzione e di tutto ciò che è umano, contro di essa sale una collera particolarmente amara. E questa collera non può venir meno. Proprio poiché

non si può estinguere quel sogno che ci aveva rivolti con speranza verso di essa. Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe: un luogo in cui si possano esprimere tutte le liberta, uno spazio dove siano abbattuti i nostri limiti, dove si sperimenti quell'utopia, che ci dovrà pur essere da qualche parte. Come nel campo dell'azione politica si vorrebbe finalmente costruire il mondo migliore, cosi, si pensa, si dovrebbe finalmente (magari come prima tappa sulla via verso di esso) metter su anche la Chiesa migliore: una Chiesa di piena umanità, piena di senso fraterno, di generosa creatività, una dimora di riconciliazione di tutto e per tutti.

Riforma inutile

Ma in che modo dovrebbe accadere questo? Come può riuscire una simile riforma? Orbene, dobbiamo pur cominciare, si dice. Lo si dice spesso con l'ingenua presunzione dell'illuminato, il quale è convinto che le generazioni fino ad ora non abbiano ben compreso la questione. Oppure che siano state troppo timorose e poco illuminate; noi però abbiamo ora finalmente nello stesso tempo sia il coraggio che l'intelligenza. Per quanta resistenza possano opporre i reazionari e i “fondamentalisti" a questa nobile impresa, essa deve venir posta in opera. Almeno c'è una ricetta oltremodo illuminante per il primo passo.

La Chiesa non è una democrazia. Da quanto appare essa non ha ancora integrato nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l'Illuminismo ha elaborato e che da allora e stato riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni sociali politiche. Così sembra la cosa più normale del mondo recuperare una buona volta quanto era stato trascurato e cominciare coll'erigere questo patrimonio fondamentale di strutture di liberta.

Il cammino conduce - come si suol dire - da una Chiesa paternalistica e distributrice di beni ad una Chiesa comunità. Si dice che nessuno più dovrebbe rimanere passivo ricevitore dei doni che fanno essere cristiano. Tutti devono invece diventare attivi operatori della vita cristiana.

La Chiesa non deve più venir calata già dall'alto. No! Siamo noi che "facciamo" la Chiesa, e la facciamo sempre nuova.

Così essa diverrà finalmente la "nostra" Chiesa, e noi i suoi attivi soggetti responsabili. L'aspetto passivo cede a quello attivo. La Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. Nel dibattito emerge ciò che ancora oggi può essere richiesto, ciò che oggi può ancora essere riconosciuto da tutti come appartenente alla fede o come linea morale direttiva.

Vengono coniate nuove "formule di fede" abbreviate. In Germania, ad un livello abbastanza elevato, è stato detto che anche la Liturgia non deve più corrispondere ad uno schema previo già dato, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione, ad opera della comunità per cui viene celebrata. Anche essa non deve più essere niente di gia precostituito, ma invece qualcosa di fatto da se. Qualcosa che sia espressione di se stessi. Su questa via si rivela essere un po' di ostacolo, per lo più, la parola della Scrittura. Alla quale però non si può rinunciare del tutto. Si deve allora affrontarla con molta libertà di scelta. Non sono molti pero i testi che si lasciano impiegare in modo tale da adattarsi senza disturbi a quell'autorealizzazione, alla quale la liturgia ora sembra essere destinata.

In quest'opera di riforma, in cui ora Finalmente anche nella Chiesa l’ "autogestione” deve sostituire l'esser guidati da altri, sorgono però presto delle domande. Chi ha qui propriamente il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene? Nella democrazia politica a questa domanda si risponde con il sistema della rappresentanza: nelle elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; e circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico, e comprende solo quegli ambiti dell'azione politica che dalla Costituzione sono assegnati alle entità statali rappresentative.

Anche a questo proposito rimangono delle questioni: la minoranza deve chinarsi alla maggioranza, e questa minoranza può essere molto grande. Inoltre non è sempre garantito che il rappresentante che ho eletto agisca e parli davvero nel senso da me desiderato, cosicchè anche la maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, ancora una volta non può considerarsi affatto interamente come soggetto attivo dell'evento politico. Al contrario essa deve accettare anche "decisioni prese da altri", onde perlomeno non mettere in pericolo il sistema nella sua interezza.

Più importante per la nostra questione è però un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno, può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gusto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può venire abrogato da un'altra maggioranza. Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana.

Essa è ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è fatto della propria azione e delle proprie intuizioni e opinioni. L'opinione sostituisce la fede. Ed effettivamente, nelle formule di fede coniate da sè che io conosco, il significato dell'espressione "credo" non va mai al di là del significato "noi pensiamo". La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore del "se stessi", che agli altri "se stessi", non e mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell'ambito dell'empirico, e così si e dissolta anche come ideale sognato.

L'essenza della vera riforma

L'attivista, colui che vuol costruire tutto da sé, e il contrario di colui che ammira: l’ "ammiratore". Egli restringe l'ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l'ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti.

In essa la dimensione grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che "è più grande del nostro cuore".

La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la "nostra" Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall'alto e che è nello stesso tempo l'irruzione della pura libertà.

Lasciatemi dire con un'immagine ciò che io intendo. Un’immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo da parte sua antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiane. Con lo sguardo dell'artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l'immagine-guida che nascostamente attendeva di venir liberata e messa in luce. Il compito dell'artista-secondo lui - era solo quello di toglier via ciò che ancora ricopriva l'immagine. Michelangelo concepiva l'autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà; non come un fare.

La stessa idea applicata però all'ambito antropologico, si trovava gia in san Bonaventura, il quale spiega il cammino attraverso cui l'uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal paragone con l'intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore non fa qualcosa, dice il grande teologo francescano. La sua opera è invece una ablatio: essa consiste nell'eliminare; nel toglier via ciò che è inautentico.

In questa maniera, attraverso la ablatio, emerge la nobilis forma, cioè la figura preziosa. Così anche l’uomo, affinché risplenda in lui l'immagine di Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l'aspetto autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma divina.

Se la intendiamo giustamente, possiamo trovare in questa immagine anche il modello guida per la riforma ecclesiale. Certo la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno, per poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche, con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall'essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado, semplicemente necessarie e indispensabili.

Ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto e veramente essenziale. Per questo esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue. Riforma e sempre nuovamente una ablatio: un toglier via, affinchè divenga visibile la nobilis forma, il volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente.

Una simile ablatio, una simile "teologia negativa", è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo cosi il Divino penetra, e solo così sorge una congregatio: un'assemblea, un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui aneliamo: una comunità in cui un "io" non sta più contro un altro "io", un "sé" contro un altro "sé". Piuttosto quel donarsi, quell'affidarsi con fiducia, che fa parte dell'amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro. E così per ciascuno vale la parola del Padre generoso, il quale al figlio maggiore invidioso richiama alla memoria quanto costituisce il contenuto di ogni liberta e di ogni utopia realizzata: «Tutto ciò che è mio è tuo...» (Lc 15,31; cfr. Gv17,1).

La vera riforma è dunque una ablatio, che come tale diviene congregatio. Cerchiamo di afferrare in modo un po' più concreto questa idea di fondo. In un primo approccio avevamo contrapposto all'attivista l'ammiratore, e ci eravamo espressi in favore di quest'ultimo. Ma che cosa esprime questa contrapposizione? L'attivista, colui che vuol sempre fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto. Ciò  limita il suo orizzonte all'ambito del fattibile, di ciò che può diventare oggetto del suo fare. Propriamente parlando egli vede soltanto degli oggetti. Non è affatto in grado di percepire ciò che e più grande di lui, poiché ciò porrebbe un limite alla sua attività Egli restringe il mondo a ciò che è empirico. L'uomo viene amputato. L'attivista si costruisce da solo una prigione, contro la quale poi egli stesso protesta ad alta voce.

Invece l'autentico stupore è un "no" alla limitazione dentro ciò che è empirico, dentro ciò che è solamente l'al di qua. Esso prepara l'uomo all'atto della fede, che gli spalanca d'innanzi l'orizzonte dell'Eterno, dell'Infinito. E solamente ciò che non ha limiti è sufficientemente ampio per la nostra natura, solamente l'illimitato è adeguato alla vocazione del nostro essere. Dove questo orizzonte scompare, ogni residuo di libertà diventa troppo piccolo e tutte le liberazioni, che di conseguenza possono venir proposte, sono un insipido surrogato, che non basta mai. La prima, fondamentale ablatio, che e necessaria per la Chiesa, e sempre nuovamente l'atto della fede stessa. Quell'atto di fede che lacera le barriere del finito e apre così lo spazio per giungere sino allo sconfinato.

La fede ci conduce «lontano, in terre sconfinate, come dicono i Salmi. Il moderno pensiero scientifico ci ha sempre più rinchiusi nel carcere del positivismo, condannandoci cosi al pragmatismo. Per merito suo si possono raggiungere molte cose; si può viaggiare fin sulla luna e ancora più lontano, nell'illimitatezza del cosmo.

Tuttavia, nonostante questo, si rimane sempre allo stesso punto, perché la vera e propria frontiera, la frontiera del quantitativo e del fattibile, non viene oltrepassata. Albert Camus ha descritto l'assurdità di questa forma di libertà nella figura dell'imperatore Caligola: tutto è a sua disposizione, ma ogni cosa gli è troppo stretta. Nella sua folle bramosia di avere sempre di più, e cose sempre più grandi, egli grida: «Voglio avere la luna, datemi la luna!» Ora, nel frattempo, e divenuto per noi possibile avere in qualche modo anche la luna. Ma finche non si apre la vera e propria frontiera, la frontiera fra terra e cielo, fra Dio e il mondo, anche la luna è solamente un ulteriore pezzetto di terra, e il raggiungerla non ci porta neanche di un passo più vicini alla libertà e alla pienezza che desideriamo.

La fondamentale liberazione che la Chiesa può darci è lo stare nell'orizzonte dell'Eterno, e l'uscir fuori dai limiti del nostro sapere e del nostro potere. La fede stessa, in tutta la sua grandezza e ampiezza, è perciò sempre nuovamente la riforma essenziale di cui noi abbiamo bisogno; a partire da essa noi dobbiamo sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella Chiesa noi stessi abbiamo fatto. Ciò significa che la Chiesa dev'essere il ponte della fede, e che essa - specialmente nella sua vita associazionistica intramondana - non può divenire fine a se stessa. E’ diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell'attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all'interno della Chiesa.

In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un’attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l'osservatore e il mondo, ha perso il suo senso.

Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l'amore che proviene dalla fede, senza esser mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e  senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano. Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana.

E per questo tutto ciò che è fatto dall'uomo, all'interno della Chiesa, deve  riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l'essenziale. La libertà, che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà dell'Unico, che è il nostro Signore e la nostra liberta.

Nella Chiesa l'atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il Sacramento non è una spartizione di potere, ma che invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devo parlare e agire. Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore autoespropriazione, lì nessuno è schiavo dell'altro; li domina il Signore, e perciò vale il principio che: il Signore è lo Spirito. Dove però c'è lo Spirito del Signore, ivi c'e la libertà» (2 Cor 3, 17).

Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c'è spazio per lo Spirito, tanto meno c'è spazio per il Signore, e tanto meno c'e libertà. Io penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con se una ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della liberta e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova.

 

Morale perdono ed espiazione: il centro personale della riforma

Guardiamo un attimo, prima di andare avanti, a quanto fin qui abbiamo messo in luce. Abbiamo parlato di un doppio "toglimento", di un atto di liberazione, che è un duplice atto: di purificazione e di rinnovamento. Dapprima il discorso ha toccato la fede, che infrange le mura del finito e libera lo sguardo verso le dimensioni dell'Eterno, e non solo lo sguardo, ma anche la strada. La fede è infatti non soltanto riconoscere, ma operare; non soltanto una frattura nel muro, ma una mano che salva, che tira fuori dalla caverna. Da ciò abbiamo tratto la conseguenza, per le Istituzioni, che l'essenziale ordinamento di fondo della Chiesa ha si bisogno sempre di nuovi sviluppi concreti e di concrete configurazioni - affinché la sua vita si possa sviluppare in un tempo determinato - ma che però queste configurazioni non possono diventare la cosa essenziale. La Chiesa infatti non esiste allo scopo di tenerci occupati come una qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita essa stessa, ma esiste invece per divenire in noi tutti accesso alla vita eterna.

Ora dobbiamo compiere un passo ulteriore, e applicare tutto questo non più al livello generale e oggettivo quale era finora, ma all'ambito personale. Infatti anche qui, nella sfera personale, è necessario un "toglimento" che ci liberi. Sul piano personale non è sempre e senz'altro la "forma preziosa", cioè l'immagine di Dio inscritta in noi, a balzare all'occhio. Come prima cosa noi vediamo invece soltanto l'immagine di Adamo, l'immagine dell'uomo non del tutto distrutto, ma pur sempre decaduto. Vediamo le incrostazioni di polvere e sporcizia, che si sono posate sopra l'immagine.Noi tutti abbiamo bisogno del vero Scultore, il quale toglie via ciò che deturpa l'immagine, abbiamo bisogno del perdono, che costituisce il nucleo di ogni vera riforma. Non è certamente un caso che nelle tre tappe decisive del formarsi della Chiesa, raccontate dai Vangeli, la remissione dei peccati giochi un ruolo essenziale. C'e in primo luogo la consegna delle chiavi a Pietro. La potestà a lui conferita di legare e sciogliere, di aprire e chiudere, di cui qui si parla, è, nel suo nucleo, incarico di lasciar entrare, di accogliere in casa. di perdonare (Mt 16,19).

La stessa cosa si trova di nuovo nell'Ultima Cena, che inaugura la nuova comunità a partire dal corpo di Cristo e nel corpo di Cristo. Essa diviene possibile per il fatto che il Signore versa il suo sangue «per i molti, in remissione dei peccati» (Mt 26,28). Infine il Risorto, nella sua prima apparizione agli Undici, fonda la comunione della sua pace nel fatto che egli dona loro la potestà di perdonare (Gv 20,19-23). La Chiesa non è una comunità di coloro che «non hanno bisogno del medico», bensì una comunità di peccatori convertiti, che vivono della grazia del perdono, trasmettendola a loro volta ad altri.

Se leggiamo con attenzione il Nuovo Testamento scopriamo che il perdono non ha in se niente di magico; esso però non è nemmeno un far finta di dimenticare, non è "un fare come se non", ma invece un processo di cambiamento del tutto reale, quale lo Scultore compie.

Il toglier via la colpa rimuove davvero qualcosa; l'avvento del perdono in noi si mostra nel sopraggiungere della penitenza. Il perdono è in tal senso un processo attivo e passivo: la potente parola creatrice di Dio su di noi opera il dolore del cambiamento e diventa così un attivo trasformarsi. Perdono e penitenza, grazia e propria personale conversione non sono in contraddizione, ma sono invece due facce dell'unico e medesimo evento. Questa fusione di attività e passività esprime la forma essenziale dell'esistenza umana. Infatti tutto il nostro creare comincia con l'essere creati, con il nostro partecipare all'attività creatrice di Dio.

Qui siamo giunti ad un punto veramente centrale: credo infatti che il nucleo della crisi spirituale del nostro tempo abbia le sue radici nell'oscurarsi della grazia del perdono.

Notiamo però dapprima l'aspetto positivo del presente: la dimensione morale comincia nuovamente a poco a poco a venir tenuta in onore. Si riconosce, anzi è divenuto evidente, che ogni progresso tecnico è discutibile e ultimamente distruttivo, se ad esso non corrisponde una crescita morale.

Si riconosce che non c'e riforma dell'uomo e dell'umanità senza un rinnovamento morale. Ma l'invocazione di moralità rimane però alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in una fitta nebbia di discussioni. In effetti l'uomo non può sopportare la pura e semplice morale, non può vivere di essa: essa diviene per lui una "legge", che provoca il desiderio di contraddirla e genera il  peccato. Perciò là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi. A grandi linee si può dire che l'odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa, facendo si che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. Viene in mente la mordace frase di Pascal: «Ecce patres, qui tollunt peccata mundi!» Ecco i padri che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi "moralisti" non c'é semplicemente più alcuna colpa.

Naturalmente tuttavia questa maniera di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro, gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato c'é, che essi stessi sono peccatori e che deve pur esserci una maniera effettiva di superare il peccato.

Anche Gesù stesso non chiama infatti coloro che si sono già liberati da sé e che perciò - come essi ritengono – non hanno bisogno di Lui, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di Lui.

La morale conserva la sua serietà solamente se c'é il perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c'é solo se c'é il "prezzo d'acquisto",l’ "equivalente nello scambio", se 1° colpa e stata espiata, se esiste l'espiazione. La circolarità che

esiste tra "morale-perdono-espiazione" non può esserci spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il resto.

Dall'indivisa esistenza di questo circolo dipende se per l'uomo c'e redenzione oppure no. Nella Torah, nei cinque libri di Mosé, questi tre elementi sono indivisibilmente annodati l'uno all'altro e non è possibile perciò da questo centro compatto appartenente al Canone dell'Antico Testamento scorporare, alla maniera illuminista, una legge morale sempre valida, abbandonando tutto il resto alla storia passata. Questa modalità moralistica di attualizzazione dell'Antico Testamento finisce necessariamente in un fallimento; in questo punto preciso stava già l'errore di Pelagio, il quale ha oggi molti più seguaci di quanto non sembri a prima vista. Gesù ha invece adempiuto a tutta la Legge, non solamente ad una parte di essa e così l'ha rinnovata dalla base. Egli stesso, che ha patito espiando ogni colpa, è espiazione e perdono contemporaneamente, e perciò è anche l'unica sicura e sempre valida base della nostra morale.

Non si può disgiungere la morale dalla cristologia, poiché non la si può separare dall'espiazione e dal perdono. In Cristo tutta quanta la Legge è adempiuta, e quindi la morale è diventata una vera, adempibile esigenza rivolta nei nostri confronti. A partire dal nucleo della fede si apre così sempredi nuovo la via del rinnovamento per il singolo, per la Chiesa nel suo insieme e per l'umanità.

La sofferenza, il martirio e la gioia della Redenzione

Su questo ci sarebbe ora molto da dire. Cercherò pero solo, molto brevemente, di accennare, come conclusione, ancora a ciò che nel nostro contesto mi appare come la cosa più importante. Il perdono e la sua realizzazione in me, attraverso la via della penitenza e della sequela, è in primo luogo il centro del tutto personale di ogni rinnovamento. Ma proprio perché il perdono concerne la persona nel suo nucleo più intimo, esso è in grado di raccogliere in unità, ed e anche il centro del rinnovamento della comunità. Se infatti vengono tolte via da me la polvere e la sporcizia, che rendono irriconoscibile in me l'immagine di Dio, allora in tal modo io divengo davvero anche simile all'altro, il quale è anche lui immagine di Dio, e soprattutto io divengo simile a Cristo, che è l'immagine di Dio senza limite alcuno, il modello secondo il quale noi tutti siamo stati creati. Paolo esprime questo processo in termini assai drastici: la vecchia immagine è passata, ecco ne è sorta una nuova; non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2.20). Si tratta di un processo di morte e di nascita. Io sono strappato al mio isolamento e sono accolto in una nuova comutità-soggetto; il mio "io" è inserito nell’ "io" di Cristo e così è unito a quello di tutti i miei fratelli.

Solamente a partire da questa profondità di rinnovamento del singolo nasce la Chiesa, nasce la comunità che unisce e sostiene in vita e in morte. Solamente quando prendiamo in considerazione tutto ciò, vediamo la Chiesa nel suo giusto ordine di grandezza.

La Chiesa: essa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si trovano insieme in un certo luogo per dare avvio ad una vita comunitaria. La Chiesa non è nemmeno semplicemente la grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l'Eucarestia. E infine, la Chiesa è anche di più che Papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo nominato fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia, in cui entriamo mediante la fede, va più in là, va persino al di là della morte. Di essa fanno parte tutti i Santi. a partire da Abele e da Abramo e da tutti i testimoni della speranza di cui racconta l'Antico Testamento, passando attraverso Maria, la Madre del Signore, e i suoi postoli, attraverso Thomas Becket e Tommaso Moro, per giungere fino a Massimiliano Kolbe, a Edith Stein, a Piergiorgio Frassati. Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi e tutti i tempi, il cui cuore si protende sperando e amando verso Cristo, «l'autore e perfezionatore della fede», come lo chiama la lettera agli Ebrei (12,2).

Non sono le maggioranze occasionali che si formano qui o là nella Chiesa a decidere il suo e il nostro cammino. Essi, i Santi, sono la vera, determinante maggioranza secondo la quale noi ci orientiamo. Ad essa noi ci atteniamo! Essi traducono il divino nell'umano, l'eterno nel tempo. Essi sono i nostri maestri di umanità, che non ci abbandonano nemmeno nel dolore e nella solitudine, anzi anche nell'ora della morte camminano al nostro fianco.

Qui noi tocchiamo qualcosa di molto importante. Una visione del mondo che non può dare un senso anche al dolore e renderlo prezioso non serve a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua comparsa la questione decisiva dell'esistenza.

Coloro che sul dolore non hanno nient'altro da dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente bisogna fare di tutto per alleviate il dolore di tanti innocenti e per limitare la sofferenza. Ma una vita umana senza dolore non c'é, e chi non é capace di accettare il dolore si sottrae a quelle purificazioni che sole ci fanno diventar maturi.

Nella comunione con Cristo il dolore diventa pieno di significato, non solo per me stesso, come processo di ablatio, in cui Dio toglie da me le scorie che oscuran la sua immagine, ma anche là di me stesso esso è utile per il tutto, cosicché noi tutti possiamo dire con san Paolo: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Thomas Becket, che insieme con l'Ammiratore e con Einstein ci ha guidato nelle riflessioni di questi giorni, ci incoraggia ancora ad un ultimo passo. La vita va più in là della nostra esistenza biologica. Dove non c'é più motivo per cui vale la pena morire, là anche la vita non val più la pena.

Dove la fede ci ha aperto lo sguardo e ci ha reso il cuore più grande, ecco che qui acquista tutta la sua forza si illuminazione anche quest'altra frase di san Paolo: «Nessuno di noi vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rom 14,7-8). Quanto più noi siamo radicati nella compagnia con Gesù Cristo e con tutti coloro che a Lui appartengono, tanto più la nostra vita sarà sostenuta da quella irradiante fiducia di cui ancora una volta san Paolo ha dato espressione: «Di questo io sono certo: né morte né vita, né angeli né potestà, né presente né futuro, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore» (Rom 8,38 s). Cari amici, da simile fede noi dobbiamo lasciarci riempire!

Allora la Chiesa cresce come comunione nel cammino verso e dentro la vera vita, e allora essa si rinnova di giorno in giorno. Allora essa diventa la grande casa con tante dimore; allora la molteplicità dei doni dello Spirito può operate in essa. Allora noi vedremo ,com'é buono e bello che i fratelli vivano insieme... E’ come rugiada defl'Ermon, che scende sul monte di Sion; là il Signore dona benedizione e vita in eterno»(Sal 133, 1-3).




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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